Terza tappa: El Shaddaj, l'Onnipotente
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Dopo Abram, anche Sarai non si rassegna all’attesa passiva di una promessa che tarda a realizzarsi. Spinge Abramo ad unirsi ad Agar, la sua schiava, riservandosi - com’era proprio del diritto mesopotamico - di riconoscere il figlio come suo. Nacque Ismaele, ma il comportamento di Agar impedì a Sarai di amare Ismaele come un vero figlio. Un episodio amaro per Abramo, che servì però a fargli dubitare di poter considerare Ismaele il figlio della promessa.
Dopo tredici anni dalla nascita di Ismaele il Signore apparve di nuovo ad Abram e gli disse:
Io sono l’onnipotente (’El Shaddaj):
cammina davanti a me e sii integro
Porrò la mia alleanza tra me e te
e ti renderò numeroso molto, molto.
Subito Abram si prostrò col viso a terra e parlò con lui:
Eccomi:
la mia alleanza è con te
e sarai padre di una moltitudine di popoli.
Non ti chiamerai più Abram ma ti chiamerai Abraham
perché padre di una moltitudine di popoli ti renderò.
(Gen 17,1-5)
Dopo essersi rivelato ad Abramo come scudo qui il Signore si presenta come ’El Shaddaj, nome divino piuttosto raro nella Scrittura. Infatti, a parte la sua comparsa nella storia dei patriarchi e nei salmi, lo si ritrova soltanto una volta nel libro di Rut e nel libro di Giobbe. La traduzione ”onnipotente” è inesatta, probabilmente significa Dio della montagna (=shadû in accadico), ma il senso resta incerto.
Nel libro dell’Esodo (Es 6,3)si legge:
Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore! sono apparso ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe, come Dio onnipotente (El Shaddaj), ma con il mio nome di Signore (JHWH) non mi sono manifestato a loro».
Legando il nome di El Shaddaj ai patriarchi questo passo invita a vederlo riferito alla promessa, mentre il Nome divino rivelato a Mosè segnerebbe l’inizio della realizzazione. Un commento rabbinico all’Esodo mette in relazione i due nomi dicendo che:
Il Santo, benedetto Egli sia disse a Mosè: […] Io sono chiamato secondo i miei atti. A volte sono chiamato ’El shaddaj [Dio Onnipotente], o Ze’vaot [Eserciti] o ’Elohim [Dio] o JHWH [Signore]. Quando giudico l’umanità sono chiamato ’Elohim, quando faccio guerra contro il malvagio sono chiamato Ze’vaot, quando sospendo il peccato dell’uomo sono chiamato ’El Shaddaj, quando ho compassione del mio mondo sono chiamato JHWH, perché il tetragramma sacro non significa altra qualità se non la misericordia, come è detto: JHWH, JHWH Dio pietoso e misericordioso” (Es 34,6) (Esodo Rabbah).
Con questo nome Dio rivela dunque ad Abramo la sua onnipotenza d’amore, la sua ostinazione nell’amare l’uomo anche quando questi cammina su vie che non sono quelle divine. E' il perdono incondizionato verso il tentativo di Abramo di aprirsi da solo la via alla realizzazione della promessa.
Lo perdona e gli chiede nel contempo di continuare il cammino: cammina davanti a me. Non è soltanto ribadire l’invito iniziale ad andare verso l’ignoto, è qualcosa di più. Dio chiede ad Abramo di superare la tentazione di vedere qualcosa muoversi, di intuire le vie per le quali egli sarà padre di molti popoli, camminando davanti a Lui, cioè in anticipo su Dio. Abramo non segue il Signore, ma lo precede, egli non vede nulla davanti a sé, la promessa lo sorprende quasi alle spalle. Abramo è chiamato a far strada a Dio attraverso le vie oscure della storia. Molti a causa di lui troveranno la strada verso il Signore
Avviene a questo punto un cambiamento fondamentale, Dio dice ad Abramo: Non ti chiamerai più Abram, ma ti chiamerai Abraham.
Cambiare nome qui non è semplicemente il segno di una evoluzione psicologica o di una missione da compiere, per la quale il chiamato riceve da Dio una nuova identità. Per Abramo non sarà come per Giacobbe o Esaù che, dopo essere stati chiamati da Dio Israele il primo e Edom il secondo, continueranno ad essere chiamati invariabilmente con l’uno o l’altro nome. Come avverrà del resto per Simon Pietro nel Nuovo Testamento. Abram, a partire da questo passo, scompare egli in tutta la Scrittura sarà chiamato Abraham (reso in italiano con Abramo). Qui accade qualcosa di irreversibile. Qualcosa che la riflessione ebraica individua in un particolare linguistico a cui si assegna un profondo significato spirituale.
Al cap. 2 della Genesi, v. 4 leggiamo: Queste le origini del cielo e della terra quando venne creata. Questo versetto è il punto più alto della narrazione, segna l’apice che apre la creazione dell’uomo e della donna. Dove la CEI traduce ”venne creata” in ebraico troviamo scritto esser creati(HBR’M= hibbar’am) un termine le cui consonanti sono l’anagramma del nome Abraham (’BRHM = Abraham) Questa singolarità non è casuale (nulla è casuale nella Scrittura) ma segna il punto più alto della esperienza di Dio di Abramo. Siamo di fronte a un salto: là (in Gen.4) la Parola si è fatta creazione, qui la creazione diventa storia. Il mutamento del nome di Abram segna un passo profondo anche nella storia tra Dio e l’uomo: il coinvolgimento di Dio nella storia dell’uomo, del suo popolo è irreversibile. Abram è Abraham per sempre.
Al rivelarsi di Dio fa riscontro la risposta umana, l’abbiamo visto progressivamente in Abramo. All’invito: Vattene! (Lek lekà) Abramo agì senza replicare, diede una risposta per così dire fattiva. Al rinnovarsi della promessa che si concluse con l’alleanza e all’invito ”cammina davanti a me” fa riscontro una risposta verbale e del cuore, la risposta delle fede pura. Qui viene ora richiesta ad Abramo una risposta che coinvolge la sua corporeità. Dio gli chiede di portare il seno di questa alleanza nella sua carne attraverso la circoncisione (Gen. 17, 9-14).