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Minnie, la fanciulla della redenzione 1 - Un dramma musicato

Autore:
Liverani, Adriana
Fonte:
CulturaCattolica.it

La scadenza del centenario de La fanciulla del West (la prima assoluta avvenne a New York il 10 dicembre del 1910, con Arturo Toscanini sul podio e con Emmy Destin, Enrico Caruso e Pasquale Amato nei ruoli principali), offre l’occasione per alcune riflessioni su una gemma, forse un poco celata, della seconda fase della produzione pucciniana, quella che porterà alla emblematica e non finita Turandot.
In una pregevolissima fusione di teatro e musica, Puccini è riuscito a creare, con la Fanciulla, un “dramma musicato” che si può considerare un capolavoro del Novecento operistico; ebbe a scrivere a Sybil Seligman (l’amica intellettuale della maturità): “La Girl è riuscita per me la mia migliore opera”; dobbiamo credere a questo suo giudizio, perché si sa quanto il Maestro si impegnasse a rinnovarsi ed affinasse il suo linguaggio musicale, tanto da acquistarsi, di diritto, una posizione di preminenza nel gotha del mondo musicale europeo e mondiale, alla pari, unico italiano, dei più famosi rappresentanti stranieri.
Rinnovarsi o morire … io mi riprometto, se trovo il soggetto … di far sempre meglio…” ; la figura del maestro lucchese ci si presenta, almeno da un certo punto di vista, come scrive Leonardo Pinzauti, “… in bilico fra passato e presente, fra l’immediatezza dell’istinto e la curiosità ed il rovello della ricerca”; la definizione coglie lo spirito pucciniano, ma è riduttiva in quel termine “curiosità” che sembra riconoscere all’artista solo un impulso esteriore, e per di più di scarso livello, piuttosto che l’estrinsecazione della sua grandissima e ponderata scienza musicale e teatrale.
Dotato di uno straordinario ed innato senso del teatro, nonché coscientemente forte della grande lezione verdiana in tal senso, Puccini pone alla base della sua opere il soggetto e le sua trattazione: sceglie, volutamente, il teatro; scrive a Giuseppe Adami: “… ed il Dio Santo mi toccò con il dito mignolo e mi disse: ‘scrivi per il teatro, bada bene solo per il teatro’ ed ho seguito il supremo consiglio”.
Seguendo “il supremo consiglio”, Puccini riesce a creare uno stretto e genuino rapporto fra chi è in sala e chi è sul palcoscenico; risolve, in una parola, l’eterno dilemma tra “musica dotta” (quella sinfonica, cameristica, liederistica, come vogliono gli asettici puristi) e “musica di teatro”, fruibile da parte dell’ascoltatore, che é anche spettatore, con tutte le implicazioni del caso.
Lo scorrere rapido dell’azione che non consente il cristallizzarsi dei fatti scenici, il susseguirsi intenso e vario degli episodi, le sequenze così ben concatenate, ci rivelano quanto in Puccini fosse sviluppato l’istinto del tempo scenico, così importante nell’opera concepita come dramma, e quanto fosse maestro della concretezza delle situazioni.
Il suo modo di fare teatro è rimasto attualissimo, vicino alla nostra sensibilità di fruitori dell’arte cinematografica; siamo indotti a credere che Puccini fosse un estimatore dell’opera dei fratelli Lumière, per il modo in cui le immagini, realizzate a mezzo di simboli, si muovono senza interruzioni; questo, comunque, non significa che non abbia la consapevolezza che l’opera non è solo azione: il suo istinto per l’equilibrio drammatico lo induce a proporre anche momenti di “riposo”, di contemplazione lirica.
The Girl of the Golden West del drammaturgo americano David Belasco (l’autore di un altro dramma cui Puccini si era ispirato sei anni prima, dando vita a Madama Butterfly) parve al Maestro un soggetto fatto apposta per essere rivestito di note, uno di quelli che hanno il potere di catturare l’interesse dello spettatore, di fargli vivere le emozioni e le passioni dei personaggi che agiscono sul palcoscenico; in una parola, un “vero dramma”.
La grandezza del musicista teatrale Puccini va ricercata nel suo mai venir meno al principio cardine che, solo, deve soprintendere all’opera d’arte teatrale, musicale e no; il principio che Verdi “codificò” con la classica estrema sintesi che lo contraddistinse sempre e con un’espressione quasi poetica; ebbe ad affermare, in una lettera del 1876, “… copiare il vero può essere una buona cosa, ma Inventare il Vero è meglio, molto meglio … copiare il vero è una bella cosa, ma è fotografia, non Pittura!”; è un concetto di altissimo livello, che impone al vero artista di essere il vero “creatore”, “inventore” della propria opera.
Ebbene, Puccini inventò sempre il vero, ma nella Fanciulla, l’asserto raggiunge l’apice assoluto del concetto: rese vera e reale una trama assolutamente inverosimile e dette vera vita a personaggi altrettanto inverosimili, prima, fra tutti, Minnie; inverosimili, se guardati con gli occhi della realtà di tutti i giorni, ma assolutamente veri e palpitanti, se inquadrati nel dramma, che il Maestro “inventò”.
Rispetto alla “storia” della Fanciulla, novelle quali Biancaneve e i sette nani, Cenerentola e Il gatto con gli stivali sono truci invenzioni noir; tanto quella è inverosimile. Eppure, per dirla con Verdi, è tanto vera! Proprio perché Puccini, forte del grande talento di musicista e di drammaturgo, l’ha resa vera: “ha Inventato il Vero”; nessuno sorride sotto i baffi quando ascolta e guarda Minnie, Johnson, Rance, Sonora, Larsen, Nick e tutti gli altri personaggi, che popolano il mondo “inventato” da Puccini.

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