Il calendario dell'11 Marzo
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:
- Email:
Eventi
▪ 222 - La guardia pretoriana assassina l'imperatore romano Eliogabalo e proclama augusto al suo posto il cugino e figlio adottivo Alessandro Severo, ultimo rappresentante della dinastia dei Severi.
▪ 1387 - Battaglia di Castagnaro tra Giovanni Ordelaffi, per conto di Verona e Giovanni Acuto, per conto di Padova
▪ 1702 - Il primo giornale di informazione a pubblicazione regolare in lingua inglese, The Daily Courant, esce per la prima volta
▪ 1818 - Mary Shelley pubblica Frankenstein.
▪ 1824 - Il Dipartimento di guerra statunitense crea il Bureau of Indian Affairs
▪ 1845 - Guerra di Flagstaff: I capi Hone Heke e Kawiti spingono 700 Maori ad ammainare la bandiera britannica e cacciano i coloni dal villaggio di Kororareka a seguito di rotture al Trattato di Waitangi del 1840
▪ 1861 - Guerra civile Americana: Viene adottata la Costituzione della Confederazione degli Stati Americani
▪ 1864 - La Grande alluvione di Sheffield: Il più grande disastro causato dall'uomo che abbia mai colpito l'Inghilterra uccide più di 250 persone a Sheffield.
▪ 1888 - La Grande Bufera del 1888 inizia lungo le coste orientali degli Stati Uniti, bloccando i commerci e uccidendo più di 400 persone.
▪ 1900 - Guerra Boera: Le aperture di pace del leader dei Boeri Paul Kruger vengono respinte dal Primo Ministro del Regno Unito Lord Salisbury.
1917 - Baghdad cade sotto il controllo delle forze Anglo-Indiane comandate dal Generale Maude.
* 1941 - Seconda guerra mondiale: Il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt firma una legge che permette di inviare aiuti militari agli Alleati sotto forma di prestiti.
* 1977 - A Bologna, nella zona universitaria, nel corso di durissimi scontri tra studenti e forze dell'ordine muore il militante di Lotta Continua Francesco Lorusso.
* 1978 - Terroristi palestinesi sulla autostrada Tel Aviv Haifa uccidono 34 israeliani. 1985 - Mikhail Gorbachev diventa leader dell'Unione Sovietica.
* 1990
- - La Lituania si dichiara indipendente dall'Unione Sovietica.
- - Augusto Pinochet lascia la presidenza del Cile.
- - Patricio Aylwin presta giuramento come primo presidente democraticamente eletto del Cile dal 1973.
* 1993 - Janet Reno è confermata dal Senato degli Stati Uniti e presta giuramento il giorno successivo diventando il primo Attorney General degli Stati Uniti donna.
* 1996 - John Howard diventa il venticinquesimo primo ministro dell'Australia.
* 1999 - Infosys è la prima azienda indiana ad essere inserita nel Nasdaq.
▪ 2003 - A L'Aia viene fondata la Corte Internazionale di Giustizia.
▪ 2004
-
- Spagna: Una serie di attentati a treni sconvolge Madrid. Il bilancio in termini di vittime è di 191 morti e circa 1.500 feriti.
- - Italia: Umberto Bossi, leader storico della Lega Nord, viene ricoverato d'urgenza in ospedale, colpito da un grave ictus cerebrale.
Anniversari
▪ 222 - Eliogabalo (latino: Elagabalus o Heliogabalus), nato come Sesto Vario Avito Bassiano (Sextus Varius Avitus Bassianus) e regnante col nome di Marco Aurelio Antonino (Marcus Aurelius Antoninus; Roma, 203 – Roma, 11 marzo 222) è stato un imperatore romano della dinastia dei Severi, che regnò dal 16 maggio 218 alla sua morte.
▪ 1514 - Donato (Donnino) di Angelo di Pascuccio detto il Bramante (Fermignano, 1444 – Roma, 11 marzo 1514) è stato un architetto e pittore italiano.
Come architetto, fu la personalità di maggior rilievo nel passaggio tra il XV ed il XVI secolo e nel maturare del classicismo cinquecentesco.
Nato a Fermignano, nei pressi di Urbino, all'epoca nel territorio di Casteldurante (l'odierna Urbania), si formò artisticamente nella sua città natale. Il periodo della formazione e la prima attività di Bramante non è documentata, anche se fino al 1476 Bramante restò ad Urbino, dove probabilmente fu allievo di fra Carnevale e divenne pittore "prospectivo", cioè specializzato nella costruzione geometrica di uno spazio per lo più architettonico quale sfondo di una scena dipinta. Probabilmente fu anche allievo ed aiuto di Piero della Francesca. Nell'ambiente urbinate conobbe Luca Signorelli, Francesco di Giorgio Martini di cui divenne collaboratore e da cui apprese molto nell'arte dell'architettura, il Perugino, Giovanni Santi e il Pinturicchio. Entrò in contatto anche con le opere di Mantegna e di Leon Battista Alberti, nonché con le produzioni artistiche di centri come Perugia, Ferrara, Venezia, Mantova e Padova, forse a seguito di viaggi che infine lo porteranno in Lombardia.
A Milano
Bramante è documentato in Lombardia nel 1477, quando a Bergamo affrescò la facciata del Palazzo del Podestà (filosofi dell'antichità in inquadrature architettoniche) e forse anche quella di una casa d'abitazione. Nel 1478 è probabile un suo primo soggiorno a Milano, forse inviato da Federico da Montefeltro per seguire i lavori nel suo palazzo a Porta Ticinese, ricevuto da poco in dono da Galeazzo Maria Sforza o forse al seguito dell'Amadeo, conosciuto sul cantiere della cappella Colleoni.
Giunto a Milano come pittore, vi rimase fino al 1499 lavorando, invece, prevalentemente come architetto per Ludovico il Moro. Bramante giunse a Milano ormai trentatreenne avendo accumulato una vasta e singolare cultura che accumunava la maestria nella prospettiva appresa da Piero della Francesca ma soprattutto dalle opere di Melozzo da Forlì, la conoscenza di molti elementi dell'architettura classica e dell'opera vitruviana, l'adesione al modello albertiano, di classicismo. Tale bagaglio culturale gli permise di esercitare una grande influenza ed autorità sulla cultura lombarda, in parallelo con Leonardo da Vinci presente a Milano negli stessi anni e con il quale non mancarono gli scambi e le reciproche influenze. Più in generale sul finire del XV secolo il ducato di Milano fu centro di cultura, dove l'arte locale di impronta gotica si incontrò, ed in parte si scontrò, con architetti ed artisti pienamente rinascimentali, provenienti dall'Italia centrale, di cui Bramante fu quello che lasciò l'impronta più duratura.[8]
Nel 1487 Bramante partecipò, come anche Leonardo, Francesco di Giorgio Martini, Amadeo ed altri, al concorso per il tiburio del Duomo di Milano, proponendolo di pianta quadrata e direttamente impostato sui piloni, realizzando un modello ligneo perduto e scrivendo una relazione, conosciuta come Opinio super Domicilium seu Templum Magnum che rappresenta l'unico scritto teorico d'architettura di Bramante che ci sia pervenuto, in cui, interpretando Vitruvio, indicava come caratteristiche dell'architettura la "fortezza", la "conformità cum el resto de l'edificio", la "legiereza" e la beleza".
Ai primi anni dell'attività milanese risale la cosiddetta Incisione Prevedari, del 1481: si tratta di una visione architettonica rappresentante il grandioso interno di una architettura classicheggiante incisa da Bernardo Prevedari su disegno di Donato Bramante, il cui nome è riportato in un'iscrizione in caratteri lapidari. L'incisione dimostra come molti temi dell'architettura bramantesca legati al rapporto con l'antico, siano già maturi vent'anni prima delle opere romane.
A Bramante è attribuita un'altra incisione rappresentante una strada in prospettiva centrale, con caratteri di città ideale e che presenta molti motivi architettonici propri dell'architettura milanese del periodo dominata dall'influenza del suo linguaggio ormai pienamente rinascimentale. In questa prospettiva troviamo in fondo al centro un arco di trionfo e una cupola brunelleschiana, mentre ai lati abbiamo due palazzi con caratteristiche diverse: uno con colonne corinzie e trabeazione al piano terra, paraste e finestre ad arco tondo al primo piano; l'altro ha pilastri che reggono archi al piano terra, mentre al primo piano presenta finestre a timpano e oculi.
Durante il suo periodo milanese Bramante esercitò, nell'ambiente di corte, anche la sua passione letteraria. Infatti Bramante all'epoca era lodato anche come musicista e poeta e "fu di facundia grande ne' versi", come scrive nel 1521 Caporali. Ci ha lasciato infatti un piccolo canzoniere di 25 sonetti, 15 di tema amoroso petrarchesco e altri di argomento burlesco o biografico, tra cui uno in cui lamenta lo stato delle sue finanze.
Attività pittorica
Bramante fu attivo in Lombardia anche come pittore, malgrado restino solo pochi affreschi, a Milano e Bergamo: gli affreschi frammentari rappresentanti Eraclito e Democrito e Uomini d'arme (oggi alla Pinacoteca di Brera) eseguiti tra il 1486 ed il 1487 per la casa del poeta Gaspare Visconti, mecenate e protettore dell'artista, ed altri frammenti quasi illegibili rappresentanti dei Filosofi dell'antichità eseguiti per il Palazzo del Podestà di Bergamo. Completamente deperiti sono invece gli affreschi della facciata di Palazzo Fontana Silvestri anch'essi attribuiti al Bramante.
Tradizionalmente gli vengono attribuiti anche un dipinto su tavola, il Cristo alla colonna, già nell'abbazia di Chiaravalle, e l'affresco detto di Argo, nella sala del tesoro del Castello Sforzesco.
Ebbe come allievo il pittore Bartolomeo Suardi detto il Bramantino ed ebbe un importante influsso sulla cultura pittorica lombarda. Nel successivo periodo romano Bramante sembra cessare l'attività pittorica, forse per il venuto impegno nei grandi cantieri papali.
Santa Maria presso San Satiro (1482-1486)
Non è noto esattamente quando Bramante abbia iniziato la sua attività in questo complesso, probabilmente intorno alla fine del 1481 (anno dell'incisione Prevedari), dato che nel 1482 fu nominato per la prima volta come "testimone". In questa chiesa la sua presenza è più volte documentata: nel 1483, quando Agostino De Fondulis fu incaricato di eseguire la decorazione scultorea per la Sagrestia, e ancora nel 1486, quando Giovanni Antonio Amadeo iniziò la facciata, e poi nel 1497-98 per la Cappella di San Teodoro, mai costruita.
La successione dei lavori fu complessa ed in parte ancora da chiarire, e i documenti sinora reperiti non comprovano definitivamente che la soluzione dell'abside prospettica sia da ascrivere a Bramante; questa comunque è l'attribuzione preponderante nella letteratura artistica, nonostante che nel contratto del 1486 l'Amadeo appare in una veste ben più preponderante e che pertanto alcuni ritengano che la paternità dell'intero progetto sia da ascrivere all'Amadeo.
Altrettanto controversa ed incerta è l'attribuzione della Sacrestia bramantesca a pianta ottagonale. Nell'esterno del complesso troviamo il primo esempio di utilizzo a Milano di un ordine classico, nella facciata su via Falcone.
Trasformazione di Sant'Ambrogio (1492-1500)
È la seconda grande opera milanese di Bramante, commissionata da Ludovico il Moro e dal fratello Ascanio Sforza, che chiedono due interventi: una canonica e due chiostri per i monaci cistercensi. Della canonica Bramante riuscì a costruire solo uno dei quattro lati previsti e ad impostare le colonne per il secondo, che non verrà mai innalzato. Una particolarità del progetto è la presenza di colonne ad tronkonos (cioè sembrano dei tronchi d'albero spogliati) che reggono un arco di trionfo. Tutto il complesso avrebbe dovuto ricordare un foro romano, porticato sui quattro lati e con un arco di trionfo per ogni lato. Ascanio chiuse questi due grandi chiostri con un refettorio al centro, oggi sede dell'Università Cattolica.
Bramante inventò un tipo nuovo di convento, che verrà imitato per tutto il Cinquecento: il portico è altissimo, con i suoi 7,5 metri d'altezza, e avrà successo come tipologia in quanto si rivelò particolarmente adatto ad ospitare sia grandi stanze, come mense e biblioteche, sia due piani di celle per i monaci.
Tribuna di Santa Maria delle Grazie (1463-1490)
Nel 1490, Guiniforte Solari terminò la costruzione della chiesa in forme tardo-gotiche. A questo punto, Ludovico il Moro ordinò di smantellare la tribuna appena costruita per far posto a quella, assai vasta, rinascimentale, da alcuni attribuita al Bramante e da altri all'Amadeo. L'architetto impostò due absidi laterali grandi il doppio rispetto alle cappelle preesistenti e un coro molto allungato terminante con un'altra abside. La differenza di scala la possiamo notare anche in sezione: infatti il progetto amadeesco-bramantesco è alto il doppio rispetto a quello di Solari e termina con una cupola ottagonale che è la più alta costruita dopo quella di Santa Maria del Fiore.
La tribuna venne completata dopo la partenza di Bramante; questo si può notare dalla contrapposizione tra l'ordine geometrico tipicamente rinascimentale e l'eccesso di decorazioni tipicamente lombardo, realizzate successivamente e sicuramente da Giovanni Antonio Amadeo in base alla documentazione pervenutaci.
Altre opere lombarde
A Bramante vengono attribuite, non senza incertezze, numerose opere in varie città lombarde, progettate durante la sua permanenza a Milano. Spesso, per mancanze documentali, non si riesce a distinguere tra un intervento diretto in cantiere, la fornitura di disegni da far eseguire a capimastri locali, o la semplice influenza che l'autorità del maestro trasmetteva ad un vasto ambito culturale e che persisterà anche dopo la sua partenza per Roma. Infatti a cavallo fra XV e XVI secolo si formò un'identità architettonica rinascimentale ma specificamente lombarda, con personalità come Cristoforo Solari, che assimilarono il linguaggio bramantesco.
Al novero di tali attribuzioni appartiene il Santuario della Beata Vergine dei Miracoli di Saronno per il quale non vi sono documenti che attestino la partecipazione dell'architetto al progetto iniziale, anche in presenza di elementi stilistici che posso far ipotizzare un ruolo di Bramante.
Per altre opere abbiamo invece una presenza documentata, pur con grandi lacune:
Pavia
Concordemente viene attribuito a Bramante il progetto planimetrico dell'imponente Duomo di Pavia, basato sull'innesto di un nucleo ottagonale a cupola con un corpo longitudinale a tre navate (come nella cattedrale di Santa Maria del Fiore a Firenze o nel Santuario della Santa Casa di Loreto, allora in costruzione). Al progetto del Bramante, che intervenne in cantiere nel 1488, oltre allo schema planimetrico generale vengono attribuiti la cripta (terminata nel 1492) e la parte basamentale della zona absidale dell'edificio continuato molto lentamente, dopo la partenza di Bramante da Milano, secondo i progetti di altri architetti tra cui Pellegrino Tibaldi.
Nel progetto bramantesco sono stati rintracciati numerosi riferimenti a riprova della vasta cultura dell'architetto, tra cui il progetto originario della basilica di Santo Spirito del Brunelleschi, al quale rimanda il susseguirsi sul perimetro di cappelle semicircolari estradossate. Con questo progetto, Bramante, al di là delle apparenze, si pone come erede delle proposte innovatrici ed all'insegnamento del Brunelleschi, "fondatore" dell’architettura rinascimentale.
Un altro importante riferimento culturale sono i contemporanei studi di Leonardo da Vinci su edifici a pianta centrale, che presentano analogie con il Duomo pavese, più come atteggiamento che per specifiche soluzioni.
Vigevano
Nel 1492 e nel 1494-1496 Bramante lavorò a Vigevano per incarico di Ludovico il Moro e durante tali soggiorni forse impostò la conformazione urbanistica della Piazza Ducale,[18], oltre che intervenire sul castello.
A Roma
Il nuovo secolo segnò la caduta di Ludovico il Moro (1499), che aveva fatto dell'artista l'ingegnere ducale dello stato di Milano e fu caratterizzato dalla morte di Gaspare Visconti. L'architetto decise così di trasferirsi a Roma dove ebbe subito importanti commissioni, come l'affresco per l'anno giubilare a San Giovanni in Laterano, il chiostro della Pace, il palazzo Caprini e il tempietto di San Pietro. Da papa Alessandro VI fu nominato sottoarchitetto. Lavorò poi per Giulio II come primo architetto, vincendo la concorrenza di Giuliano da Sangallo. Non sappiamo se prima del 1499 egli fosse mai andato a Roma, ma certamente il contatto con i resti dell'architettura romana ebbe su di lui una grande influenza, provocando una profonda evoluzione nonostante il maestro avesse già 55 anni, tanto che già sue prime opere romane sono molto diverse dalle ultime milanesi.
Chiostro di Santa Maria della Pace (1500-1504)
È molto probabile che sia una delle prime opere romane di Bramante (fu progettata nel 1500, poco dopo il suo arrivo a Roma). Lo schema del chiostro mostra la sovrapposizione degli ordini classici, (ionico, al basamento, e composito nel loggiato superiore.
Il chiostro ha un'architettura alla romana: paraste ed archi a tutto sesto, pilastri e colonne alternati che sostengono l'architrave dell'ordine superiore e architrave rettilineo (copertura piana) perché c'è la trabeazione. Esso presenta un linguaggio radicale per la sua severità e per la mancanza di qualsiasi decorazione; in questo Bramante si distacca dal periodo milanese, durante il quale realizzava opere molto decorate.
Tempietto di San Pietro in Montorio (1502)
Commissionato dal Re di Spagna, è un tempietto monoptero di piccole dimensioni, sopraelevato, ripreso dagli antichi tempi peripteri circolari e monumentali romani (i cosiddetti martiria, perché edificati in onore a martiri). Ha un corpo cilindrico (dal quale possiamo dedurre l'ammirazione rinascimentale per la perfetta forma circolare), scavato da nicchie di alleggerimento e circondato da un colonnato dorico (periptero), sopra al quale corre una trabeazione decorata con triglifi e metope a tema liturgico di origine greca. Il colonnato esterno circonda la cella la cui muratura è scandita da paraste come proiezione delle colonne del peristilio. In modo canonico pone la colonna dorica su una base come i Romani (mentre i greci la poggiavano direttamente sul crepidoma, cioè il pavimento del tempio).
L'interno della cella ha un diametro di circa 4 metri e mezzo, cosicché non rimane spazio per le celebrazioni liturgiche: questo probabilmente significa che il tempietto fu costruito non con funzioni di chiesa, ma come un vero e proprio monumento celebrativo, in questo caso del martirio di san Pietro (il Gianicolo, dove sorge il tempietto, era tradizionalmente considerato il luogo dove il santo aveva subìto la crocefissione).
Nel progetto originario il cortile, ora quadrato, era circolare e sottolineava la centralità del tempio. Il significato di centralità dell'esperienza religiosa veniva così amplificato dallo spazio architettonico circostante, in cui si combinavano ancora elementi architettonici classici che davano un'importanza di "exemplum" all'insieme.
Anche in questo progetto del Bramante torna come riferimento il numero perfetto che configura la pianta circolare con 2 peripteri da 16 pilastri (si veda Santa Maria della Pace).
Le paraste scaturiscono anch'esse dalla centralità del progetto in quanto sono dimensionate mediante la proiezione dal centro; quelle anteriori le colonne sono più piccole, quelle posteriori più larghe.
La cupola, realizzata in conglomerato cementizio (alla maniera degli antichi), ha un raggio pari alla sua altezza, e all'altezza del tamburo su cui si appoggia; in questo ha un chiaro rapporto con il Pantheon (nel quale la cupola, anch'essa una semisfera, è alta la metà esatta dell'edificio completo).
Progetto per la nuova Basilica di San Pietro
Da vari decenni i papi pensavano di rinnovare la vecchia basilica paleocristiana, che era sempre meno in grado di far fronte alle sue molteplici funzioni anche a causa di problemi statici dovuti ai muri relativamente sottili ed al tetto a capriate che minacciavano di crollare. Papa Niccolò V aveva iniziato lavori per aggiungere alla vecchia navata un nuovo coro ed un transetto, di sormontare la chiesa con una cupola e di rinnovare la navata.
Dopo ul lungo periodo di inattività il cantiere fu riaperto da Giulio II che intendeva proseguire i lavori intrapresi da Bernardo Rossellino per Niccolò V. Tuttavia nel 1505, in un clima culturale pianamente rinascimentale che aveva coinvolto la Chiesa e la Curia, Giulio II decise la costruzione di una nuova colossale basilica che accogliesse anche il grandioso mausoleo, affidato a Michelangelo Buonarroti, che aveva concepito per la propria sepoltura.
Dopo aver consultato i maggiori artisti del tempo, i lavori furono affidati a Bramante del quale ci rimangono alcuni progetti, tra i quali il famoso "piano pergamena", in cui propose una perfetta pianta centrale, a croce greca, caratterizzata da una grande cupola emisferica posta al centro del complesso e con altre quattro croci greche più piccole disposte simmetricamente a quincunx intorno alla grande cupola centrale.
Il progetto rappresenta un momento cruciale nell'evoluzione dell'architettura rinascimentale, ponendosi come conclusione di varie esperienze progettuali ed intellettuali. La grande cupola era ispirata a quella del Pantheon ed avrebbe dovuto essere realizzata in conglomerato cementizio; in generale tutto il progetto fa riferimento all'architettura romana antica nella caratteristica di avere le pareti murarie concepite come masse plastiche capaci di articolare lo spazio in senso dinamico. La costruzione della nuova basilica avrebbe inoltre rappresentato la più grandiosa applicazione degli studi teorici intrapresi da Francesco di Giorgio Martini a Leonardo da Vinci per chiese a pianta centrale, studi chiaramente ispirati alla tribuna ottagonale della cattedrale di Firenze. Altri riferimenti vengono dalla scuola fiorentina, in particolare con Giuliano da Sangallo che aveva utilizzato la pianta a croce greca ed aveva già proposto un progetto a pianta centrale per la basilica di San Pietro.
Tuttavia non tutti i disegni di Bramante indicano una soluzione di pianta centrale perfetta, segno forse che la configurazione finale della chiesa era ancora questione aperta. Vennero, nei mesi del 1505, elaborate soluzioni capaci di integrare quanto già costruito del nuovo ed il corpo longitudinale della navata con una nuova crocera con transetto e cupola.
Nei lavori in cantiere, infatti, fu mantenuto quanto costruito dal Rossellino per il coro absidale, portato a termine completandolo con lesene doriche, in contrasto con il progetto del "piano pergamena". La sola certezza sulle ultime intenzioni di Bramante e Giulio II è la realizzazione dei quattro possenti pilastri uniti da quattro grandi arconi destinati a sorreggere la grande cupola, fin dall'inizio, dunque, elemento fondante della nuova basilica.
Pertanto nonostante una serie di lunghissimi avvicendamenti alla conduzione del cantiere (da Raffaello Sanzio, a Michelangelo Buonarroti, a Carlo Maderno), i progetti bramanteschi influenzarono comunque lo sviluppo dell'edificio, con l'uso della volta a botte e con i quattro piloni sormontati da altrettanti pennacchi diagonali a sostegno di una vasta cupola emisferica. Benché l'esterno e buona parte dell'interno dell'attuale San Pietro parlino il linguaggio di Michelangelo, furono Giulio II e Donato Bramante i veri ideatori di questo centro spirituale e materiale della città.
I lavori condotti dal Bramante iniziarono nel 1506 con la demolizione dell'abside ed il transetto dell'antica basilica, suscitando polemiche permanenti fuori e dentro la Chiesa.
Bramante, soprannominato "maestro ruinante", fu dileggiato nel dialogo satirico Simia ("Scimmia") di Andrea Guarna, pubblicato a Milano nel 1517, che racconta come l'architetto, presentandosi da morto davanti a san Pietro, venga da questi rampognato per la demolizione, rispondendo con la proposta di ricostruire l'intero Paradiso.
Cortile del Belvedere
Dal 1505 Bramante cominciò a progettare e realizzare, su ordine di Giulio II, la sistemazione di un vasto spazio (circa 300 x 100 m) in pendio posto tra il palazzetto di papa Innocenzo VIII, detto il casino del Belvedere per la sua posizione rialzata, ed il resto del complesso vaticano (in particolare con con la Cappella Sistina e gli appartamenti papali).
Il cortile fu diviso in tre terrazzamenti con quote differenti, collegati da rampe, e chiuso lateralmente da lunghi corpi di fabbrica, utilizzati in vario modo. Nel cortile più basso, pensato come un teatro e concluso con un'esedra semicircolare, furono posti tre ordini di loggiati differenti: dorico, ionico e corinzio, che si interrompono nella prima scalinata con scalini dolci e leggermene inclinati. All'esterno del lato orientale del cortile si trova la Porta Giulia in bugnato a chiave. Il secondo cortile, più piccolo, fu concluso da pareti con un unico ordine. Il cortile superiore al quale si accedeva per mezzo di una doppia scalinata a farfalla, presentava una scansione delle pareti a doppio ordine con paraste scandite a formare delle delle serliane. La prospettiva del cortile era conclusa da una grande nicchia, realizzata nel 1565 ad opera dell'architetto Pirro Ligorio a dare un prospetto compiuto all'antico Casino del Belvedere.
Dietro il nicchione fu creato un altro cortile ottagonale, anch'esso detto "cortile del Belvedere", che accolse per lungo tempo la raccolta di statue antiche del papa, compreso l'Apollo del Belvedere ed il Laocoonte. Vicino a questo cortile Bramante costruì una famosa scala a "lumaca" contenuta in uno stretto cilindro rampe a spirale sostenute da colonne. In tal modo fu inglobata nel nuovo complesso il Casino di Innocenzo VIII (l'originaria Villa del Belvedere).
Bramante non vide completo questo cantiere, come del resto tutti grandi cantieri papali, ed i lavori continuarono nel corso del XVI secolo. Il complessivo progetto bramantesco fu però alterato in epoche successive. Tra il 1585 ed il 1590 il Cortile del Belvedere venne diviso dal braccio trasversale della Biblioteca di Sisto V, interrompendo la continuità visiva del grande spazio terrazzato. Nel 1822 venne realizzato un secondo corpo di fabbrica trasversale, oggi occupato dai Musei Vaticani. Da quel momento si crearono quindi tre cortili aperti: il Cortile della Pigna (che prende il nome da una colossale pigna romana di bronzo), il Cortile della Biblioteca e il Cortile del Belvedere. Il complesso edilizio è utilizzato prevalentememte a scopo museale.
Altre opere a Roma
Via Giulia. Oltre ad opere architettoniche, bramante di ocuupò anche di realizzare una delle trasformazioni urbane volute da Giulio II che volle rettificare la via "magistralis" per farne una direttice di espansione edilizia e di riqualificazione della città, parallela alla Via della Lungara voluta da Alessandro VI, progettando di farla giungere con un nuovo ponte, non realizzato, fino al Vaticano. Nel 1507 Bramante cominciò le demolizioni a destra e sinitra della nuova "strada Recta" che diventerà una delle zone di maggior attività edilizia sotto Leone X prendendo il nome di Via Giulia.
Loreto
Come architetto del papa, Bramante fu chiamato dal 1507 al 1509 ad occuparsi del Santuario della Santa Casa di Loreto, che Giulio II aveva portato sotto la diretta giurisdizione pontificia. A quella data la chiesa era già stata edificata e l'intervento di Bramante si limitò al progetto della facciata (non realizzata), della piazza antistante e del Palazzo Apostolico adiacente, oltre che del rivestimento marmoreo che racchiude la "Santa casa di Nazareth" contenuta nel santuario, poi attuato sotto la direzione dei suoi successori a Loreto: Cristoforo Romano (1509-1512), Andrea Sansovino (1513-25, che realizzò bassorilievi e sculture), Ranieri Nerucci e Antonio da Sangallo il Giovane.
L'involucro architettonico scandito da lesene corinzie, presenta il tema dell'arco di trionfo (due interassi minori ai lati di un interasse maggiore) serializzato come nel cortile superiore del Belvedere e ripetuto sul perimetro della casetta che secondo la leggenda è giunta in volo a Loreto da Nazaret.
▪ 1722 - John Toland (Inishowen, 30 novembre 1670 – 11 marzo 1722) è stato un filosofopanteista e libero pensatore irlandese.
John Toland (1670-1722) ebbe un ruolo di rilevante importanza nella storia del panteismo; fu infatti il primo ad avere una concezione davvero particolare del panteismo, del quale inoltre coniò il termine. Egli aveva una visione prettamente scientifica e materialista, idealizzava l'unione di diverse società accomunate dalla religione panteista.
È significativo evidenziare cosa Toland stesso intendesse con il termine panteismo: ovvero che la sola divinità fosse l'Universo stesso. In seguito, furono aggiunte nei dizionari diverse definizioni che, talvolta con degli errori, crearono confusioni sul termine. Nonostante ciò, il significato fondamentale e originale che maggiormente si avvicina a tale pensiero è il “Panteismo Scientifico”.
Toland ebbe una carriera piuttosto travagliata, nacque nei pressi di Derry (nell'Irlanda del Nord) il 30 novembre 1670. Ebbe un'educazione religiosa-cattolica ma, all'età di sedici anni si convertì al Protestantesimo. Studiò in diverse città, passando per Glasgow ed Edimburgo e, successivamente, a Leida ed Utrecht. Dopo un ciclo di lezioni a Oxford, si stabilì a Londra nel 1695.
L'anno seguente pubblicò la sua prima e più famosa opera – Cristianesimo senza misteri, un attacco frontale ai falsi culti delle immagini, paramenti, altari, processioni, rituali e al clero, tutte forme di culto che erano state aggiunte all'originaria e semplice dottrina di Cristo.
Nella prima edizione, Toland restò cautamente nell’anonimato. In seguito all'inaspettato successo, legato fortemente allo scandalo provocato, Toland firmò il libro, attirando su di sé una catena di guai e di proteste da cui non si libererà per tutta la vita: il risultato fu che Toland venne via via emarginato dalla società Inglese.
Il suo libro fu duramente criticato, in Inghilterra se ne discusse parecchio fra i membri del Parlamento e fra i vescovi che si sentivano offesi (fu infatti condannato dal Grand Juri del Middlesex). Ritiratosi in Irlanda, Toland vi trovò le stesse critiche, se non maggiori. La Camera Irlandese, nel settembre 1697, stabilì che il libro fosse bruciato pubblicamente e che l'autore venisse arrestato e processato dal Procuratore Generale.
Un amico di John Locke, William Molyneaux scrisse:
"Quest'uomo disperato, con la suo comportamento incauto, ha sollevato contro di lui una riprovazione così univarsale, che il solo fatto di aver parlato con lui per una sola volta potrebbe esser pernicioso".
Ritornando in Inghilterra, solo e povero, Toland cercò di guadagnarsi da vivere trovandosi un protettore della famiglia reale e, per questo, sostenne la causa degli Hannover nei confronti della corona Inglese; tentò inoltre di influire sull'elettrice Sofia di Brunswick, ipotetica erede al trono, del favore della quale godette grazie alla mediazione di Leibniz. A lei sono indirizzate le celebri Lettere a Serena (1704).
A Brunswick e a Berlino tenne delle letture e fu coinvolto in dispute accademiche con Leibniz stesso.
Quando nel corso delle sue letture gli chiesero di riassumere il suo pensiero egli esordì in questo modo:
"Il sole è mio padre, la terra mia madre, il mondo è la mia patria e tutti gli uomini sono miei fratelli".
Scrisse,inoltre, dei pamphlets per il Tory Robert Harleye; quando questi perse il potere, lo fece per i Whigs. Nel 1702, Toland dichiarò di appartenere alla Chiesa d'Inghilterra ma, il suo passato da notorio eretico e le sue disavventure politiche lo rendevano sospetto; ragion per cui non riuscì mai ad ottenere la fiducia di coloro ai quali aveva chiesto protezione. Il filo conduttore degli scritti di Toland è la difesa della libertà d'espressione, dei diritti civili e di un Cristianesimo illuminato. Il più delle volte, però, era costretto a scrivere trattati a pagamento nei quali non poteva esprimere le sue "vere" opinioni sulla religione. Trascorse il resto della sua vita in povertà e coperto da debiti, rovinato da investimenti nelle azioni dei Mari del Sud nel 1720. Questo fu un anno disgraziato per Toland, poichè iniziò a bere pesantemente ed a soffrire di calcoli biliari che a lungo andare lo portarono alla morte l'anno seguente.
IL PENSIERO
Poiché Toland doveva il più possibile nascondere il suo panteismo per non suscitare troppi scandali, non è chiaro quando per la prima volta adottò questo tipo di filosofia: forse all'epoca dei suoi primi giorni a Oxford, nel 1693-95. Nel suo ultimo anno lì, egli scrisse che tutte le cose sono riempite da Dio, e citò con entusiasmo l'asserzione di Strabone (Geografia, XVI, 2.25) che Mosè identificava Dio con l'universo:
"In accordo con lui, Dio è l'unica e sola cosa che comprende tutti noi e la terra e il mare-tutto ciò che noi chiamiamo cielo, universo, la natura di tutto ciò che esiste".
Toland fu molto influenzato dal materialismo di Lucrezio, di cui lesse con interesse il De rerum natura
La seconda e potente influenza esercitata su Toland fu quella del panteismo di Giordano Bruno. Nel 1698 Toland acquistò una copia rilegata della regina Elisabetta di quattro dialoghi di Bruno, e a partire da allora Toland divenne un entusiasta divulgatore delle idee di Bruno sia in Inghilterra che in Europa.
Le idee di Toland erano una miscela di quelle di Lucrezio e di quelle di Bruno, non originali in dettaglio, ma originali se combinate insieme. A meno che noi non consideriamo Lucrezio stesso un panteista, è fuor di dubbio che Toland debba essere considerato il padre del panteismo scientifico moderno, il primo a combinare uno stretto materialismo con il rispetto per la scienza dei suoi tempi, con una religiosa venerazione dell'universo. Toland usò per la prima volta il termine “panteismo” nel 1705, senza alcuna spiegazione, nel titolo della sua opera Socinianism Truly Stated, by a pantheist. Nel 1710, in una lettera a Leibniz, egli fornì alcuni contenuti al termine quando affermò esplicitamente che "il panteismo crede che non esista nulla di eterno se non l'universo stesso" [14 febbraio 1710].
Ma solo nel 1720 che Toland chiaramente definì se stesso come panteista. In quell'anno, povero, indebitato, ignoto ai più, non avendo nulla da perdere, pubblicò il suo Pantheisticon, mettendo a punto la filosofia. Anche la pubblicazione del libro fu a suo modo segreta: fu pubblicato in latino, in modo da renderlo accessibile solo alle persone di cultura elevata. Fu stampato a sue spese e distribuito da Toland solo agli amici più fidati. In un'età di libertà di parola e di pluralismo religioso sarebbe troppo semplice considerare questi sotterfugi come segni di viltà: bisogna infatti ricordare che Toland viveva in un'epoca in cui le persecuzioni erano finite da pochissimo (ancora nel 1697 Thomas Aitkenhead era stato brutalmente messo a morte per aver messo in dubbio il dogma della trinità). La persecuzione sociale era ancora diffusa e Toland stesso aveva messo in pericolo la sua carriera con le sue critiche del Cristianesimo convenzionale. In questo suo lavoro Toland asserisce che l'Universo è costituito di sola materia, che contiene entro se stesso il suo proprio principio di movimento. L'Universo è infinito senza centro nè periferia, con un infinito numero di pianeti e stelle. Tutte le cose sono in continuo cambiamento, una "incessante rivoluzione di tutti gli esseri e forme esistenti" alle quali, dato un tempo infinito, tutte le combinazioni si potranno un giorno verificare. La mente umana e l'anima sono proprietà del cervello, che è anch’esso un organo materiale. Toland affermava che i panteisti avrebbero dovuto avere una doppia filosofia, una per uso pubblico e una per uso privato. In pubblico, essi avrebbero dovuto conformarsi alla religione stabilita dalla società nella quale vivevano. "Il Panteista non dovrebbe mai scontrarsi apertamente con la teologia, se da ciò può derivargli un danno", scriveva nel Pantheisticon; e aggiungeva: "ma egualmente egli non dovrà rimanere in silenzio se dovesse avere l'occasione di parlare senza rischiare la vita".
Toland non disponeva di nessun piano per diffondere il panteismo fra le masse dei suoi tempi. Le masse ignoranti, egli sosteneva, avrebbero preferito farsi raccontare favole e miti piuttosto che la verità, mentre gli avidi di potere e i corrotti, sia nella Chiesa che nello stato, avrebbero sempre preferito fare i baciapile per conto di una religione formale al fine di ottenerne vantaggi personali. I Panteisti avrebbero dovuto condividere e discutere le loro idee al riparo da orecchie indiscrete, in ritrovi esclusivi solo per persone colte. Ogni club avrebbe dovuto avere un presidente che avrebbe dovuto essere a capo delle liturgie. I membri avrebbero dovuto essere morigerati da tutti i punti di vista e intrattenere seri dibattiti sulle loro opinioni. D'estate, avrebbero dovuto pranzare all'aria aperta, d'inverno ai raggi del sole o di fronte a un fuoco scoppiettante. La liturgia che Toland offriva era una pittoresca e malinconica combinazione di un breve credo, lodi degli antichi filosofi, la recita di odi di Orazio e frasi tratte da opere di Catone e Cicerone. L'inizio della cerimonia si svolgeva in modo alquanto comico, fra scene da romanzo di cappa e spada e alta filosofia. Sembra molto probabile che Toland non abbia mai organizzato una società specificamente panteista del tipo che egli ha descritto. Anche nel Pantheisticon stesso, egli lascia trasparire dei riferimenti a ciò:
"La gente mi può chiedere se davvero possa esistere una società come questa, o se è solo una finzione. Può anche darsi che sia così, ma se anche così fosse, cosa importa? Se anche non è vero, come minimo può essere di aiuto il solo pensare che così potrebbe essere".
Abbiamo già accennato a come, il recupero del panteismo, coincida in Toland con la critica del Cristianesimo e si traduca in un deismo panteistico e critico, che rigetta il dogma del miracolo, la separazione della morale dalla religione, la riconduzione del nucleo religioso alla “verità rivelata”. Seguace della Ragionevolezza del Cristianesimo di Locke (il quale però rifiutò tale paternità spirituale), anche Toland, in sintonia con gli altri deisti inglesi (Collins, Tindal, ecc) si propone di ricondurre la religione ai dettami della ragione, epurandola da ogni aspetto che non si accordi con la ragione stessa. La tesi della “ragionevolezza del Cristianesimo” era usata da Locke in funzione apologetica: ora, Toland la usa invece in funzione polemica, ritenendo che sia necessario eliminare dalla Scrittura tutto quel che è irriducibile alla ragione, tutto ciò che è misterioso. Non esistono verità “al di sopra della ragione” che non siano anche “contrarie alla ragione”.
Ecco perché, in Cristianesimo senza misteri, egli critica la nozione di mistero inteso come realtà ultima che va al di là delle specie sensibili e conoscibili dalla ragione umana: egli recupera la distinzione lockeana tra “essenza nominale” (semplice sintesi, perfettamente conoscibile, delle qualità sensibili di una cosa) ed “essenza reale” (la sostanza che sta sotto alle qualità sensibili come loro principio metafisico). Quando si parla di misteri, dice Toland, ci si riferisce all’ “essenza reale”, che però sfugge sempre alla presa della ragione umana, la quale può conoscere solo le proprietà delle cose e mai la sostanza. Ma poiché è sufficiente conoscere le proprietà per avere una conoscenza adeguata (che fornisca cioè indicazioni pratiche senza per questo essere onnicomprensiva), ne segue che la rinuncia alla comprensione della sostanza delle cose si traduce in abbandono del concetto di mistero.
Toland sviluppa anche un nuovo criterio di esegesi biblica, individuando i due piani sui quali deve poggiare una corretta interpretazione delle Scritture: quello filosofico, che consente di mettere il Testo Sacro in relazione con la razionalità umana, e quello storico, legato, in particolare, alla conoscenza dei documenti e della tradizione della religione ebraica. A tal proposito, così scrive Toland:
“Chiunque fa una rivelazione, cioè chiunque ci informa di qualcosa che non sapevamo prima, deve parlare con parole comprensibili, e il fatto deve essere possibile. Questa regola si mantiene valida sia che l’autore della rivelazione sia Dio o l’uomo. Se consideriamo folle la persona che esige il nostro assenso a ciò che è evidentemente incredibile, come osiamo attribuire in modo sacrilego all’essere piú perfetto un difetto riconosciuto come tale in uno di noi? Per quanto riguarda i messaggi incomprensibili, non possiamo credervi per rivelazione divina, piú che per quella umana; infatti le idee che si formano delle cose sono i soli oggetti degli atti di credere, negare e approvare, e di ogni altra attività dell’intelletto: perciò tutte le cose rivelate da Dio o dall’uomo devono essere ugualmente comprensibili e possibili; e fin qui l’una e l’altra rivelazione coincidono. Ma esse sono differenti in questo, che per quanto la rivelazione dell’uomo presenti tali requisiti, egli può tuttavia ingannarmi riguardo alla verità del fatto, mentre ciò che a Dio piace di rivelarmi non è soltanto chiaro alla mia ragione (senza di che la sua rivelazione non potrebbe rendermi piú saggio), ma è anche sempre vero. Una persona ad esempio mi informa di aver trovato un tesoro: questo è chiaro e possibile, ma egli può facilmente ingannarmi. Dio mi assicura che ha formato l’uomo dalla terra: questo non soltanto è possibile a Dio, e molto comprensibile per me, ma è anche una cosa assolutamente certa, poiché Dio non è capace di ingannarmi come l’uomo. Dobbiamo dunque aspettarci lo stesso grado di chiarezza da parte di Dio e dell’uomo, ma una maggiore certezza da parte del primo che del secondo” (Cristianesimo senza misteri, Sez. II, Cap.II).
▪ 1908 - Edmondo De Amicis (Oneglia, 21 ottobre 1846 – Bordighera, 11 marzo 1908) è stato uno scrittore e pedagogo italiano.
È conosciuto per essere l'autore del romanzo Cuore, uno dei testi più popolari della letteratura italiana per ragazzi, assieme a Pinocchio di Carlo Collodi.
Studiò a Cuneo e frequentò poi il liceo a Torino. A sedici anni entrò nell'Accademia militare di Modena, dove divenne ufficiale.
Nel 1866 come luogotenente partecipò alla battaglia di Custoza e assistette alla sconfitta patita dai Sabaudi a causa dell'incapacità dei comandi di gestire la larga superiorità numerica. Fu questo forse che fece nascere in lui la delusione che lo spinse ad un certo punto a lasciare l'esercito.
In quel periodo era comunque prevalente lo spirito patriottico e vedeva l'esercito come primo luogo in cui si andava formando l'unità d'Italia. Considerava la disciplina militare come valido metodo educativo.
A Firenze, dove si era recato per servizio, scrisse su questi temi e sulla propria esperienza una serie di bozzetti, che poi sarebbero stati raggruppati nella raccolta La vita militare (1868) pubblicata per la prima volta su L'Italia militare organo del ministero della guerra.
Quando poco dopo lasciò l'esercito divenne inviato per la Nazione di Firenze, assistendo tra l'altro alla presa di Roma nel 1870. In questo periodo le sue corrispondenze andarono a formare i libri di viaggio Spagna (1872), Ricordi di Londra (1873), Olanda (1874), Marocco (1876), Costantinopoli (1878/79), Ricordi di Parigi (1879).
Nel 1882 soggiornò a Pinerolo e vi tornò nel 1883 e nel 1884. Qui scrisse il libro Alle porte d'Italia dedicato alla città e al Pinerolese. Nel 1884 Pinerolo gli conferì la cittadinanza onoraria con il diploma di cittadinanza del 4 aprile.
Fu il 17 ottobre 1886, primo giorno di scuola, che l'editore Treves fece uscire nelle librerie Cuore, che da subito ebbe grande successo, tanto che in pochi mesi si superarono le quaranta edizioni e ci furono traduzioni in decine di lingue. Il libro fu molto apprezzato anche perché ricco di spunti morali attorno ai miti del Risorgimento italiano.
Fu invece criticato dai cattolici per l'assenza totale di tradizioni religiose (i bambini di Cuore non festeggiano nemmeno il Natale), specchio delle aspre controversie tra il Regno d'Italia e Papa Pio IX dopo la presa di Roma. Alla vita scolastica dei figli Ugo e Furio si ispirò Edmondo De Amicis per scrivere il suo romanzo più famoso.
Negli anni attorno al 1890 De Amicis si avvicinò poi al socialismo fino ad aderirvi nel 1896. Questo mutamento di indirizzo è visibile nelle sue opere successive, in cui presta molta attenzione alle difficili condizioni delle fasce sociali più povere e vengono completamente superate le idee nazionalistiche che avevano animato Cuore. Amico di Filippo Turati, collaborò a giornali legati al partito socialista come la Critica sociale e La lotta di classe.
Appartenne alla massoneria a una loggia di Torino. Non si conosce esattamente a quale loggia torinese, ma sappiamo che nel 1895 fu De Amicis a pronunciare il saluto della massoneria torinese al Fr.'. Giovanni Bovio, in occasione della rappresentazione teatrale del dramma "San Paolo", che era interpretato da un altro massone, l'attore Giovanni Emanuel.
Abbiamo quindi libri come Sull'oceano (1889) sulle condizione dei poverissimi emigranti italiani e poi Il romanzo di un maestro (1890, da cui è stato tratto nel 1959 lo sceneggiato televisivo omonimo), Amore e ginnastica (1892, da cui è stato tratto il film omonimo), Maestrina degli operai (1895), La carrozza di tutti (1899). Inoltre scrisse per Il grido del popolo di Torino numerosi articoli di ispirazione socialista che furono poi raccolti nel libro Questione sociale (1894).
Nel 1903 fu eletto socio dell'Accademia della Crusca.
Nel 1906 egli si recò da Mario Rapisardi, immaginando l'incontro come quello di: «due vecchi soldati coperti di cicatrici, dopo una lunga guerra combattuta sotto la stessa bandiera.» (Edmondo De Amicis)
Le ultime cose che scrisse furono L'idioma gentile (1905), Ricordi d'un viaggio in Sicilia (1908), Nuovi ritratti letterari e artistici (1908).
«(Catania) A Edmondo De Amicis che in questa casa alloggio nel 5 novembre del 1906, al cittadino, allo scrittore, al maestro la cui opera fu tutta un'armonia di bontà di bellezza di amore, gli studenti delle scuole elementari pongono questo ricordo come segno del monumento perenne che gli consacra il cuore del popolo da lui confortato con la parola, con gli scritti, con l'esempio alle fulgide ascensioni dell'Ideale. Epigrafe di Mario Rapisardi »
Morì nel 1908 a Bordighera, nella casa di un altro grande scrittore del Novecento, George McDonald. I suoi ultimi anni furono rattristati dalla morte della madre, a cui era molto legato, e dai continui litigi con la moglie Teresa Boassi, che provocarono, nel 1898, il suicidio del loro figlio maggiore, il ventiduenne Furio, disperato a causa della situazione familiare ormai infernale.
▪ 1940 - Edgardo Mortara (Bologna, 27 agosto 1851 – Parigi, 11 marzo 1940) fu un presbitero italiano, nato da famiglia ebraica dello Stato Pontificio.
Battezzato all'insaputa dei suoi genitori dalla domestica cattolica, a seguito di ciò nel 1858, all'età di 6 anni, fu tolto alla sua famiglia per ordine di papa Pio IX per essere educato al cattolicesimo. Il cosiddetto "caso Mortara" divenne il centro di uno scandalo internazionale che funse da catalizzatore per mutamenti politici di vasta portata. Le ripercussioni di questo evento permangono ancora oggi all'interno della Chiesa cattolica e nelle sue relazioni con le organizzazioni ebraiche.
Il caso Mortara
La sera del 23 giugno 1858 la polizia dello Stato Pontificio, che a quei tempi comprendeva ancora Bologna, si presentò alla porta della famiglia ebrea di Marianna e Momolo Mortara per prendere uno dei loro otto figli, Edgardo (che all'epoca aveva sei anni) e trasportarlo a Roma dove sarebbe stato allevato dalla Chiesa.
La polizia agiva su ordini del Sant'Uffizio, autorizzati da papa Pio IX. I rappresentanti della Chiesa dissero che una cameriera cattolica della famiglia Mortara aveva battezzato il piccolo Edgardo durante una malattia ritenendo che se fosse morto sarebbe finito nel limbo. Il battesimo di Edgardo lo rendeva cristiano e secondo le leggi dello Stato pontificio una famiglia ebrea non poteva allevare un cristiano sebbene fosse loro figlio. Nella relazione che poi lo stesso Edgardo scrisse per la causa di beatificazione di papa Pio IX annotò che le leggi dello Stato Pontificio non permettevano ai cristiani di lavorare per gli ebrei né agli ebrei di lavorare in casa di cristiani. Questa legge era però largamente disattesa.
Edgardo fu portato a Roma in una "casa" di ex ebrei convertiti al Cattolicesimo, che era stata costruita con tasse imposte agli ebrei. Ai suoi genitori non fu permesso di vederlo per diverse settimane e, quando in seguito fu loro concesso, non poterono farlo da soli. Pio IX prese interesse personale alla storia e tutti gli appelli alla Chiesa vennero respinti.
L'incidente arrivò alla ribalta sia in Italia sia all'estero.
Nel Regno di Sardegna, che allora era lo stato indipendente centro dell'unificazione nazionale, sia il governo sia la stampa usarono il caso per rafforzare le loro rivendicazioni alla liberazione dello Stato Pontificio.
Le proteste furono supportate da organizzazioni ebraiche e da figure politiche e intellettuali britanniche, americane, tedesche e francesi. Non passò molto tempo che i governi di questi paesi si unirono al coro di chi chiedeva il ritorno di Edgardo dai suoi genitori. Protestò anche l'imperatore francese Napoleone III nonostante le sue guarnigioni sostenessero il Papa nel mantenimento dello status quo in Italia.
Pio IX non si fece smuovere da questi appelli, che principalmente venivano da protestanti, atei ed ebrei.
Quando una delegazione di notabili ebrei lo incontrò nel 1859 egli disse: "non sono interessato a cosa ne pensa il mondo". In un altro incontro fece partecipare Edgardo per mostrare che il ragazzo era felice sotto le sue cure. Nel 1865 disse: "Avevo il diritto e l'obbligo di fare ciò che ho fatto per questo ragazzo, e se dovessi farlo lo farei di nuovo".
Il caso Mortara servì a propagandare in Italia e all'estero l'immagine di uno Stato Pontificio anacronistico e irrispettoso dei diritti umani nell'età del liberalismo e razionalismo. Aiutò inoltre a persuadere l'opinione pubblica in Francia e in Gran Bretagna che fosse giusto permettere al Regno di Sardegna di muovere guerra contro lo stato Pontificio nel 1859.
Nel 1859 quando Bologna fu annessa al Regno di Sardegna, i Mortara fecero un altro tentativo di recuperare il loro figlio, ma non ci riuscirono. Nel 1870, quando Roma fu annessa al regno d'Italia, tentarono nuovamente, ma l'oramai diciottenne Edgardo dichiarò l'intenzione di restare cattolico.
In quell'anno si spostò in Francia. L'anno seguente il padre, Momolo, morì. In Francia Edgardo entrò nell'ordine degli agostiniani e venne ordinato prete all'età di ventitré anni e adottò il nome di Pio. Egli fu inviato come missionario in città come Monaco di Baviera, Magonza, Breslavia per convertire gli ebrei. Egli imparò a parlare nove lingue incluso il basco.
Durante una serie di conferenze in Italia ristabilì i contatti con la madre ed i fratelli. Nel 1895 egli partecipò al funerale della madre.
Nel 1897 predicò a New York, ma l'arcivescovo di New York fece sapere al Vaticano che si sarebbe opposto agli sforzi di evangelizzare gli ebrei in terra americana e che i suoi sforzi mettevano in imbarazzo la Chiesa. Mortara morì l'11 marzo 1940 a Parigi dopo aver passato diversi anni in un monastero.
Pio IX e gli ebrei
La dottrina cattolica e perciò la legge dello stato Pontifico da sempre considera che il battesimo di qualunque bambino porta il bambino stesso ad essere cristiano, appartenente alla vera religione. Nonostante questa legge fosse universale, in pratica fu applicata solo agli ebrei, dato che erano l'unica minoranza religiosa non cattolica tollerata e la sola religione, escluso il cattolicesimo, che poteva essere professata.
Prima che Pio IX fosse papa (1846) gli ebrei di Roma erano obbligati a risiedere nel ghetto. All'inizio Pio IX mostrò tendenze liberali nei confronti degli ebrei.
In particolare revocò l'obbligo di risiedere in particolari quartieri e a partecipare a speciali incontri in cui i preti predicavano la conversione al cattolicesimo. Gli ebrei continuarono ad essere tassati per pagare le scuole ad ex ebrei convertiti al cattolicesimo. Non furono ammessi nei tribunali come testi a carico di imputati cristiani.
A questa visione si aggiunse in seguito un antigiudaismo personale, sviluppato da Pio IX dopo l'esperienza della Repubblica romana e dopo la perdita del potere temporale.
Il caso Mortara è tornato alla ribalta negli ultimi anni per effetto della causa di canonizzazione di Pio IX fortemente voluta da papa Giovanni Paolo II. Gruppi ebraici ed altri, guidati dai discendenti della famiglia Mortara, hanno protestato presso il Vaticano per la beatificazione di Pio IX nel 2000. Nel 1997 David L. Kertzer pubblicò il libro The Kidnapping of Edgardo Mortara (Il rapimento di Edgardo Mortara, in italiano "Prigioniero del Papa Re") portò nuovamente all'attenzione del grande pubblico tutta la vicenda. L'interesse mostrato alla vicenda portò alla realizzazione di uno sceneggiato televisivo, andato in onda negli USA, dal titolo Edgardo Mine (Edgardo mio) a cura di Alfred Uhry e forse ne verrà tratto anche un film.
Nel 2005, lo scrittore cattolico Vittorio Messori ha pubblicato per Oscar-Mondadori il libro Io, il bambino ebreo rapito da Pio IX dove è riportato integralmente il memoriale del protagonista stesso del caso, Edgardo Mortara, scritto nel 1888 quando era in Spagna. In questo memoriale il protagonista stesso del caso descrive papa Pio IX come un padre affettuoso e premuroso, contrariamente al pensiero comune.
In Italia i maggiori rappresentanti degli ebrei e alcuni cattolici hanno messo in evidenza che la canonizzazione di Pio IX può danneggiare il recente lavoro per far dimenticare i comportamenti antigiudaici della Chiesa cattolica.
Anche B'nai B'rith, un importante gruppo ebraico con sede negli Stati Uniti, ha fortemente protestato contro la canonizzazione di Pio IX.
L'arcivescovo Carlo Liberati, che ha seguito la causa di canonizzazione ha detto a questo proposito: «Nel processo di beatificazione questo non può essere considerato un problema perché era una consuetudine dei tempi battezzare i giudei e farli diventare cattolici». Liberati aggiunge anche «non possiamo guardare la Chiesa di allora con gli occhi dell'anno 2000, con tutta la libertà religiosa che abbiamo oggi» e continua «la giovane domestica voleva dare la grazia di Dio al bambino. Lei voleva che andasse in Paradiso... [e] a quei tempi la paternità spirituale era più importante di quella civile».
Il padre gesuita Giacomo Martina, un professore dell'Università Pontificia Gregoriana a Roma, scrisse in una biografia di Pio IX: «in prospettiva, la storia Mortara dimostra il profondo zelo di Pio IX... [e] la sua fermezza nel perseguire quello che lui percepiva come suo compito anche a costo della sua popolarità». Egli inoltre dice che il Papa considerava i critici «non credenti... [utilizzanti] una macchina da guerra contro la Chiesa».
Inoltre bisogna ricordare che Pio IX agì nel pieno rispetto sia della legge civile sia del diritto canonico; di suo aggiunse l'affetto, ricambiato per tutta la vita, per il piccolo Edgardo, che a ventitré anni assunse il nome di Pio. Elena Mortara, una discendente di una delle sorelle di Edgardo e professoressa di letteratura a Roma, continua peraltro la campagna per ottenere le scuse del Vaticano per il “ratto” di Edgardo e contro la canonizzazione di Pio IX.
Per il parere documentato di Messori clicca qui
▪ 1955 - Sir Alexander Fleming (Lichfield, 6 agosto 1881 – Londra, 11 marzo 1955) è stato un biologo e farmacologo britannico.
Fleming pubblicò numerosi articoli su batteriologia, immunologia e chemioterapia. I suoi successi più noti sono stati la scoperta dell'enzima lisozima nel 1922 e l'avere isolato la sostanza antibiotica penicillina dal fungo Penicillium notatum nel 1928, per cui ricevette il Premio Nobel per la medicina nel 1945 assieme a Florey e Chain.
Alexander Fleming nasce il 6 Agosto 1881, Lichfield, Scozia. A cinque anni incomincia a frequentare una scuola campagnola, situata vicino la sua fattoria.
Dagli 8 ai 10 anni frequentò la scuola di Darvel, città vicina, e successivamente a dodici l'Accademia di Kilmarnock, importante città della contea d'Ayr. A tredici anni e mezzo si trasferisce a Londra, dove lo aspettavano alcuni fratelli,e insieme a Robert segue i corsi della Polytechinic School.
Dalla guerra del Transvaal agli studi di medicina
Nell'anno 1900 scoppiò la guerra del Transvaal, in continente africano. Alec (Alexander) con i fratelli John e Robert, si arruolarono come volontari nei London Scottish, reggimento composto esclusivamente da Scozzesi. Ma il numero dei soldati era superiore alle richieste, e i Fleming non andarono mai in guerra. In questo ambiente militare Alexander dimostrò la sua bravura nello sport: era un valente nuotatore, un eccellente giocatore di pallanuoto e un ottimo tiratore. Questo anni più tardi gli permetterà di entrare nell'Inoculation Departement, dove lavorerà per gran parte della sua vita. Alexander aveva 20 anni quando morì suo zio John, ricevendo un'eredità di 250 sterline che decise di spendere per studiare medicina. Per entrare aveva bisogno di un diploma speciale per chi non aveva frequentato le scuole secondarie. Studiò e passò brillantemente l'esame, tanto da risultare il più bravo in tutto il Regno Unito (luglio 1901). Al momento della scelta di quale scuola decise il Saint Mary's Hospital, un giovane ospedale nel quartiere di Paddington, nel quale entrò nell'ottobre del 1901. Fu uno studente brillante, primo nella gran parte delle materie, preparatissimo anche con una cultura non vastissima ma abile nel ragionare dalla spiccata intelligenza del naturalista. All'inizio si profilava per lui una carriera da chirurgo, avendo superato l'esame relativo ed e acquistando il titolo di Fellow Royal College of Surgeons. Ma ben presto un fatto irrilevante, la sua bravura nel tiro, avrebbe deviato la sua strada.
Fleming e Wright, l'Inoculation Department
Era il 1902 quando Sir Almroth Wright, celebre batteriologo, aveva creato l'Inoculation Department al Saint Mary Hospital. Fleming vi ci entrò nel 1906, in modo fortuito: uno dei discepoli di Wright, il dottor John Freeman, voleva far risorgere lo shooting club dell'ospedale, e gli venne suggerito Alexander. Avvicinatosi allo scozzese, riuscì a farlo deviare dal suo corso di studi di chirurgia e farlo passare al department, anche cercando di condividere con lui l'ammirazione per Wright. Il Department era una piccola struttura, in cui i giovani medici scelti da Wright (chiamato "il Vecchio") operavano sia come clinici che come ricercatori. Qui i malati venivano sottoposti all'inoculazione, ovvero quella che noi chiamamo vaccinazione, in quel periodo considerata l'unica vera arma contro le malattie. Ma il gruppo di Wright voleva fare di più: dalla vaccinazione preventiva voleva passare a quella teraputica. Al department, Little Flem si rilevo un ottimo elemento: esperto e ingegnoso, i pochi strumenti da laboratorio a sua disposizione si piegavano alla sua volontà, così da diventare oggetti particolari e complicati; nello stile di scrittura elegante e chiaro, riuscì persino a essere lodato dal suo capo. E proprio con Wright che lo scozzese avrà un rapporto particolare e profondo, nato dal loro contrasto caratteriale ma anche dalla reciproca stima. In quei anni Fleming incominciò a frequentare il Chelsea Arts Club, e lo continuerà a fare per il resto della sua vita. Nel 1908 Fleming supera gli ultimi anni di medicina, classificandosi primo. Nel 1909 l'Inoculation Department diventa una struttura indipendente e viene ingrandito e migliorato grazie alle sovvenzioni di alcuni ammiratori ricchi e potenti di Wright. Sempre nello stesso anno, con l'invenzione da parte di Paul Ehrlich del Salvarsan, un derivato dell'arsenico particolarmente potente, iniziava il periodo della chemioterapia. Nonostante questo, il gruppo del department era ostinato alla ricerca di una cura che facesse affidamento alle naturali difese del corpo umano, ed era scettico verso le sostanze chimiche. Nonostante i vari successi del gruppo, la ricerca della "Palla Magica", ovvero un rimedio più potente possibile contro i microbi ma anche non tossico per il corpo umano, era ancora all'inizio.
La prima guerra mondiale
Nell'aprile del 1914 Fleming lascia i London Scottish, poiché i loro periodi di istruzione militare non erano più compatibili con il lavoro in ospedale. Ironia della sorte, pochi mesi dopo scoppia la Prima Guerra Mondiale. Wright fu nominato colonnelo e fu mandato in Francia per creare un laboratorio e un centro di ricerche a Boulogne-sur-Mer, portando con se anche Alec, che aveva 2 stellette di tenente RAMC (Royal Army Medical Corps). Il lavoro che gli aspetterà sarà titanico,nonostante la vaccinazione antitifica che Wright riuscì a imporre all'esercito: setticemie, tetani, cancrene. In tempi di pace, la chirurgia era ormai diventata sterile grazie alle operazioni di antisepsi e asepsi inventate da Lister; ma quelli non era tempi di pace. I corpi feriti dei soldati brulicavano di batteri e sporcizia, brandelli di vestiti e residui bellici e nonostante il pesante uso di antisettici, gli uomini morivano. I tessuti morti delle ferite erano un terreno di coltura ideale per i microbi e bisognava asportarli; questo era possibile con quelle superficiali, ma la maggior parte erano ferite profonde. In questi casi si utilizzavano pesantemente acido fenico, acido borico e acqua ossigenata: si sapeva che avevano un'efficacia solo parziale, ma la maggior parte dei medici preferiva questo che non utilizzare niente. Fleming fece esperimenti e dimostro che gli antisettici avevano un'efficacia praticamente nulla in caso di ferite profonde: non potendosi diffondere, non riuscivano ad arrivare ai batteri che si insediavano nelle anfrattuosità della carne dilaniata. Quello che si poteva fare, secondo Fleming e Wright, era invece stimolare l'arrivo delle difese naturali del corpo e scoprirono che quest'azione la davano delle soluzioni ipertoniche, come quelle di ipoclorito di sodio. I risultati furono soddisfacenti e vennero pubblicati, non senza qualche obiezione: in particolare ci fu contrasto fra Wright e Sir William Watson Cheyen, presidente del Collegio Reale dei Chirurghi, in disaccordo su come vennero giudicati gli antisettici ormai cari a questi medici. Il 23 dicembre 1915, durante un periodo di licenza, Alexander si sposa con Sarah Marion Mc Elroy, capo-infermiera di una clinica privata nel cuore di Londra. Nel novembre 1918 la guerra finì, e Fleming fu smobilitato nel gennaio 1919.
La scoperta del Lisozima
Nel 1921 Fleming viene nominato vice-direttore dell'Inoculation Department. Nel 1922, in modo casuale, scopre il lisozima: qualche settimana dopo aver messo del suo muco nasale su una capsula di Petri, nota che delle colture di microbi si erano sviluppate per tutto lo strumento tranne che sulla sua secrezione. Esperimenti successivi fatti con altro muco o con lacrime gli dimostrarono che era presente in questi liquidi una sostanza ad azione antibatterica, molto superiore a quella del siero di origine animale. Le caratteristiche di questi liquidi erano dovuti ad un enzima, che "lisava" (dal greco Lysis, dissoluzione) certi microbi: da qui il nome lisozima. Lo scozzese trovò l'enzima in molti tessuti e umori, umani come animali o vegetali: esso sembrava l'antisettico naturale, la prima difesa della cellula contro i microbi, il mezzo con cui gli esseri viventi potevano sopravvivere senza essere continuamente attaccati da malattie. Fleming avrebbe voluto isolare l'enzima puro, ma il gruppo al department non aveva né un chimico né un biochimico (problema che si riscontrerà anche in seguito con la penicillina). Fleming presentò i suoi risultati: nel dicembre 1922 espose i suoi studi al Medical Research Club, ma ottennero un'accoglienza glaciale. Sempre con argomento il lisozima, Alexander preparò una comunicazione che Wright presentò alla Royal Society of Medicine, e dal '22 al '27 pubblicò altri 5 studi. Il 18 marzo 1924 nasce il suo primo figlio, Robert.
La scoperta della Penicillina
Il lisozima si rivelò presto non potente come creduto da Fleming: devastante sui batteri innocui, perdeva efficacia sui batteri patogeni. Così la ricerca di Alec continuava. Studiò il mercurocromo, antisettico efficace ma troppo tossico per l'uomo. Con grande fortuna, nel 1928 si imbatté in una capsula di Petri particolare: era macchiata di muffa come tante altre nel suo laboratorio, ma attorno a essa le colonie batteriche si erano dissolte. L'efficacia del fungo fu provata su vari tipi di batteri, e i risultati furono più che soddisfacenti sia per range di efficacia (distruggeva gli streptococchi, i stafilococchi, i bacilli della difterite e del carbonchio , ma era inefficace sui batteri del tifo) e per forza (avevano effetto soluzioni diluite fino a 1/500). La muffa miracolosa fu identificata inizialmente come penicillium rubrum, ma due anni più tardi si scoprì che era in realtà penicillium notatum, e da qui il nome penicillina. Nonostante lo straordinario potere di antibiosi della penicillina, essa presentava un grande problema: era difficile da produrre e se lo si faceva, le quantità erano scarse. Come per il lisozima, inoltre, Fleming avrebbe desiderato isolare il principio attivo, la penicillina pura, e non il filtrato grezzo, ma l'assenza di chimici glielo impedì. Sempre nel 1928 fu nominato professore di batteriologia all'Università di Londra. Il ricercatore presentò i risultati sulla penicillina il 13 febbraio 1929 al Medical Research Club, ottenendo la stessa accoglienza ricevuta col lisozima. Con l'avvento dei sulfamidici, la penicillina venne “messa da parte”: avrà la sua rivalsa solo qualche anno più tardi, grazie agli studi di alcuni ricercatori di Oxford. I sulfamidici, chiamati così perché derivati dalla sulfamide, furono creati dalla Bayer, che li comunicò al mondo nel 1935. La loro imponente funzione di batteriostasi era efficace a concentrazioni basse rispetto a quelle che sarebbero state tossiche per l'uomo, benché divenivano inefficaci in presenza di troppi microbi. Fleming, come tanti altri ricercatori, li studiò, benché sempre convinto della superiorità della penicillina.
Il gruppo di Oxford
Ad Oxford c'era un gruppo di ricercatori della Sir William Dunn School, di cui i maggiori erano Howard Florey, australiano, e E. B. Chain, tedesco. Senza i loro studi, probabilmente la penicillina di Fleming non si sarebbe mai imposta. I loro studi iniziali erano sul lisozima, ma nel 1936 si imbatterono negli studi di Fleming sulla prodigiosa sostanza. Il loro gruppo di ricerca riuscì a isolare della penicillina parzialmente purificata, mille volte più attiva di quella grezza e 10 volte di più del sulfamidico più potente. Sperimentarono la sostanza su degli animali e nel 1940 pubblicarono i loro risultati sul The Lancet. Alexander ne fu piacevolmente sorpreso e nello stesso anno andò ad Oxford per conoscere il gruppo. Dopo gli esperimenti sugli animali, passarono all'uomo: nel febbraio 1941 un poliziotto di Oxford stava morendo di setticemia. La penicillina quasi lo salvò, ma le esigue riserve della sostanza impedirono un completo trattamento, e in marzo il paziente morì. La straordinaria potenza dell'antibiotico spinse Chain e Florey a cercare i mezzi per produrla in quantità. Non potendo contare sulle industrie chimiche europee, occupate per il conflitto mondiale, si spostarono in America. Lì, dopo lunghe ricerce, trovarono un metodo per la produzione di penicillina, basato sull'utilizzo del corn streep liquor, sottoprodotto della fabbricazione dell'amido.
La guerra e la gloria
Nel settembre 1939, Fleming viene nominato per tutta la durata della Seconda Guerra Mondiale patologo di settore nel Middlesex, con quartier generale a Herafield. Per tutta la durata della guerra tornò ai suoi studi sulle ferite di guerra e rifletté sul possibile uso della penicillina. Il suo primo esperimento terapeutico avviene nell'agosto 1942 in circostanze drammatiche, su un paziente suo amico affetto da meningite, che guarì in maniera miracolosa. Questo evento scosse la stampa, tanto che nel 27 agosto il Times pubblica un editoriale intitolato Penicillium, sottolineando le speranze legate a questa prodigiosa sostanza. L'evento scosse anche la comunità scientifica, le case farmaceutiche e il governo inglesi. Il 25 settembre 1942 Sir Cecil Weir convocò a Portland House per un'importante conferenza Fleming, Florey e tutti i rappresentanti delle industrie chimiche e farmaceutiche che potevano essere interessati alla produzione della penicillina, tra cui: May e Baker, Glaxo, Wellcome, British Drug Houses e Boots. Si decise che tutte le informazioni sulla sostanza e sulla sua produzione dovessero essere messe in comune, con l'unico fine di produrre penicillina in fretta e abbondantemente. Venne detto alla fine della conferenza da un suo partecipante, Arthur Mortimer:
“Forse voi non ve ne rendete conto: sarà una riunione storica, questa, non solo negli annali di medicina, ma probabilmente nella storia del mondo. Per la prima volta, tutti quelli che saranno collegati alla produzione di un farmaco daranno la loro scienza e il loro lavoro, senza alcuna intenzione personale di guadagno o ambizione...”
Fleming Premio Nobel
Nel 1943 Fleming fu eletto Fellow of the Royal Society, la più antica e rispettata fra le società scientifiche della Gran Bretagna. Nel 1944 egli diventa Sir Alexander Fleming. Nel 1945 fu nominato presidente della Società di microbiologia generale e nel 5 settembre dello stesso anno, durante una visita alla Francia, viene nominato commendatore della Legion D'onore dal generale De Gaulle. Il 25 ottobre arriva a Fleming un telegramma da Stoccolma, nel quale viene annunciato che il Premio Nobel per la medicina era stato attribuito a lui, a Florey e a Chain. Al Saint Mary's, diventa il successore di Wright, ormai in pensione, a capo dell'Istituto. Il 30 aprile 1947, Sir Almroth Wright morì, con grandissimo dolore di Fleming. I viaggi e gli onori di Fleming continuarono per molto tempo: viaggerà in Francia, Italia, Belgio, Svezia, Spagna, ricevendo una variegata gamma di regali e riconoscimenti. Ma è proprio in questi anni che avviene un fatto spiacevolissimo: nel 1949, tornato a Londra dopo un viaggio a Barcellona, Alexander trova sua moglie gravemente malata e il 22 novembre lei muore, con ovvio suo sommo dispiacere e dolore.
Gli ultimi anni
Fleming dopo un certo periodo di tempo si riprende dalla morte della moglie e torna al suo ruolo di direttore dell'Inoculation Department. In quegli anni entrano nel team vari ricercatori, tra cui la greca Amalia Voureka nel 1946, grazie a borse di studio offerte dal British Council. Persona molto capace e abile, fra lei e Alexander nascerà subito una forte intesa. Nel 1950 alla ricercatrice viene offerto il posto di capo-laboratorio all'ospedale Evangelismos di Atene, offerta che la ragazza accetta. La partenza di Amalia addolora l'anziano Fleming, che di lei si era innamorato. Il grande scienziato in quegli anni era stato nominato membro di una commissione UNESCO, incaricata di organizzare le conferenze mediche internazionali. Nel 1951 venne eletto Rettore dell'Università di Edimburgo, nominato come da tradizione dagli studenti stessi. Nel 1952 partecipò ad una conferenza dell'Organizzazione Mondiale della Sanità tenuta in Svizzera; lì seppe che in ottobre la World Medical Association si sarebbe riunita ad Atene e così decise di partecipare all'evento. Era l'occasione per andare a trovare Amalia, con cui era rimasto in contatto tramite lettere. Con lei passò un intero mese in giro per la Grecia, tra ricevimenti e conferenze. Il giorno prima di partire per tornare in Inghilterra, Alexander chiede ad Amalia di sposarlo, e lei accetta. Si sposeranno il 9 aprile 1953, al municipio di Chelsea. Nel gennaio 1955, Fleming dà le dimissoni da direttore dell'Istituto. Morirà poco tempo dopo, l'11 marzo, probabilmente a causa di un effetto collaterale di una vaccinazione antitifica. L'intera popolazione mondiale piangerà la scomparsa del grande scienziato, sepolto nella cripta di Saint-Paul, onore riservato a ben pochi Inglesi. Dopo la sua morte gli è stato dedicato un cratere sulla Luna.
* 1977 - Francesco Lorusso (1951 – Bologna, 11 marzo 1977) è stato uno studente italiano.
Militante di Lotta continua, fu ucciso da un colpo d'arma da fuoco nel corso dei gravi scontri di piazza di Bologna nel marzo del 1977.
L'uccisione di Lorusso
Intorno alle 10:00 dell'11 marzo 1977 il movimento di Comunione e Liberazione (CL) indisse un'assemblea in un'aula presso l'università di Bologna, cui presenziarono circa 400 persone. Alcuni studenti della facoltà di Medicina, attivisti della sinistra extraparlamentare, tentarono di entrare nell'aula dove si svolgeva la riunione, ma furono respinti dal servizio d'ordine di CL.
La notizia dell'assemblea in corso e dello scontro si sparse rapidamente e cominciarono ad affluire all'esterno attivisti e simpatizzanti dell'area di Autonomia Operaia, che diedero vita ad una violenta contestazione, mentre gli aderenti all'assemblea si barricavano nell'aula.
Il direttore dell’Istituto di Anatomia, prof. Cattaneo, constatata la situazione di pericolo, ne informò il Rettore Rizzoli, il quale chiese l'intervento delle forze dell’ordine che, in breve tempo, intervennero sul posto con un notevole contingente di carabinieri che, effettuando una carica contro gli studenti di sinistra, consentì agli studenti di Comunione e Liberazione di lasciare pacificamente l'assemblea.
L'intervento massiccio delle forze dell'ordine fece salire ulteriormente la tensione già elevata, il che scatenò una reazione violenta dei giovani della sinistra extraparlamentare. Gli scontri di piazza si estesero a tutta la zona universitaria e nelle zone circostanti.
Nel corso degli scontri tra la sinistra extraparlamentare e le forze dell'ordine, un'autocolonna dei carabinieri in marcia in via Irnerio fu attaccata all'altezza dell'incrocio con via Mascarella. L'autocarro di testa fu colpito nella parte anteriore sinistra da una bottiglia molotov che provocò un principio d'incendio esternamente al mezzo, rapidamente estinto dalle forze dell'ordine presenti sul luogo.
Il guidatore del mezzo, il carabiniere di leva Massimo Tramontani, preso dal panico balzò a terra dalla portiera destra, lasciando il mezzo senza guida fermarsi autonomamente. Il carabiniere a quel punto, ancora sotto attacco, estrasse l'arma d'ordinanza ed esplose 6 colpi contro un gruppo di manifestanti.
Francesco Lorusso fu visto cadere in via Mascarella, da tre testimoni, mentre si spostava allontanandosi da via Irnerio in direzione di via Belle Arti, e morì poco dopo. Un quarto testimone giunse successivamente e poté testimoniare sul luogo ove fu ritrovato.
Gli scontri
La notizia della morte di Francesco Lorusso si diffuse rapidamente e ne seguì l'affluire di migliaia di persone vicine alla sinistra extraparlamente verso l'Università e l'organizzazione di un corteo di protesta, non autorizzato, che prese avvio nel primo pomeriggio e fu subito disperso con violente cariche. Gli scontri di piazza e la guerriglia urbana continuarono per tutta la giornata. Il giorno dopo in risposta all'accaduto venne organizzata a Roma una grande manifestazione nazionale del movimento per contestare la repressione. Anche in quella occasione si verificarono scontri e azioni di guerriglia e vennero sparati colpi d'arma da fuoco sia dai dimostranti che dalle forze dell'ordine.
Il funerale negato a Bologna
L'allestimento di una camera ardente nel centro di Bologna e lo svolgimento dei funerali di Francesco Lorusso nel capoluogo furono vietati dal prefetto per motivi di ordine pubblico. Il corteo funebre si svolse in periferia, nei pressi dello stadio comunale.
L'incontro tra il fratello della vittima e Tramontani
Oltre trent'anni dopo l'omicidio di Lorusso, il 18 marzo 2007, il fratello Giovanni Lorusso ha incontrato ed abbracciato Massimo Tramontani, responsabile degli spari che uccisero lo studente di Medicina nel marzo 1977. L'incontro, cercato da Giovanni Lorusso sin da quando, a seguito della morte del padre Agostino, ex generale in pensione deceduto nell'agosto 2006, dopo che la moglie Virginia era già morta di crepacuore, egli aveva ritrovato tra le sue carte una lettera del Tramontani, nella quale questi chiedeva un incontro, poi mai avvenuto, si è infine svolto presso l'Eremo di Ronzano, auspice Benito Fusco, ex militante di Lotta Continua, noto come "Benito il Rosso" durante gli anni di piombo, poi divenuto frate dell'ordine dei Servi di Maria.
▪ 2002 - James Tobin (Champaign, 5 marzo 1918 – New Haven, 11 marzo 2002) è stato un economista statunitense, vincitore del Premio Nobel per l'economia nel 1981, per "la sua analisi dei mercati finanziari e le loro relazioni con le decisioni di spesa, con l'occupazione, con la produzione e con i prezzi".
Laureato presso l'università di Urbana (Illinois) e Harvard, fu consigliere economico per John F. Kennedy e insegnò per anni alla Yale University. Nel 1955 vinse una John Bates Clark Medal.
Tobin divenne noto per la sua proposta di tassazione sulle transazioni internazionali (la "Tobin tax", diventata il cavallo di battaglia dell'organizzazione Altermondialista Attac) e per la Q di Tobin.
▪ 2006 - Slobodan Milošević (Požarevac, 20 agosto 1941 – L'Aia, 11 marzo 2006) è stato un politico serbo.
È stato presidente della Serbia e della Repubblica Federale di Jugoslavia come leader del Partito Socialista Serbo (SPS).
Accusato di crimini contro l'umanità per le operazioni di pulizia etnica dell'esercito jugoslavo contro i musulmani in Croazia, Bosnia-Erzegovina e Kosovo, contro di lui era stata mossa anche l'accusa di aver disposto l'assassinio di Ivan Stambolić, suo mentore negli anni ottanta e suo possibile avversario nelle elezioni presidenziali del 2000.
Milošević, di origini Vasojevici, un clan montenegrino, nacque e crebbe a Požarevac, Serbia durante l'occupazione tedesca nella II Guerra mondiale. I suoi genitori si separarono subito dopo la fine del conflitto. Suo padre Svetozar Milošević, si sparò nel 1962 , mentre sua madre, Stanislava Koljenšić, un insegnante e una membra attiva del Partito Comunista, si uccise nel 1972.
Si laurea in Legge all'università di Belgrado nel 1964.
Fu prima militante e poi dirigente della Lega dei Comunisti di Jugoslavia e poi del Partito Socialista di Serbia, di cui fu tra i fondatori.
A partire dagli anni ottanta era considerato uno dei migliori e più capaci amministratori e funzionari dello Stato della Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia.
Nell'aprile del 1984 fu nominato Segretario della Federazione di Belgrado della Lega dei Comunisti; dal maggio 1986 al maggio 1989 fu presidente del Comitato Centrale della Lega dei Comunisti e al primo Congresso del Partito Socialista di Serbia nel luglio 1990 venne eletto Presidente del Partito, che era nato dall'unificazione della Lega dei Comunisti e dall'Unione degli operai e dei socialisti della Serbia.
Nel maggio del 1989 fu eletto Presidente della Repubblica di Serbia.
Alle prime elezioni multipartitiche in Serbia, avvenute nel dicembre del 1990, Milošević venne nuovamente eletto Presidente della Serbia.
Dal 23 luglio del 1997 all'ottobre del 2000, egli fu il Presidente della Repubblica Federale di Jugoslavia e membro del Consiglio Supremo della Difesa della RFJ.
Dopo avere sostenuto militarmente e politicamente i serbi di Bosnia durante la sanguinosa guerra civile bosniaca che vide il lungo e sanguinoso assedio di Sarajevo da parte delle milizie serbe, vistosi sempre più isolato dalla comunità internazionale, Milošević cambiò tattica e decise di negoziare la pace per incamerare le conquiste territoriali acquisite negli anni precedenti. Con il mandato del governo federale jugoslavo, egli fu a capo della delegazione jugoslava composta da tre membri provenienti dalla Jugoslavia e tre dalla Repubblica Serba di Bosnia, che andò alle trattative di pace di Dayton in USA nel novembre del 1995. In questa veste fu tra i protagonisti delle trattative per la cessazione della guerra in Bosnia e degli accordi di pace, che furono poi firmati a Parigi in Francia, il 14 dicembre 1995, che sancirono la fine delle ostilità e delle violenze in Bosnia Erzegovina.
Nel marzo del 2001 fu arrestato a Belgrado per una serie di gravi accuse, dall'abuso di ufficio, alla corruzione, a omicidi, stragi, concussioni ed altro ancora, il collegio difensivo in vista della scadenza della carcerazione preventiva di 90 giorni chiese la domanda di scarcerazione del Presidente entro il 30 giugno 2001, come previsto dai Codici giuridici e costituzionali.
Il 28 giugno Slobodan Milošević venne trasferito prima in una Base militare USA in Bosnia e poi da lì immediatamente portato al Tribunale dell'Aja nei Paesi Bassi.
Slobodan Milošević muore in carcere per infarto la notte dell'11 marzo 2006.
La rinascita del nazionalismo serbo
La svolta nella sua carriera di grigio funzionario statale avviene nel 1986: Milošević viene eletto presidente della Lega di comunisti serbi, grazie al sostegno del presidente della Serbia, Ivan Stambolić, suo amico personale e padrino politico. Gli anni ottanta si caratterizzano per la rinascita del nazionalismo serbo e per il disconoscimento del modello della Jugoslavia titoista e della figura di Tito stesso.
L'apice del nazionalismo è raggiunto il 24 settembre 1986, quando il quotidiano belgradese Večernje Novosti pubblica alcune parti di un documento noto come il Memorandum dell'Accademia Serba delle Scienze. In questo testo, redatto da intellettuali serbi guidati dal romanziere Dobrica Ćosić, si elabora un atto di accusa contro Tito, accusato di attività antiserba, e si descrive un progetto di completa eliminazione etnica degli Albanesi dal Kosovo. Il testo è pericolosissimo per la stabilità della zona e tutta l'élite serba, a partire dal presidente Ivan Stambolić, ne prende le distanze. L'unico a mantenere il silenzio e a non commentare il memorandum è Milošević.
La scalata al potere
Nella Jugoslavia della seconda metà degli anni ottanta la situazione più difficile si registra nella provincia autonoma serba del Kosovo, con tensione e piccoli scontri tra serbi e albanesi, mentre in Croazia e in Bosnia-Erzegovina la convivenza fra le diverse etnie è serena.
Nel 1987 il presidente Ivan Stambolić (inconsapevole di aver firmato con questo gesto la sua fine politica e una degenerazione complessiva dei rapporti fra le etnie) manda Milošević in Kosovo, affinché egli ristabilizzi una situazione di convivenza tra albanesi e serbi. In una situazione di forte tensione, Milošević pronuncerà un discorso che susciterà scalpore e sostegno popolare, sostenendo che "a nessuno è dato il permesso di picchiarvi" . Egli si riferiva alle numerosissime rimostranze della minoranza serba in Kosovo, che lamentava un trattamento sfavorevole da parte della polizia e del potere giudiziario, sotto il completo controllo dei kosovari di etnia albanese della Lega dei Comunisti del Kosovo. Fu proprio il trattamento discriminatorio verso i serbi kosovari da parte delle autorità locali ad indurre Milošević, due anni dopo, a sospendere l'autonomia della regione per ripristinare il controllo diretto di Belgrado su polizia e tribunali.
La Presidenza della Serbia
Abilissimo nel guidare (se non nel creare e fomentare lui stesso) i sentimenti più profondi dell'opinione pubblica serba, Milošević spazza via l'intera classe politica serba, accusata di immobilismo e inettitudine. Stambolić nel dicembre del 1987 è costretto alle dimissioni e Milošević diventa presidente serbo, ottenendo un potere enorme e privo di controlli. Nel 1988 si acuisce la tensione sia all'interno dei confini della Serbia (in Kosovo), che fra la Serbia e le altre repubbliche, in particolare la Slovenia. Mentre Milošević era sostenitore di un modello centralista (sia a livello di istituzioni che di politica economica), alla cui guida doveva esserci la Serbia in quanto maggior repubblica della Federazione, Lubiana (con il presidente Milan Kučan) sosteneva il diritto all'autodeterminazione delle repubbliche e il rispetto di ogni minoranza e autonomia.
Milošević capisce di godere di un enorme sostegno popolare: i Serbi vedono in lui la guida di una nazione orgogliosa, un capo carismatico. Gode inoltre del sostegno della Chiesa ortodossa serba. Il popolo serbo rielabora il mito della vittoria mutilata (la Seconda guerra mondiale, vinta dai partigiani jugoslavi contro fascisti e nazionalisti), che non consentì ai Serbi l'unità politica dalla nazione (rilevanti minoranze serbe erano presenti in Croazia e in Bosnia Erzegovina, mentre alla Serbia erano state imposte due province autonome, Kosovo e Vojvodina).
Milošević decide di cavalcare la campagna nazionalista. Nel marzo del 1989 modificò unilateralmente la costituzione serba, riducendo fortemente l'autonomia del Kosovo (già concessa da Tito nel 1974). Il 28 giugno 1989, seicento anni dopo la battaglia di Kosovo Polje, (nella "piana degli uccelli" si svolse una epica, battaglia tra Serbi ortodossi e Ottomani mussulmani) tenne un discorso celebrativo davanti a centinaia di migliaia di Serbi confluiti sul posto, nel quale esaltò la nazione serba e l'unità multietnica jugoslava, senza mai attaccare l'entità etnica albanese (testo originale del discorso, tradotto in italiano).
In seguito (19 novembre 1989) radunò un milione di manifestanti a Belgrado.
Fine della Jugoslavia
Nel gennaio del 1990 si tiene il quattordicesimo e ultimo congresso (convocato in via straordinaria) della Lega dei comunisti jugoslavi. La frattura tra Serbi e Sloveni è insanabile, soprattutto a causa dell'intransigenza di Milošević. Milan Kučan, che guida gli Sloveni, decide di ritirare la delegazione della sua nazione dal congresso, e lo stesso farà subito dopo il croato Ivica Račan. È la fine politica della Jugoslavia federale e multietnica. Nel giugno del 1990 Milošević ribattezza la lega dei comunisti serbi Partito Socialista Serbo, di cui viene eletto presidente.
Nel gennaio 1991 viene scoperta l'emissione clandestina e illegale di moneta federale da parte del governo serbo, mentre in marzo Milošević manda l'esercito a fermare le manifestazioni dell'opposizione a Belgrado. Dopo aver indetto referendum popolari il 25 giugno del 1991, Slovenia e Croazia proclamano l'indipendenza.
Le guerre in Croazia e Bosnia Erzegovina
L'esercito federale interviene in Slovenia. Milošević non ha alcun interesse nel paese, etnicamente compatto e sostenuto da Austria e Germania. La prima guerra europea della fine del secondo conflitto mondiale si conclude dopo dieci giorni, l'8 luglio (Accordi di Brioni).
L'attenzione di Milošević si sposta tutta sulla Croazia, in particolare sulle regioni abitate da Serbi (le pianure della Slavonia e la regione montuosa della Krajina). Milošević non accetta che popolazioni serbe vivano al di fuori della nuova "piccola" Jugoslavia (cioè la Serbia e il Montenegro). Il suo progetto è quello di annettersi i territori serbi della Croazia e una buona metà della Bosnia-Erzegovina (nel 1991 ancora estranea alla guerra), creando così la "Grande Serbia". Nella seconda metà del 1991 Milošević, l'esercito federale jugoslavo e truppe paramilitari iniziano una violenta guerra contro la Croazia. Assediano e distruggono completamente la città multietnica di Vukovar (città in cui la convivenza fra serbi e croati era storica e pacifica, caduta l'8 novembre 1991). L'esercito jugoslavo penetra in profondità in territorio croato, arrivando a minacciare Zagabria.
Dopo il referendum in Bosnia Erzegovina sull'indipendenza (1º marzo 1992), boicottato dai serbo-bosniaci, scoppia la guerra di Bosnia. Milošević sostiene militarmente e politicamente Radovan Karadžić, leader dei serbo-bosniaci che si macchierà di crimini di guerra. La guerra, fra continue tregue e riprese militari, si concluderà il 21 novembre 1995, con gli accordi di Dayton. A Dayton i due nemici Milošević e Tuđman, presidente della Croazia (che più volte si erano incontrati –secondo alcuni era presente un "telefono rosso" diretto fra i due politici-), responsabili politici di operazioni di pulizia etnica e di enormi massacri, saranno descritti come "gli uomini della pace", e lasciati al loro posto.
La guerra del Kosovo e il tramonto di Milošević
Milošević è eletto presidente della Repubblica Federale Jugoslava (cioè Serbia e Montenegro) nel novembre del 1996. Annulla i risultati delle elezioni municipali dello stesso anno, vinti dalla coalizione d'opposizione Zajedno (Insieme). Questo provoca enormi manifestazioni popolari a Belgrado e l'intervento dell'OCSE. Milošević riconoscerà i risultati 11 settimane più tardi. Nelle successive elezioni presidenziali serbe non viene rispettato alcuno standard di legalità e correttezza: le consultazioni vengono vinte da Milan Milutinović, stretto collaboratore di Milošević.
In Kosovo si intensificano gli scontri tra UCK, l'esercito di liberazione albanese, e la polizia federale. Nella provincia erano presenti inoltre truppe paramilitari serbe, che non godevano ufficialmente dell'appoggio di Belgrado e che agivano secondo Milošević e alcuni osservatori del tutto autonomamente. La strage di Račak, con la morte di 40-45 kosovari di etnia albanese, apparentemente giustiziati, acuisce la crisi, anche se tutt'oggi permangono forti dubbi sulle responsabilità e le autorità serbe hanno negato di aver effettuato esecuzioni di massa. A Rambouillet falliscono i tentativi di mediazione tra governo federale e gruppo di contatto (USA, Russia, Francia, Germania, Regno Unito e Italia) sullo status della provincia. Tra marzo e giugno del 1999 la NATO bombarda la Jugoslavia (Operazione Allied Force), colpendo anche molti obiettivi civili, fino al completo ritiro dell'esercito dal Kosovo.
Isolato a livello internazionale e interno (il Montenegro non riconosceva più le istituzioni federali), Milošević si ricandida alle elezioni del 24 settembre 2000, grazie ad una riforma costituzionale.
Viene sconfitto da Vojislav Koštunica, un nazionalista moderato, a capo di tutta l'opposizione, e il 6 ottobre è costretto, dopo una grande manifestazione con l'occupazione del parlamento, a riconoscere la sconfitta.
Il primo ministro serbo Zoran Đinđić lo consegna al Tribunale Penale Internazionale per i Crimini nella Ex-Jugoslavia (l'Aia) il 28 giugno 2001, nonostante la contrarietà di Koštunica e di parte dell'opinione pubblica serba.
Milošević non riconosce la validità legale del tribunale, facendo appello alle leggi del diritto internazionale.
Morte
Milošević è stato trovato morto per un attacco di cuore nella sua cella del carcere dell'Aia la mattina dell'11 marzo 2006. La morte dell'ex presidente serbo segue di pochi giorni quella - avvenuta nello stesso carcere - di Milan Babić, ex-leader dei serbi di Krajina (Croazia), suicidatosi il 5 marzo 2006 impiccandosi nella cella dove scontava una condanna patteggiata a 13 anni, e quella del serbo di Croazia Slavko Dokmanović, uccisosi in carcere all'Aia nel giugno 1998.
Il Tribunale penale internazionale per i crimini nella ex-Jugoslavia ha annunciato di aver disposto un'indagine sulle cause e le circostanze del decesso. Dai primi risultati degli esami autoptici sembra accertato che l'ex leader serbo, sebbene in carcere e sorvegliato, abbia assunto farmaci per la tubercolosi e la lebbra dannosi per la cardiopatia di cui soffriva e per la quale aveva richiesto da mesi il ricovero presso una clinica specializzata a Mosca, senza ottenere l'autorizzazione a recarvisi. Non è chiarito come potesse assumere tale farmaco senza che nessuno nel carcere notasse il fatto.
Entro pochi giorni il Tribunale avrebbe dovuto decidere sulla richiesta, avanzata da Milošević, di un confronto in aula con l'ex presidente degli Stati Uniti Bill Clinton e con Wesley Clark, il generale statunitense che aveva guidato l'intervento NATO contro la Jugoslavia nel 1999. La morte di Milošević - che dopo anni di processo aveva ormai esaurito i quattro quinti del tempo a disposizione per la sua difesa - precede di qualche mese la data presumibile della conclusione del processo a suo carico e mette in grave imbarazzo il Tribunale, che il 14 marzo 2006 ha ufficialmente estinto l'azione penale e chiuso senza una sentenza il più importante processo per il quale era stato istituito.
Il procuratore generale della Corte dell'Aia Carla Del Ponte in un'intervista[5] al quotidiano la Repubblica ha sostenuto che la morte di Milošević rappresenta per la sua attività "una sconfitta totale".
Mikhail Gorbačëv ha accusato il TPI di aver compiuto un "grave errore" non consentendo il ricovero in una clinica russa, giudicando "piuttosto inumano" il comportamento dei giudici. Borislav Milošević, fratello dell'ex leader serbo, ha incolpato della sua morte il TPI: "L'intera responsabilità di quanto è accaduto è del Tribunale penale internazionale". Ivica Dačić, membro dell'SPS, ha detto che "Milošević non è morto al Tribunale dell'Aia, ma è stato ucciso presso il Tribunale".
In Serbia è stato proposto di sospendere il mandato di cattura internazionale alla moglie di Milošević per permettere la sua partecipazione al funerale: secondo la legge avrebbe dovuto essere arrestata non appena si fosse trovata in territorio serbo. Tuttavia nessun membro della famiglia (la moglie Mira e il figlio Marko, rifugiati in Russia e la figlia Marija residente nel Montenegro) ha partecipato alle esequie. Il presidente della Repubblica Boris Tadić ha rifiutato di organizzare un funerale di Stato. Più sfumata la posizione del premier Vojislav Koštunica, in quanto il governo da lui guidato si basa sull'appoggio esterno dei parlamentari del Partito Socialista Serbo, di cui Milošević era ancora formalmente presidente.
Le esequie si sono svolte prima a Belgrado, nella piazza antistante al parlamento federale della Serbia-Montenegro, con una consistente partecipazione popolare (tra le 50.000 e le 80.000 persone, soprattutto anziani e esponenti dell'SPS e del Partito Radicale Serbo). Successivamente il corpo di Milošević è stato inumato presso il giardino di famiglia della casa natale di Požarevac.
▪ 2008 - Oreste Carpi (Poviglio, 3 novembre 1921 – 11 marzo 2008) è stato un pittore italiano.
Sordomuto, vissuto per molti anni a Parma, si è distinto anche come incisore e come ceramista.
È considerato uno dei protagonisti del figurativismo pittorico emiliano del XX secolo.
Nasce nel 1921 da una famiglia della media borghesia agraria a Poviglio, piccolo paese in provincia di Reggio Emilia, ultimo di sette fratelli. A causa della sordità viene mandato a soli cinque anni a studiare presso il regio istituto per sordomuti di Piazzale Arduino a Milano in cui resterà convittore per oltre dieci anni. Nel 1936 viene selezionato come miglior studente per pronunziare un discorso di saluto al principe Umberto di Savoia. È in questo periodo, specialmente nei soggiorni estivi a casa o a Besozzo, sul lago Maggiore che inizia a manifestare l'interesse e la passione per l'arte.
Ritornato a casa si trasferisce con la famiglia a Parma e nel 1937 si iscrive all'Istituto di belle arti Paolo Toschi, dove fu allievo di Latino Barilli. Nel 1943 frequenta l'Accademia di belle Arti di Bologna dove apprende i fondamenti dell'incisione sotto la guida di Giorgio Morandi ma dopo appena un anno è costretto ad interrompere gli studi a causa del precipitare degli eventi bellici.
Terminato il conflitto si iscrive nel 1946 all'Accademia di Brera a Milano, allora diretta da Aldo Carpi. Nel vivace ambiente milanese inizia a formare la sua personalità pittorica seguendo le lezioni di Achille Funi e Carlo Carrà o confrontandosi con compagni di corso quali Gianni Dova e Dario Fo. Diplomatosi nel 1951 inizia una serie di viaggi attraverso l'Italia e l'Europa per visitare le più importati collezioni e per lavorare sulla tecnica a lui più congegnale: la pittura en plein air. Inizia inoltre a realizzare le prime mostre personali oltre a impegnarsi in nuove ricerche artistiche attraverso l'uso della ceramica, tecnica con la quale realizzerà il fregio del Martirio di Santo Stefano posto sulla facciata della chiesa parrocchiale di Poviglio.
Nel 1954 si sposa e nel 1957 nasce la figlia Angela. Trasferitosi già dagli anni '50 a Parma ha il suo studio dapprima in Borgo Antini e successivamente in via Farini. Nel capoluogo ducale entra ben presto nella cerchia di pittori locali (Walter Madoi, Aristide Barilli, Renzo Barilli, Luigi Tessoni, Claudio Spattini, Nando Negri, Luigi Orsi, Carlo Mattioli, Amedeo Bocchi) che aveva come luogo di ritrovo privilegiato il Gran caffè orientale di piazza Garibaldi.
Dal 1955 trascorre i mesi estivi a San Terenzo, nel comune di Lerici, in provincia della Spezia, che rappresenterà in centinaia di dipinti e disegni.
Nel 1957 contribuirà a fondare la galleria Sant'Andrea (ora circolo UCAI) situata in una piccola Chiesa sconsacrata di via Giordano Cavestro. Nel corso degli anni '60 e '70 ottiene importanti riconoscimenti: espone a Roma, Milano, Bologna, Brescia, Verona, Padova, Venezia e nel 1968 è ammesso alla Permanente di Milano.
È tra i pochi pittori italiani, insieme a una selezione di altri artisti sordi, ad esporre le sue opere in Unione Sovietica, nella Casa Centrale degli artisti sovietici di Mosca; Nel 1971 espone al palazzo dell'UNESCO di Parigi in occasione del convegno internazionale dei sordomuti. Nello stesso periodo vince decine di concorsi, alcuni di livello nazionale e molte sue opere vengono acquisite in importanti collezioni private italiane e inglesi.
Nel 1985 a Parma viene organizzata nell'antico refettorio dell'Annunziata una importante antologica che ripercorre, attraverso l'esposizione di oltre 150 dipinti, tutti i 40 anni di attività artistica di Carpi.
Dalla metà degli anni ‘80 torna a vivere nel paese natale di Poviglio dove continua a lavorare su paesaggi agresti e su scorci stagionali del vicinissimo fiume Po nonché a riscoprire ed approfondire lo studio della figura.
La Critica
«Ma quello che ha da dire Carpi lo esprime con il colore, del quale fa un uso generalmente controllato e vigile e che non viene mai "gridato" se non qualche volta per una nota più viva nel generale accordo. La "voce" più evidente e diretta infatti delle opere di Carpi è, senza voler fare un gioco di parole, il silenzio: il tentativo di cogliere e di isolare nella sua staticità un momento lirico pervaso di ferma, dolce malinconia, a volte struggente, a volte crepuscolarmente compiaciuta. Un obiettivo non facile, una qualità sottile di poesia che se non si raggiunge condanna inesorabilmente al fallimento. Oreste Carpi, quasi sempre invece riesce a far udire, senza gridarla, la sua voce. Con quei suoi paesaggi dalle case coperte di neve, dai verdi intrisi da una luce discreta e calda, con torrenti e acque sospese nel movimento, fermati in un momento incantato da un sentimento sommesso pervaso di amore e di tristezza. Gianni Cavazzini»
«Oreste Carpi, il pittore del silenzio e della meditazione che conquistiamo alla storia dell'arte contemporanea s'impone all'attenzione della critica per la potenza spirituale e rappresentativa, per l'originalità della tecnica, per il dominio dei suoi mezzi, per la maniera personale di interpretare la vita, come a risolvere un problema di toni e di chiaroscuro [...] appare chiaro, dunque, che Oreste Carpi ha assimilato le lezioni del passato, in un atteggiamento misurato e cosciente, da cui nasce la sua invenzione artistica in un mondo non facile per un pittore che ha sempre vissuto in solitudine e nel silenzio. Elio Marcianò»
«Il discorso che Oreste Carpi va conducendo da tempo, è un dialogo pulito, serio, preciso, coerente e rigoroso [...] Carpi è un artista istintivo che non si preoccupa di farsi sorprendere al cavalletto in un campo fiorito davanti alla pianura oltre le colline parmensi, e come un poeta egli assume l'immagine, qualunque essa sia e costruisce un racconto affascinante e profondamente lirico [..] Raffaello Vergani»