I quarant'anni di Madian: Il Dio vicino e presente
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L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo ad un roveto. Egli guardò ed ecco il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava. Mosè pensò: «Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?»
Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: «Mosè, Mosè!» Rispose: «Eccomi!» Riprese: «Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!» E disse: «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Mosè allora si velò il viso perché aveva paura di guardare verso Dio» (Es 3, 2-6)
Nel roveto che arde senza bruciare, Dio dà a Mosè il senso pieno della sua esistenza. Anche il cuore di Mosè è simile a un roveto inestricabile e ardente: la sua esperienza tra i madianiti non spegne il richiamo delle sue origini, ma nel contempo egli non può tornare in Egitto. Dopo l’uccisione dell’egiziano egli è un uomo senza patria: in Madian è uno straniero, il suo vero popolo non lo riconosce e gli egiziani lo hanno ripudiato e condannato a morte (Es 2, 14-15).
Dio anzitutto restituisce Mosè alle sue radici: Io sono il Dio di tuo padre. Poio gli si manifesta in continuità con la rivelazione che lo ha preceduto: «Io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe». Infine lo riconcilia con la promessa della terra: «Levati i sandali dai piedi perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!» Il gesto di mettere il piede in un campo o di gettarvi sopra il proprio sandalo indicava la volontà di prenderne possesso. Togliersi i sandali equivale dunque a riconoscere che il diritto di riscatto di quella terra appartiene a Dio perché quella, come dice l’originale ebraico, è la terra della sua santità (e non una terra santa, come afferma la traduzione corrente). Il Signore tuttavia riscatta quella terra per concederla in eredità a Israele come ha promesso ai loro padri. Il roveto designa infatti anche l’attenzione di Dio nei riguardi del popolo, l’incapacità di Mosè a dimenticare le sofferenze di Israele esprime in piccolo il costante ricordo di Dio per Israele.
La tradizione rabbinica si è chiesta come mai Dio ha parlato a Mosè proprio da un roveto e vi ha risposto individuando nel roveto una pianta dolorosa. Se il popolo è nel dolore anche Dio è nel dolore, se il fuoco non consuma il roveto è perché anche il dolore non consumerà Israele, poiché Israele - per così dire - è nella memoria di Dio: «Non senti che io sono nel dolore proprio come Israele è nel dolore? Guarda da che luogo ti parlo, dalle spine. Se così si potesse dire, io condivido il dolore di Israele» (Esodo Rabbah 2,5).
Dio infatti disse a Mosè: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze» […] «Ora va’! Ti mando dal faraone. Fa’ uscire dall’Egitto il mio popolo, gli Israeliti!» Mosè disse a Dio: « Ecco, io arrivo dagli Israeliti e dico loro il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. mi diranno: Come si chiama? E io cosa risponderò loro?» Dio disse: «Io sono colui che sono!» Poi disse: « Dirai agli Israeliti: Io sono mi ha mandato a voi»(Es 3, 7. 10. 13-14).
Se nel primo dialogo tra Dio e Mosè si evidenziava la continuità con le promesse fatte ai patriarchi qui si verifica una rottura nel senso di una progressione all’interno della rivelazione di Dio. Si legge in Es 6,3: Dio parlò a Mosè e gli disse: «Io sono il Signore! sono apparso ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe, come Dio onnipotente (El Shadday), ma con il mio nome di Signore (JHWH) non mi sono manifestato a loro».
Nel rivelare a Mosè il suo Nome Dio gli rivela il suo mistero. Il mistero di un Dio vicino che ascolta, guarda e conosce il suo popolo. ’ehjeh ’asher ’ehjeh il nome resta misterioso e impronunciabile, Dio conserva la sua alterità, così come la indicava il nome usato dai patriarchi: El Shadday, tuttavia è un nome che letteralmente significa: Io sono ciò che sono e che la Bibbia rabbinica, significativamente, traduce: «Io sono qui». Molte e diverse interpretazioni si sono date circa il significato del Nome di Dio, del tetagramma sacro JHWH, in un aspetto però possono essere tutte riassunte: Io sono, è un nome che indica una presenza, ed è una radice verbale dunque indica una presenza attiva. Io sono l’Esistente (R. De Vaux), sono colui che si manifesta quando è necessario e indispensabile (G. Rizzi), io sono il fondamento della vita dell’uomo (H. Cazelles). Secondo la radice araba hwj che significa ”essere ardente” il nome potrebbe essere tradotto anche come Io sono colui che ama con passione (G. V. Rad).
E che Dio voglia essere per il popolo il Dio vicino lo indica a Mosè con un segno: Mosè disse a Dio: «Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall’Egitto gli Israeliti?» Rispose: «Io sarò con te. Eccoti il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto servirete Dio su questo monte» (Es 3, 11-12). Il segno che Dio promette a Mosè è proiettato nel futuro, non è un segno per l’oggi. Mosè deve comunque aderire per fede alla proposta di Dio. «Io sarò con te»: questa è l’unica garanzia per lui, tuttavia il segno offerto è un segno reale che in una tradizione come quella ebraica, in cui non si riconosce un luogo di per sé sacro, indica la possibilità di trovare Dio in ogni luogo. Jehudah ha-Lewi nella sua Argomentazione e dimostrazione per la difesa della fede disprezzata scrive: «Questo è il mio segno presso di te, che ti ho inviato e il segno sarà che trovato da te in ogni luogo». Mosè stesso sarà il segno della vicinanza di Dio, come Mosè infatti sperimenterà quella promessa:«Io sarò con te» così Dio sarà con il popolo, in mezzo ad esso, perciò potrà essere da lui trovato in ogni luogo.