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L'insegnamento di Segovia: 2 - La chitarra è un'isola, la musica è l'oceano

Autore:
Bonaguri, Piero
Fonte:
CulturaCattolica.it

E’ un po’ come per il galateo: le regole possono cambiare nel tempo, ma cafoni e gentiluomini sono sempre esistiti…
E lo stesso Segovia mi disse, l’ultima volta che lo vidi: “Io voglio che la chitarra vada avanti dopo di me”.
Oggi mi capita di lavorare con diversi compositori, che certamente non usano il linguaggio musicale familiare a Segovia: tuttavia anche nella musica di oggi è possibile riconoscere - se uno è stato educato a questo - la presenza o l’assenza del buon gusto, della genialità artistica, della capacità di arrivare all’ascoltatore, della tecnica posta a servizio dell’espressione oppure ricercata come mera esibizione di bravura.
Per chi suona uno strumento, tutta questa consapevolezza deve poi tradursi in adeguato gesto strumentale. Ancora una volta, prima di tutto identifichiamo lo scopo da raggiungere: diceva il maestro che “bisogna intervenire sul pezzo, senza fermarlo”. Per arrivare a questo, esercitarsi è indispensabile: una disciplina per cui ogni gesto sia sempre sotto il controllo dell’interprete. Le dita devono fare “esattamente quello che chiedo loro”.
La breve indicazione che Segovia scrive, quasi di passaggio, nella prefazione alle scale diatoniche (suonare prima lento e forte, e poi piano e veloce) è stata per me chiave preziosa per entrare in un modo di studiare che vale per qualsiasi brano musicale (provare per credere!), per imparare quella capacità di “intervenire sul pezzo senza fermarlo”.
E’ poi incoraggiante per me la stima che Segovia aveva del lavoro, del duro studio quotidiano. Diceva: “Se un seme non viene amorosamente coltivato, non crescerà, non diventerà un fiore e poi un frutto”. Notiamo: lavoro come amorosa cura di un seme, non come pratica ossessiva, meccanica e alienante. In un altro punto il maestro parlava della “santa disciplina dello studio”.
A questo punto entra in gioco anche la considerazione dello strumento, della chitarra nel nostro caso. E qui troviamo un apparente paradosso: da un lato c’era in Segovia una sorta di distacco nei confronti dello strumento che non è nulla più che “un’isola, tra le tante altre, mentre la musica è l’oceano”. Un distacco che si può vedere perfino nel modo in cui il maestro teneva la chitarra (dice la scrittrice Maria Zambrano che Segovia suonava senza fretta e quasi senza toccare la chitarra, sfiorandola appena) e che si manifestava nel ripetuto consiglio di Segovia agli studenti di non ascoltare prima di tutto i chitarristi, ma gli altri strumentisti.
Il maestro suggeriva anche di “pensare più alla musica che alla chitarra”, “di abbandonare piuttosto la chitarra, ma mai la musica”. Una bella libertà rispetto a certe nostre ossessioni maniacali per il “pezzo di legno”!
Ma, proprio per tradurre in atto la bellezza che si coglie nella musica, lo strumento diventa importante; ecco allora la stima e l’amore per la chitarra, per questa “sintesi del bosco”, per questa “orchestra vista attraverso un binocolo rovesciato”, come la chiamava, per le sue uniche possibilità espressive. Ricordo la collaborazione di Segovia con i liutai, con il costruttore delle corde Augustine, ma soprattutto un aspetto che ancora oggi io studio con stupore: la sapienza delle sue diteggiature, fin dalle prime pubblicazioni e fino a dettagli apparentemente trascurabili.
Il maestro era poi liberissimo nel modificare le sue diteggiature, anzi lo fece sempre - una volta ci disse che a causa della diversa sonorità delle corde di nylon rispetto a quelle di budello aveva eliminato molte legature della mano sinistra e suoni armonici presenti nelle sue edizioni vecchie.
Ma in questi cambiamenti Segovia seguiva ed affinava sempre una medesima linea di pensiero: privilegiare senza compromessi una ricerca artistica (la diteggiatura in funzione del fraseggio, della cantabilità) coniugandola con il realismo, aiutato anche dalla continua verifica che gli proveniva dalla militanza artistica “sul campo”.
Ed infine il rapporto col pubblico; quando suoniamo per qualcuno il nesso da noi instaurato con il pezzo si apre alla comunicazione con chi ci ascolta. La sintesi si espande ulteriormente, e così la possibilità di sperimentare l’esplosione di libertà…
In una intervista Segovia disse: “L’artista è un uomo come gli altri, e non deve mai innamorarsi di se stesso. Perderebbe irrimediabilmente qualcosa…Come gli altri, con in più un dono meraviglioso: e per questo dono dev’essere sempre vicino ad ogni altro uomo.”
Anche in questo caso, da un criterio ideale derivava una operatività, fino alla composizione dei programmi, alla scelta dei pezzi con cui il maestro chiudeva un recital, al modo stesso di rapportarsi con il pubblico. Tenendo anche conto, ma con equilibrio, delle esigenze della carriera, della immagine.
Concludo con la frase di un altro scrittore, il grande Charles Péguy, perché mi pare che dica bene cosa significa imparare, avendo avuto la fortuna di avere incontrato un maestro; la cito perché spero che nessuno perda quella occasione di cui parlavo nella premessa! Non è una frase di Segovia, ma credo che il maestro la sottoscriverebbe.

Quando l’allievo non fa che ripetere non la stessa risonanza ma un miserabile ricalco del pensiero del maestro; quando l’allievo non è che un allievo, fosse anche pure il più grande degli allievi, non genererà mai nulla.
Un allievo non comincia a creare se non quando introduce egli stesso una risonanza nuova (cioè nella misura in cui non è un allievo). Non che non si debba avere un maestro, ma uno deve discendere dall’altro per le vie naturali della filiazione, non per le vie scolastiche della discepolanza
”.

Sarei lieto di dialogare su queste cose con chiunque.
Grazie.

Piero Bonaguri


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