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01 - “Quid animo satis?” - Fantasia - Improvviso in Do # minore, op. 66 - F. Chopin

Fonte:
CulturaCattolica.it

Fryderyk Chopin, “poeta del pianoforte”, nasce a Zelazowa Wola (Varsavia) nel 1810 e muore a Parigi nel 1849. Attraversò come una meteora la prima metà dell’Ottocento segnando inconfondibilmente la storia del pianoforte nel momento in cui ebbe inizio il romanticismo in musica. Qualsiasi musicofilo che si rispetti conosce già le fasi principali della tormentata vita del pianista e compositore polacco. Pochi, però, colgono l’essenza della sua musica. «Non v’è musica senza pensieri riposti» (Chopin). Cosa ci dice la musica di Chopin? Oggi tutto sembra dirci che la musica, l’arte in generale sia fine a se stessa. La musica per la musica. Ma ci basta? «Tutto è così triste, così crudele. Nei salotti fingo di essere calmo, ma, tornando a casa, tuono dal pianoforte» (Chopin). Il mito di Chopin si lega da sempre all’intuizione di una profondità interiore, perfettamente trasmessa in musica: «La tristezza mi ha preso – perché? Neppure la musica oggi mi consola – è già notte tarda, e non ho voglia di dormire; non so cosa mi manca» (Chopin). Non so cosa mi manca! Nella sua musica emerge un desiderio umano, il più grande: essere felice. Un desiderio scaturito da una grande tristezza, una grande malinconia sempre presente nelle sue composizioni (basti pensare ai Notturni). L’ascolto che vi propongo è uno dei capolavori del pianismo chopiniano: la Fantasia – Improvviso in Do # minore, op. 66. L’opera venne composta nel 1835 e soltanto dopo la morte di Chopin venne aggiunto, inspiegabilmente, il termine Fantasia. Il titolo Improvviso designa composizioni musicali di dimensioni contenute, dalla forma tripartita (A – B – A’) nelle quali si trovano accostati elementi di virtuosismo più o meno spiccato ed elementi ampiamente cantabili. In effetti, la cosa che immediatamente colpisce, è l’alternanza di episodi di carattere espressivamente contrastante: impeto rabbioso, insistente (la forza della domanda, del desiderio) e calma fascinosamente malinconica (la nostalgia chopiniana).
Il brano ha uno schema tripartito (A – B – A’):
la parte iniziale (A) (dall’inizio a 1’12”), un allegro agitato, fa emergere questo fortissimo desiderio. Il tema iniziale sembra volersi espandere continuamente. Tutta la tastiera viene percossa con forza (fortissimo è la scala discendente che chiude questa prima parte) alla ricerca, spasmodica, di qualcosa che non sia provvisorio, qualcosa che soddisfi pienamente l’animo: “Quid animo satis?”.
La parte centrale (B) (da 1’13” a 3’25”), come di regola per questo tipo di composizioni, è lenta. La ricerca sembra arrestarsi. L’animo placarsi. Ma è solo una breve illusione. Una vita che fa fuori le domande più importanti, che annulla i desideri più imponenti, che taglia la sua continua ricerca, non può soddisfare. È un canto nostalgico. In questa frase c’è tutto Chopin: ad una sua allieva che non riusciva a far emergere tutta la bellezza di quello che suonava, Chopin consigliò di prendere lezioni di canto. Perché per il pianista polacco la musica è canto; è come uno che racconta, ma racconta cantando, quindi tutta l’espressione, tutta la linea melodica, è scritta pensando a uno che canta, che ha bisogno di respirare, che ha bisogno di esprimersi arrivando ad un certo culmine e poi scendendo; tutta la musica di Chopin è un canto ed è un canto nostalgico; perché, ascoltando Chopin, rimane sempre una sorta di nostalgia: si ascolta qualcosa di bello ma è come se rimanesse l’attesa di qualcosa di più bello ancora, ma che (ancora) non c’è. D’altronde, cosa vuol dire “nostalgia”? “Nostos”: viaggio, “Algos”: dolore. Un viaggio doloroso. Perché doloroso? Perché è la ricerca di qualcosa che manca, che non c’è ma che è attesa. «L’uomo, di fronte al bello, piega l’animo ad attendere l’altra cosa: anche davanti a ciò che può afferrare attende un’altra cosa; afferra ciò che può afferrare, ma attende un’altra cosa». (Don Giussani). Niente soddisfa. E allora «Quid animo satis?: se tu facessi un'analisi di quel che desideri e lo scrivessi su un foglio di quaderno fino al punto in cui non ti viene più in mente niente, proprio niente, il tuo cuore non sarebbe la somma di quei desideri segnati: è infinitamente debordante. E il tempo rivela questo». (Don Giussani)
Ma, nella parte finale (A’) (da 3’26” a fine), tutto assume un peso più imponente. Le circostanze non bastano e non si può far fuori quella ricerca di felicità, domanda di significato. La ripetizione è praticamente identica (un presto, sempre crescendo che termina in uno sforzato, segno della forza della domanda). Cambia però qualcosa. La ripresa della prima sezione è conclusa da una coda che mescola i due temi principali, contenente una citazione del tema lirico che sembra dirci qualcosa di positivo (poco poco più tranquillo). Il brano infatti chiude in un atmosfera positiva, ne è segno la tonalità maggiore conclusiva, in un pezzo la cui tonalità di impianto è minore. Quasi il raggiungimento di un obbiettivo. La strada è segnata: il dramma ha portato con sé qualcosa di positivo, la speranza che il desiderio di felicità sia esaudito.
«…e perciò la speranza mette in luce se ciò che accade conduce l’uomo alla delusione oppure rivela la grande Presenza che l’uomo ha incontrato e che diventa il destino segnato da tutte le cose, quel contenuto di cui tutte le cose diventano segno, e soprattutto l’oggetto ultimo della sua domanda» (Don Giussani).

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