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Il calendario dell'8 Giugno

Fonte:
CulturaCattolica.it

Eventi

▪ 452 - Attila invade l'Italia

▪ 536 - Elezione di papa Silverio

▪ 1191 - Riccardo I di Inghilterra giunge alla città di San Giovanni d'Acri durante la Terza Crociata

▪ 1638 - Calabria: Terremoto dell'8 giugno 1638

▪ 1783 - In Islanda il vulcano Laki inizia un'eruzione che durerà otto mesi, ucciderà più di 9.000 persone e darà il via a una carestia di sette anni

▪ 1859 - Napoleone III e Vittorio Emanuele II entrano a Milano dopo le vittorie riportate nella seconda guerra di indipendenza contemporaneanente a Melegnano si combatte un'aspra battaglia per assicursi il transito verso Lodi

▪ 1866 - Il parlamento canadese si riunisce per la prima volta ad Ottawa

▪ 1887 - Herman Hollerith ottiene il brevetto per il suo calcolatore a schede perforate

▪ 1941 - Seconda guerra mondiale: Gli Alleati invadono Siria e Libano

▪ 1942 - Seconda guerra mondiale: Tobruk cade in mano ai tedeschi

▪ 1949

  1. - Celebrità del calibro di Helen Keller, Dorothy Parker, Danny Kaye, Fredric March, John Garfield, Paul Muni e Edward G. Robinson vengono nominate in un rapporto dell'FBI come membri del partito comunista
  2. - Viene pubblicato 1984 di George Orwell


▪ 1967 - Guerra dei sei giorni: attacco israeliano alla nave americana USS Liberty che provoca 34 morti e 171 feriti

▪ 1968 - James Earl Ray viene arrestato per l'omicidio di Martin Luther King

▪ 1976 - Francesco Coco, Procuratore della Repubblica di Genova, diventa la prima vittima intenzionale delle Brigate Rosse

▪ 1978 - Roma: Berlusconi fonda la "Finanziaria d'Investimento" Srl, meglio nota come Fininvest. In realtà è la "seconda" società di due con questo nome, che poi si fonderanno. Con un capitale sociale pari a 20 milioni di lire, pari a 70 mila euro del 2005, ne era Amministratore delegato Umberto Previti, padre di Cesare. Il capitale sociale verrà aumentato a 50 milioni il 30 giugno

▪ 1985 - Italia: Ratifica dell'accordo di modifica dei Patti Lateranensi fra Italia e Città del Vaticano

▪ 1987 - Nasce il Telefono azzurro

▪ 1998 - Charlton Heston diventa presidente della National Rifle Association

▪ 2004 - Primo transito di Venere dal 1882; il prossimo avverrà il 6 giugno 2012

Anniversari

▪ 632 - Maometto (arabo: ﺍﺑﻮ ﺍﻟﻘﺎﺳﻢ محمد بن عبد الله بن عبد ﺍﻟﻤﻄﻠﺐ ﺍﻟﻬﺎﺷﻤﻲ , Abū l-Qāsim Muḥammad ibn ʿAbd Allāh ibn ʿAbd al-Muţţalīb al-Hāshimī; Mecca, ca. 570 – Medina, 8 giugno 632) è stato il profeta arabo dell'Islam, considerato dai musulmani l'ultimo fra essi e il più rilevante,[1] "messaggero" di Dio (Allah) (sigillo della profezia), incaricato da Dio stesso - attraverso l'arcangelo Gabriele - di divulgare il suo verbo.

Prima della Rivelazione
Maometto (che nella sua forma originale araba significa "il grandemente lodato")[3] nacque in un giorno imprecisato (che secondo alcune fonti tradizionali sarebbe il 20 o il 26 aprile di un anno parimenti imprecisabile, convenzionalmente fissato però al 570[4]) a Mecca, nella regione peninsulare araba del Hijaz, e morì il lunedì 13 rabīʿ I dell'anno 11 dell'Egira (equivalente all'8 giugno del 632[5]) a Medina e ivi fu sepolto, all'interno della casa in cui viveva. Sia per la data di nascita, sia per quella di morte, non c'è tuttavia alcuna certezza e quanto riportato costituisce semplicemente il parere di una maggioranza relativa, anche se sostanziosa, di tradizionisti.
La sua nascita sarebbe stata segnata da eventi straordinari (teofanici), come una immensa luce che avrebbe brillato da Oriente ad Occidente.
Appartenente a un importante clan di mercanti, quello dei Banu Hashim, componente della più vasta tribù dei Banu Quraysh di Mecca, Maometto era l'unico figlio di ʿAbd Allāh b. ʿAbd al-Muṭṭalib ibn Hāshim e di Āmina bint Wahb, figlia del sayyid del clan dei Banu Zuhra, anch'esso appartenente ai B. Quraysh.
Orfano fin dalla nascita del padre (morto a Yathrib al termine d'un viaggio di commercio che l'aveva portato nella palestinese Gaza), Maometto rimase precocemente orfano anche di sua madre che, nei suoi primissimi anni, l'aveva dato a balia a Ḥalīma bt. Abī Dhuʾayb, della tribù dei Banu Saʿd b. Bakr, che effettuava piccolo nomadismo intorno a Yathrib.
A Mecca - dove, alla morte della madre, fu portato dal suo primo tutore, il nonno paterno ʿAbd al-Muttalib ibn Hāshim, e dove poi rimase anche col secondo suo tutore, lo zio paterno Abu Tàlib - Maometto ebbe occasione di entrare in contatto sin dalla più tenera età con i ḥanīf, monoteisti che non si riferivano ad alcuna religione rivelata. Nei suoi viaggi fatti in Siria e Yemen con suo zio, Maometto conobbe poi le comunità ebraiche e quelle cristiane, e dell'incontro col monaco cristiano siriano Bahīra, che avrebbe riconosciuto in un neo fra le sue scapole il segno del futuro carisma profetico, si parla già nella prima biografia (Sira) di Maometto, che fu curata, vario tempo dopo la morte, da Ibn Ishāq per essere poi ripresa in forma più "pia" da Ibn Hishām.
Oltre alla madre e alla nutrice, due altre donne si presero cura di lui da bambino: Umm Ayman Baraka e Fātima bint Asad, moglie dello zio Abū Tālib. La prima era la schiava etiopica della madre che lo aveva allevato dopo il periodo trascorso presso con Halīma, rimanendo con lui fino a che Maometto ne propiziò il matrimonio, dapprima con un medinese e poi col figlio adottivo Zayd. Nella tradizione islamica Umm Ayman, che generò Usama ibn Zayd, fa parte della Gente della Casa (Ahl al-Bayt) e il Profeta nutrì sempre per lei un vivo affetto, anche per essere stata una delle prime donne a credere al messaggio coranico da lui rivelato. Altrettanto importante fu l'affettuosa e presente sua zia Fatima bint Asad, che Maometto amava per il suo carattere dolce, tanto da mettere il suo nome a una delle proprie figlie e per la quale il futuro profeta pregò spesso dopo la sua morte.
I numerosi viaggi intrapresi per via dell'attività mercantile familiare - dapprima con lo zio e poi come agente della ricca e colta vedova Khadīja bt. Khuwaylid - dettero a Maometto occasione di ampliare in maniera significativa le sue conoscenze in campo religioso e sociale. Sposata nel 595 Khadìja bint Khuwàylid (che restò finché visse la sua unica moglie), egli poté dedicarsi alle sue riflessioni spirituali in modo più assiduo e, anzi, pressoché esclusivo. Khadìja fu il primo essere umano a credere nella Rivelazione di cui Maometto era portatore e lo sostenne con forte convinzione fino alla sua morte avvenuta nel 619. A lui, in una felice vita di coppia, dette quattro figlie, Ruqayya, Umm Khulthūm, Zaynab e Fatima, oltre a due figli maschi (al-Qàsim e ʿAbd Allah) che morirono tuttavia in tenera età.

Rivelazione
Nel 610 Maometto, affermando di operare in base a una Rivelazione ricevuta, cominciò a predicare una religione monoteista basata sul culto esclusivo di Dio, unico e indivisibile. In effetti il concetto di monoteismo era diffuso in Arabia da tempi più antichi e il nome Allah (principale nome di Dio nell'Islam,[6] che in lingua araba deriva dalla radice <ʾ-l-h>) significa semplicemente "Iddio".
Gli abitanti dell'Arabia peninsulare e di Mecca - salvo pochi cristiani e zoroastriani e un assai più consistente numero di ebrei - erano per lo più dediti a culti politeistici e adoravano un gran numero di idoli. Questi dèi erano venerati anche in occasione di feste, per lo più abbinate a pellegrinaggi (in arabo: mawsim). Particolarmente rilevante era il pellegrinaggio panarabo, detto hajj, che si svolgeva nel mese lunare di Dhu l-Hijja ("Quello del Pellegrinaggio"). In tale occasione molti devoti arrivavano nei pressi della città, nella zona di Mina, Muzdalifa e di ‘Arafa. Gli abitanti di Mecca avevano anche un loro proprio pellegrinaggio urbano (la cosiddetta umra) che svolgevano nel mese di rajab in onore del dio tribale Hubal e delle altre divinità panarabe, graziosamente ospitate dai Quraysh all'interno del santuario meccano della Ka'ba.
Maometto, per la tradizione islamica, era solito ritirarsi a meditare in una grotta sul monte Hira vicino Mecca. Secondo tale tradizione, una notte, intorno all'anno 610, durante il mese di Ramadan, all'età di circa quarant'anni, gli apparve l'arcangelo Gabriele (in arabo Jibrīl o Jabrā’īl, ossia "potenza di Dio": da "jabr", potenza, e "Allah", Dio) che lo esortò a diventare Messaggero (rasul) di Allah con le seguenti parole:
«(1)Leggi, in nome del tuo Signore, che ha creato, (2) ha creato l'uomo da un grumo di sangue! (3) Leggi! Ché il tuo Signore è il Generosissimo, (4) Colui che ha insegnato l’uso del calamo, (5) ha insegnato all'uomo quello che non sapeva[7]»
Turbato da un'esperienza così anomala, Maometto credette di essere stato soggiogato dai jinn e quindi impazzito (majnūn, "impazzito", significa letteralmente "catturato dai jinn") tanto che, scosso da violenti tremori, cadde preda di un intenso sentimento di terrore.
Secondo la tradizione islamica Maometto poté in quella sua prima esperienza teopatica sentire le rocce e gli alberi che gli parlavano. Preso dal panico fuggì a precipizio dalla caverna in direzione della propria abitazione e nel girarsi vide Gabriele sovrastare con le sue ali immense l'intero orizzonte (per quel "gigantismo" che caratterizza le "realtà angeliche", anche in contesti diversi da quello islamico) e lo sentì rivelargli di essere stato prescelto da Dio come suo messaggero.
Non gli fu facile accettare tale notizia ma a convincerlo della realtà di quanto accadutogli, provvide innanzi tutti la fede della moglie e, in seconda battuta, quella del cugino di lei, Waraqa ibn Nawfal, che alcuni indicano come cristiano ma che, più verosimilmente, era uno di quei monoteisti arabi (ḥanīf) che non si riferivano tuttavia a una specifica struttura religiosa organizzata.
Dopo un lungo e angosciante periodo in cui le sue esperienze non ebbero seguito (fatra), Gabriele tornò di nuovo a parlargli per trasmettergli altri versetti e questo proseguì per 23 anni, fino alla morte nel 632 di Maometto.
Al contrario di una "utile" tradizione che vorrebbe Maometto "analfabeta" (così da rendere del tutto impossibile l'accusa che il Corano fosse una sua personale elaborazione poetica), il profeta dell'Islam era uomo tutt'altro che ignorante, vuoi per la sua professione di commerciante che l'aveva portato in contatto con altre lingue e altre culture, vuoi per alcuni episodi della sua stessa vita (come una sua correzione e la sua firma, secondo una tradizione riportata da Tabari, apposte nel Trattato di Ḥudaybiyya). L'equivoco deriva dall'espressione a lui riferita di al-Nabī al-ummī che può voler dire in effetti "il profeta ignorante" ma anche, e più verosimilmente, "il profeta della comunità (araba)" o "il profeta di una cultura non basata su testi sacri scritti". Peraltro a Istanbul, presso l'antica residenza dei sultani ottomani del Topkapi, è conservato (ed è tuttora oggetto di venerazione) una lettera autografa attribuitagli nella quale intima ai cristiani copti di convertirsi all'Islam.
Maometto cominciò dunque a predicare la Rivelazione che gli trasmetteva Gibrīl, ma i convertiti nella sua città natale furono pochissimi per i numerosi anni che egli ancora trascorse a Mecca. Fra essi il suo amico intimo e coetaneo Abu Bakr (destinato a succedergli come califfo, guida della comunità islamica che si fondò con lenta ma sicura progressione malgrado l'assenza di precise indicazioni scritte e orali in merito) e un gruppetto assai ristretto di persone che sarebbero stati i suoi più validi collaboratori: i cosiddetti "Dieci Benedetti" (al-ʿashara mubashara).
La Rivelazione da lui espressa dunque - raccolta dopo la sua morte nel Corano, il libro sacro dell'Islam - dimostrò la validità del detto evangelico per cui "nessuno è profeta in patria". Maometto ripeté per ben due volte per intero il Corano nei suoi ultimi due anni di vita e molti musulmani lo memorizzarono per intero ma fu solo il terzo califfo ‘Uthmān b. ‘Affān a farlo mettere per iscritto da una commissione coordinata da Zayd b. Thābit, segretario del Profeta. Così il testo accettato del Corano poté diffondersi nel mondo a seguito delle prime conquiste che portarono gli eserciti di Medina in Africa, Asia ed Europa, rimanendo inalterato fino ad oggi, malgrado lo Sciismo vi aggiunga un capitolo (Sura) e alcuni brevi versetti (ayat).
Nel 619, l'"anno del dolore", morirono tanto suo zio Abu Talib, che gli aveva garantito affetto e protezione malgrado non si fosse convertito alla religione del nipote, quanto l'amata Khadìja. Fu solo dopo ripetute insistenze che Maometto contrasse nuove nozze, tra cui quelle con ʿAʾisha bt. Abi Bakr, figlia del suo più intimo amico e collaboratore, Abu Bakr.
L'ostilità dei suoi concittadini tentò di esprimersi con un prolungato boicottaggio nei confronti di Maometto e del suo clan, con il divieto di intrattenere con costoro rapporti di tipo economico commerciale, i troppi vincoli parentali creatisi però fra i clan della stessa tribù fecero fallire il progetto di ridurre a più miti consigli Maometto.
Nel 622 il crescente malumore dei Quraysh nel veder danneggiati i propri interessi - a causa dell'inevitabile conflitto ideologico e spirituale che si sarebbe radicato con gli altri arabi politeisti (che con loro proficuamente commerciavano e che annualmente partecipavano ai riti della ʿumra del mese di rajab) - lo indusse a rifugiarsi con la sua settantina di correligionari, a Yathrib, duecento miglia più a nord di Mecca, che mutò presto il proprio nome in al-Madīnat al-Nabī, "la Città del Profeta" (Medina). Il 622, l'anno dell'Egira (emigrazione), divenne poi sotto il califfo 'Omar ibn al-Khattàb il primo anno del calendario islamico, utile alla tenuta dei registri fiscali e dell'amministrazione in genere.

La Umma
Inizialmente Maometto si ritenne un profeta inserito nel solco profetico antico-testamentario, ma la comunità ebraica di Medina non lo accettò come tale. Nonostante ciò, Maometto predicò a Medina per otto anni e qui, fin dal suo primo anno di permanenza, formulò un Patto (Rescritto o Statuto o Carta, in arabo Ṣaḥīfa) che fu accettato da tutte le componenti della città-oasi e che vide il sorgere della Umma, la prima Comunità politica di credenti.

La Umma in guerra
Nello stesso tempo, con i suoi seguaci, condusse attacchi contro le carovane dei Meccani e respinse i loro contrattacchi che tendevano a metter fine alle azioni ostili che i musulmani portavano contro le loro carovane. Maometto, nel corso di quel confronto armato che portò alla prima vittoria di Badr, alla disfatta di Uhud e alla finale vittoria strategica di Medina (Battaglia del Fossato) contro le tribù arabe politeiste di Mecca e i loro alleati, espulse tutti gli ebrei di Medina, che si erano resi colpevoli agli occhi della Umma di violazione del Patto di Medina e di tradimento dei musulmani. In occasione dei due primi fatti d'armi furono esiliate le tribù ebraiche dei Banū Qaynuqāʾ e i Banū Naḍīr, invece dopo la vittoria del Fossato (Yawm khandaq), gli islamici decapitarono circa 700 uomini ebrei della tribù Banu Qurayza Banū che si erano arresi ai musulmani dopo 25 giorni di assedio, mentre le donne e i bambini furono venduti come schiavi[8][9] sui mercati d'uomini di Siria, dove vennero quasi tutti riscattati dai loro correligionari di Khaybar, Fadak e di altre oasi arabe higiazene.
Nel 630 Maometto era ormai abbastanza forte per marciare su Mecca e conquistarla. Tornò peraltro a vivere a Medina e da qui ampliò la sua azione politica e religiosa a tutto il resto del Hijaz e, dopo la sua vittoria nel 630 a Hunayn contro l'alleanza che s'imperniava sulla tribù dei Banu Hawazin, con una serie di operazioni militari nel cosiddetto Wadi al-qura, a 150 chilometri a settentrione di Medina, conquistò o semplicemente assoggettò vari centri abitati (spesso oasi), come Khaybar, Tabūk e Fadak, il cui controllo aveva indubbie valenze economiche e strategiche.

Morte
Due anni dopo Maometto morì a Medina, dopo aver compiuto il Grande Pellegrinaggio detto anche il "Pellegrinaggio dell'Addio", senza indicare esplicitamente chi dovesse succedergli alla guida politica della Umma. Lasciava nove vedove - tra cui ʿĀʾisha bt. Abī Bakr - e una sola figlia vivente, Fatima, andata sposa al cugino del profeta, ʿAlī b. Abī Ṭālib, madre dei suoi nipoti al-Hasan b. ʿAlī e al-Husayn b. ʿAlī. Fatima, piegata dal dolore della perdita del padre e logorata da una vita di sofferenze e fatiche, morì sei mesi più tardi, diventando in breve una delle figure più rappresentative e venerate della religione islamica.

Origine del nome
Maometto è la volgarizzazione italiana fatta in età medievale del nome Muhammad, utile semplificazione della pronuncia. La parola araba muhammad, che significa "grandemente lodato", è infatti un participio passivo di II forma (intensiva) della radice [h-m-d] (lodare).
La dimostrazione più lampante di ciò sta nell'opera di San Giovanni Damasceno, iol De haeresibus, dove il suo nome in greco è "Μωάμεθ",[10] che suona "Mōámeth", assai simile al posteriore "Maometto".
Secondo lo studioso francese Michel Masson[11], invece, nelle lingue romanze, e tra queste l'italiano, si osserva una storpiatura del nome del profeta in senso spregiativo, (da qui il francese Mahomet e l'italiano Macometto). Allo stesso modo alcuni scrittori italiani [12] ritengono che il nome "Maometto" non sarebbe di diretta origine araba, ma sarebbe "un'italianizzazione" adottata all'epoca per costituire una sintesi dell'espressione spregiativa di "Mal Commetto" [13], volta a conferire una connotazione negativa al Profeta dell'Islam. Ben diversamente, sulla derivazione di tali varianti dal nome arabo, si esprime Georges S. Colin,[14] il quale osservava che questo tipo di adattamenti fonetici trova una spiegazione in un passaggio della sintesi fornita da Ibn ʿArḍūn del suo trattato sul matrimonio, intitolato Muqniʿ al-Muḥtāj fī adāb al-zawāj, in cui avvertiva dell'uso che, nel dare al neonato il nome venerato di Muhammad, non lo si «sfigurasse con una vocalizzazione della prima consonante mīm in a e della consonante ḥā in u». Ciò implicava - notava Colin - che nel XIV secolo i Berberi Ghumāra avessero l'abitudine d'impiegare la forma *Maḥummad e *Maḥommad (facilmente trasformabili in Mahoma nell'ambiente nordafricano, che aveva stretti e secolari vincoli con il bilād al-Andalus), e che, così facendo, si evitasse il rischio che il bambino che portava lo stesso nome del Profeta, mostrando nel crescere scarse qualità o addirittura veri e propri difetti caratteriali, potesse profanare la baraka (benedizione) che derivava dal nome di Muhammad. Colin commentava come anche i Cinesi seguissero la stessa logica, impiegando «rovesciati (renversés) alcuni caratteri dichiarati tabu».
Come risulta da una lettera inviata dall'abate Pietro di Cluny, detto il Venerabile, a Bernardo di Chiaravalle, in occasione della traduzione di un "breve scritto apologetico arabo-cristiano, la Summula brevis contra haereses et sectam Saracenorum, sive Ismaelitarum, il nome di Muhammad è reso, già nel 1141, come "Machumet".[15]
«Mitto vobis, clarissime, novam translationem nostram, contra pessimam nequam Machumet haeresim disputantem...»
Del pari Ermanno di Carinzia (o Dalmata), in una sua traduzione, scriveva:
«De generatione Mahumet et nutritura ejus...»
dimostrando come, a metà del XII secolo, il nome Maometto non traesse origine da alcuna espressione insultante o irridente proveniente da idiomi romanzi.
La cosa è confermata da Trude Ehlert,[16] che ricorda come una delle prime attestazioni nella più diffusa letteratura romanza del nome del profeta dell'Islam (basata su fonti arabe e sostanzialmente esente da valutazioni cristiane), figuri nell'opera L'eschiele Mahomet, una versione tradotta in antico idioma volgare francese del Libro della Scala: un genere letterario-religioso basato sulla storia dell'asserita ascesi di Maometto attraverso i sette cieli,[17] composta poco dopo il 1264. Varrà la pena ricordare come il Libro della Scala, elaborato prima del 1264, sia una traduzione (perduta) della Escala de Mahoma, redatto in antico volgare castigliano tra il 1260 e il 1264. In nessuno di questi casi Mahomet o Mahoma appaiono ricollegabili a espressioni ingiuriose, come invece suggerirebbe il nome Malcometto usato da Rustichello nella sua trascrizione del resoconto di viaggio di Marco Polo alla fine del XIII secolo: oltre mezzo secolo quindi dopo le prime attestazioni in volgare castigliano e francese.[18]

Maometto secondo i non musulmani
Assolutamente banale sarebbe affermare che, secondo i non musulmani, Maometto non è stato un profeta, e che il Corano non gli fu divinamente dettato. La stessa cosa potrebbe infatti dirsi, con pari ovvietà, di Mosè e della Legge che egli avrebbe rivelato per i non-israeliti o della figura di Gesù, incarnazione umana di Dio, per i non cristiani, o Buddha per i non buddisti, e i protagonisti dei Veda per i non induisti.
Dopo un protratto periodo di indifferenza nei confronti dell'Islam, superficialmente equivocato come una delle tante eresie del Cristianesimo[19], nelle dispute con cristiani, questi ultimi sottolinearono il carattere sincretistico della religione di Maometto, basata allo stesso tempo su tradizioni arabe preislamiche (come il culto della Pietra Nera della Mecca) e su tradizioni cristiane siriache ed ebraiche, ed hanno anche mosso critiche alla personalità di Maometto, alla formazione e trasmissione del testo coranico e alla diffusione dell'islam attraverso la spada.[20]
Nell'Occidente medievale Maometto fu considerato per oltre cinque secoli un cristiano eretico. Dante Alighieri - non consapevole del profondo grado di diversità teologica della fede predicata da Maometto - lo cita nel canto XXVIII dell'Inferno tra i seminatori di discordia nella Divina Commedia assieme ad Ali ibn Abi Tàlib, suo cugino-genero, coerentemente con quanto da lui già scritto ai versetti 70-73 del canto VIII dell'Inferno:
«...«Maestro, già le sue meschite / là entro certe ne la valle cerno, / vermiglie come se di foco uscite / fossero...»
in cui le "meschite" (evidente deformazione della parola del volgare castigliano mezquita, derivante dall'arabo masjid, che significa moschea) della città di Dite sono le "vermiglie" abitazioni della città dannata ove dimorano gli eresiarchi cristiani.
È questo (e non altro) il motivo per cui nella basilica di San Petronio a Bologna, in un celebre affresco, Maometto fu raffigurato all'inferno, secondo la descrizione di Dante, con il ventre squarciato, come spaccata era la comunità cristiana a causa dei suoi vari scismi.
Secondo una tradizione diffusa tra i musulmani, il Negus di Abissinia - che ospitò gli esiliati musulmani quando Maometto era in vita - avrebbe attestato la sua fede in lui come profeta di Dio.

Famiglia
Maometto ebbe le seguenti mogli:
▪ Khadija bint Khuwaylid
▪ Sawda bint Zamaʿa b. Qays
▪ ʿĀʾisha bint Abī Bakr al-Siddīq (Aisha, figlia del futuro primo Califfo Abu Bakr)
▪ Hafsa bint ʿUmar (figlia del secondo futuro Califfo ʿUmar b. al-Khattab)
▪ Zaynab bint Khuzayma b. al-Hārith, detta poi "Madre dei poveri"
▪ Umm Salama Hind bt. Abī Umayya b. al-Mughīra al-Makhzūmiyya
▪ Zaynab bint Jahsh b. Riʿāb al-Asadiyya
▪ Juwayriyya bint al-Hārith b. Abī Dirār
▪ Ramla bint Abī Sufyān (Umm Habība bt. Abī Sufyān)
▪ Rayhana bint ʿAmr
▪ Sayfa bint Huyay b. Akhtab
▪ Maymūna bint al-Hārith b. Hazn
▪ Māriya bint Shamʿūn b. Ibrāhīm, detta la Copta (al-Qibtiyya)[21]
Pur avendole sposate, non ebbe rapporti coniugali con Asmāʾ bt. al-Nuʿmān (malata di lebbra) e ʿAmra bt. Yazīd che dimostrò immediatamente tutta la sua ostilità per tale unione, ottenendo così di venir subito ripudiata e di tornare tra la sua gente (i B. Kilāb).
La moglie più importante per Maometto fu comunque Khadīja che aveva sposato prima della "Rivelazione" e che per prima aderì alla religione islamica. Fu anche un forte sostegno economico, e ancor più morale, soprattutto di fronte alle angherie dei notabili pagani della città ostili al marito. Da lei Maometto ebbe quattro figlie femmine (Zaynab, Umm Kulthūm, Fāṭima e Ruqayya) e due maschi (Qāsim e ʿAbd Allāh, detto anche Ṭāhir e Ṭayyib). Da Māriya la Copta ebbe invece Ibrāhīm.
Secondo l'Islam non è possibile avere più di quattro mogli. In virtù della rivelazione divina di un versetto del Corano fu consentito a Maometto di superare questo limite, ed alcuni dei suoi matrimoni furono contratti per sanzionare alleanze o conversioni di gruppi arabi pagani, dal momento che gli usi del tempo prevedevano che si contraesse un vincolo coniugale fra le parti per rafforzare un importante accordo che si intendeva concludere.
Maometto ebbe anche sedici concubine ma solo dalla sua schiava, che sposò, la copta Māriya, ebbe un figlio: Ibrāhīm, deceduto a otto mesi con grande dolore dello stesso Maometto che poco tempo dopo, morendo fra le braccia di ʿĀʾisha, lo raggiunse nella tomba.

La questione dell'età di ʿĀʾisha
Fra le mogli sposate successivamente la più importante (malgrado non gli desse figli) fu ʿĀʾisha, figlia di Abū Bakr, nata verso il 614. Secondo numerose attestazioni di diversi hadīth ella aveva 6 anni in occasione del suo matrimonio formale e 9 anni al momento della prima consumazione[22] e fu con lui fino alla sua morte nel 632, mentre secondo qualche altro hadith ʿAʾisha aveva 7 anni quando contrasse il matrimonio e 10 quando lo consumò. Il Profeta la sposò dopo un ordine divino ricevuto dall'arcangelo Gabriele.
Si dice che a insistere per il matrimonio fosse Hawla bt. Hakīm, moglie di ʿUthmān b. Maẓʿūn, che desiderava far superare al profeta il suo stato di profonda prostrazione psicologica causato dalla morte nel 619 dell'amata moglie Khadīja. La donna sollecitò quindi il matrimonio di Maometto con la trentenne Sawda bt. Zamʿa (rimasta vedova del marito, morto in Abissinia dove s'era recato con la Piccola Egira) e, per motivi inizialmente politici, con la piccola ʿĀʾisha, figlia del migliore amico del profeta.
L'età di ʿĀʾisha costituisce un problema particolare per alcuni non-musulmani che, applicando categorie indubbiamente valide nei tempi più recenti, deprecano che Maometto abbia potuto avere relazioni sessuali con una fanciulla d'età così giovane.
Il problema indubbiamente si pone ma è difficile non considerare che quella che è una regola di comportamento di una cultura in una data epoca, potrebbe non esserlo in un altro ambito e in un'altra epoca.
Il religioso battista statunitense Jerry Vines definì ad esempio Maometto «pedofilo posseduto dal demonio»: definizione ripresa volentieri in contesti antislamici. Esponenti israeliti e importanti gruppi protestanti si unirono ai musulmani statunitensi per denunciare i commenti, a loro dire denigratori, del reverendo battista.[23] Abraham Foxman, leader della Lega Antidiffamatoria degli USA, definì "deplorevoli" i commenti di Vines.
Colin Turner, professore medievista e iranista della britannica Durham University, dichiarò che la consumazione del rapporto quando ʿĀʾisha era così giovane non era una cosa straordinaria in quell'epoca ed in quella cultura. Le relazioni sessuali fra un uomo maturo e una ragazza assai giovane erano - e sarebbero tuttora - un costume diffuso fra i beduini, al pari di molte altre culture del mondo. Turner scrisse che, ad ogni modo, in numerosi testi islamici si dice che gli Arabi raggiungevano la pubertà in un'età precoce.[24]
Vi sono comunque studiosi musulmani che sostengono che i dati riguardanti l'età di Maometto e di ʿĀʾisha siano contraddittori e che ʿĀʾisha poteva essere d'età alquanto maggiore,[25] [26] mentre non possono comunque essere dimenticati i dati antropologicamente assai rilevanti raccolti dalla studiosa finlandese Hilma Granqvist che, lavorando nel villaggio palestinese di Arṭās negli anni Venti del XX secolo aveva studiato da vicino le tradizioni matrimoniali di quegli Arabi, non necessariamente solo musulmani, bensì anche cristiani. La Grandqvist aveva studiato le classi di età delle donne, parlando della fascia d'età di ragazze di 12-14 anni, "in età di matrimonio,"[27] identificata con l'espressione araba miǧwiz(i) o ʿezz ǧizte, parlando inoltre di quelle ragazze che "hanno un bimbo in grembo senza essere completamente sviluppate [fisicamente]":[28] segno evidente dell'età estremamente precoce in cui si tendeva a consumare il matrimonio.

Note
1. La sua relativa superiorità è attestata in numerose opere islamiche. Tra tutte ha un certo peso quanto riferito in margine al suo Isra' e Mi'raj, in cui a lui è riservato il posto d'eccellenza fra i numerosi profeti che l'avevano preceduto.
2. Il Corano fu messo definitivamente per iscritto solamente durante il califfato di ʿUthmān b. ʿAffān
3. Muḥàmmad - participio passivo di II forma (ovverosia intensiva) della radice , che significa "lodare" - è reso in italiano col nome Maometto, in base a un'antica volgarizzazione risalente al Medioevo. Una parte del mondo musulmano, in Italia e nel resto del mondo, pretenderebbe in segno di rispetto l'uso dell'originale nome Muhàmmad e considera che 'Maometto', e adattamenti similari, costituiscano distorsioni inaccettabili da rifuggire. Non sembra però tenersi nel debito conto la realtà espressa in vari ambiti islamici non arabofoni - come ad esempio, fin dall'età ottomana, il mondo turcofono - in cui l'onomastica araba è stata comprensibilmente adattata alle specifiche realtà linguistiche locali. Talché il nome Mehmet non ha mai sollevato alcuna perplessità nei dotti musulmani di quella e di altre parti del mondo islamico. Non ha dunque alcun motivo logico di esistere la suscettibilità di quanti non accettano l'uso delle varianti locali del nome del profeta dell'Islam.
4. Il più antico biografo di Maometto, Ibn Ishaq, scrive nella sua al-Sīra al-nabawiyya che il profeta sarebbe nato il lunedì 12 rabīʿ I dell'Anno dell'elefante. Tabari invece si limita a indicare l'Anno dell'elefante, senza fornire il giorno e il mese, ma ricorda la tradizione di Hishām b. Muhammad al-Kalbī secondo cui Maometto era nato "quarantaduesimo anno del regno di Kisra Anūsharwān, vale a dire nel 573.
5. Dall'opinione della maggioranza dei tradizionisti, che fissa a 63 anni l'arco di vita di Maometto, si è dedotta la sua data di nascita, altrimenti indicata con la semplice espressione "Anno dell'elefante". Tuttavia esistono tradizioni difformi, per quanto decisamente minoritarie, che indicano in 60 o 65 gli anni vissuti dal Profeta dell'Islam. Cfr. Tabari, Taʾrīkh al-rusul wa l-mulūk, 1835-1836, che cita in proposito ʿAmr b. Dīnār (60 anni) e Ibn ʿAbbās (65).
6. L'altro è al-Rahmān (lett. "Il Misericordioso").
7. Sura 96:1-5. Salvo l'imperativo iniziale, si è seguita la versione de Il Corano, introd., trad. e commento di Alessandro Bausani, Firenze, Sansoni, 1961 e succ. ediz. La traduzione bausaniana riporta "Grida", malgrado iqrāʾ significhi più propriamente "recita salmodiando" pur essendo logico che per poter recitare si debba preliminarmente leggere, non essendo noto il contenuto del brano da recitare).
8. Peterson(2007), p. 126
9. Ramadan (2007), p. 141
10. Codex Colbertino 4753.
11. Professore emerito di "Linguistica semitica" presso l' Université Paris 3-Sorbonne Nouvelle: Cfr.: qui [1]
12. Magdi Allam. Bin Laden in Italia: viaggio nell'islam radicale. Milano, Mondadori, 2002, p. 210.
13. Cfr. ad esempio Marco Polo nel Milione (redazione toscana):
«Mossul è un grande reame, ove è molte generazioni di genti, le quali vi conterò incontenente. E v'à una gente che si chiamano arabi, ch'adorano Malcometto;...» (Milione, 23)
Reso nello stesso testo redatto in origine in langue d'oïl (franco-italiano) Le divisament dou monde: «Mosul est un grant roiames qui l'habitant plusors jeneration de jens les quelç deiveserai orendroit. Il (a) une jens ki est apellé Arabi que orent Maomet;...» (Le divisament dou monde 24)
14. "Note sur l'origine du nom de «Mahomet»", in: Hespéris (Archives berbères et Bulletin de l'Institut des Hautes-Études marocaines), 1925, I, p. 129.
15. Cfr. Ugo Monneret de Villard, Lo studio dell'Islām in Europa nel XII e nel XIII secolo, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1944, pp. 18-19.
16. Lemma «Muhammad» pubblicato sull'Encyclopaedia of Islam.
17. Si veda Isrāʾ e Miʿrāj).
18. Più di recente si veda anche Claudio Lo Jacono, Storia del mondo islamico - Il Vicino Oriente, Torino, Einaudi, 2003, p. 3, nota 3.
19. Cfr. Aldobrandino Malvezzi, L'Islamismo e la cultura europea, Firenze, Sansoni, 1956.
20. Vedi ad esempio l'apologia di Al-Kindi, testo arabo cristiano del IX secolo e tradotta in latino a partire dal XII secolo (Apologia del cristianesimo, a cura di Laura Bottini, Milano, Jaca Book, 1987).
21. Musʿab b. ʿAbd Allāh al-Zubayrī, Kitāb nasab Quraysh (Il libro genealogico dei Quraysh), p. 21. L'Autore specifica che la giovane era stata donata a Maometto dal Patriarca di Alessandria, Muqawqis (che nelle fonti non arabe è però correttamente chiamato Kyros/Ciro).
22. Sahīh di Bukhari, Vol. 5, Libro 58, numeri 234 [2] e 236 [3], Volume 7, Libro 62, Numeri 64 [4], 65 [5] e 88 [6]), Sahih di Muslim, Libro 8, Numeri 3309 [7], 3310 [8] e 3311 [9]), Sunan di Abu Dawud al-Sijistani, Vol. 2, n. 2116, Libro 41, n. 4915 [10], 4916 [11] e 4917 [12], Sunan di Nasāʾī, 1, # 18, p. 108, Sunan di Ibn Māja, 3:1876, p. 133 e 3:1877 p. 134, al-Tabari, Taʾrīkh al-rusul wa l-mulūk, vol. 9, pp. 129-131 e vol. 7, p. 7 dell'edizione curata da Ihsān ʿAbbās per la SUNY Press di Albany (NY), Mishkat al-masabīh, Vol. 2, p. 77.
23. Vines condemns Islam
24. Colin Turner, Islam: The Basics, Londra, Routledge Press, 2005, pp. 34-35.
25. ¿Era novia Aisha a los seis años? El viejo mito expuesto por Dr. T.O. Shanavas
26. http://www.italian.faithfreedom.org/forum/viewtopic.php?t=751]
27. Hilma Granqvist, Marriage Conditions in a Palestinian Village, vol. II, Helsinki, Akademische Buchhandlung, 1934, p. 34.
28. Hilma Granqvist, Child Problems among the Arabs, Helsinki, Söderstrøm, 1950, nota 216.

▪ 1290 - Beatrice Portinari, detta Bice, maritata Bardi (Firenze, 1266 circa – Firenze, 8 giugno 1290), è, secondo alcuni critici letterari, la figura storica dietro il personaggio dantesco di Beatrice.

Personaggio storico
Sebbene non unanime, la tradizione che identifica Bice di Folco Portinari con la Beatrice amata da Dante è ormai molto radicata. Lo stesso Giovanni Boccaccio, nel commento alla Divina Commedia, fa esplicitamente riferimento alla giovane.
I documenti certi sulla sua vita sono sempre stati molto scarsi, arrivando a far persino dubitare della sua reale esistenza. L'unico che si conoscesse fino a poco tempo fa era il testamento di Folco Portinari datato 1287. Vi si legge: ...item d. Bici filie sue et uxoris d. Simonis del Bardis reliquite [...], lib.50 ad floren, cioè si parla di una lascito in denaro alla figlia Bice maritata a Simone de' Bardi. Folco Portinari era stato un banchiere molto ricco e in vista nella sua città, nato a da Portico di Romagna. Trasferitosi a Firenze, viveva in una casa vicina a Dante ed ebbe sei figlie. Folco ebbe il merito di fondare quello che tutt'oggi è il principale ospedale nel centro cittadino, l'Ospedale di Santa Maria Nuova.
La data di nascita di Beatrice è stata ricavata per analogia con quella presunta di Dante (coetanea o di un anno più piccola del poeta, che si crede nato nel 1265); la data di morte è ricavata dalla Vita Nuova di Dante stesso e forse non è altro che una data simbolica. Anche molte delle notizie biografiche provengono unicamente dalla Vita Nuova, come l'unico incontro con Dante, il saluto, il fatto che i due non si scambiarono mai parola, ecc.
Beatrice, figlia di un banchiere, si era imparentata con un'altra famiglia di grandi banchieri, i Bardi, andando in sposa ancora giovanissima, appena adolescente, a Simone, detto Mone. È recentissimo il ritrovamento di nuovi documenti nell'archivio Bardi su Beatrice e suo marito da parte dello studioso Domenico Savini. Tra questi un atto notarile del 1280, dove Mone de' Bardi cede alcuni terreni a suo fratello Cecchino con il beneplacito della moglie Bice, che all'epoca doveva avere circa quindici anni. Un secondo documento del 1313, quando cioè Beatrice doveva essere già morta, cita il matrimonio tra una figlia di Simone, Francesca, e Francesco di Pierozzo Strozzi per intercessione dello zio Cecchino, ma non è specificato se la madre fosse stata Beatrice o la seconda moglie di Simone, Bilia (Sibilla) di Puccio Deciaioli. Altri figli conosciuti di Simone sono Bartolo e Gemma, la quale venne maritata a un Baroncelli.
Un'ipotesi plausibile è che Beatrice sia morta così giovane forse al primo parto.
Il luogo di sepoltura di Beatrice viene tradizionalmente indicato nella chiesa di Santa Margherita de' Cerchi, vicina alle abitazioni degli Alighieri e dei Portinari, dove si troverebbero i sepolcri di Folco e della sua famiglia. Ma questa ipotesi, sebbene segnalata da una lapide moderna che colloca la data di morte di Beatrice al 1291, è incoerente perché Beatrice morì maritata e quindi la sua sepoltura avrebbe dovuto avere luogo nella tomba della famiglia del marito. Infatti Savini indica come possibile luogo il sepolcro dei Bardi situato nella basilica di Santa Croce, sempre a Firenze, tutt'oggi segnalato nel chiostro da una lapide con lo stemma familiare, vicino alla Cappella dei Pazzi.

Personaggio letterario
Beatrice è la prima donna a lasciare una traccia indelebile nella nascente letteratura italiana, nonostante analoghe figure femminili siano presenti anche nei componimenti di Guido Guinizzelli e Guido Cavalcanti, anche se non con l'incisività del personaggio dantesco. A Beatrice è dedicata la Vita Nuova, dove il poeta raccoglie entro una struttura in prosa una serie di componimenti poetici scritti negli anni precedenti. Secondo la Vita Nuova Beatrice fu vista da Dante per la prima volta quando aveva 9 anni e i due si conobbero quando lui aveva diciotto anni. Andata in sposa al banchiere Simone dei Bardi nel 1287, si crede anche che si sia spenta nel 1290, a soli ventiquattro anni.
Quando morì, Dante, disperato, studiò la filosofia e si rifugiò nella lettura di testi latini, scritti da uomini che, come lui, avevano perso una persona amata. La fine della sua crisi coincise con la composizione della Vita Nuova (intesa come "rinascita").
Nella Divina Commedia Beatrice subisce un processo di spiritualizzazione e viene riconosciuta come creatura angelica (secondo gli ideali stilnovistici). Ella rappresenta la Fede, che accompagna il pellegrino nel Paradiso.
I riferimenti alla fanciulla Beatrice che Dante, nella Vita Nova, narra di avere incontrato, prima a nove anni poi a diciotto, sembrano troppo attentamente costruiti per risultare pienamente convincenti come episodi biografici.
Una luce diversa su Beatrice come figura di creazione Dantesca può arrivare dalla lettura del Canto di un poeta provenzale vissuto, prevalentemente in Italia, circa un secolo prima di Dante: Raimbaut de Vaqueiras. Il canto è Kalenda maia, la penultima strofa inizia così:
«Tanto gentile sboccia, / per tutta la gente
Donna Beatrice, e cresce / il vostro valore;

di pregi ornate ciò che tenete / e di belle parole, senza falsità;

di nobili fatti avete il seme;

scienza, / pazienza / avete e conoscenza;

valore / al di là di ogni disputa
vi vestite di benevolenza.

Donna graziosa, / che ognuno loda e proclama
il vostro valore che vi adorna,/ e chi vi dimentica, poco gli vale la vita...» (Raimbaut de Vaqueiras, Kalenda maia)

Dante, che conosceva il provenzale ed i poeti provenzali, quasi cento anni dopo scrive di Beatrice:
"Tanto gentile e tanto onesta pare/ la donna mia ...". L'incipit è identico, il sentimento che muove i poeti è lo stesso, gli echi stessi che il canto di Raimbaut sembra evocare si possono ritrovare nelle parole diverse e nei versi di Dante, infine, il riferimento a Beatrice che accomuna i due poeti appare sorprendente. Raimbaut canta Beatrice del Monferrato, sorella di Bonifacio I del Monferrato che serviva come troubadour e cavaliere. Questa Beatrice non è la Beatrice dantesca, ma sembra aver dato almeno uno piccolo contributo alla creazione della sua memorabile figura..

▪ 1768 - Johann Joachim Winckelmann (Stendal, 9 dicembre 1717 – Trieste, 8 giugno 1768) è stato un archeologo e storico dell'arte tedesco.
Fu il primo ad adottare, nella storia dell'arte, il criterio dell'evoluzione degli stili cronologicamente distinguibili l'uno dall'altro. Notevole è stato il suo contributo per la storia dell'estetica.

▪ 1809 - Thomas Paine (Thetford, 29 gennaio 1737 – New York, 8 giugno 1809) è stato un rivoluzionario, politico, intellettuale, idealista e studioso inglese, considerato uno dei Padri Fondatori degli Stati Uniti d'America.
«La mia nazione è il mondo... e la mia religione è fare bene.»
La figura di Thomas Paine è legata, tra altre, alla Constitutional Society e alla Revolution Society, due associazioni radicali sostenute da gruppi religiosi non conformisti, i cui membri si ritenevano infatti discendenti della Rivoluzione inglese seicentesca. I libri dello scrittore che danno aperto sostegno alla rivoluzioni americana (durante la quale criticò l'Inghilterra dicendo che era assurdo pensare che un continente sarebbe potuto essere governato in eterno da un'isola) e francese vengono bruciati pubblicamente.
Egli è costretto a rifugiarsi a Parigi, dove è già conosciuto come l'autore di Rights of Man (1791), un'opera letta da centinaia di migliaia di lettori, gravitanti attorno alle associazioni radicali britanniche e irlandesi filo-francesi. Nel trattato, contrario al pensiero di Edmund Burke, Paine dichiara la non superiorità dei nobili rispetto alla gente comune, perché ogni uomo ha dei diritti naturali che non sono basati sulla ricchezza o sulla nascita.
Durante il periodo trascorso in carcere, con il rischio di finire giustiziato, da cui lo salva la caduta di Robespierre, completa The Age of Reason (anni 1790). L'Età della Ragione viene vista come velenosa sia per il Cristianesimo, sia per l'ateismo. L'autore rifiuta ogni forma di religione consolidata e demolisce l'autorità dei testi sacri: the word of God is the creation we behold ("la parola di Dio è la creazione che guardiamo"), Dio stesso è verità morale e non mistero o oscurità. Nostro compito è doing justice, loving mercy, and endeavouring to make our fellow-creatures happy ("compiere la giustizia, amare la misericordia e cercare di rendere felici i nostri simili"). Si trova Thomas Paine raffigurato su un francobollo negli Stati Uniti e inoltre in una statua d'oro a Parigi.

Curiosità
Napoleone sosteneva che ogni città nell'universo dovesse avere una statua raffigurante Paine.
Celebre il suo "Credo" incluso all'inizio della sua opera "L'età della ragione" che recita: "Credo in un Dio unico e basta; e spero nella felicità dopo questa vita. Credo nell'eguaglianza degli uomini. E credo che i doveri religiosi consistano nel fare giustizia, nell'amare la misericordia e nel cercare di rendere felici quelle che sono creature come noi".

Film
Il mondo nuovo (La Nuit de Varennes) di Ettore Scola - Il personaggio di Thomas Paine è interpretato da Harvey Keitel.

▪ 1835 - Gian Domenico Romagnosi (Salsomaggiore Terme, 11 dicembre 1761 – Milano, 8 giugno 1835) è stato un giurista e filosofo italiano.
Figlio di Bernardino e Marianna Trompelli, studia dal 1775 nel Collegio Alberoni di Piacenza e nel 1782 si iscrive nell'Università di Parma, dove si laurea in giurisprudenza nel 1786.
Per breve tempo esercita la professione notarile, nel 1789 fa parte della Società letteraria di Piacenza dove legge i suoi primi lavori scientifici: il Discorso sull'amore delle donne considerato come motore precipuo della legislazione; il Discorso sullo stato politico di tutte le nazioni; Sull'opinione pubblica.
Nel 1790 fa parte dell'Accademia degli Ortolani, nel 1791 è pretore della città di Trento e pubblica la Genesi del diritto penale, poi, nel 1792, Cosa è eguaglianza e, nel 1793, Cosa è libertà e Primo avviso al popolo, che mostrano simpatie rivoluzionarie. Il suo incarico gli procura contrasti con il principe vescovo di Trento, il conte Pietro Vigilio Thun: questi gli concede comunque il titolo di consigliere aulico d'onore.
Dal 1794 al 1798 è consulente legale; nel 1799, accusato di giacobinismo, è incarcerato a Innsbruck per 15 mesi ma viene assolto nel processo: durante la prigionia scrive Delle leggi dell'umana perfettibilità per servire ai progressi delle scienze e delle arti. Nel 1801, con l'occupazione francese di Trento, diviene segretario del Consiglio superiore presieduto dal giurista Carlo Antonio Pilati.
Nel maggio 1802 scopre gli effetti magnetici dell'elettricità: pubblica i suoi risultati sui giornali di Trento e Rovereto e invia una relazione all'Accademia delle Scienze di Parigi ma la comunità scientifica la ignora. Nel 1820 il fisico danese Hans Christian Ørsted fonda l'elettromagnetismo, conducendo un analogo esperimento (noto come esperimento di Oersted) e riconosce che la conoscenza dei lavori di Romagnosi avrebbe anticipato la scoperta dell'elettromagnetismo di 18 anni[1].
Nel 1804 insegna diritto pubblico nell'Università di Parma, nel 1806 è chiamato a Milano a occuparsi della revisione del codice di procedura penale; nel 1807 ottiene la cattedra di diritto civile all'Università di Pavia e pubblica il discorso Quale sia il governo più adatto a perfezionare la legislazione civili; nel 1809 è professore nella Scuola di Alta legislazione e ispettore delle scuole di diritto e, nel 1811, fonda il Giornale di giurisprudenza universale.
Nel 1814 pubblica le Istituzioni di Diritto amministrativo e l'anno seguente, anonima, l'opera Della costituzione di una monarchia costituzionale rappresentativa che gli vale i sospetti della polizia austriaca.
Dal 1817 collabora alla Biblioteca Italiana e al Conciliatore e nel 1820 pubblica l' Assunto primo della scienza del diritto naturale. Nel 1821 è arrestato e incarcerato a Venezia con l'accusa di partecipazione alla congiura ordita da Silvio Pellico, Pietro Maroncelli e Federico Confalonieri: viene prosciolto ma gli è vietato l'insegnamento. Durante la detenzione scrive Dell'insegnamento primitivo delle matematiche che pubblica nel 1823 mentre del 1824 è l'opera Della condotta delle acque. Nel 1825 escono le Istituzioni di civile filosofia ossia di Giurisprudenza Teorica, testo per lezioni da tenere all'Università di Corfù su invito del governo britannico. Dal 1827 scrive negli Annali Universali di Statistica proseguendo la sua riflessione sull'incivilimento e la filosofia civile e dedicando particolare attenzione all'economia politica; collabora anche all'Antologia fiorentina del Vieusseux.
Muore nel 1835 assistito dal suo allievo Carlo Cattaneo, al quale detta il testamento e affida i manoscritti inediti. È sepolto nella cappella dei conti Cusani Confalonieri del cimitero di Carate Brianza, località dove era solito trascorrere i periodi di villeggiatura estiva ospite di Luigi Azimonti.
A lui sono dedicate alcune vie, l'Istituto Tecnico Commerciale di Piacenza e un Liceo classico a Parma e la scuola elementare di Carate Brianza.

▪ 1876 - George Sand, pseudonimo di Amantine Aurore Lucile Dupin (Parigi, 1 luglio 1804 – Nohant-Vic, 8 giugno 1876), è stata una scrittrice francese.
È autrice di romanzi, di novelle, di opere teatrali, di un'autobiografia, di critiche letterarie e di testi politici. Femminista molto moderata, fu attiva nel dibattito politico e partecipò, senza assumere una posizione di primo piano, al governo provvisorio del 1848, esprimendo posizioni vicine al socialismo, che abbandonò alla fine della sua vita per un moderato repubblicanesimo. La sua opposizione alla politica temporalistica e illiberale del papato le costò la messa all'Indice di tutti i suoi scritti nel dicembre del 1863.
È ricordata anche per i suoi comportamenti anticonformistici e per le relazioni sentimentali avute con lo scrittore Alfred de Musset e con il musicista Fryderyk Chopin.

▪ 1970 - Abraham Harold Maslow (Brooklyn, 1º aprile 1908 – California, 8 giugno 1970) è stato uno psicologo statunitense.
Primo di sette figli in una famiglia di immigranti ebrei di origine russa, è noto per aver ideato una gerarchia dei bisogni umani, la cosiddetta piramide di Maslow.
Fu psicologo all'università Brandeis, a Waltham.

Nel 1954 pubblicò "Motivazione e personalità", dove espose la teoria di una gerarchia di motivazioni (La piramide di Maslow, 1954) che muove dalle più basse (originate da bisogni primari - fisiologici) a quelle più alte (volte alla piena realizzazione del proprio potenziale umano - autorealizzazione).
Secondo Maslow, bisogni e motivazioni hanno lo stesso significato e si strutturano in gradi, connessi in una gerarchia di prepotenza relativa; il passaggio ad uno stadio superiore può avvenire solo dopo la soddisfazione dei bisogni di grado inferiore. Egli sostiene che la base di partenza per lo studio dell'individuo è la considerazione di esso come globalità di bisogni. Maslow sostiene che saper riconoscere i bisogni dell'individuo favorisce un'assistenza centrata sulla persona.
Ogni individuo è unico e irripetibile, invece, i bisogni sono comuni a tutti, si condividono, si accomunano e fanno vivere meglio se vengono soddisfatti. Maslow suddivide i bisogni in "fondamentali" e "superiori" ritenendo quest'ultimi quelli psicologici e spirituali. Di fatto però la non soddisfazione dei bisogni fondamentali, definiti anche elementari, porta alla non soddisfazione di quelli superiori. Le teorie di Maslow permettono di porsi in una condizione di autocritica analizzando la personale capacità di soddisfare quelli che sono i propri bisogni e in base a questi saper comprendere quelli che sono i bisogni dell'altro.
Pur essendosi estremamente diffusa, specie nel mondo anglosassone, la teoria motivazionale di Maslow si sottopone attualmente a diverse critiche. Prima fra tutte quella che vede nel suo concetto piramidale una svalutazione,o per meglio dire una retrocessione ad un livello inferiore,di alcune caratteristiche strutturali del sé, come se fosse possibile suddividere per gradi di nobiltà una struttura così complessa e interdipendente tra le sue parti costitutive. Si deve poi sottolineare come la classificazione in questione segua una direzione estremamente adulto-centrica,ignorando le pur grandi conquiste della psicologia dovute all'osservazione del comportamento infantile.
Una ulteriore critica si rifà sull'assente fondamento empirico della teoria di Maslow, la quale è soltanto basata su considerazioni non verificate sperimentalmente.

▪ 1971 - Arnoldo Mondadori (Poggio Rusco, 2 novembre 1889 – Milano, 8 giugno 1971) è stato un editore italiano.
Arnoldo smette di studiare dopo la quarta elementare (non arriva dunque alla licenza elementare) ed inizia a lavorare in una drogheria. Comincia, così, la carriera di venditore, a diretto contatto con la gente. Presta la propria opera in casa del proprietario della drogheria Ai coloniali, svegliando i figli, vestendoli e accompagnandoli a scuola. Lavora sodo per un breve periodo a Mantova, scaricando casse e facendo il venditore ambulante. Passa tuttavia ben presto a lavorare in una cartoleria come tipografo e nel 1907 realizza la sua prima pubblicazione, dando inizio all'attività che lo renderà famoso in Italia e nel mondo.
Nel 1911 conosce Tomaso Monicelli, il quale, reduce da un trionfante esordio teatrale, si era rifugiato ad Ostiglia, dove nel 1912 aveva fondato "La Sociale", embrione di quella che diventerà la casa editrice Arnoldo Mondadori Editore. Grazie all'amicizia e all'assidua collaborazione con Monicelli, conosce anche la sorella di quest'ultimo, Andreina, che sposerà nel 1913. Tomaso Monicelli aveva con sé il figlio illegittimo avuto da Elisa Severi, Giorgio, che verrà poi cresciuto dalla stessa Andreina.

La casa editrice
La storia della Mondadori inizia, a Ostiglia, con la pubblicazione nel 1907 del periodico anarco-socialista educazionista Luce! e poi con la pubblicazione del primo libro, Aia Madama di Tomaso Monicelli (nel 1912); viene anche creata la prima collana, La Lampada, che è dedicata alla letteratura per l'infanzia. La sede della prima tipografia (Palazzina Mondadori), in Via Gramsci, è stata restaurata ed ospita la sua Biblioteca personale e privata, composta da circa 1.000 libri, aule didattiche e sale espositive.
Nel 1919 avviene il trasferimento della casa editrice a Milano. Nel 1933 esce la collana Medusa, i cui libri hanno tutti la stessa copertina profilata di verde. Diventa subito un oggetto di culto per il magro popolo dei lettori italiani. Nel 1965 la Mondadori dà vita ad una rivoluzione, quella degli oscar. Per la prima volta i libri, in formato tascabile, si compravano in edicola, ogni settimana un titolo. Fu un grande successo commerciale. Nel 1968 lascia la presidenza della casa editrice al figlio Giorgio.

▪ 1976 - Francesco Coco (Terralba, 12 dicembre 1908 – Genova, 8 giugno 1976) è stato un magistrato italiano. Era il procuratore generale presso la Corte d'appello di Genova quando fu assassinato dalle Brigate Rosse nel corso del processo a degli esponenti del nucleo terrorista.
Originario della Sardegna, si laureò in Giurisprudenza con un voto basso a causa della sua tesi incentrata sulla figura e le prerogative del Presidente della Repubblica, argomento di certo non gradito nell'Italia del regime fascista. Difese inoltre il futuro leader del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer, e suo padre dall'accusa di cospirazione contro il regime. Nella sua carriera di magistrato fu giudice istruttore a Nuoro negli anni Trenta (in questa veste istruì il processo per l'omicidio di Antonia Mesina) e successivamente sostituto procuratore generale della Corte d'appello di Cagliari, occupandosi di molti casi di sequestro di persona e banditismo. In seguito divenne procuratore della Repubblica di Genova, carica che mantenne negli anni sessanta e settanta.
Nel maggio 1974 si oppose al rilascio degli otto detenuti ex-militanti del Gruppo XXII Ottobre per la liberazione del giudice e amico Mario Sossi (sequestrato dalle BR), dopo che la Corte d'Assise d'Appello di Genova aveva dato parere favorevole.
Venne per questo assassinato l'8 giugno 1976 a Genova, insieme ai due agenti della scorta (il brigadiere di polizia Giovanni Saponara e l'appuntato dei carabinieri Antioco Deiana), a colpi di rivoltella e mitraglietta Skorpion nei pressi della sua abitazione in Salita Santa Brigida, una traversa della centralissima via Balbi a pochi metri dall'Università degli Studi e dalla stazione ferroviaria di Genova Piazza Principe. Il giorno dopo, alcuni militanti delle Brigate Rosse sottoposti a processo (fra cui Prospero Gallinari e Renato Curcio) rivendicarono nell'aula torinese l'omicidio del Procuratore Generale, che lasciava moglie e tre figli.

▪ 2007 - Richard McKay Rorty (New York, 4 ottobre 1931 – New York, 8 giugno 2007) è stato un filosofo statunitense.
"La giustificazione, da parte del pragmatista, della tolleranza, della libera indagine, della ricerca di una comunicazione non distorta, può soltanto prendere la forma di un paragone tra società che esemplificano questi abiti e quelle che non li esemplificano, conducendolo al suggerimento che nessuno che le abbia sperimentate entrambe vorrebbe preferire le ultime. " (Solidarity or Objectivity?)

Fra i pensatori statunitensi più noti e discussi Richard Rorty rappresenta lo studioso che più di ogni altro ha spezzato i legami con la filosofia analitica e con la maniera tradizionale di fare filosofa.
Rorty nasce a New York nel 1931. Dopo aver insegnato filosofia a Princeton, è passato al Dipartimento di discipline letterarie dell'Università della Virginia. La sua formazione è avvenuta a Chicago e a Yale, due "bastioni di resistenza", come dirà il suo compagno di studi R. Bernstein, alla dilagante egemonia della filosofia analitica. Circostanza che però non esclude il peso di tale filosofia nella formazione di Rorty, ma che, fin dall'inizio, gli ha permesso di muoversi in orizzonti più vasti. Lui stesso dichiarerà in seguito di dovere molto ad alcuni fra i principali esponenti "eterodossi" della filosofia analitica: W. Sellars, Quine e, in misura minore, Goodman. Altri autori che hanno influito sul suo pensiero sono Kuhn e Davidson.
Nel 1901 appare il suo primo articolo pubblicato, "Pragmatism, Categories and Language", in cui manifesta interesse per Pierce e introduce "temi che avrebbero pervaso il suo lavoro: la tradizione pragmatistica americana e il potere terapeutico dell'ultimo Wittgenstein" (R. Bernstein).
Successivamente, partecipa alle discussioni sul rapporto mente-corpo, approdando ad una prospettiva antidualistica, basata sulla tesi, condivisa da Feyerabend, secondo cui "non ci sono menti, ma soltanto cervelli ".
Nel 1967 pubblica un'ampia raccolta di testi della tradizione analitica, nelle sue varie espressioni e correnti. Nell'introduzione, intitolata "Difficoltà metafilosofiche della filosofia linguistica", Rorty inizia a prendere le distanze da tale tradizione, esaminando, al tempo stesso, una serie di possibili scenari alternativi per la "fine" della filosofia. Egli ritiene che il pensiero analitico, sia quello di matrice neopositivistica, sia quello del linguaggio ordinario, pur non avendo rispettato la promessa di fare, della filosofia, una scienza, abbia pur sempre avuto il merito di attirare l'attenzione sulle difficoltà epistemologiche della filosofia tradizionale: " la cosa più importante che è accaduta nella filosofia degli ultimi trent'anni non è la svolta linguistica come tale, ma piuttosto l'inizio di un ripensamento a tutto campo di certe difficoltà epistemologiche che hanno tormentato i filosofi a partire da Platone e Aristotele " ("La svolta linguistica").
Negli anni Settanta-Ottanta (a partire dal suo grande successo, "La filosofia e lo specchio della natura", 1979), Rorty approda ad una prospettiva radicalmente post-analitica e post-filosofica, caratterizzata da un recupero della tradizione pragmatistica americana (Dewey, James) e da un confronto creativo con l'heideggerismo, l'hegelismo, il nietzscheanesimo, l'ermeneutica, il decostruzionismo, il postmoderno ecc.
Nello stesso tempo, accentua i suoi interessi letterali, confrontandosi non solo con i filosofi, ma anche con gli scrittori (Proust, Nabokov, Orwell ecc). Tra i suoi scritti meritano di essere menzionati: "La svolta linguistica" (1967), "La filosofia e lo specchio della natura" (1979), "Conseguenze del pragmatismo" (1982), "Contingenza, ironia e solidarietà" (1989), "Oggettività, relativismo e verità" (1991), "Saggi su Heidegger e altri articoli filosofici" (1991), "Verità e progresso" (1998). Il lavoro del 1989 è stato tradotto in italiano con il titolo "La filosofia dopo la filosofia". I lavori successivi sono stati raccolti sotto il titolo "Scritti filosofici".

FILOSOFIA, MENTE, CONOSCENZA
L'impegno di Rorty non è quello di escogitare nuove concezioni circa i tradizionali oggetti della filosofia (Dio, l'essere, l'Uomo ecc.), ma quello di sbarazzarsi di un bimillenario modo di filosofare. Al centro della sua riflessione troviamo infatti una serrata polemica contro la Filosofia (la maiuscola designa la tradizione filosofica "ufficiale" a cui egli intende contrapporsi) e un atteggiamento "terapeutico", come egli stesso lo definisce, contro la corrente dominante del pensiero occidentale: " i pragmatisti ritengono che la più grande aspirazione della filosofia è quella di non praticare la Filosofia ". Questa impostazione risulta evidente soprattutto in "La filosofia e lo specchio della natura" : l'immagine canonica della filosofia, dice Rorty in questo scritto, che più di ogni altro ha contribuito alla sua fama di studioso, è quella di un " sapere fondazionale " che giudica la validità di tutte le altre aree della cultura (dalla scienza alla religione, dalla matematica alla poesia) assegnando, ad ognuna di esse, un posto specifico. Tale immagine trova in Kant, e nella sua concezione della filosofia come metacritica delle scienze speciali, il maggior teorico e interprete: " dobbiamo al XVIII secolo, e in particolare a Kant, la nozione della filosofia come tribunale della ragione pura, che conferma o respinge le pretese della cultura restante " ("La filosofia e lo specchio della natura"). In seguito, la ritroviamo nel neokantismo, nella fenomenologia, in Russell, nell'empirismo logico e nella stessa filosofia analitica, che in luogo della critica trascendentale pone l'analisi linguistica:
" Per come la vedo io, il genere di filosofia che discende da Russell e da Frege, proprio come la fenomenologia classica di Husserl, è semplicemente un ulteriore tentativo di mantenere la filosofia nella posizione in cui Kant desiderava porla: quella cioè di giudice delle altre aree della cultura. […] L'empirismo logico era una variante della canonica e accademica filosofia neokantiana incentrata sull'epistemologia. […] La filosofia "analitica" è una variante ulteriore della filosofia kantiana, una variante caratterizzata principalmente dal considerare la rappresentazione come linguistica piuttosto che mentale, e quindi la filosofia del linguaggio come la disciplina che esibisce i "fondamenti della conoscenza", invece della "critica trascendentale" o della psicologia " .
Il presupposto comune di queste dottrine è l'idea della Filosofia come disciplina che possiede una sua specifica e privilegiata via d'accesso ai fondamenti della conoscenza e ai meccanismi della mente: " la filosofia può essere fondazionale nei confronti della cultura restante perché la cultura è la raccolta delle pretese di conoscenza, mentre la filosofia sottopone a giudizio tali pretese. Può fare questo perché comprende i fondamenti della conoscenza e trova questi fondamenti attraverso lo studio dell'uomo-come-soggetto-della-conoscenza, dei "processi mentali" o delle "attività della rappresentazione" che rendono possibile la conoscenza. Conoscere significa rappresentare accuratamente quel che si trova fuori della mente; in tal modo concepire la possibilità e la natura della conoscenza significa capire il modo in cui la mente riesce a costruire tali rappresentazioni. Il compito cardinale della filosofia è quello di costituire una teoria generale della rappresentazione, una teoria che sia in grado di dividere la cultura nelle aree che rappresentano bene la realtà, in quelle che la rappresentano meno bene, e in quelle che non la rappresentano affatto (malgrado la loro pretesa di riuscirci) " . Filosofia, conoscenza e mente sono quindi idee interconnesse: ma di quale "mente" parla, polemicamente, Rorty? Della mente come "specchio", ovvero come occhio immateriale che rappresenta, in modo adeguato o inadeguato, la realtà. Infatti, asserisce Rorty (secondo cui sono le immagini piuttosto che le proposizioni, le metafore piuttosto che le asserzioni a determinare il maggior numero delle nostre convinzioni fìlosofìche), esiste un'immagine che continua a tenere prigioniera la filosofia. È l'immagine della mente " come un grande specchio, che contiene rappresentazioni diverse - alcune accurate, altre no - e può essere studiato attraverso metodi puri, non empirici " (il pensiero corre immediatamente a Kant). Del resto, prosegue Rorty, senza la nozione della mente come specchio non ci sarebbe stata l'idea della conoscenza come rappresentazione accurata e quindi non avrebbero avuto senso gli sforzi di Cartesio e di Kant, volti ad ottenere " rappresentazioni più accurate attraverso l'esame, la riparazione e la pulitura dello specchio ". Nemmeno avrebbero avuto senso, fuori di questa strategia, " le recenti tesi secondo le quali la filosofia consisterebbe di "analisi concettuale", o di "analisi fenomenologica", o di "spiegazione dei significati", o di esame della "logica del nostro linguaggio" oppure della "struttura dell'attività costitutiva della coscienza" ".

DALLA FILOSOFIA ALLA POST-FILOSOFIA
Questa teoria "speculare" o "spettatoriale" della conoscenza (che affonda le sue radici profonde in Platone e nel mondo greco, ovvero in una tradizione di pensiero che ha inteso la conoscenza in termini di metafore visive) oggi risulta in crisi. Infatti, la pretesa di uscire dalle nostre rappresentazioni, per afferrare un punto di vista esterno o neutrale, da cui potersi interrogare circa la legittimità delle rappresentazioni stesse, si è rivelata un semplice mito cartesiano-lockiano-kantiano, ovvero il frutto di una costruzione storica, da cui abbiamo preso irrimediabilmente le distanze. Tant'è che, se la Filosofia tradizionale aveva l'aspetto di un pensiero fondazionalista ed epistemologico (termini che in Rorty sono sinonimi), la post-Filosofia ha l'aspetto di un pensiero antifondazionalista e antiepistemologico (e quindi antikantiano e postkantiano). Del resto, le ambizioni epistemologiche della Filosofia sono state respinte da quelle stesse attività (la scienza, la politica ecc.) che la Filosofìa si proponeva di legittimare. E se Cartesio, Locke e Kant sono stati i fondatori della filosofia moderna, Wittgenstein, Heidegger e Dewey ne sono stati i distruttori. Infatti, dopo aver cercato, in un primo tempo, nuovi modelli di filosofia fondazionale, in un secondo tempo ciascuno di essi consumò il proprio tempo a metterci in guardia contro quelle tentazioni alle quali essi stessi avevano ceduto. Così la loro opera successiva è terapeutica piuttosto che costruttiva. Anche lo scopo di Rorty intende essere terapeutico, ossia volto a "guarire" le menti dalla filosofia e a promuovere la transizione dalla Filosofia alla post-Filosofia. Tuttavia, come risulta chiaro dalle ultime pagine del suo capolavoro, il discorso di Rorty è più articolato di quanto sembri a prima vista. Da un lato, l'autore dichiara la fine della Filosofia, assimilandola a una "malattia culturale" da cui occorre liberarsi, in vista di una nuova età postfilosofìca: " può darsi che l'immagine del filosofo proposta da Kant stia per tramontare com'è tramontata l'immagine medievale del prete " . Dall'altro, egli puntualizza che dopo la Filosofia ci sarà ancora la filosofia, in quanto ad essere finita non è la filosofia tout court , ma la filosofia protesa ad una fondazione sistematica dell'Essere e della Conoscenza: " non c'è pericolo che la filosofia "si esaurisca". La religione non è finita con l'Illuminismo, nè la pittura con l'impressionismo [...] anche se la filosofia del XX secolo si avvia ad apparire come un confuso stadio di transizione [...] ci sarà certamente qualcosa chiamato "filosofia" dopo la transizione " . Convinzione ribadita in un intervento del 1990: " sono spesso accusato di essere un pensatore della "fine della filosofìa", e vorrei cogliere quest'occasione per sottolineare ancora una volta [...] che, semplicemente, la filosofia non è un genere di cosa che possa avere una fine; è un termine troppo vago e amorfo per sopportare il peso di predicati come "inizio" o "fine" " Per quanto concerne il presente, Rorty, dopo aver distinto tra filosofi "normali" e "rivoluzionari", afferma che tra questi ultimi occorre distinguere due tipi: 1) quelli che " fondano nuove scuole all'interno delle quali può essere praticata la filosofia normale e professionalizzata " (ad esempio Cartesio e Kant, Husserl e Russell); 2) quelli che " rifiutano l'idea che il loro vocabolario possa mai essere istituzionalizzato, o che i loro scritti possano essere considerati commensurabili con la tradizione " (ad esempio Kierkegaard e Nietzsche, l'ultimo Wittgenstein e l'ultimo Heidegger). La simpatia di Rorty va esplicitamente a quest'ultima categoria di filosofi, che egli chiama edificanti per distinguerli da quelli sistematici: " i grandi filosofi sistematici sono costruttivi e offrono argomentazioni. I grandi filosofi edificanti sono reattivi e offrono satire, parodie e aforismi [...]! grandi filosofi sistematici, come i grandi scienziati, costruiscono per l'eternità. I grandi filosofi edificanti distruggono a beneficio della loro propria generazione " (La filosofia e lo specchio della natura). Più in particolare, la filosofia edificante, che Rorty accosta all'ermeneutica (per la comune ispirazione storicistica e antiepistemologica), lascia cadere sia l'immagine della filosofia come sapere professionale di tipo specialistico, sia l'idea del filosofo come uno " che conosce alcunché intorno al conoscere che nessun altro conosce altrettanto bene ", e si concretizza in una ricerca dedisciplinarizzata di nuovi dizionari e di nuove maniere di vivere e di pensare. Per queste sue caratteristiche di sapere narrativo, la filosofia re appare protesa a edificare, cioè a formare gli uomini, più che a "conoscere" oggettivate mente il mondo. In questa nuova veste, di tipo etico-formativo, la filosofia, semplice scrittura fra le scritture , non si pone più come espressione privilegiata del sapere, ma come una delle tante voci all'interno della "conversazione" complessiva dell'umanità: " l'impegno morale dei filosofi dovrebbe essere quello di continuare la conversazione dell'Occidente " (La filosofìa e lo specchio della natura). Conversazione che si nutre del dialogo, ossia di una "democrazia dialettica" che vive del confronto costante dei diversi punti di vista, senza pretese di sopraffazione reciproca.

CONTINGENZA, IRONIA E SOLIDARIETA'
Nello scritto "Contingenza ironia e solidarietà" (1989, tradotto in italiano con il titolo "La filosofia dopo la filosofia") Rorty è andato sempre più accentuando la fisionomia storicistica e pragmatistica del suo pensiero. All'idea metafìsica di una descrizione privilegiata della realtà, capace di rispecchiare in modo sovratemporalmente valido l'essenza delle cose egli ha contrapposto l'idea "postmetafisica" di una pluralità mutevole di approcci al reale ossia il concetto della storicità dei vari modelli di comprensione dell'esistente (e quindi dei vari "paradigmi culturali" entro cui il mondo ci è dato) Non esiste, dice Rorty a più riprese, un mitico là fuori, che la nostra mente intesa come essenza rispecchiante, avrebbe il compito di riprodurre poiché la realtà esiste sempre all'interno di una serie di prospettive storicamente e socialmente condizionate che corrispondono a modi diversi di atteggiarsi di fronte al mondo. Alla concezione (metafisica) della verità come "scoperta", Rorty, partendo dall'idea del mondo finalmente perduto, oppone la concezione (pragmatistica) della verità come costruzione umana, connessa a determinate pratiche sociali di giustificazione e di controllo e quindi a determinati valori. Non esiste una verità oggettiva di tipo platonico, cioè esistente al di sopra e indipendentemente dagli uomini. Vero è ciò che una determinata comunità, sulla base di determinate regole storielle di controllo e di verifica, crede, in maniera argomentata, che sia tale. Il punto decisivo dell'opera di Rorty, scrive Aldo G. Gargani, risiede " proprio nel rovesciamento teorico che egli opera quando, in luogo di una legittimazione degli enunciati in rapporto diretto e estensivo ai loro referenti "là fuori", indipendenti dai nostri sistemi simbolici, [ ] propone invece un nuovo modo di guardare ai nostri discorsi, che non devono essere legittimati rispetto ai princìpi o fondamenti già predisposti, ma in relazione a ciò che riteniamo migliore, più utile, più bello da fare e da pensare nell'ambito di una comunità [ ] di valori condivisi e partecipati ". Prospettiva che viene ribadita e radicalizzata nel terzo volume dei Philosophical Papers, in cui Rorty afferma che soltanto "sbarazzandosi" delle teorie tradizionali della verità la filosofia riesce ad assolvere meglio alla sua funzione culturale ed esistenziale. Questo atteggiamento neo-storicistico e neo-pragmatistico, che rifiuta "la nevrotica ansia cartesiana di certezze", si accompagna alla proclamata necessità di una cultura postmetafisica (osservando che "cultura postmetafisica [...] sembra non più impossibile di una cultura postreligiosa ed egualmente desiderabile"). Cultura che, per Rorty porta a termine il processo moderno di secolarizzazione e disincantamento del mondo: "A cominciare dal XVII secolo cercammo di sostituire all'amore per Dio l'amore per la verità trattando il mondo descritto dalla scienza come una semidivinità. A partire dalla fine del XV secolo cercammo di sostituire all'amore per la verità scientifica l'amore per noi stessi, di venerare la nostra natura profonda, spirituale e poetica, trattandola come un'ulteriore semi-divinità. La prospettiva condivisa da Blumenberg, Nietzsche, Freud e Davidson ci chiede di provare a non venerare più nulla, a non considerare niente come una semidivinità a considerare tutte- linguaggio, coscienza, comunità - come un prodotto del tempo e del caso " (La filosofia dopo la filosofìa).
La nuova prospettiva di Rorty ruota intorno a tre parole-chiave: contingenza, ironia e solidarietà. Con il termine contingenza Rorty intende la tesi secondo cui non esistono essenze universali e sovratemporali, ma tutto è socializzazione e quindi circostanza storica . Con il termine ironia intende la posizione di chi riconosce il carattere storico, cioè fugace e contingente, delle proprie convinzioni. Per solidarietà intende l'atteggiamento di chi si batte per diminuire la sofferenza e l'umiliazione degli esseri umani.

DEMOCRAZIA E FILOSOFIA
I tre concetti appena spiegati caratterizzano la nuova figura dell'intellettuale postfilosofico, ossia di ciò che Rorty chiama " l'ironico liberale ". Di fronte allo scontro fra gli studiosi in cui domina il bisogno di autocreazione e di autonomia individuale e gli studiosi in cui risulta preponderante il desiderio di una comunità giusta e solidale, l'ironico liberale invita a non scegliere tra essi ma a dar loro, invece, ugual peso, per usarli poi per scopi diversi: " gli autori come Kierkegaard, Nietzsche, Baudelaire, Proust, Heidegger e Nabokov sono utili in quanto modelli, esempi di perfezioni individuali - di vita autonoma che si è creata da sé. Gli autori come Marx, Mill, Dewey, Habermas e Rawls sono, più che dei modelli, dei concittadini. Il loro impegno sociale, è il tentativo di rendere le nostre istituzioni e pratiche più giuste e meno crudeli " ("La filosofia dopo la filosofia"). Di fronte alle pretese della Filosofia (metafisica) di parlare in nome dell'unica Verità e dell'unico Bene, tramite un platonico attingimento delle essenze universali delle cose (natura umana inclusa), l'ironico liberale afferma il "primato della democrazia sulla Filosofìa ", intendendo sostenere, con questa espressione, che le pretese assolutistiche della Filosofia (tradizionale) vanno ripudiate, in quanto risultano strutturalmente inconciliabili con gli assetti pluralistici e democratici delle società avanzate: " quando entrano in conflitto, la democrazia ha la precedenza sulla filosofia ". Nelle democrazie nessuno può ergersi a custode dell'unico Vero e dell'unico Bene e nessuno può pretendere di imperli agli altri, alla maniera dei guardiani platonici. Contrariamente a quanto si afferma talora, il prospettivismo di Rorty non coincide affatto con una forma estrema di relativismo culturale. Infatti, di fronte all'anti-etnocentrismo di coloro che, partendo dal postulato antropologico dell'equivalenza di tutte le culture, rinunciano a difendere i valori della propria cultura, Rorty afferma un "etnocentrismo moderato " che, pur essendo consapevole del carattere locale di determinati valori dell'Occidente (libertà, uguaglianza di diritti, pluralismo ecc.), ne afferma la validità transituazionale, cioè l'universalità di diritto: "l'anti-antietnocentrismo sollecita [...] ad accettare con assoluta serietà il fatto che gli ideali della giustizia procedurale e dell'eguaglianza umana sono sviluppi culturali provinciali, recenti ed eccentrici e a rendersi conto che non per questo vale meno la pena di battersi per essi; insiste sul fatto che gli ideali possono essere locali e legati a una cultura e ciò nondimeno costituire la più grande speranza della specie" ("Scritti filosofici").

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