Prima Tappa: I quarant’anni di Mosè in Egitto

Fonte:
CulturaCattolica.it
Vai a "Sacra Scrittura: studi"
Raffaello, Mosè salvato dalla acque

Mosè: il Principe egiziano liberatore d’Israele
La nascita di Mosè avviene nel momento più drammatico della repressione egiziana, allorché si impose al popolo di Israele di sopprimere ogni figlio maschio, subito dopo il parto. La Madre di Mosè, dopo averlo partorito lo tenne nascosto per tre mesi, ma poi si vide costretta ad abbandonarlo alle acque del Nilo, mandando però la figlioletta Maria ad osservare cosa ne sarebbe stato della piccola cesta che conteneva il bimbo. Il cestello venne notato dalla figlia del Faraone, la quale dopo aver scoperto che conteneva un bimbo ebreo decise di allevarlo e lo consegnò a una donna per allattarlo che, per la prontezza di spirito della sorella di Mosè, Maria, si rivelò essere la madre stessa del bambino. La figlia del Faraone chiamò il bimbo Mosè attribuendogli, secondo la narrazione biblica, il significato di ”salvato dalle acque”. Il nome è emblematico e sembra essere di origine egiziana: Mosis, forma abbreviata di nomi composti come ad esempio Tut mosis: il dio Tot è nato. Il significato di salvato dalle acque fa parte dell’etimologia popolare e sembra far riferimento al verbo ebraico Mashah che significa trarre. Gli studiosi però, in seguito alle scoperte archeologiche di Ebla, hanno proposto un’etimologia di origine eblaita: Moshe potrebbe significare Mu-shi-lu cioè El concede vittoria (dalla radice wshy che significa appunto concedere vittoria).
In ogni caso la portata simbolica del nome è alta: Mosè tratto dalle acque, sarà colui che trarrà il popolo dall’Egitto salvandolo miracolosamente dalle acque, e a lui, Dio concederà vittoria.
Mosè viene allevato alla corte egiziana conseguendo così un alto grado di cultura e di preparazione (cfr. At 7,22). Nonostante le circostanze che riguardano la nascita e l’educazione principesca di Mosè abbiano riscontri nella mitologia egiziana, è storicamente accertato che tra i metodi della politica faraonica c’era quello di scegliere tra gli immigrati dei soggetti e formarli in modo tale che potessero poi, in seguito, fungere da funzionari diplomatici capaci di entrare in contatto con culture diverse da quella egiziana proprio a causa delle loro origini straniere.
Mosè comunque, a dispetto dell’educazione egiziana e l’alta considerazione che aveva conquistato presso la corte del faraone (cfr. Es 11,3) conservò una caratteristica tipica del popolo del popolo d’Israele, anzi una caratteristica tipica dei patriarchi: l’ascolto del cuore, luogo in cui risuona la voce di Dio.
Si legge in Atti: Quando stava per compiere quarant’anni, gli venne l’idea di andare a far visita ai suoi fratelli, i figli di Israele (At 7, 23). L’originale greco ha un espressione decisamente più biblica: non gli venne l’idea, bensì gli salì nel cuore. Far visita ai fratelli ebrei fu obbedire a un richiamo del cuore che nel quadro della successiva vicenda di Mosè diventa già il segno di una vocazione, di una chiamata divina a divenire responsabile della sorte del popolo.

Conosciamo il resto della vicenda: vedendo un Egiziano colpire un Ebreo, Mosè uccise l’Egiziano e ne seppellì il cadavere. Il giorno dopo assistette ad una lite tra due Ebrei e cercò di pacificarli, ma uno di loro gli disse: «Chi ti ha costituito capo e giudice tra di noi? Pensi forse di uccidermi come hai ucciso l’Egiziano?» (Es 2,14) Vedendosi scoperto e temendo per la sua vita Mosè si diede alla fuga rifugiandosi in Madian.