Minnie, la fanciulla... 3 - Per tutti c'è redenzione
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Accostarsi correttamente alla Fanciulla, per coglierne tutta la bellezza e la “verità”, comporta, in primis, l’accettazione di un Puccini “diverso” da quello delle opere precedenti e, anche, di quelle che seguiranno l’opera western.
La fanciulla del West, infatti, rappresenta un unicum assoluto nella intera produzione del Maestro: è l’unico suo dramma a lieto fine in senso assoluto (eccezion fatta per Gianni Schicchi, che è un’opera “buffa”, o, meglio, satirica), vale a dire senza il sacrificio della vita del personaggio principale femminile (per sgombrare subito il campo dai possibili equivoci de La rondine, che si conclude con il “sacrificio di rinuncia”, tutt’altro che eroico, di Magda, de Il Tabarro, in cui Giorgetta è punita con la morte di Luigi, di Turandot, che prevede la morte di Liù).
E’ l’unico dramma del lucchese che non contempla la punizione, mediante la morte, dell’eroina innamorata: una morte che riscatti la “colpa” di aver amato: è il “destino” di Anna (Le Villi), di Fidelia (Edgar), di Manon, di Mimì, di Tosca, di Butterfly, di Suor Angelica.
Minnie, non solo non muore, cioè non subisce la punizione delle altre eroine pucciniane, non solo non “sconta” con il sacrificio estremo la sua “colpa d’amore”, ma, addirittura, “vince” in nome dell’amore, inteso, ed è l’unico caso in Puccini, oltre che come passione, come principio etico di vita.
In Fanciulla, appunto, l’amore è investito di un significato etico, che non ha riscontro in nessun altro dei drammi pucciniani; le sue eroine amano passionalmente (Manon), anche amori leggeri, poco più che flirt (Mimì, Musetta), in contrasto con le proprie idee religiose (Tosca), “mercenari” (Butterfly), fuori dagli schemi sociali (Magda), adulterini (Giorgetta), impossibili (Liù), alcuni non vissuti con un unico partner, tutti, comunque, svincolati da una qualsiasi inquadratura etica; solo Minnie “ama” di un amore “santo”, nel senso che è quello unico, per tutta la vita, per l’uomo a cui ha concesso il proprio cuore e per il quale sfida l’intero mondo che la circonda; “ama per la vita” prendendo ad esempio la genuina unione dei suoi genitori, unico amore concepibile nel suo mondo di donna (“Laggiù nel Soledad…”).
Ma la comprensione, e di conseguenza, il lecito e completo godimento dell’opera, comporta, anche, l’accettazione di un altro principio “nuovo” in Puccini, che rende l’opera western ancora più diversa dalle altre, ancora più unica: il principio della “redenzione” .
Per i personaggi del teatro di Puccini non esiste redenzione, essi subiscono il “destino” come una punizione; come una punizione “necessaria” al compiersi della tragedia finale; in Puccini non esiste la “catarsi”; non c’è redenzione per gli amanti di Prévost, per gli “scapigliati” di Murger, per i perdenti di Sardou, per la povera Cio Cio San di Belasco, per Magda e per Ruggero, per Giorgetta e Luigi; nemmeno per la tenera Liù; solo per Dick Johnson c’è redenzione; una redenzione possibile per il carattere etico e totale dell’amore che Minnie gli dona; una redenzione che passa attraverso Minnie, possibile perché Minnie crede in quei principi, non solo religiosi, e sa trasfonderli negli altri; ecco che “l’Accademia” (come la fanciulla chiama la sua scuola di vita, oltre che di cultura, mediante la quale impartisce lezioni ai cercatori) si spoglia di ogni aspetto irreale, inverosimile, grottesco, e acquista un’importanza fondamentale nella “costruzione” reale, “vera” del dramma a lieto fine, che Puccini ha scelto senza esitazione.
Ancora; accostarsi alla Fanciulla, significa, soprattutto, conoscere Minnie; conoscerla per quello che è e, soprattutto, per quello che vuole essere; intanto, non è una “virago” che soggioga i cercatori e lo sceriffo, non è una “pistolera”, non è una Calamity Jane.
Minnie non veste in pantaloni, ma indossa abiti femminili (anche di una certa “ricercatezza”, a suo modo, quando riceve Johnson nella sua casetta sulla collina), non porta il cappello a larghe tese con il soggolo, non porta i revolver nelle fondine appese alla cintura; in nessuna didascalia del libretto c’è un’indicazione in tal senso; anzi, il poeta dice che, quando Rance le fa profferte men che lecite, estrae un revolver dal corsetto, per riporvelo immediatamente dopo; quando confessa a Johnson che nel barile presso il bancone del saloon c’è l’oro dei cercatori e lei è pronta a difenderlo fino alla morte, prende due revolver da sotto il banco e li poggia sul barile; anche quando si oppone, nel finale, al linciaggio del bandito, tiene a bada i cercatori con il revolver estratto dal corsetto. Minnie non ha bisogno di ostentare le armi: la sua vera arma è l’amore, l’amore fraterno per i cercatori, l’amore unico per l’uomo a cui lo ha concesso, l’amore per la vita, l’amore come principio di ogni manifestazione positiva.
Minnie non è una creatura selvaggia della “frontiera”: è una creatura dolce e romantica, ed ha, come le dice Johnson al termine del lungo, bellissimo e difficilissimo duetto del primo atto, “un viso d’angelo”; è’ quel “viso d’angelo” che riscatta tutte le incongruenze inverosimili della trama e del comportamento dei personaggi; è quel “viso d’angelo”, dietro il quale si nasconde una indomita forza d’animo, insieme ad una fede incrollabile nei principi di purezza, di bontà, di amore, che attrasse e conquistò Puccini; ecco che il finale tanto insolito e incredibile, quel finale che potremmo definire “manzoniano”, acquista la sua realistica forza: Minnie getta il revolver e “chiede” Johnson ai “suoi” cercatori in virtù del principio che “… non v’è al mondo peccatore, cui non s’apra una via di redenzione!”; è quel “viso d’angelo” che dà credito e verità alla Fanciulla del West; solo intendendola e accettandola così, solo ponendosi in quest’ottica nuova e quasi impensabile in Puccini, si può comprenderla per quel capolavoro che la musica e le intenzioni teatrali del Maestro hanno creato.