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Il calendario dell'8 Agosto

Fonte:
CulturaCattolica.it

Eventi

▪ 1381 - Repubblica di Genova e Repubblica di Venezia firmano la Pace di Torino

▪ 1588 - Fine della battaglia di Gravelines - Sconfitte dagli inglesi durante un tentativo di invasione, le parti sopravvissute dell'Armada spagnola iniziano a navigare verso casa. Solo 67 delle 130 navi iniziali raggiungeranno la Spagna, la gran parte in cattive condizioni

▪ 1647 - Battaglia di Dangan Hill - Le forze irlandesi vengono sconfitte dalle forze parlamentari britanniche

▪ 1786 - Il Monte Bianco viene scalato per la prima volta da Michel Gabriel Paccard e Jacques Balmat

▪ 1806 - Nel Regno di Napoli è abolito il feudalesimo come istituzione giuridica

▪ 1844 - Durante un incontro tenutosi a Nauvoo, il Quorum dei Dodici, diretto da Brigham Young, viene istituito come organo principale della Chiesa mormone

▪ 1848 - La città di Bologna caccia, dopo una rivolta popolare, gli Austriaci, che si ritirano a nord del fiume Po

▪ 1849 - I patrioti italiani Ugo Bassi e Giovanni Livraghi sono fucilati dagli austriaci a Bologna.

▪ 1863 - Guerra di secessione americana: a seguito della sua sconfitta nella Battaglia di Gettysburg, il Generale Robert E. Lee invia una lettera di dimissioni al presidente confederato Jefferson Davis, che le respinge immediatamente

▪ 1876 - Thomas Edison ottiene un brevetto per il suo mimeografo

▪ 1888 - Battaglia di Saganeiti, Eritrea: la colonna italiana comandandata dal generale Cornacchia viene sconfitta da soverchianti forze irregolari abissine

▪ 1900 - Durante il Congresso internazionale dei matematici che si tiene a Parigi, David Hilbert presenta i suoi famosi problemi

▪ 1918 - Prima guerra mondiale: battaglia di Amiens - Le truppe canadesi, appoggiate dagli australiani, iniziano una serie quasi ininterrotta di vittorie che li spingerà oltre la linea del fronte tedesco. Il Generale tedesco Erich Ludendorff chiamerà in seguito questo giorno il "giorno nero dell'esercito tedesco"

▪ 1919 - L'esercito polacco occupa Minsk

▪ 1929 - Il dirigibile tedesco LZ 127 Graf Zeppelin inizia un volo in cui compirà il giro del mondo (terminerà il 29 agosto)

▪ 1938 - Viene aperto il campo di concentramento di Mauthausen

▪ 1942 - Seconda guerra mondiale: a Washington, sei aspiranti sabotatori tedeschi vengono giustiziati (altri due che avevano collaborato con le autorità verranno condannati all'ergastolo)

▪ 1945

  1. - Lo Statuto delle Nazioni Unite viene ratificato dagli Stati Uniti, che diventano la prima nazione a entrare nella nuova organizzazione internazionale
  2. - Seconda guerra mondiale - L'Unione Sovietica dichiara guerra all'Impero giapponese e invade la Manciuria con più di un milione di soldati. Questa azione spinge l'imperatore Hirohito ad implorare il Consiglio di guerra di riconsiderare la resa

▪ 1949 - Il Bhutan diventa indipendente

▪ 1956 - In Belgio, nella piccola città mineraria di Marcinelle, scoppia un incendio nella miniera di carbone. Moriranno 262 lavoratori di 12 nazionalità diverse, la maggior parte (136) sono italiani

▪ 1963 - Assalto al treno postale Glasgow-Londra: nel Regno Unito, una banda di 15 rapinatori ruba 2,6 milioni di sterline in banconote

▪ 1967 - Viene fondata l'Associazione delle Nazioni del Sudest Asiatico (ASEAN)

▪ 1974 - Scandalo Watergate: il presidente statunitense Richard Nixon annuncia il suo abbandono (effettivo dal 9 agosto)

▪ 1989 - STS-28: lo Space Shuttle Columbia decolla per una missione militare segreta di cinque giorni

▪ 1991 - Polonia: Cade a Konstantynów l'antenna radio più alta del mondo mai costruita prima alta 646,38 m

▪ 2000 - Il sottomarino confederato H.L. Hunley viene riportato in superficie dopo 136 anni passati sul fondale marino

▪ 2008
  1. - La data corrisponde a 08/08/08, nella mitologia cinese l'8 è il numero degli immortali
  2. - Prendono il via le Olimpiadi di Pechino
  3. - Inizia la guerra tra la Georgia e l'Ossezia meridionale appoggiata dalla Russia, si parla di più di 1400 morti nel primo giorno di conflitto

Anniversari

▪ 117 - Marco Ulpio Nerva Traiano (latino: Marcus Ulpius Nerva Traianus; Italica, 18 settembre 53 – Selinus in Cilicia, 8 agosto 117) è stato un imperatore romano dal 98 al 117. Sotto il suo comando supremo l'Impero raggiunse la sua massima estensione territoriale. Il suo titolo completo era IMPERATOR • CAESAR • DIVI • NERVAE • FILIVS • MARCVS • VLPIVS • NERVA • TRAIANVS • OPTIMVS • AVGVSTVS • FORTISSIMVS • PRINCEPS • GERMANICVS • DACICVS • PARTHICVS • MAXIMVS.

Il principato (98-117)
Politica interna

Amministrazione interna e provinciale
Il popolo di Roma salutò il suo nuovo imperatore con grande entusiasmo, ed egli seppe essere riconoscente e degno di tale onore governando bene e senza i bagni di sangue che avevano caratterizzato il regno di Domiziano. Traiano si trovava a Colonia quando la notizia della sua nomina lo raggiunse, a seguito di una gara di messaggeri vinta da suo cugino e futuro successore Adriano. Diventava Imperatore il 27 gennaio 98, all'età di quarantacinque anni. Fu il primo Imperatore non italico, poiché nato in Hispania. Il dominio romano rivelava così una nuova svolta: la penisola italica stava perdendo il suo ruolo centrale nella politica romana. Una volta divenuto Imperatore non si recò subito nella capitale, ma si limitò a sostituire alcuni uomini infidi, a punire i pretoriani coinvolti nella rivolta contro il predecessore, riducendo della metà il tradizionale donativo per celebrare l'ascesa al trono. Entrò in Roma due anni dopo, dopo aver sistemato le cose sul confine romano.
Liberò molta gente che era stata ingiustamente imprigionata da Domiziano e restituì una gran quantità di proprietà private che Domiziano aveva confiscato; procedura già iniziata da Nerva prima della sua morte. La sua popolarità fu tale che il senato gli concesse il titolo onorifico di optimus, "il migliore".
Il senatore Plinio gli rivolse, durante la cerimonia in senato, un interminabile panegirico in cui chiese inoltre che al Senato fosse concesso un maggior coinvolgimento nella conduzione degli affari dell'amministrazione pubblica dello Stato. Traiano accolse alacremente queste richieste, e chiamò molti dei “padri coscritti” (senatori) a governare le province romane. Tuttavia mantenne saldo su di essi un controllo molto forte, occupandosi scrupolosamente dei bisogni delle varie Provincie ed arrogandosi, per esempio, i permessi per l'edificazione di edifici ad uso pubblico. Questo gli consentì di smascherare e punire molti Senatori rei del reato di concussione, che avevano approfittato della politica indulgente del precedente Imperatore Nerva. Traiano si avvalse di un organo giudicante creato da lui allo scopo di indagare su questi reati, il Consilium Principis, del quale fecero parte tra i migliori giuristi dell'epoca. Numerosi furono gli indagati per casi di malgoverno delle provincie, sebbene il Senato stesso abbia poi emanato sentenze generalmente favorevoli.
Lo storico romano Cassio Dione Cocceiano ci ha tramandato la notizia che Traiano fosse aduso ad intrattenere rapporti sessuali sia con donne che con maschi e amasse molto il vino, trovandosi non di rado in stato di ubriachezza.
D'altra parte fu uno degli imperatori più seri e corretti, caratteristiche che ne facevano un ottimo princeps che sapeva gestire al meglio gli affari della res publica. Non fu mai corrotto dal potere e non usò mai il suo titolo e il suo potere per scavalcare la legge, anzi riconobbe sempre il primato di quest'ultima anche sopra la sua carica. Eliminò tutti quei rituali decadenti tipici di un monarca orientale come l'abbraccio del piede, il baciamano, il palanchino ondeggiante con i battistrada. Seppe farsi amare da tutti, in particolare dalle due parti sociali più importanti: il Senato e l'esercito. Era un conservatore, convinto che il progresso derivasse più da una oculata amministrazione che da imponenti riforme.

Traiano il Costruttore
L'impero, che fino a quel momento si era in continuazione ampliato, sotto Traiano finalmente impegnò le sue risorse per il miglioramento delle condizioni di vita piuttosto che sulle nuove conquiste. Traiano rafforzò la viabilità restaurando le principali strade che si diramavano dall'Urbe collegandola al resto dell'Impero. Costruì ex novo il celeberrimo porto di Traiano esagonale nella zona di Fiumicino (i cui resti sono ancor oggi imponenti) che collegava Roma con le regioni occidentali dell'Impero. L'opera fu senz'altro tra le più importanti per la Città, che ovviò così ai suoi problemi di approvvigionamento ormai fuori dalla portata del già esistente "Porto di Claudio". Incaricato al progetto fu l'architetto Apollodoro di Damasco; i lavori durarono dal 100 al 112, con la creazione di un bacino di forma esagonale con lati di 358 metri e profondo 5 metri (al contrario della trascuratezza degli ingegneri di Claudio), con una superficie di 32 ettari e 2000 metri di banchina. Fu costruito un ulteriore canale, ed il collegamento ad Ostia fu assicurato da una strada a due corsie lastricata. Ampliò il porto di Ancona con la costruzione di un molo per facilitare la navigazione verso l'Oriente, molo che fu ornato da un arco; curò un nuovo tragitto per la via Appia verso il porto di Brindisi, che partiva da un altro arco edificato a Benevento. Attuò una serie di bonifiche nell'Agro Pontino nella regione delle Paludi Pontine; vennero così strappati numerosi terreni agli acquitrini.
A Roma rinnovò il centro cittadino con la costruzione di un immenso foro e di edifici in laterizio ad esso contigui, destinati alla pubblica amministrazione, che si appoggiavano al taglio delle pendici del Quirinale e della sella montuosa tra questo e il Campidoglio. Lo straordinario complesso del foro Traianeo risolse i problemi di congestione e sovraffollamento dell'area nel centro della città antica attorno alla Via Sacra. Le dimensioni straordinarie dell'opera (anche questa supervisionata da Apollodoro di Damasco) erano tali da emulare in grandezza quella di tutti gli altri fori messi insieme. Oltre alla pubblica Basilica Ulpia, la piazza, i colonnati, gli uffici, le biblioteche, e il tempio del divo Traiano, eresse nel suo foro la Colonna Traiana come celebrazione delle sue conquiste militari nella campagna di Dacia, ancor oggi uno dei simboli dell'eternità di Roma. Alta 30 metri circa e larga 4, in origine colorata, all'interno una scala a chiocciola porta sulla cima. All'esterno si avvolge a spirale sulla colonna un fregio di 200 metri largo 1 con scolpite più di 2000 figure in bassorilievo. La colonna era sormontata da una statua dell'imperatore (sostituita nel 1588 da una di san Pietro), e alla base venne collocata l'urna cineraria d'oro contenenti le ceneri del defunto imperatore che ebbe l'onore eccezionale di essere seppellito dentro le mura della città (l'urna d'oro venne trafugata dai Visigoti nel sacco di Roma (410) e se ne persero le tracce).
A Traiano si deve la costruzione di un altro acquedotto che aumentava ulteriormente la portata dei rifornimenti idrici in Roma, che erano già abbondantemente assicurati dagli acquedotti costruiti in precedenza e soprattutto da quello noto come Anio Novus (costruito sotto Claudio). I lavori iniziarono nel 109, la struttura avrebbe dovuto raccogliere le acque delle sorgenti sui monti Sabatini, presso il lago di Bracciano (lacus Sabatinus). La lunghezza complessiva era di circa 57 km e la portata giornaliera di circa 2.848 quinarie, pari a poco più di 118.000 m3. Raggiungeva la città con un percorso in gran parte sotterraneo lungo le vie Clodia e Trionfale e poi su arcate lungo la via Aurelia. Arrivava a Roma sul colle Gianicolo, sulla riva destra del fiume Tevere. L'estensione della rete idrica fu incentivata non solo a Roma, ma anche in Dalmazia, nella natia Spagna e in oriente, cioè laddove i climi aridi richiedevano maggiori approvvigionamenti idrici. A Roma Traiano fece ampliare i canali sotterranei e i cunicoli della Cloaca Massima per il deflusso più efficiente delle acque piovane e delle acque reflue che venivano scaricate nel Tevere. Quest'ultimo poi venne rinforzato con argini e canali lungo tutto il suo perimetro più a rischio in modo da evitare straripamenti da parte del fiume della Città. Per lo svago e il piacere della plebe, Traiano fece eseguire alcuni dei lavori che danno a Roma l'aspetto che grossomodo hanno tutti nell'immaginario comune della Città. Fece ricostruire e ampliare definitivamente il Circo Massimo del quale i primi tre anelli alla base della struttura furono eretti con calcestruzzo e rivestiti da mattoni e marmi, solo l'anello superiore rimase in legno; la struttura divenne sicura e antincendio, favorendo la costruzione di botteghe e negozi ai suoi lati. Sul colle Oppio fece erigere delle grandiose terme sui resti della Domus Aurea di Nerone; si accedeva da un grande propileo che immetteva direttamente alla natatio, la piscina a cielo aperto. Sulla riva destra del Tevere dove sorge l'attuale Castel Sant'Angelo fece realizzare un'area per le naumachie (riproduzione di battaglie navali). Gli sforzi edilizi dell'imperatore non si concentrarono solo sulla Capitale, ma su tutto l'impero.
In Egitto collegò il Nilo al Mar Rosso con un grande canale (fiume Traiano). Fondò molte colonie qua e là per l'Impero. In Dacia (dopo averla sottomessa) favorì la colonizzazione e la fondazione di nuove colonie che romanizzarono rapidamente la provincia. La Colonia Ulpia Traiana sorse sulle ceneri della barbara Sarmizegetusa Regia. Fece costruire molti ponti, tra i più famosi ricordiamo quello sul Tago nei pressi della città spagnola di Alcantara e, il più lungo, sul Danubio presso Drobeta, costruito in occasione della campagna di Dacia (1.135 m); costruito col duplice intento di garantire una via di rifornimento per le legioni che avanzavano e di terrorizzare e scoraggiare i nemici di fronte ad una simile dimostrazione di superiorità tecnologica, logistica e militare.

Traiano uomo di stato
Traiano non concentrò le sue energie e quelle dell'Impero solo su campagne militari e costruzioni di edifici pubblici. Fu anche un oculato statista e filantropo, interessato alle condizioni dei suoi cittadini e pertanto attento nelle riforme sociali e politiche. Egli, infatti, in materia giudiziaria diminuì i tempi dei processi, proibì le accuse anonime, acconsentì il risvolgimento del processo in caso di condanna in contumacia e proibì le condanne in mancanza di prove solide o in presenza di qualsiasi dubbio. In materia economica e sociale trovò modo di organizzare la burocrazia e promulgò leggi a favore della piccola proprietà contadina, la cui base era minacciata dall'estendersi del latifondo. Traiano favorì il ripopolamento di liberi contadini nella penisola, investendo capitali e fornendo ai coloni i mezzi per il sostentamento e il lavoro nei campi; in cambio i coloni si impegnavano a versare una parte dei raccolti come saldo del debito. Questo sistema, noto come colonato, aveva bisogno del controllo da parte dello stato affinché potesse funzionare. Da un lato bisognava impedire che gli esattori delle imposte depredassero i coloni o che i latifondisti esigessero più del dovuto riducendo alla miseria e alla semischiavitù i contadini; dall'altro bisognava difendere i coloni dai briganti e gli invasori che avrebbero potuto devastare le terre costringendoli all'abbandono delle campagne e a riversarsi in città lasciando le terre incolte. Per ovviare al declino dell'agricoltura italica impose ai senatori di investire in Italia almeno un terzo dei loro capitali. Pose dei limiti all emigrazioni dalla penisola, tentando di incentivare la presenza del ceto imprenditore e della manodopera in un'Italia che stava perdendo la sua centralità e che stava per avviarsi ad una fase di declino. Traiano fece bruciare i registri delle tasse arretrate (raffigurato in quest'atto nei Plutei della Curia) per alleggerire la pressione fiscale sulle province e abolì alcune tassazioni che gravavano sui provinciali e gli italici; poté così creare una sorta di cassa risparmio popolare che concedeva prestiti ai piccoli contadini e imprenditori romani che beneficiarono così di larghe concessioni; vennero poi favorite le prime cooperative e associazioni dei mestieri.
Traiano fu soprattutto un grande filantropo e protettore della gioventù romana. Per ovviare alla miseria dei ceti più bassi fece istituire l'Institutio Alimentaria. Con quest'ultimo provvedimento Traiano sacrificò parte del suo patrimonio personale per assicurare a centinaia di bambini e giovani bisognosi il sostentamento. Sull'Arco di Traiano di Benevento è raffigurata la distribuzione di viveri alla popolazione e soprattutto ai bambini poveri in base alla Institutio Alimentaria. Così pure dei rilievi sono conservati nel Foro Romano, riferentisi all'istituzione degli «Alimenta Italiae» in favore dei «pueri et puellae alimentari». Con i ricavati e i proventi delle riforme attuate, Traiano edificò collegi e orfanotrofi per i figli illegittimi e gli orfani dei suoi soldati garantendo loro un sussidio mensile e un'istruzione adeguata. Così facendo, l'imperatore garantì agli imperatori successivi un ceto dirigente abile e capace. I problemi economici vennero risolti con le campagne militari, che avevano il doppio intento di pacificare i confini e reperire l'oro e l'argento necessari per le costruzioni, le riforme e per colmare il deficit economico degli imperatori precedenti. Il suo successore, Adriano, si trovò a reggere le sorti di un impero economicamente in attivo.

Politica estera
La conquista della Dacia (101-106)

Nonostante ciò Traiano è più conosciuto nella storia come conquistatore. Nel 101, lanciò una spedizione verso il regno di Dacia, sulla riva settentrionale del Danubio, e, l'anno seguente, costrinse il re Decebalo a sottomettersi a lui dopo essersi accampato a pochi km dalla capitale, Sarmizegetusa Regia. Traiano quindi tornò a Roma in trionfo e gli fu accordato il titolo di Dacicus maximus.
Tuttavia, Decebalo iniziò subito a tramare premendo ancora sulle frontiere e cercando di raggiungere i vicini regni sulla riva settentrionale del Danubio per unirsi a loro. Traiano scese di nuovo in campo, e partendo da Ancona arrivò sulle rive del Danubio. Le fonti parlano di 13 legioni mosse per sottomettere definitivamente quella terra ricca d'oro e quel popolo che durante il regno di Domiziano aveva messo la Mesia a ferro e fuoco. L'esercito Romano accampato sul Danubio atterrì l'animo dei Daci facendo costruire un ponte (il ponte di Traiano) sul fiume per spostare le legioni (impresa molto simile per altro a quella di Cesare con Ariovisto). L'architetto, Apollodoro di Damasco sembra abbia edificato questo mostro dell'architettura di 1070m col duplice scopo di far attraversare il Danubio e scoraggiare i nemici. Nonostante la forza e la veemenza dei Daci (costoro erano talmente fanatici che se non cadevano in battaglia si suicidavano per il loro dio Zalmoxis) l'avanzata dell'esercito di Roma fino alla capitale Sarmizegetusa Regia non subì intoppi grazie alla sua superiorità numerica e logistica, e alle tattiche ormai consolidate da secoli di guerre e assedi. (La collaudata testuggine, per esempio, fu il nerbo delle tattiche di assedio in Dacia. In occasione di queste battaglie, però, Traiano introdusse una nuova arma, il carrobalista, ovvero l'antenato del cannone da campagna, un mezzo che univa la mobilità necessaria in battaglia ad una grande potenza e che contribuì alla vittoria romana). Sarmizegetusa Regia fu distrutta, Decebalo si suicidò, e sul posto dell'antica capitale Traiano fondò una nuova città, Ulpia Traiana Sarmizegetusa, popolò la Dacia con coloni romani e la annetté come provincia all'impero.Nonostante sia stata l'ultima provincia conquistata dall'impero romano, ebbe un processo di "romanizzazione" più veloce rispetto alle altre, sia nei costumi che nella lingua,prova ne è che quella provincia assunse il nome di Romania. Queste imprese furono celebrate nel fregio della Colonna di Traiano in Via dei Fori imperiali a Roma.

Conquista dell'Arabia e carteggio con Plinio "il giovane"
Nello stesso periodo, il regno dei Nabatei (Arabia nord occidentale) finì con la morte del suo ultimo re. Quando nel 101 re Agrippa II morì senza successori diretti, lasciò in eredità il suo regno a Traiano, così, mentre la Dacia veniva conquistata, l'impero acquisiva quella che sarebbe divenuta la provincia di Arabia (per la geografia odierna si tratta della parte meridionale della Giordania e di una piccola parte dell'Arabia Saudita). Il piccolo regno fu inglobato nella provincia romana di Giudea. Intorno al 106 Traiano decise di consolidare il possesso di quella piccola striscia di terra tramite l'annessione del Regno dei Nabatei. In questo modo si assicurò un collegamento continuo dall'Egitto alle province asiatiche. Tutto il Mediterraneo era da quel momento in mano ai Romani, i quali lo considerarono a ragion veduta "un lago privato", conferendogli il titolo di "mare Nostrum". Giudea e Arabia Nabatea sarebbero state due eccellenti piattaforme di partenza per le future campagne orientali di Traiano.
Per i successivi otto anni, Traiano non si occupò di imprese militari cogliendo però ugualmente molti successi. Durante questo periodo ebbe una corrispondenza con Plinio "il giovane", dal 111 al 113 governatore della Bitinia, su varie tematiche politico-amministrative (si trattava, tecnicamente, di un rescritto); spicca il carteggio relativo al trattamento da riservare ai cristiani, nel quale l'Imperatore suggeriva di non praticare un'indiscriminata repressione, ma di punirli solo in presenza di prove certe dell'adesione a questa religione o qualora essi non abiurassero. Costruì molti nuovi edifici, monumenti e strade in Italia e nella nativa Spagna, compreso lo stupendo Foro di Traiano i cui resti sono ancor oggi visibili a Roma.

Le campagne orientali (114-117)
Nel 113, Traiano decise di procedere all'invasione del regno dei Parti. Il motivo, che l'imperatore addusse per giustificare la sua ultima campagna, fu la necessità di porre rimedio alla provocazione rappresentata dalla decisione dei Parti di porre un re sul trono di Armenia, senza chiedere il consenso dei Romani. L'Armenia era lo stato cuscinetto tra Roma e i Parti. Un regno su cui fin dal tempo di Nerone, 50 anni prima, l'Impero romano tentava di stabilire la sua egemonia nel suo confronto politico e militare con i Parti. Traiano per prima cosa marciò sull'Armenia, depose il re, e procedette ad inglobare i territori del regno all'Impero romano. Poi si diresse a sud contro la Partia stessa, conquistando le città di Babilonia, Seleucia ed infine la capitale Ctesifonte nel 116. Continuò poi verso sud fino al Golfo Persico, dove dichiarò la Mesopotamia nuova provincia dell'impero, lamentandosi di essere troppo vecchio per seguire le orme di Alessandro Magno.
Non solo tutta la Mesopotamia era occupata ma le avanguardie dell'armata romana, comandate da Luiso Quieto si protendevano verso le prime catene montuose della Persia. Ma la conquista non era ancora ben salda, la vastità dei territori occupati e la presenza di sacche di resistenza e la tattica della guerriglia con arcieri a cavallo, usata dai Parti, la mettevano in pericolo. Nel 116, Traiano, conscio delle difficoltà, pensò di dover adottare le armi della politica, facendo salire sul trono dell'impero partico un re suo vassallo: il giovane Partamaspate.
Fu allora che la fortuna in guerra e la salute tradirono Traiano. La città fortificata di Hatra, sul Tigri resistette all'assedio imperiale, provocando numerosi morti nelle file degli assedianti romani. E non solo, in Giudea e in Siria scoppiarono sanguinose rivolte. Traiano fu costretto a spostare le sue armate verso ovest, attestando le truppe non più lungo l'Eufrate, ma a ridosso del Tigri, proprio per reprimere le ribellioni. Probabilmente lui vedeva tutto questo come una semplice battuta di arresto, ma il destino gli avrebbe precluso la possibilità di condurre nuovamente l'esercito romano verso oriente.

La successione
Più tardi, nel 116, mentre era in Cilicia preparando un'altra guerra contro la Partia, Traiano si ammalò. La sua salute declinò durante la primavera e l'estate del 117, finché il 8 agosto morì a Selinunte (Seliki) in Cilicia. Non è certo che abbia effettivamente nominato Adriano suo successore, di cui conosceva le differenze caratteriali rispetto a sé. La moglie Plotina deve comunque aver certamente contribuito in qualche modo alla sua elezione ad imperatore, se Traiano lo ha effettivamente adottato in punto di morte. Adriano, all'inizio del suo regno, rinunciò in Mesopotamia al dominio sui Parti. Tuttavia furono conservati tutti gli altri territori conquistati da Traiano. Le ceneri dell'Optimus vennero raccolte in un'urna d'oro, posta dentro la Colonna Traiana, derogando all'antica legge che impediva le sepolture all'interno del perimetro cittadino. L'urna venne in seguito trafugata durante le invasioni barbariche, e se ne persero le tracce, essendo stata presumibilmente fusa.

Il mito dell'Optimus Princeps
Per il resto della storia dell'Impero Romano e per buona parte di quella dell'Impero Bizantino, ogni nuovo Imperatore dopo Traiano veniva salutato dal Senato con l'augurio: possa tu essere più fortunato di Augusto e migliore di Traiano (Felicior Augusto, melior Traiano!). In epoca medievale, si diffuse la leggenda secondo la quale papa Gregorio Magno, colpito dalla bontà dell'Imperatore, avrebbe ottenuto da Dio la sua resurrezione per il tempo necessario ad impartirgli il battesimo. Dante riporta questa leggenda nella Divina Commedia, ponendo Traiano in Paradiso, nel Cielo di Giove, e precisamente fra i sei spiriti giusti che formano l'occhio della mistica aquila.
Molti aneddoti circondano la figura di Traiano, uno di questi vuole che una vedova lo abbia fermato mentre si dirigeva verso la Dacia per la sua campagna. Questa in lacrime lo fermò implorandolo di renderle giustizia, trovando e punendo giustamente il colpevole della morte del figlio. Traiano la rassicurò dicendo che avrebbe provveduto al caso al suo ritorno. Al che la vedova gli ricordò che sarebbe potuto non tornare, quindi Traiano le garantì che in quel caso ci avrebbe pensato il suo erede-successore in sua vece. La vedova allora gli fece notare che in quel caso non avrebbe mantenuto la sua promessa, perché non ci avrebbe pensato lui di persona e anche se le fosse stata resa giustizia non sarebbe stato per merito suo. Traiano allora smontò da cavallo, cercò e punì il colpevole, rese giustizia alla vedova e ripartì per la guerra. Anche questa vicenda è ripresa da Dante nel canto X del Purgatorio come esempio di umiltà.
Un altro descrive una matrona che andò da Traiano accusando il marito di maltrattamenti e di averla ridotta in povertà: "Vedi", gli disse "come sono ridotta? Un tempo ero grassa e ora, per i cattivi trattamenti di lui, sono sparuta e magra. E si è mangiato tutto il mio avere!" "E che importa a me di questo?" rispose l'imperatore. "Non è tutto", riprese la donna, "dice sempre male del tuo governo e critica aspramente ogni cosa che fai". E l'imperatore: "E che importa a te di questo?"
Proprio per essere più vicino al popolo romano, Traiano fece scrivere sulla porta della sua residenza Palazzo Pubblico, perché ognuno potesse entrarvi liberamente. Addirittura, egli era solito ricevere, di persona e senza appuntamento, chiunque volesse ottenere da lui giustizia. Da qui deriva un altro celebre aneddoto: alle rimostranze del suo segretario che si lamentava del fatto che il suo padrone si fidasse troppo incautamente di tutti, Traiano rispose: "Tratto tutti come vorrei che l'Imperatore trattasse me, se fossi un privato cittadino".
Diversamente da quanto avvenne per molti apprezzati governanti nella storia, l'ottima reputazione di Traiano è rimasta intatta per 1900 anni fino ad oggi.

▪ 1849 - Ugo Bassi (Cento, 12 agosto 1801 – Bologna, 8 agosto 1849) è stato un patriota italiano del Risorgimento.
Nacque nel 1801 da Luigi Sante Bassi, impiegato della dogana pontificia e da Felicita Rossetti, cameriera originaria di San Felice.
Nonostante l'opposizione paterna, sembra a causa di una delusione amorosa, ancora giovane divenne novizio barnabita e nel 1821 pronunciò i voti a Roma, nella chiesa di San Carlo. Nell'ordine barnabita conobbe Alessandro Gavazzi di cui divenne grande amico.
Era un predicatore piuttosto famoso, e nei suoi lunghi e numerosi viaggi per l'Italia, vivendo sempre in povertà, fu seguito spesso da molte persone attratte dalla sua eloquenza.
Durante i moti rivoluzionari del 1848 non ebbe esitazioni ad unirsi alle forze di Papa Pio IX per difendere l'Italia con acceso patriottismo e diffondere lo spirito rivoluzionario fra soldati e popolazione.
Fu ferito a Treviso il 12 maggio 1848 e portato a Venezia, dove dopo la sua guarigione combatté per la Repubblica di San Marco. Successivamente tornò a Roma dove vide la nascita della Repubblica Romana.
Nella ritirata di Roma, giunse nella Repubblica di San Marino con Garibaldi, Nullo, Ciceruacchio, Livraghi ed altri; partito da San Marino e separatosi dagli altri cadde con Livraghi, nei pressi di Comacchio nelle mani degli austriaci, il 2 agosto. Trasferito a Bologna la sera del 7 agosto, venne fucilato senza nessun processo ed in grande fretta l'8 agosto 1849, vicino alla Certosa, dagli austriaci insieme a Giovanni Livraghi.
Alla morte aveva quarantotto anni. Il 18 agosto 1849 gli austriaci, per impedire che la popolazione di Bologna manifestasse i propri sentimenti di approvazione ed affetto sulla tomba del Bassi, riesumarono il suo corpo occultandolo nel cimitero della Certosa. La città di Bologna ha intitolato ad Ugo Bassi, giustiziato per aver combattuto per un'Italia unita, libera e democratica, una delle vie principali del centro. Lo stesso ha fatto Padova, dedicandogli una recente via presso un complesso di edifici universitari in zona "Piovego". La sua appartenenza alla Massoneria è affermata dal Gran Maestro Umberto Cipollone[1], ma è discussa dalla storico Rosario F. Esposito [2].

Note
1. Umberto Cipollone, Giosuè Carducci "Massone", Napoli, 1957, pag.5.
2. Rosario F. Esposito, La Massoneria e l'Italia, Roma, 1979, pag. 243.

▪ 1855 - Guglielmo Pepe (Squillace, 13 febbraio 1783 – Torino, 8 agosto 1855) è stato un patriota e generale italiano nell'esercito del Regno delle Due Sicilie, sposato con Marianna Coventry (Scozia - Taranto, 9 marzo 1865) e fratello di Florestano Pepe.
Entrato nell'esercito, in giovane età nella Scuola Militare Nunziatella, nel 1799 accorse a Napoli a difesa della Repubblica Partenopea. Subendo la sconfitta contro le truppe borboniche del cardinal Ruffo, venne catturato ed esiliato in Francia dove entrò nell'esercito di Napoleone distinguendosi in molte battaglie, sia al servizio di Giuseppe Bonaparte, re di Napoli, che di Gioacchino Murat. Prese parte alla rivoluzione napoletana del 1820, e fu sconfitto ad Antrodoco (allora appartenente alla provincia di L'Aquila oggi provincia di Rieti) dagli austriaci del generale Johann Maria Philipp Frimont in quella che è ricordata la prima battaglia del risorgimento (7 marzo 1821). Poi comandò il corpo spedito da Ferdinando II contro gli austriaci nel 1848, impegnandosi nella difesa di Venezia affidatagli da Daniele Manin nel 1848 e 1849. Nuovamente sconfitto ed esiliato emigrò a Parigi quindi rientrò in Italia passando i suoi ultimi giorni a Torino. Fu una delle più nobili figure del risorgimento italiano, celebre anche perché non solo si impegnò nei movimenti repubblicani, ma anche scrisse numerosi libri per raccontare gli eventi ed esortare ad una "lotta partigiana" per l'Italia.

▪ 1889 - Benedetto Angelo Francesco Cairoli (Pavia, 28 gennaio 1825 – Napoli, 8 agosto 1889) è stato un politico italiano. Fu garibaldino, rifugiato politico e cospiratore anti-austriaco, deputato al Parlamento, Presidente del Consiglio dei ministri italiano nei periodi 24 marzo 1878 - 19 dicembre 1878 e 14 luglio 1879 - 29 maggio 1881.

▪ 1921 - Suor Maria Margherita Caiani, al secolo Maria Anna Rosa Caiani (Poggio a Caiano, 2 novembre 1863 – Firenze, 8 agosto 1921), è stata una religiosa italiana, fondatrice della congregazione delle Minime Suore del Sacro Cuore.
Il 23 aprile 1989 è stata proclamata beata a Roma da Papa Giovanni Paolo II.

La vita
Maria Anna Rosa Caiani, nacque il 2 novembre 1863 a Poggio a Caiano da Jacopo, fabbro e fontaniere nella villa medicea e da Luisa Fortini. Terza di cinque fratelli, Marianna (così veniva chiamata in famiglia) venne battezzata a Bonistallo nella Chiesa di Santa Maria Assunta a Bonistallo ed ebbe la possibilità di crescere in una famiglia serena e pervasa da una grande fede, anche se ebbe presto modo di conoscere le sofferenze della vita.
Il fratello più piccolo, Gustavo, rimase infermo per sette anni in seguito alla frattura di un'anca e fu proprio Marianna a consolarlo, accudirlo e curarlo fino alla morte che avvenne quando Gustavo aveva solo 11 anni. Marianna, allora sedicenne, da quel momento iniziò a occuparsi ed ad aiutare i malati del paese, spinta da un'umiltà e da una luce interiore sempre crescente. Qualche anno dopo la famiglia Caiani fu colpita da un'altra tragedia: la morte improvvisa di papà Jacopo che spinse Marianna a dover aiutare il fratello Osea in una bottega di tabacchi. Appena sei anni dopo morì anche mamma Luisa e Marianna si ritrovò sola perché i fratelli erano già tutti sposati.
Proprio in questa improvvisa solitudine, Marianna trovò la sua vocazione e iniziò quel lungo cammino che la portò a donarsi completamente a Dio e agli altri. Dopo la prima esperienza nel Monastero delle Benedettine di Pistoia, Marianna scoprì di non essere fatta per la clausura e che il suo posto era in mezzo alla gente tra i più piccoli, tra gli umili, tra coloro che avevano bisogno. Fu così che tornò a casa, a Poggio a Caiano, dove con altre compagne iniziarono una vita comune: disponevano solo di una piccola stanza che adibirono a scuola per i bambini del paese. Il 15 dicembre del 1902 le ragazze che seguirono Marianna erano già cinque e insieme decisero di vestire l'abito religioso. Da allora Marianna divenne Suor Maria Margherita del Sacro Cuore e fondò l'Istituto delle Minime Suore del Sacro Cuore.
Madre Caiani morì a 68 anni, l'8 agosto del 1921 a Firenze nel Convento dei Cappuccini di Montughi, ma il suo ricordo e i suoi insegnamenti vivono ancora oggi a Poggio e dovunque sia arrivato il seme della sua vocazione.

L'Istituto delle Minime Suore del Sacro Cuore
L' Istituto delle Minime Suore del Sacro Cuore fu chiamato a svolgere il suo servizio anche nei dintorni e ampliò sempre di più il suo raggio d'azione come negli ospedali militari, a Milano, a Firenze e in varie altre parti d'Italia. Alla sua morte Madre Maria Margherita Caiani lasciò 13 case filiali e 124 religiose. Da allora lo sviluppo dell'Istituito, è proseguito sempre più e ha superato anche i confini nazionali raggiungendo paesi come Egitto, Israele, Brasile e Sri Lanka, dove svolge opera missionaria. La Casa Madre dell'Istituto sorge al centro di Poggio a Caiano, di fronte alla villa medicea. Nel 2002 ha festeggiato i 100 anni dalla fondazione.

La Beatificazione
Madre Maria Margherita Caiani è stata proclamata Beata il 23 aprile 1989 da Papa Giovanni Paolo II dopo la chiusura favorevole dei processi che constatarono l'avvenuto miracolo per sua intercessione.

▪ 1950 - Alfredo Graziani (Tempio Pausania, 2 gennaio 1892 – 8 agosto 1950) è stato un militare italiano. Partecipò alla prima e alla seconda guerra mondiale, alla campagna d'Etiopia ed alla guerra civile spagnola. Fu uno dei personaggi più celebri fra i sardi che combatterono la prima guerra mondiale ed è noto soprattutto nella storia della Brigata Sassari.

La formazione
Nacque a Tempio Pausania il 2 gennaio 1892 da Carlo e Battistina Morla. La famiglia apparteneva all’alta borghesia cittadina: il nonno paterno Giovanni (nato a Cagliari il 9 febbraio 1812 e morto a Tempio Pausania il 26 febbraio 1882) era stato Consigliere di Corte d’Appello ed il nonno materno Francesco Morla (nato a Bortigali il 28 dicembre 1825 e morto a Tempio il 14 marzo 1890) Cancelliere di Pretura.
Alfredo trascorse l’infanzia e frequentò le prime scuole a Tempio; studiò poi al ginnasio, in parte nel capoluogo gallurese (fino alla seconda), e in parte a Livorno dove per pochi anni si era trasferita la famiglia (una fotografia del 1908 lo ritrae nella scuola di Livorno). Svolse il servizio di leva in cavalleria frequentando la scuola allievi-ufficiali di Pinerolo, da cui si congedò nel 1914; quindi il 30 ottobre si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza presso l’Università di Pisa.

La grande guerra
Con la partecipazione dell’Italia alla prima guerra mondiale (dopo un anno di neutralità, nel 1915), fu richiamato alle armi nel XVIII reggimento di cavalleria «Piacenza», come ufficiale d’ordinanza del generale comandante della brigata. Non era però uomo da retrovie, e infatti ottenne di far parte dei corpi combattenti sin dai primi giorni di guerra.
Come racconta Emilio Lussu nel suo celeberrimo Un anno sull'Altipiano dove Graziani rivive nella figura del tenente Grisoni, accadde che, morto il generale, «in seguito ad una ferita di granata», egli era voluto rimanere nella brigata e prestava servizio nel suo battaglione. «Come ufficiale di cavalleria, non poteva essere assegnato ad un reparto di fanteria, ma il comandante generale della cavalleria gli aveva accordato un’autorizzazione speciale, con il diritto di conservare ordinanza e cavallo». Gli fu affidato il comando della XII compagnia e divenne conosciuto in tutta la brigata.
Subito dopo l’arrivo in trincea fu lui ad inaugurare, il 21 agosto 1915, con l'azione cosiddetta «dente del groviglio» (solida trincea avanzata, difesa da un battaglione di ungheresi), la tradizione tipicamente “sassarina” delle “azioni ardite”. La sua — disse Lussu — fu un’azione «di una audacia estrema»; e così recita la motivazione della medaglia di bronzo al valore militare conferitagli: «comandante di un plotone di volontari uscì dai reticolati tra Bosco Lancia e Bosco Triangolare con un reparto di 30 uomini, attaccò con slancio singolare il nemico, continuò claudicante nell’azione che ebbe per risultato l’occupazione del trinceramento avversario e la cattura di 87 nemici, fra cui due ufficiali, e una mitragliatrice».
«Animo generoso e ardimentoso» lo ricorda Giuseppe Tommasi, «spirito entusiasta e generosissimo che fece tutta la guerra fra i sardi e fu ferito varie volte», «quadrato e massiccio uomo di azione e di cuore», «un nobile esempio per i soldati, che lo seguivano ammirati ed entusiasti», Leonardo Motzo. In un suo stato di servizio del 1915 Lussu dice che i «suoi uomini» addirittura lo idolatravano.
Graziani «era una figura caratteristica nella Brigata col suo bavero verde di cavalleggero», ricorda Motzo. Caratteristica non solo per l’audacia guerriera ma anche per un certo star fuori dalle rigide regole della disciplina militare. Oltre che per le imprese militari egli infatti divenne celebre per altre gesta che di militare non avevano proprio nulla. Racconta Lussu: «Una sera, mentre stavamo a riposo, dopo aver bevuto e frammischiato, senza eccessiva misura, alcuni vini di Piemonte, a cavallo, era penetrato, ugualmente di sorpresa, nella sala di mensa, in cui pranzava il colonnello con gli ufficiali del comando del reggimento. Egli non aveva pronunciato una sola parola, ma il cavallo, che sembrava conoscere perfettamente le gerarchie militari, aveva lungamente caracollato e nitrito attorno al colonnello. Per questo fatto diversamente apprezzato, poco era mancato che non fosse rimandato alla sua Arma».
Sempre lui, Graziani, fu poi a capo della fanfara fatta dal I plotone del battaglione con improvvisati strumenti (al posto della tromba una grande caffettiera di latta, per clarini e flauti pugni chiusi da cui levando ora un dito ora l’altro fuoriuscivano soffi d’aria e quindi suoni variamente modulati, e poi coperchi di gavetta, vecchi recipienti di cuoio o di tela) nella piazza del municipio del paese di Ajello dinanzi al comandante della brigata, il comandante del reggimento e le autorità civili della città. È sempre Lussu che racconta: «La compagnia di testa, per quattro, marciava, marziale. I soldati erano infangati, ma quella tenuta da trincea rendeva più solenne la parata. Arrivato all’altezza delle autorità, il tenente Grisoni (cioè Graziani) si drizzò sulle staffe e, rivolto alla compagnia, comandò: - Attenti a sinistra! Era il saluto al comandante di brigata. Ma era anche il segnale convenuto perché il I plotone entrasse in azione. Immediatamente, si svelò tutta una fanfara accuratamente organizzata. [...] . Ne risultava un insieme mirabile di musicata allegria di guerra. Il comandante di brigata s’accigliò, ma infine sorrise».
E ancora anticonformista e “di fegato” Graziani fu in occasione d’una festa d’accoglienza al reggimento organizzata dal sindaco di quel paese, dove i soldati si erano acquartierati: accadde che il discorso del primo cittadino, non propriamente felice e augurale alle orecchie dei soldati, fu da lui stigmatizzato con ironia in alcuni dei passaggi più infelici. Lussu racconta infatti che mentre il sindaco indugiava sulle «belle attrattive» della guerra, «il tenente di cavalleria salutò, facendo tintinnare gli speroni, come se il complimento fosse rivolto particolarmente a lui». E quando il sindaco inneggiò «Viva il nostro glorioso re di stirpe guerriera!», Graziani, che era «il più vicino ad una grande tavola coperta di coppe di spumante», rapidamente «ne afferrò una ancora piena, la levò in alto e gridò: Viva il re di coppe!». Nel gioco delle carte il re di coppe è quello che vale meno, e per il colonnello «fu un colpo in pieno petto. Guardò il tenente stupito, come se non credesse ai suoi occhi e alle sue orecchie. Guardò gli ufficiali, per fare appello alla loro testimonianza, e disse, più desolato che severo: Tenente Grisoni, anche oggi lei ha bevuto troppo. Favorisca abbandonare la sala e attendere i miei ordini. Il tenente batté gli speroni, s’irrigidì sull’attenti, fece un passo indietro e salutò: Signor sí! E uscì, con il frustino sotto il braccio, visibilmente soddisfatto».
Dimessi i panni del soldato intemerato e un po’ sfrontato, Graziani era un giovane distinto e soprattutto un dongiovanni, se è vero che Camillo Bellieni, uno dei fondatori del Partito Sardo d'Azione, anche lui nella Brigata, ricordando come Lussu fosse stato «uno degli ufficiali più eleganti e fortunati» in fatto di donne, precisò che poteva «ricever dei punti solo da Alfredo Graziani, che nella sua qualità di cavalleggero e d'ordinanza del Generale godeva fama di rubacuori irresistibile». Come nello stile del tempo, portava folti baffi, che le annotazioni riportate in una sua tessera militare di riconoscimento del luglio 1917 indicavano di colore castano così come i capelli e gli occhi. Inoltre era bruno di carnagione e abbastanza alto per l’altezza media dei sardi del tempo, 1.73. Nelle fotografie che lo ritraggono egli appare spesso con la sigaretta in bocca. Era, e sarebbe rimasto, infatti, un accanito fumatore: diceva di fumare «una sola sigaretta al giorno», perché con la cicca ormai da buttare ne accendeva subito un’altra, ha detto il figlio Francesco.
Il 27 settembre 1916 fu ferito gravemente ad un piede dallo scoppio di una bomba e anche in quell’occasione si mostrò ardimentoso e intrepido come sempre: «E lui — annotò Tommasi — se ne è andato via in barella, ridendo e salutando tutti, come se niente fosse, caro il nostro cavalleggero di Piacenza!». Rientrò in trincea il 10 aprile 1917, «forzando i tempi di una guarigione che in realtà non sarà mai completa» e che gli comporterà continue visite e ricoveri in ospedali: «dolori atroci sopiti a sua insaputa con dosi massicce di morfina lo segneranno profondamente». Per lui occorreva essere con i suoi fanti, anche se per camminare dovette servirsi a lungo dell’appoggio di un bastone: quando non si poteva «portare sulle linee del fuoco» l’aiuto della propria validità fisica, era di grande importanza dare il proprio sostegno morale. A fine ottobre, dopo circa tre anni, cedette al capitano Mariani il comando della dodicesima compagnia per assumere quello della seconda compagnia. Ma ormai la sua guerra era finita.
Lasciò il fronte nel marzo 1918 con una licenza per 45 giorni di convalescenza impostagli dai medici, e ritornò a Tempio. In Sardegna, invece, il tribunale sanitario lo dichiarò inabile per altri sei mesi: li trascorse dedicandosi «con tutta l’anima, alla preparazione, soprattutto morale dei partenti al fronte», ma sempre col rimpianto e il senso di colpa per essere lontano dal fronte, impossibilitato a partecipare alle drammatiche ma esaltanti giornate del Piave e all’ultimo balzo verso Vittorio Veneto, a non poter riscattare i tanti morti, tra cui suo fratello Francesco morto in prigionia per malattia il 4 marzo 1918, e a lui molto affezionato.

Il dopoguerra
Nel dopoguerra, nel 1919, con Diego Pinna e Gavino Gabriel, fu uno dei capi della sezione tempiese dell’Associazione nazionale combattenti che fornì i quadri sia alla locale sezione del Partito sardo d’azione (la prima in Sardegna), sia a quella del Fascio dei combattenti (anche questo il primo in Sardegna). Sembrava destinato a svolgere un ruolo importante nelle vicende politiche della Sardegna di quegli anni: infatti, in seguito al primo congresso regionale del Psd’Az (Oristano, 16-17 aprile 1921) venne eletto nel direttivo provinciale di Sassari insieme con personaggi del calibro di Luigi Battista Puggioni e Luigi Oggiano (anche se, a dire il vero, la sua nomina sembra quasi una cooptazione a spese di Diego Pinna che fu fin dal principio il vero leader del partito a Tempio e in Gallura: influì sicuramente in tale elezione la notorietà ottenuta sul fronte, anche se non è da escludere qualche indicazione agli elettori in suo favore da parte di Lussu e Camillo Bellieni — il teorico del sardismo — suoi amici).
Poi, invece, il suo nome si eclissa e non lo troviamo più né come uno dei capi del Psd’Az (già dall’anno successivo, il 1922, non fa più parte del direttorio) né del Partito fascista, restando così al di fuori delle roventi vicende del cosiddetto sardo-fascismo, il movimento politico che vide gran parte dei dirigenti e dei quadri del Psd’Az confluire nel partito fascista e assumervi un importante ruolo di guida (a Tempio è il caso di Diego Pinna, che ebbe tuttavia per alcuni anni qualche difficoltà ad imporre la sua leadership a causa della tardiva adesione al regime rispetto ad altri sardisti).
È possibile che in questo suo abbandono della scena politica avessero influito sia la sua poca propensione al “mestiere”, sia motivazioni contingenti come quelle di portare a termine gli studi universitari, interrotti a causa della guerra, e pensare anche alla dimensione professionale: il 12 maggio 1922 conseguì infatti la laurea in Giurisprudenza a Sassari (titolo della tesi: La teoria della essenza del diritto nel pensiero rosminiano), e nel settembre dello stesso anno si iscrisse all’albo dei procuratori legali, intraprendendo la carriera forense.
Nel 1923 sposò Maria Corda, figlia di Pietro Corda e Caterina Azzena, contraendo così parentela con altre due famiglie che avrebbero avuto grande peso nella gestione politica e amministrativa della città e del territorio durante il fascismo. Dal matrimonio ebbe tre figli, Carlo, nel 1925, Francesco nel 1928 e Caterina nel 1937.
Nel 1926 fu tra i candidati del listone fascista per le elezioni comunali. L’adesione al fascismo, però, dovette maturare un po’ tardivamente, tra il 1924 e il 1926 (nel frattempo, infatti, si era concretizzato il passaggio di gran parte dei capi e dirigenti del Psd’Az al partito fascista): difficile credere, diversamente, che un uomo severo e intransigente come Camillo Bellieni l’avrebbe citato — come si è riportato sopra — nel suo libro su Emilio Lussu del 1924, scritto in un momento in cui occorreva tenere alta e popolare fra le masse l’immagine del parlamentare sardista (immagine un po’ compromessa dopo le sue trattative col prefetto Asclepia Gandolfo riguardanti la confluenza al regime del Psd’Az).
È assai probabile che Graziani, come accadde alla maggioranza degli ex combattenti, sia stato a lungo indeciso da quale parte schierarsi; e che poi aderì al regime una volta constatato come anche la gran parte dei dirigenti e quadri del Psd’Az aveva compiuto la medesima scelta.
La sua presenza nella lista fascista per le elezioni comunali del 1926 non significò però l’ambizione di voler svolgere davvero un qualche ruolo politico di rilievo (e d’altronde gli mancavano alcune caratteristiche del “perfetto fascista”: parate, cerimonie e tutto il contorno della retorica fascista non si addicevano al suo carattere anticonformista e “sopra le righe”). Negli anni del consolidamento del regime e del consenso (tra il 1926 e il 1938) egli non ebbe infatti incarichi politici. Non ne ebbe nemmeno dopo aver pubblicato nel 1934 Fanterie sarde all’ombra del Tricolore, in cui egli “gioca” sulla — come direbbero i bibliotecari — “paternità intellettuale” dell’opera, facendo seguire al titolo la seguente dizione: «del Tenente Scopa, a cura dell’avv. Alfredo Graziani, con prefazione di S. E. Cesare Maria De Vecchi conte di Val Cismon» (che fu, con Mussolini e Emilio De Bono, uno dei quadrumviri della marcia su Roma del 1922).

Fanterie sarde all'ombra del tricolore
Il libro ottenne il plauso del mondo culturale e meritò segnalazioni e recensioni su giornali sardi e della Penisola. Nell’archivio di famiglia sono conservate due lettere di Remo Branca, in cui il celebrato scrittore e artista (xilografo) — una delle figure più rappresentative della cultura sarda del Novecento —, gli esprime, appena letto il libro, i suoi complimenti e la sua emozione.
A conferma dell’importanza, l’opera è stata ripubblicata in anni a noi più vicini, nel 1987, dalla stessa casa editrice Gallizzi, con un’introduzione di Giuseppina Fois (autrice anche di Storia della Brigata Sassari, Gallizzi 1981), e nel 2003 da «La Nuova Sardegna» come supplemento al quotidiano (in entrambi i casi senza più la prefazione di De Vecchi). Tra i vari lusinghieri giudizi, merita invece una particolare menzione quello di Brigaglia sull’«Unione Sarda» il 30 settembre 1988. Nei loro scritti, entrambi gli storici giustamente sottolineano le affinità tra questo libro e quello assai più famoso di Lussu (Un anno sull’altipiano).
Scrive la Fois: «Sarà comunque Graziani, il fascista Graziani, l’unico tra tutti i memorialisti a descrivere per esteso e senza censure di sorta gli episodi più drammatici e “scandalosi” raccontati anche da Lussu. Non si può certo trovare in Graziani l’impostazione lucidamente antimilitaristica [...] di Un anno sull’Altipiano, eppure l’analogia tra i due libri, nella successione degli episodi e persino in una certa vena amaramente ironica che li attraversa entrambi, è a tratti impressionante». Questa osservazione della Fois aiuta in qualche modo anche a capire il forte legame che univa sul fronte Graziani e Lussu: come quell’amicizia fosse cementata da una sostanziale affinità e condivisione di valori.
Fanterie sarde all’ombra del Tricolore è quindi un’opera assai pregevole per capire cosa significò quella terribile guerra e con quale spirito eroico e di sacrificio e quale amor di patria i sardi la combatterono (ma vi è evidenziata anche l’impreparazione degli alti comandi, spesso lontani dal comprendere le esigenze della truppa), oltre ad essere di piacevole lettura sotto il profilo squisitamente letterario («Questo libro è ben scritto — scrisse per primo giustamente De Vecchi concludendo la sua prefazione, in cui alterna opportune e condivisibili osservazioni a qualche sprazzo di retorica fascista — e si fa leggere più facilmente di un romanzo. […]. Leggetelo, e vi piacerà»).
Ma forse Fanterie Sarde all’ombra del Tricolore è anche un utile strumento "psicologico" per tentare di cogliere più intimamente il suo autore e comprendere le sue successive "gesta guerriere". Forse le sue pagine non sono solo letteratura di guerra: mentre scrive, sembra infatti che Graziani davvero riviva (letteralmente, senza metafore) quella “sua” guerra, condivisa con i sassarini sia nelle trincee — invischiati nella infernale roulette quotidiana della morte, dove ogni attimo, ogni secondo vissuto, poteva essere anche l’ultimo —, sia nelle poche giornate di licenza in cui si tornava a godere e assaporare la vita (ma con lo stesso sentimento con cui si stava al fronte, con la consapevolezza cioè che poteva essere anche l’ultima volta): ore di libertà vissute intensamente, fino al midollo, durante le quali egli si dedicava con lo stesso ardore messo in battaglia, e con maggior successo — come si è detto sopra —, a conquistare altre trincee, i cuori femminili, cui poi doveva il soprannome che lo rese celebre sul fronte: «Scopa». Insomma, è azzardato dire che Alfredo Graziani finì per restare profondamente condizionato dalle esperienze vissute nella prima guerra mondiale (la vita in trincea come nelle ore di licenza), e che con le sue memorie, oltre che illustrare il contributo dei sardi della Brigata Sassari, intendesse anche soddisfare una propria esigenza dello spirito, forse colmare un personale e intimo vuoto?

Le altre guerre di Graziani
La guerra dichiarata dall’Italia nell’ottobre 1935 contro l’Etiopia ridestò i suoi sentimenti patriottici ed egli subito partì volontario: come poteva un “cantore” dell’ardimento dei sardi in guerra e dell’amor patrio esimersi da dare il buon esempio e non essere laddove la patria chiamava? (È però da escludersi che il libro pubblicato, invece di esorcizzare il passato, avesse rinnovato in lui, insieme con un ritorno di celebrità, il desiderio di tornare ad essere protagonista?). Egli non si recò volontario in Etiopia con lo spirito con cui vi andarono ministri, gerarchi e politici di regime: per acquistarsi facilmente, magari stando nelle retrovie, benemerenze presso il Duce e nuove mostrine di Stato da esibire per ottenere nuovi posti di potere. L’onorificenza ottenuta nell’ottobre 1935 a «Cavaliere della Corona d’Italia» dietro proposta dell’Associazione Nazionale Combattenti (forse influì anche la pubblicazione del libro), contò per lui come un riconoscimento e basta. Pagò anche nella Campagna d’Africa, infatti, il dazio di essere un combattente e non uno in cerca di stellette: andò sul fronte nei pressi di Damas in Eritrea, col grado di primo capitano nel XXIII gruppo Cammelli, combatté davvero, e fu ferito alla testa.
Finita la guerra d’Etiopia con la proclamazione dell’Impero (maggio 1936), Alfredo Graziani ebbe appena il tempo di riambientarsi alla tranquilla vita di paese che un nuovo evento militare lo precipitò lontano da casa. Nel 1937, infatti, partì volontario per la campagna di Spagna in cui l’Italia si trovò impegnata a sostenere con la Germania di Hitler le armate del generale Francisco Franco contro quelle dei repubblicani, appoggiate dalla Russia e dai volontari comunisti, anarchici e d’orientamento social-liberale di tutta Europa. Per questo suo impegno poté fregiarsi, a partire dal 19 dicembre 1937, del titolo di «primo centurione del Corpo Volontari», ma anche in questa occasione egli pagò il suo prezzo: fu ferito al ginocchio al quale fu impiantato un bel pezzo di filo di ferro.
Viene spontaneo chiedersi il perché di questa partecipazione volontaria ad un’impresa militare così marcatamente di carattere politico, dove non erano in gioco direttamente gli interessi della patria e da cui poteva tranquillamente astenersene, visto che era — per età — libero da obblighi di leva, aveva già combattuto due guerre nelle quali era stato ferito, che non era più giovane e aveva moglie, due figli piccoli, e un terzo in arrivo (Caterina, che morì all’età di circa 18 mesi). La considerazione che egli, pur non essendo un fervente fascista fosse un fiero e acceso anticomunista, non sembra sufficiente e del tutto convincente. Proprio alla luce della Campagna di Spagna viene da pensare invece che Alfredo Graziani, nelle due guerre combattute negli anni Trenta, avesse colto anche l’occasione per “liberare” una volta di più il suo temperamento intrepido (la guerra vissuta come il luogo dove, nello sprezzo della morte, si rinnova ardente l’amore per la vita) e, in qualche modo, ritrovare se stesso: forse il vecchio tenente «Scopa» ammirato e seguito dai suoi fanti; non è poi improbabile che in quelle guerre egli vedesse quasi il mezzo per evadere dall’ambiente paesano in cui viveva e in cui si sentiva come “ingabbiato”.
Smessi definitivamente i panni del soldato con la breve partecipazione alla Campagna di Grecia nella seconda guerra mondiale (questa volta come richiamato), negli ultimi dieci anni di vita riprese ad esercitare la sua professione “borghese” di avvocato a Tempio e ad Iglesias. Morì a Tempio l’8 agosto 1950 a 58 anni. La notizia della morte, insieme con un breve ricordo della sua persona, pubblicata tre giorni dopo, l’11 agosto, da «La Nuova Sardegna», a firma di Eugenio Chirico, fu un giusto tributo alla sua figura di sassarino e di scrittore, ad uno dei tempiesi più famosi nella storia sarda del Novecento.

▪ 1959 - Don Luigi Sturzo (Caltagirone, 26 novembre 1871 – Roma, 8 agosto 1959) è stato un sacerdote e politico italiano.

Gli anni della formazione
Don Luigi Sturzo nacque a Caltagirone il 26 novembre 1871 da Felice e Caterina Boscarelli: il padre faceva parte della nobile famiglia dei Baroni d’Altobrando e la madre faceva parte di una famiglia borghese calatina. Fin da piccolo fu debole di costituzione fisica e quindi fu costretto a rimanere a casa, con le tenerissime cure dei genitori. Siccome non poté andare a scuola, andò al seminario di Acireale, dove soggiornò dal 1883 al 1886; qui conobbe Battista Arista, suo compagno di camerata. A causa del tempo cattivo che proveniva dall’Etna, dovette trasferirsi al seminario di Noto, in cui c’era un clima più mite: proprio grazie a questo poté restare presso tale seminario per due anni. Nel 1888 Luigi Sturzo andò al seminario di Caltagirone e fu un discepolo eletto e prediletto, il migliore, e qui si diplomò nello stesso anno del suo ingresso.
Il 19 maggio del 1894 fu ordinato sacerdote alla chiesa del Santissimo Salvatore dal vescovo di Caltagirone Saverio Gerbino e nel 1896 alla Pontificia Università Gregoriana di Roma ottenne la laurea in teologia. Sempre nel 1894 s’iscrisse all’università della Sapienza di Roma e all’Accademia di San Tommaso d’Aquino. Luigi Sturzo, allo scopo di mettere in contatto gli studenti delle diverse regioni d’Italia, fondò l’Associazione dei Giovani Ecclesiastici, della quale divenne presidente il futuro vescovo di Bergamo Radini-Tedeschi e Sturzo divenne il vicepresidente. Mentre si preparò alle lauree, insegnò al seminario di Caltagirone filosofia, sociologia, diritto pubblico ecclesiastico, italiano e canto sacro.

Impegno civile e politico
Nel 1897 istituì a Caltagirone una Cassa Rurale dedicata a San Giacomo e una mutua cooperativa, che diede fastidio ai liberali conservatori e fondò anche il giornale di orientamento politico-sociale La croce di Costantino il 7 marzo dello stesso anno. I redattori de La croce di Costantino furono Mario Carfì, Don Luigi Caruso, il Canonico Giuseppe Montemagno, il Canonico Filippo Interlandi junior, il Canonico Salvatore Cremona, Carmelo Caristia, Diego Vitale, Diego Caristia e il fratello di Luigi Sturzo, Mario Sturzo. Quest’ultimo era un uomo colto, d’intelligenza sottile, e fu autore di romanzi e di racconti, come I Rivali, Il figlio dello zuavo e Adelaide.
Oltre ai consensi il giornale suscitò le ire dei massoni a causa del metodo rettilineo e coraggioso che usava Luigi Sturzo per ottenere i consensi, quindi il 20 settembre 1897 bruciarono una copia del giornale, nella piazza principale di Caltagirone. Con i fatti di maggio del 1898, le repressioni antioperaie di Bava Beccaris, gli stati d'assedio nelle principali città, il processo a Davide Albertario, si comincia a delineare l'impossibilità della convivenza all'interno dell'Opera dei Congressi fra conservatori e democratici cristiani.
Il mantenimento dell'unità dei cattolici, voluta da Papa Leone XIII, diventava sempre più arduo. Il sacerdote di Caltagirone tentò invano di introdurre nell'Opera una riflessione sui problemi dell’Italia Meridionale, che aveva sempre più approfondito nell'esperienza diretta del mondo contadino negli anni della crisi agraria. "Pochi — scrisse Gabriele De Rosa — ebbero, come Sturzo, la conoscenza specifica della struttura agraria e artigianale siciliana e la sua capacità di analisi degli effetti negativi del processo di espansione del capitalismo industriale sui fragili mercati del Sud e sulla piccola e media borghesia agricola e artigiana locale, che si sfaldava sotto i colpi di una impossibile concorrenza. Tra le cause della disgregazione dei vari ceti artigianali in Sicilia, Sturzo indicava la 'forte concorrenza delle grandi fabbriche estere o nazionali di materie prime'; la lotta 'rovinosa' che si facevano gli artigiani locali, la mancanza di capitali, l'indebitamento, l'impoverimento delle campagne dovuto alla crisi agraria".
Luigi Sturzo nel 1900 fu visto tra i fondatori della Democrazia Cristiana Italiana, ma in realtà aveva pure rifiutato la tessera del partito, guidato da Romolo Murri e nello stesso anno, essendosi scatenata in Cina la persecuzione dei Boxers, che volevano la cacciata degli stranieri dalla Cina, Sturzo presentò formale domanda al vescovo per partire missionario in quelle terre lontane, ma il vescovo, date le sue precarie condizioni di salute, gli negò il suo consenso e Sturzo ubbidì. Verso i primi anni del ‘900 Luigi Sturzo divenne il collaboratore del quotidiano cattolico Il Sole del Mezzogiorno e nel 1902 guidò i cattolici di Caltagirone alle elezioni amministrative.
Nel 1905 verrà nominato consigliere provinciale della Provincia di Catania. Sempre nel 1905, alla vigilia di Natale, pronunciò il discorso di Caltagirone su “I problemi della vita nazionale dei cattolici”, superando il “non expedit”. Nello stesso anno venne eletto pro-sindaco di Caltagirone (mantenne la carica fino al 1920). Nel 1912 divenne vicepresidente dell’Associazione Nazionale Comuni d’Italia.
Nel 1915, essendo stato molto attivo nell’Azione Cattolica Italiana, divenne il Segretario generale della Giunta Centrale del movimento. Nel 1919 fondò il Partito Popolare Italiano (del quale divenne segretario politico fino al 1923) e il 18 gennaio 1919 si compie ciò che a molti è apparso l’evento politico più significativo dall’unità d’Italia: dall’albergo Santa Chiara di Roma, don Sturzo lancia "l’Appello ai Liberi e Forti", carta istitutiva del Partito Popolare Italiano:
«A tutti gli uomini liberi e forti, che in questa grave ora sentono alto il dovere di cooperare ai fini superiori della Patria, senza pregiudizi né preconcetti, facciamo appello perché uniti insieme propugnano nella loro interezza gli ideali di giustizia e libertà»
Nello stesso anno, infine esce a Roma Il Popolo Nuovo, organo settimanale del neonato partito. Don Sturzo rende il Partito Popolare Italiano una formazione molto influente nella politica italiana e un suo voto impedisce a Giovanni Giolitti di assumere il potere nel 1922, permettendo così l'insediamento di Luigi Facta.
Al Congresso di Torino del Partito Popolare (12-14 aprile 1923), Luigi Sturzo, sostenuto dalla sinistra di Francesco Luigi Ferrari e di Luigi e Girolamo Meda, fa prevalere la tesi dell'incompatibilità fra la concezione "popolare" dello stato ed il totalitarismo fascista[1], con la conseguente uscita dei ministri cattolici dal governo Mussolini.
Nel partito rimangono in contrasto le due anime, la sinistra contraria ad ogni accordo con il governo e la destra favorevole alla collaborazione. Alla fine le due correnti del partito si accordano per un'ambigua condotta ("né opposizione, né collaborazione"), però questa linea dura solo una settimana, visto che alcuni esponenti popolari vogliono uscire dal governo e fare opposizione, mentre la corrente di destra intende rimanere al governo e collaborare. La posizione dei popolari decisa al congresso provoca l'immediata reazione di Mussolini, che, appoggiato dalla piccola corrente di popolari di destra, il 17 aprile convoca la rappresentanza al governo del PPI per ottenere chiarimenti, dando anche inizio ad una dura campagna contro il "sinistro prete". Inoltre Mussolini, presentando Sturzo come un ostacolo alla soluzione della questione romana, fa in modo che Sturzo perda anche l'appoggio delle gerarchie vaticane[1]. Alla fine di questa campagna il prete di Caltagirone il 10 luglio è costretto a dimettersi dalla segreteria del partito.

L'esilio e il rientro
Luigi Sturzo decise di lasciare gli incarichi nel partito e si rifugiò dal 1924 al 1940 prima a Londra, a Parigi e poi a New York. A Londra animò diversi gruppi politici di italiani fuoriusciti e di cattolici europei e nel 1936 fonda il People and Freedom Group e negli USA intrecciò dei rapporti con Carlo Sforza, Lionello Venturi, Mario Einaudi, Gaetano Salvemini, l’amico non credente che ebbe a definire l’esule di Caltagirone “Himalaya di certezza e di volontà”. Dopo questo periodo ritornò in Italia sbarcando a Napoli e poi si chiuse in un isolamento volontario in un convento di Roma. Difese la libera iniziativa con l'argomento dell’economicità e della libertà. Nel 1945, finita la guerra, Luigi Sturzo rientra in Italia, riprendendo una vita politica attiva. Dopo la seconda guerra mondiale non svolse un ruolo dominante nella scena politica italiana, ma il 17 dicembre 1952 fu nominato senatore a vita dal presidente della Repubblica Luigi Einaudi. Sturzo accettò la nomina aderendo al gruppo misto solo dopo aver ricevuto la dispensa da papa Pio XII. Morì a Roma l’8 agosto 1959 all’età di ottantotto anni; oggi è sepolto nella Chiesa del Santissimo Salvatore a Caltagirone. A 40 anni dalla sua morte il comune di Caltagirone pose nella Scalea del Palazzo Municipale una lapide in memoria di Luigi Sturzo.

Pensiero politico
Tutta l'attività politica di Sturzo è fondata su una questione centrale: dare voce in politica ai cattolici. Sturzo si impegna per dare un'alternativa cattolica e sociale al movimento socialista.
Per Sturzo i cattolici si devono impegnare in politica, tuttavia tra politica e Chiesa deve esserci assoluta autonomia. La politica, essendo complessa, può essere mossa da princìpi cristiani, ma non si deve tornare alla vecchia rigidità e all'eccessivo schematismo del passato. Il Cristianesimo è, insomma, la principale fonte di ispirazione, ma non l'unica.
La società deve saper riconoscere le aspirazioni di ogni singolo individuo: “la base del fatto sociale è da ricercarsi nell'individuo” e l'individuo viene prima della società; la società è socialità: si fonda, cioè, su libere e coscienti attività relazionali.
Sturzo è contrario ad una società immobile ed il movimento è dato dalle relazioni interindividuali tra le persone; la società non deve essere un limite alla libertà dell'individuo. Non può essere, tuttavia, definito iperindividualista.
All'interno di questo schema sociale multiforme la religione non può essere strumento di governo[2]. Il cristianesimo ha dato qualcosa ad ogni corrente politica, quindi nessuno può dire di possedere il monopolio della verità religiosa.
L'individuo deve scegliere da sé se seguire la propria coscienza di buon cittadino o di credente; non è la Chiesa che deve indirizzarlo nell'atto della scelta, la quale attiene strettamente alla sfera individuale del singolo. Il PPI nasce perciò come aconfessionale: la religione può influenzare, ma non imporre. In questo modo si palesa una concezione liberale del partito.
In economia Sturzo non è un liberale classico, ma da un lato denuncia il capitalismo di Stato che ritiene dilapidatore di risorse, e dall'altro rimane convinto della possibilità di interventi dello Stato in economia, anche se per un tempo breve e finalizzato ad un risultato. Il suo faro è la centralità della persona, non delle masse; è un fautore dello stato minimo e censura già all'epoca l'eccessivo partitismo. Si dichiara, inoltre, ostile a una concezione statale panteistica.
In questo modo fonda il Popolarismo, dottrina politica autonoma e originale, che non è altro che la messa in pratica della Dottrina Sociale della Chiesa cattolica, arricchita dal suo pensiero e lavorio, spesso profetica e -pur essendo prettamente pragmatica- profondamente intessuta eticamente.
Sturzo fu avversario del centralismo di Giolitti, di Mussolini, ma anche del primo impianto dell'Italia repubblicana, trovando sbagliata l'assenza del regionalismo, necessario per concedere ampia autonomia individuale. Fu un grande amante della scrittura storica.

Note
▪ 1. a b Gabriele De Rosa, Luigi Sturzo, Enciclopedia Europea Garzanti, 1980
▪ 2. Moro, Aldo, "UNA VITA PER LA LIBERTA E LA DEMOCRAZIA", in Civitas: periodico di studi politici, 11, no. 4/5 (aprile 1960): 7-39.

▪ 1998 - Padre Raymond Edward Brown, P.S.S. (22 maggio 1928 – seminario di San Patrick, Menlo Park, California, 8 agosto 1998), è stato un prete cattolico statunitense, membro, nel 1972, della Pontificia Commissione Biblica, organismo consultivo del Papa in materia di Sacra Scrittura, e dal 1996 professore emerito presso il protestante Union Theological Seminary di New York, dove ha insegnato per 23 anni.

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