"Ti saluto, o piena di grazia" - Riflessioni sul testo di Luca

Noi non sappiamo in quale lingua si svolse il dialogo tra l’angelo e Maria: ma se anche Luca non ripete in modo letterale le parole di quel colloquio, certo, rievocando il contenuto dell’episodio col ricorso ai mezzi espressivi della lingua greca, propone un testo che solo una personalità di grande cultura e pienamente inserita nella tradizione culturale greco-ellenistica poteva formulare, e che richiede comunque al lettore impegno e attenzione.
Autore:
Morani, Moreno
Fonte:
CulturaCattolica.it
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"Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te". Con queste parole nel Vangelo di Luca l’Arcangelo Gabriele saluta Maria (Lc. 1, 28). La lettura del testo greco suggerisce alcune riflessioni linguistiche. E siccome immagino che non tutti i lettori abbiano frequentato il liceo classico, cercherò di fornire tutte le informazioni necessarie per una comprensione chiara del discorso.
Le prime parole dell’angelo sono: «Chaîre kecharitoméne». La prima, chaîre, è la formula usuale di saluto in greco antico: propriamente si tratta dell’imperativo del verbo chaírein, che significa ‘rallegrarsi’: come in tutte le lingue, le formule di saluto contengono espressioni di augurio (anche noi quando incontriamo una persona le auguriamo buon giorno): queste formule, ripetute in modo meccanico, perdono poi gran parte del loro valore originario (si desemantizzano, per usare il termine tecnico), che rimane però depositato e può facilmente risvegliarsi nella coscienza del parlante. Questo spiega perché le traduzioni italiane oscillino tra “Ti saluto” (resa linguisticamente più corretta) e “Rallégrati” (che è più parafrasi che traduzione). Il valore prevalente qui dovrebbe essere quello del saluto, come risulta dal versetto successivo (Maria si chiede “che cosa potesse significare questo saluto”). Il saluto dell’angelo però richiama un passaggio dell’Antico Testamento in cui chaîre è usato nel suo pieno valore verbale di ‘gioisci’: si tratta di un passo del profeta Sofonia (3, 14-15), in cui leggiamo: «Gioisci (chaîre), figlia di Sion, esulta, Israele, e rallégrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme! (...) Re d'Israele è il Signore in mezzo a te». Un saluto brusco e difficile in sostanza, nel quale risuona comunque un’eco gioiosa. Come insegna Benedetto XVI, «La prima parola del Nuovo Testamento è un invito alla gioia: “gioisci, rallegrati!”. Il Nuovo Testamento è veramente “Vangelo”, la “Buona Notizia” che ci porta gioia» (visita alla parrocchia romana di Santa Maria Consolatrice, dicembre 2005).
L’analisi della seconda parola fornisce altri elementi interessanti. Si tratta di una forma verbale, da un verbo molto raro (charitóo) che si collega alla stessa radice di chaírein, e precisamente di un participio passivo del perfetto, una forma che esprime uno stato raggiunto in conseguenza di un’azione: la parola indica dunque sia lo stato attuale di Maria sia l’azione della grazia che l’ha toccata. L’italiano, come il latino e altre lingue moderne, non dispone dei mezzi linguistici per rendere questi due valori compresenti nella forma greca: “piena di grazia” è una resa un po’ di ripiego, perché l’aggettivo rende solo una parte della forma greca, indicando la situazione attuale di Maria, ma lasciando in ombra il fatto che questo suo stato è la conseguenza di un’azione precisa. Dovendo scegliere fra i due valori, le antiche versioni latine si sono mostrate esitanti: se la traduzione gratia plena, divenuta canonica attraverso la Vulgata di San Gerolamo, valorizza lo stato, in altre versioni antiche che precedono la Vulgata troviamo rese con participi come benedicta o gratificata, che mostrano l’incertezza in cui si sono dibattuti i primi traduttori.
La scelta del verbo è significativa. Abbiamo qui una parola di uso rarissimo, che compare quasi esclusivamente in testi non letterari dell’area palestinese ed egiziana. La scelta di un termine così poco comune non è casuale: l’evento straordinario che Luca sta narrando merita una parola non usuale. Il verbo fa capo alla medesima radice da cui viene chaîre, e si collega anche a cháris ‘grazia, dono’, una parola importante che compare subito dopo: versetto 30 «hai trovato grazia (chárin) presso Dio»: il valore del verbo è dunque quello di ‘offrire un dono di grazia’. Nel Nuovo Testamento il verbo si ritrova solo in un passaggio di Paolo, Efesini 1, 6: «a lode dello splendore della sua grazia, della quale ci ha gratificati (echarítosen) nel Diletto». in questa frase di Paolo verbo collega in modo indissolubile grazia (cháris) e amore di Dio (agápe): il dono della grazia si esercita attraverso colui che è stato completamente investito dall’amore del Padre e riversa il suo amore su di noi. Quindi il valore esatto che la forma verbale suggerisce in Luca sarebbe propriamente: ‘tu che sei stata investita dalla grazia fino a esserne ora completamente pervasa’.
«Ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto». Qual è la reazione di Maria? Luca la descrive con due verbi composti con diá che significa ‘attraverso’: dunque una reazione non superficiale, ma qualcosa che per così dire attraversa e impegna tutta la persona. Abbiamo due verbi del passato che hanno però tempi differenti: prima un aoristo (dietaráchthe), che descrive un’azione immediata e istantanea, poi un imperfetto (dielogízeto), che descrive un’azione che si prolunga nel tempo. Quindi un attimo di turbamento, ma il verbo greco è molto forte e delinea uno sconvolgimento che trapassa Maria da parte a parte; poi un silenzio pensieroso (dielogízeto, ragionava fra sé e sé, impegnava tutta sé stessa, diá, e tutte le sue forze per capire): forse è solo un attimo, ma sembra che Luca, col suo imperfetto, abbia voluto dilatare fino quasi a fermarla questa frazione di secondo che è decisiva per la storia della salvezza e dell’umanità.
La reazione titubante di Maria induce l’angelo a ripetere con parole più piane la formula di saluto: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio». Il parallelismo è perfetto: ‘hai trovato grazia’ è la spiegazione in termini più semplici della parola inconsueta con cui si era rivolto a lei in precedenza. L’angelo rincuora Maria, e spiega in altri termini più accessibili le sue parole aggiungendo poi il contenuto esatto del dono (la grazia, cháris) che è toccato a Maria.
Il testo di Luca presenta una trama fitta e complessa rete di allusioni e di riferimenti sul piano linguistico: la lingua dei Vangeli, e di quello di Luca in particolare, presume un lettore attento e capace di cogliere richiami ed echi anche sottili. Un risultato analogo non sarebbe stato possibile in una lingua semitica, in cui la formula di saluto (per esempio ebraico šalôm’ pace’) non si sarebbe prestata a creare una trama analoga. Noi non sappiamo in quale lingua si svolse il dialogo tra l’angelo e Maria: ma se anche Luca non ripete in modo letterale le parole di quel colloquio, certo, rievocando il contenuto dell’episodio col ricorso ai mezzi espressivi della lingua greca, propone un testo che solo una personalità di grande cultura e pienamente inserita nella tradizione culturale greco-ellenistica poteva formulare, e che richiede comunque al lettore impegno e attenzione.