Sesta Sinfonia - Ludwig van Beethoven
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È stato scritto da uno storico della musica noto come laico che Beethoven, dopo aver composto le sue prime cinque sinfonie segnate dal drammatico ideale dell'eroismo umano, "pur nello squallore sempre più tetro della vita, nella solitudine inesorabile cui la crescente sordità lo condannava - ascendeva alla contemplazione di supreme verità d'ordine religioso. Era prima di tutto la Natura che gli rivelava il suo segreto. La Sinfonia pastorale, op. 68 in fa maggiore (1808), parte da un semplice sentimento di ristoro, di ricreazione del cittadino che s'abbandona alle delizie della campagna, e perviene ad afferrare il senso del divino che nella natura vive" (M. Mila, Breve storia della musica, Torino 1977, p.202).
Beethoven in effetti svolge un cammino nella sua musica che, nello sviluppo dei sentimenti più profondi dell'uomo, perviene ad una sempre maggiore apertura al Mistero Ultimo che segna l'esistenza dell'uomo e di tutta la realtà. Basti pensare, come si vedrà più avanti, alla nona sinfonia in cui si invita esplicitamente alla fiducia nel "Padre buono" dell'umanità, o alla Missa solemnis che Beethoven stesso considerò la sua opera migliore, e che evidentemente costituisce il riconoscimento che nell'avvenimento di Cristo quel Mistero Ultimo di paternità rivela il suo volto in modo pieno e definitivo.
È un senso di positività che il grande compositore scopre nel reale: nella sua origine, nel suo contenuto ultimo, nel suo destino.
In questa sesta sinfonia viene in un certo modo descritto il senso di meraviglia e di stupore che l'uomo prova di fronte alla realtà e alla sua evidente positività. Non viene dimenticata la drammaticità dell'esistenza, ma ciò che alla fine si impone è l'evidenza di una bellezza e di un significato ultimo che rendono la realtà carica di attrattiva per l'uomo.
"Supponete di nascere, di uscire dal ventre di vostra madre all'età che avete in questo momento, nel senso di sviluppo e di coscienza così come vi è possibile averli adesso. Quale sarebbe il primo, l'assolutamente primo sentimento, cioè il primo fattore della reazione di fronte al reale? Se io spalancassi per la prima volta gli occhi in questo istante uscendo dal seno di mia madre, io sarei dominato dalla meraviglia e dallo stupore delle cose come di una "presenza". Sarei investito dal contraccolpo stupefatto di una presenza che viene espressa nel vocabolario corrente dalla parola "cosa". Le cose! L'essere: non come entità astratta, ma come presenza, presenza che non faccio io, che trovo, una presenza che mi si impone.
Chi non crede in Dio è inescusabile, diceva S. Paolo nella lettera ai Romani, perché deve rinnegare questo fenomeno originale, questa originale esperienza dell'"altro". Il bambino la vive senza accorgersi, perché ancora non del tutto cosciente: ma l'adulto che non la vive o non la percepisce da uomo cosciente è meno che un bambino, è come atrofizzato.
Lo stupore, la meraviglia di questa realtà che mi si impone, di questa presenza che mi investe è all'origine del risveglio dell'umana coscienza.
L'assoluto stupore è necessario per l'intelligenza della realtà: "privi di meraviglia, restiamo sordi al sublime" (A. Heschel).
Perciò il primissimo sentimento dell'uomo è quello di essere di fronte ad una realtà che non è sua, che c'è indipendentemente da lui e da cui lui dipende.
È la percezione originale di un dato: implica qualcosa che "dia". La parola che traduce in termini totalmente umani il vocabolo "dato", e quindi il primo contenuto dell'impatto dell'uomo con la realtà, è la parola dono. L'originaria attività mia è quella del ricevere, del constatare, del riconoscere.
Una volta, mentre insegnavo in una prima liceo ho chiesto: "Allora, secondo voi cos'è l'evidenza? Potrebbe qualcuno di voi definirmela?" Un ragazzo, là a destra della cattedra, dopo una sospensione molto lunga di impaccio da parte di tutta la scolaresca, esclamò: "Ma, allora, l'evidenza è una presenza inesorabile!" L'accorgersi di una inesorabile presenza! Io apro gli occhi a questa realtà che mi si impone, che non dipende da me, ma da cui io dipendo...
È questo stupore che desta la domanda ultima dentro di noi: non una registrazione a freddo, ma meraviglia gravida di attrattiva, come una passività in cui nello stesso istante viene concepita l'attrattiva.
È ben superficiale ripetere che la religione sia nata dalla paura. La paura non è il primo sentimento dell'uomo. Esso è un'attrattiva: la paura sorge in un secondo momento come riflesso del pericolo percepito che quella attrattiva non permanga. Innanzitutto è l'attaccamento all'essere, alla vita, è lo stupore di fronte all'evidenza: come possibilità posteriore, si teme che quella evidenza scompaia, che quell'essere non sia tuo, che l'attrattiva non sia adempiuta. Tu non hai paura che vengano meno cose che non ti interessano, hai paura che vengano meno cose che prima ti devono interessare.
La religiosità è innanzitutto l'affermarsi e lo svilupparsi dell'attrattiva. C'è una evidenza prima e uno stupore del quale è carico l'atteggiamento del vero ricercatore: la meraviglia della presenza mi attira, ecco come scatta in me la ricerca.
Un'altra grande parola deve intervenire a chiarire ulteriormente il significato del "dato": è la parola "altro, alterità". Per riprendere l'immagine già usata, se io nascessi con la coscienza attuale dei miei anni, e spalancassi per il primo istante gli occhi, la presenza della realtà si paleserebbe come presenza di "altro" da me.
"Quando l'alterità emerge ai suoi occhi, l'uomo non è tratto a problematizzare, ma a venerare, a de-precare, a invocare, a contemplare. Questo resta fermo, che essa è il diverso da sé e l'oltre-naturale" (Alberto Caracciolo).
La dipendenza originale dell'uomo è bene indicata nella Bibbia, ai capitoli 38 e 39 del Libro di Giobbe, nel drammatico dialogo ("duello") tra Dio e Giobbe, dopo che questi s'era abbandonato al lamento ribelle. Per due capitoli Dio incalza con le sue domande radicali e pare di vedere Giobbe fisicamente rimpicciolire, come volesse scomparire di fronte all'impossibilità d'una sua risposta.
Il Signore rispose a Giobbe di mezzo al turbine:
Chi è costui che oscura il consiglio con parole insipienti?
Cingiti i fianchi come un prode,
io t'interrogherò e tu mi istruirai.
Dov'eri tu quand'io ponevo le fondamenta della terra?
Dillo, se hai tanta intelligenza!
Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo sai,
o chi ha teso su di essa la misura?
Dove sono fissate le sue basi
o chi ha posto la sua pietra angolare
mentre gioivano in coro le stelle del mattino?
...
Il censore vorrà ancora contendere con l'Onnipotente?
(da L. Giussani, Scuola di religione, SEI, cap. terzo, punto 1)
Già Aristotele ha dato una descrizione di questo stupore originale dell'uomo di fronte alla realtà. Il grande filosofo invita ad immaginare un gruppo di uomini che, per circostanze eccezionali, si sia trovato a vivere da sempre all'interno di un mondo sotterraneo: un mondo però dotato di ogni cosa necessaria per una vita agiata e senza preoccupazioni riguardo al cibo, all'ambiente confortevole, all'organizzazione sociale. Aristotele invita poi ad immaginare che questi uomini arrivino a scoprire casualmente un passaggio attraverso il quale abbiano modo per la primissima volta di portarsi alla superficie terrestre e di scoprire perciò come una novità assoluta il mondo che noi conosciamo: il cielo, il sole, i prati, gli alberi, i ruscelli, i monti e i colli, l'aria, il vento, il mare... Questi uomini, continua il filosofo, non potrebbero di fronte a tale improvviso spettacolo non essere invasi da un sentimento di ammirazione e di venerazione, non potrebbero non inchinarsi per riconoscere la Mente superiore da cui tutto ciò è stato ideato e realizzato.
Questo stupore si rinnova anche in noi ogni volta c
È quello che invita a fare anche un grande scienziato come Einstein. Le sue affermazioni ci introducono al paragrafo sul cosmo: la realtà come ordine e bellezza. È così che ci aiuta a vederla Beethoven nella grande sesta sinfonia, attraverso l'osservazione e la descrizione del fascino di eventi naturali vicini a noi.
"Chi non ammette l'insondabile mistero, non può essere nemmeno uno scienziato".
"Nessuno può sottrarsi al sentimento di riverente commozione contemplando i misteri dell'eternità e della stupenda struttura della realtà. È sufficiente che l'uomo cerchi di entrare soltanto un po' in questi misteri giorno dopo giorno, senza mai demordere, senza mai perdere la sacra curiosità dell'infinito, perché nell'ammirazione estasiata della natura si riveli una mente così superiore che tutta l'intelligenza messa dagli uomini nei loro pensieri non è, al cospetto di essa, che un riflesso assolutamente nullo".
"Chiunque sia seriamente impegnato nella ricerca della conoscenza finisce per convincersi che uno spirito presiede alle leggi dell'universo, uno spirito di gran lunga superiore a quello dell'uomo, e di fronte al quale noi, con i nostri poteri limitati, dobbiamo fare professione di umiltà". (Albert Einstein)