Il calendario dell'11 Giugno
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Eventi
▪ 1184 a.C. - Guerra di Troia: Troia cade in mano agli Achei
▪ 1289 - Si combatte la Battaglia di Campaldino
▪ 1509 - Matrimonio di Enrico VIII d'Inghilterra e Caterina d'Aragona
▪ 1534 - Jacques Cartier e il suo equipaggio celebrano la prima messa in Nord America di cui si abbia notizia
▪ 1770 - Il Capitano James Cook si arena sulla Grande barriera corallina
▪ 1775 - Luigi XVI di Francia viene incoronato re di Francia
▪ 1788 - L'esploratore russo Gerasim Izmailov raggiunge l'Alaska
▪ 1848 - Rivolta operaia a Praga (conclusasi il 17/6)
▪ 1899 - Papa Leone XIII dedica l'intera razza umana al Sacro Cuore di Gesù
▪ 1901 - La Nuova Zelanda si annette le Isole Cook
▪ 1905 - Il papa Pio X pubblica la Lettera Enciclica Il Fermo Proposito, sulle molteplici opere di zelo in bene della Chiesa, della società e degli individui particolari, comunemente designati col nome di Azione cattolica, ovvero azione dei cattolici; su l'azione cattolica si propone di ricapitolare ogni cosa in Cristo (Restaurare tutto in Cristo); sull'Unione popolare; sull'Opera dei Congressi e Comitati Cattolici; sulla partecipazione dei cattolici in politica; sull'importanza che tutte le opere dell'azione cattolica debbano avere rispetto all'Autorità ecclesiastica; sul pericolo che il Clero dia soverchia importanza agli interessi materiali del popolo, trascurando quelli ben più gravi del sacro suo ministero
▪ 1940 - Seconda guerra mondiale: l'aviazione britannica bombarda Genova e Torino
▪ 1942 - Seconda guerra mondiale: Gli Stati Uniti accettano di inviare aiuti economici (a prestito) all'Unione Sovietica
▪ 1963 - Il governatore dell'Alabama, George Wallace, sta sulla soglia del Foster Auditorium dell'Università dell'Alabama, nel tentativo di impedire l'entrata di due studenti di colore
▪ 2002 - Il congresso degli Stati Uniti, con la risoluzione 269, ha riconosciuto ufficialmente il fiorentino Antonio Meucci come primo inventore del telefono (e non Alexander Graham Bell)
▪ 2004
- - Italia: nasce la provincia di Monza e della Brianza, con capolugo Monza.
- - La sonda Cassini-Huygens compie il passaggio più ravvicinato a Febe
▪ 2008 - Visita in Italia del Presidente degli Stati Uniti d'America George W. Bush che incontra le principale cariche istituzionali italiane e papa Benedetto XVI.
Anniversari
▪ 1479 - San Giovanni da San Facondo González de Castrillo (da Sahagun) (Sahagún, Spagna, 1430 - Salamanca, 11 giugno 1479)
Nacque da nobile famiglia a Sahagùn verso il 1430. Non era ancora sacerdote, quando uno zio, solo per ragioni economiche, gli procurò un beneficio ecclesiastico con cura d'anime. Con gran dispiacere della famiglia, Giovanni non accettò il beneficio, reputando un tal modo di agire contrario agli interessi di Dio. Per la sua indole fu posto al servizio del saggio vescovo di Burgos,Alfonso da Cartagena, che lo ordinò sacerdote. Assolutamente insoddisfatto della vita nella curia, desideroso di tendere ad una maggior perfezione, entrò tra gli Agostiniani il 18 giugno 1463. Si consacrò definitivamente al Signore il 28 agosto 1464. Profondamente umile e sincero, fu instancabile promotore della pace e della convivenza sociale e difese strenuamente i diritti degli operai. Ebbe una spiccata devozione all'Eucaristia.
Martirologio Romano: A Salamanca in Spagna, san Giovanni da San Facondo González de Castrillo, sacerdote dell’Ordine degli Eremiti di Sant’Agostino, che attraverso colloqui privati e con la santità della sua vita riportò la concordia tra i cittadini divisi in sanguinarie fazioni.
“Padre, non hai saputo porre alcun freno alla tua lingua!”
“Signor duca, per quale scopo salgo sul pulpito? Per annunciare la verità agli ascoltatori o per accarezzarli vergognosamente con adulazioni?”
Questo concitato dialogo avveniva tra l’indignato Duca d'Alba, che aveva assistito alla funzione religiosa, e il frate agostiniano p. Giovanni da Sahagún, che aveva tenuto il sermone. Quel giorno p. Giovanni aveva approfittato della presenza in chiesa di tanti nobili della città e delle autorità civili, per smascherare il mal governo della cosa pubblica e le ingiustizie perpetuate dai potenti a danno delle categorie deboli. Giovanni era nato a Sahagún, in Spagna, verso il 1430. Da giovane uno zio gli aveva trovato una sistemazione presso la curia vescovile di Burgos, procurandogli anche un beneficio ecclesiastico.
Ordinato sacerdote, a 33 anni, Giovanni entrò in crisi: non poteva vivere della vigna del Signore senza lavorarvi. Così, alla morte del vescovo, cambiò vita: entrò tra gli Agostiniani, dedicandosi ad un instancabile apostolato: nella predicazione al popolo, nella promozione della pace e della convivenza sociale. “Se mi chiedesse dell'atteggiamento di Giovanni - testimonia un suo contemporaneo - nei riguardi dei miserabili e degli afflitti, delle vedove e dei fanciulli sfruttati, dei bisognosi e degli ammalati, dovrei rispondere che da uno slancio naturale era abitualmente spinto ad aiutare tutti sia con buone parole sia anche con elemosine a questo scopo. Era anche preoccupato di portare tutti alla pace e alla concordia, dopo aver spente le inimicizie e le discordie. Quando era a Salamanca, essendo tutta la città divisa in fazioni a causa delle discordie civili, riuscì ad evitare molte stragi”. Fu per i suoi ripetuti tentativi di pacificazione che nel 1476 i nobili di Salamanca sottoscrissero un solenne patto di perpetua concordia. La forza e il coraggio per agire p Giovanni li prendeva dall’Eucaristia, che egli celebrava con straordinaria devozione. Morì nel 1479. Beatificato nel 1601, fu canonizzato nel 1690. Le reliquie del santo si conservano nella cattedrale nuova di Salamanca, città piena di luoghi i cui nomi ricordano i portenti da lui operati in vita o in morte. La sua memoria liturgica ricorre il 12 giugno. (Autore: P. Bruno Silvestrini O.S.A.)
▪ 1724 - Ludovico Sabbatini (Napoli, 30 agosto 1650 – 11 giugno 1724) è stato un sacerdote ed educatore cattolico italiano, beatificato nel 1765 dalla Chiesa cattolica che lo venera l'11 giugno, giorno della sua morte.
Ludovico Sabbatini nacque a Napoli il 30 agosto 1650, in una famiglia profondamente religiosa, basta dire che ebbe una sorella suora e tre fratelli sacerdoti. Sin da fanciullo assisteva ogni giorno alla S. Messa celebrata in S. Nicola alla Carità in Napoli, chiesa attigua all’omonima casa della Congregazione dei Pii Operai aperta nel 1647, con la dedicazione di S. Nicolò a Toledo. Veniva guidato dal padre Pietro Gisolfo, Preposito generale dei Pii Operai, comunità fondata nel 1602 dal venerabile Carlo Carafa; dopo diverse prove fu ammesso al noviziato, che seguì con eccezionale fervore sotto la guida del venerabile padre Antonio Torres, il quale lo preparò ad una vita di santità nell’apostolato missionario. Infatti ogni domenica si recava ai ‘casali’ intorno a Napoli, per insegnare la dottrina cristiana ai piccoli figli dei contadini; compito principale della Congregazione era quello dell’evangelizzazione della gente più abbandonata, quella delle campagne e dei sobborghi. Nella chiesa di S. Nicola ebbe l’incarico della cura della “Congregazione dei Figlioli” fondata dal venerabile Antonio De Colellis. A 24 anni fu ordinato sacerdote, divenendo vicedirettore della casa di S. Giorgio Maggiore in via Duomo sempre a Napoli, poi maestro dei novizi e rettore a S. Maria ai Monti.
Fondò nel 1684 un monastero nell’ospedale della Ss. Annunziata, per le ragazze abbandonate che intendevano aderire alla vita religiosa. Partì da Napoli il 12 maggio 1687, per recarsi a Roma insieme al padre Carmine Longobardi, con lo scopo di estendere anche lì la Congregazione dei Pii Operai. La sua attività fra la povera gente, fu conosciuta ed apprezzata da tutti, distinguendosi per l’assistenza che dava negli ospedali, nelle carceri ed agli ebrei, osteggiati particolarmente in quel tempo. Alla Comunità dei Pii Operai, fu affidato il Collegio dei Catecumeni, vicino alla chiesa della Madonna dei Monti, nella stessa chiesa istituì un accademia di dogmatica ed esegesi biblica per i laici; padre Ludovico Sabbatini, fu senz’altro uno dei più importanti missionari dei Pii Operai. Diresse le missioni nell’agro romano ed in tutto lo Stato Pontificio, in particolare a Montefiascone e Corneto (attuale Tarquinia) dove per incarico del cardinale Marcantonio Barbarigo, diressero la futura santa Lucia Filippini, nella fondazione delle “Maestre Pie”, che guidarono fino al 1780. Padre Ludovico, nel 1699 fu eletto Preposito Generale della Congregazione e quindi tornò a Napoli, nella casa di S. Giorgio Maggiore, dove per 25 anni diresse la Congregazione dei Dottori e Cavalieri, anch’essa fondata dal ven. Antonio De Colellis; fu rieletto altre tre volte nella carica di Preposito generale. L’11 giugno del 1724 la sua anima si ricongiunse al Signore, venendo sepolto nella stessa chiesa di S. Giorgio Maggiore. Il processo informativo per la causa di beatificazione si tenne a Napoli nel 1765.
▪ 1859 - Klemens Wenzel Nepomuk Lothar von Metternich-Winneburg-Beilstein, conte e, dal 1813, principe di Metternich-Winneburg (Coblenza, 15 maggio 1773 – Vienna, 11 giugno 1859), è stato un diplomatico e politico austriaco, dal 1821 cancelliere di Stato e di Corte.
Nacque a Coblenza in una famiglia della media nobiltà della Westfalia che, già con il padre Georg, aveva lavorato al servizio della Casa d'Asburgo. Il 27 settembre 1795 sposò la nipote del potente cancelliere austriaco, il Conte Wenzel Anton von Kaunitz.
La carriera politica
Appena venticinquenne partecipò come segretario particolare del padre Georg e poi come rappresentante del collegio comitale cattolico della Westfalia al Congresso di Rastatt (settembre 1797 - aprile 1799). La sua abilità nell'attività diplomatica ben presto gli permise di divenire ambasciatore a Dresda (Sassonia) nel gennaio 1801, a Berlino (Prussia) nel novembre 1803 e a Parigi (Francia) nell'agosto 1806, su richiesta diretta di Napoleone.
Napoleone
Dopo la sconfitta inflitta da Napoleone all'Austria nella battaglia di Wagram) vi furono le conseguenti dimissioni del ministro degli Esteri austriaco Johann Philipp Stadion, e l'8 luglio 1809 Metternich fu nominato al suo posto. Dopo il disastroso Trattato di Schönbrunn non poté che perseguire una politica favorevole alla Francia, arrivando fino a pianificare nel 1810 il matrimonio fra Napoleone e l'arciduchessa Maria Luisa, figlia di Francesco II.
Dopo la sconfitta di Napoleone in Russia nel 1812 Metternich perseguì una politica neutrale e tentò di mediare una pace fra Napoleone e i suoi nemici russi e prussiani, che non rafforzasse troppo questi ultimi. Il 26 giugno 1813 si incontrò con Napoleone a Dresda, incontro durante il quale disse all'imperatore che lo riteneva sconfitto e offrì la sua mediazione imparziale, che fu respinta. Dopo il fallimento della mediazione l'Austria dichiarò guerra alla Francia.
Verso la fine della guerra, nel 1814 Metternich giunse alla conclusione che una pace con Napoleone non era possibile e che la restaurazione borbonica era inevitabile. Nello stesso tempo, occorrevano una federazione degli stati tedeschi per imbrigliare il regno di Prussia e un'alleanza continentale per imbrigliare l'impero russo. Ciò lo avvicinò a Castlereagh, il ministro degli esteri britannico. Il Trattato di Parigi, firmato il 30 maggio 1814, regolava la caduta di Napoleone (abdicazione a Fontainebleau il 6 aprile) e rinviava al futuro Congresso di Vienna per la nuova sistemazione territoriale e politica del continente.
Il Congresso di Vienna
Metternich fu uno dei principali negoziatori durante il Congresso di Vienna (ottobre 1814 - novembre 1815).
In quel contesto espresse chiaramente la sua visione politica e la sua idea confederativa che aveva della monarchia absburgica, fatta di tanti stati dotati di un alto livello di autonomia[1]. A livello internazionale, invece, mostrò di accettare il principio di legittimità e fece accettare il principio di equilibrio.
In quel periodo egli ebbe un aspro diverbio con lo zar Alessandro I di Russia, i cui piani per la Polonia impaurivano fortemente il ministro austriaco. I tentativi di Metternich di creare un fronte compatto con Castlereagh e Hardenberg, il cancelliere prussiano, per opporsi ai piani di Alessandro I fallirono a causa dell'opposizione della Prussia che non voleva attriti con la Russia. Metternich sorprese la Prussia firmando un'alleanza con Castlereagh e Talleyrand, l'inviato francese, il 3 gennaio 1815, per dissuadere, anche a costo della guerra, l'annessione della Sassonia da parte della Prussia che era prevista come compensazione in cambio di terre polacche che sarebbero state date ad Alessandro I. Se ciò salvò il regno di Sassonia non impedì ad Alessandro I di ottenere quasi tutto ciò che desiderava della Polonia.
Nel contempo Metternich negoziò con la Prussia, la Baviera, il Württemberg e Hannover, la creazione della Confederazione Tedesca, che contava 39 stati, contro i 300 che facevano parte del Sacro Romano Impero sciolto dieci anni prima.
Metternich, inoltre, fu l'artefice della Santa Alleanza, che pure deve l'idea e il nome allo zar Alessandro: un accordo per governare i popoli conformemente alla carità cristiana, ma di fatto per reprimere le rivolte popolari. Se uno stato subiva disordini rivoluzionari, infatti, gli altri erano autorizzati ad intervenire militarmente per prevenire il contagio e ristabilire il potere legittimo. Tutti gli stati vi aderirono tranne l'Impero Ottomano (non cristiano), lo Stato Pontificio (il Papa disapprovava questo ecumenismo ante litteram) e il Regno Unito, ma di fatto fu un'alleanza reazionaria tra Austria, Prussia e Russia, allargata alla Francia.
Il Congresso approvò i suoi verbali finali il 9 giugno 1815, nove giorni prima della battaglia di Waterloo. Il Trattato di Parigi, siglato il 20 novembre 1815, sostituì quello di 18 mesi prima, recependo i verbali del Congresso.
Negli anni successivi al Congresso di Vienna l'impegno maggiore di Metternich fu quello di mantenere gli equilibri raggiunti, e di difendere i diritti delle monarchie e degli imperi in contrasto con i nascenti sentimenti democratici dell'epoca. Josef von Hudelist prese in pratica il suo posto agli affari interni, essendo il cancelliere sempre impegnato in viaggi e missioni diplomatiche. Il Congresso della Santa Alleanza si riunì periodicamente fino al 1822 quando ebbe luogo il Congresso di Verona, ma con la morte di Alessandro il 1º dicembre 1825 e le rivoluzioni francese e belga del luglio e agosto 1830 perse di rilevanza.
Il declino
I moti del 1848 e le ribellioni in Ungheria segnarono la sua fine: movimenti sovversivi a Vienna chiesero la sua rimozione e la ottennero il 18 marzo; Metternich e la sua terza moglie lasciarono il paese. Tornò tre anni dopo e benché non avesse alcun titolo restò consigliere dell'Imperatore Francesco Giuseppe d'Austria. Morì a Vienna l'11 giugno 1859 dopo aver visto l'ultimo schiaffo morale giocato all'Austria nella Battaglia di Magenta.
L'uomo politico
Metternich fu uno dei padri del realismo politico, o Realpolitik, fautore di una politica dell'equilibrio, nonché un maestro della tecnica e dello stile diplomatico. Al tempo stesso, mise questa sua maestria al servizio di una visione reazionaria.
La visione conservatrice di Metternich riguardo alla natura dello stato influenzò le conclusioni del Congresso di Vienna. Egli credeva che dal momento in cui la gente fosse stata informata delle antiche istituzioni, le rivoluzioni nazionali come quelle in Francia e in Grecia sarebbero state illegittime. Il principio di legittimità giocò un ruolo vitale nella restaurazione degli antichi stati come lo Stato Pontificio in Italia e la resurrezione della monarchia borbonica in Francia sotto Luigi XVIII. Attraverso il decreto di Carlsbad (1819), Metternich introdusse misure che limitavano fortemente il processo liberale, con una politica, ad esempio, di controllo delle attività di professori e studenti, che lui considerava tra i responsabili della diffusione di idee liberali radicali.
Metternich e l'Italia
«In Europa allo stato attuale esiste un solo vero uomo politico, ma disgraziatamente è contro di noi. È il conte di Cavour.» (Klemens von Metternich)
Il 2 agosto 1847 Metternich scrisse, in una nota inviata al conte Dietrichstein, la famosa e controversa frase «L'Italia è un'espressione geografica»[2]. Tale frase venne ripresa l'anno successivo dal quotidiano napoletano Il Nazionale, riportandola però in senso dispregiativo: «L'Italia non è che un'espressione geografica»; nel pieno dei moti del '48 i liberali italiani si appropriarono polemicamente di questa interpretazione utilizzandola in chiave patriottica per risvegliare il sentimento anti-austriaco negli italiani.
Gli storici sono abbastanza concordi nel riconoscere in tale affermazione la constatazione di uno stato di fatto invece di una connotazione negativa: dal punto di vista politico infatti, lo statista austriaco (che concepiva l'Impero asburgico come una confederazione di stati con vario grado di autonomia) vedeva come l'Italia fosse «composta da Stati sovrani, reciprocamente indipendenti» (così proseguiva nel testo della nota), così come lo era la Germania. Più che un arrogante disprezzo nei confronti dell'Italia e di coloro che puntavano alla sua unificazione, a muovere Metternich era il calcolo politico di mantenere divisa la penisola, permettendo al suo paese di esercitare una stretta influenza (diretta e indiretta) sugli stati italiani.
▪ 1882 - Paola Frassinetti (Genova, 3 marzo 1809 – Roma, 11 giugno 1882) è stata una religiosa italiana, fondatrice della congregazione delle Suore di Santa Dorotea: nel 1984 è stata proclamata santa da papa Giovanni Paolo II.
▪ 1933 - Claudio Treves (Torino, 24 marzo 1869 – Parigi, 11 giugno 1933) è stato un politico e antifascista italiano.
Studente all'Università di Torino, si avvicina dapprima al Partito Radicale Storico per poi iscriversi al Partito Socialista Italiano nel 1892, anno in cui consegue la laurea in giurisprudenza.
Membro della direzione piemontese del PSI viene condannato a due mesi di confino nel 1894. Per alcuni anni viaggia, come corrispondente dell'Avanti!, fra diverse città europee: tra il 1894 e il 1896 è a Berlino, nel 1897 visita la Svizzera, l'Olanda, il Belgio, ed infine, nel 1898, a Parigi.
Rientrato in Italia collabora al quotidiano Critica Sociale ed a molte riviste di area socialista, per poi dirigere Il Tempo di Milano dal 1902 al 1910, anno in cui diventa direttore dell'Avanti!, una posizione che manterrà fino al 1912.
Nel marzo 1915 sfidò a duello Benito Mussolini; nel fascicolo "Corrispondenza, b. 1, fascc. 17, fotografie 1 (1895-1933)" del fondo "Treves" conservato presso la Fondazione di studi storici "Filippo Turati", è presente una ricca corrispondenza sull'episodio.
Strettamente legato a Filippo Turati e alle posizioni riformiste diventa deputato nel 1906, aderendo negli anni venti al PSU di Turati e Matteotti, divenendo direttore dell'organo ufficiale del partito, il quotidiano La Giustizia, poi messo al bando dal regime fascista nel 1925.
Il 20 novembre del 1926, col regime fascista ormai consolidato, prende la via dell'esilio in Svizzera prima ed in Francia dopo, partecipando attivamente alle iniziative degli antifascisti. Da Parigi dirigerà il quindicinale Rinascita Socialista (organo del PSLI) e, dal 1º maggio 1927, il settimanale La Libertà, organo della Concentrazione Antifascista. Nel 1930 sosterrà la riunificazione fra PSLI e PSI e parteciperà nello stesso anno al congresso del Labour Party britannico. Nel giugno 1931 sarà al congresso internazionale sindacale di Madrid e nel luglio prenderà parte ai lavori --dell'assemblea dell'Internazionale Socialista a Vienna.
Muore a Parigi l'11 giugno 1933, le sue ceneri torneranno in Italia nel 1948. Anche i suoi figli Paolo, Piero e la sorella Annetta furono militanti socialisti riformisti. La sorella era madre di Carlo Levi.
* 1934 - Lev Semënovič Vygotskij (Orša, 17 novembre 1896 – Mosca, 11 giugno 1934) è stato uno psicologo sovietico, padre della scuola storico-culturale. L'originalità delle sue opere, la ricca produzione e la morte precoce hanno reso Vygotskij il "Mozart della psicologia". Solo negli anni ottanta è cominciata una ricostruzione critica dell'opera Vygotskij.
«Modificando la nota affermazione di Marx, potremmo dire che la natura psicologica dell'uomo rappresenta l'insieme delle relazioni sociali trasportate all'interno e divenute funzioni della personalità e forme della sua struttura»
Il pensiero
L'idea centrale della prospettiva di Vygotskij è che lo sviluppo della psiche è guidato e influenzato dal contesto sociale, quindi dalla cultura del particolare luogo e momento storico in cui l'individuo si trova a vivere.
La psiche non è altro che il riflesso delle condizioni materiali, le quali possono essere modificate e trasformate in prospettiva di un fine concreto. Vygotskij accetta l'ipotesi che la struttura base dei processi psichici sia la sequenza stimolo-reazione, ma in merito a processi psichici superiori (il livello delle funzioni intellettive) inserisce un nuovo elemento: lo stimolo mezzo.
Lo stimolo-mezzo è uno stimolo "creato" dall'uomo; è utilizzato per instaurare un nuovo rapporto stimolo-risposta e promuovere lo svolgimento del comportamento in una direzione diversa. In particolare egli studia l'importanza dell'uso di strumenti e simboli nello sviluppo umano come stimoli-mezzo.
L'esempio più celebre con cui Vygotskij illustra il concetto di stimolo-mezzo è quello del fazzoletto: se una persona deve ricordarsi di svolgere una mansione, può fare un nodo su un fazzoletto; il nodo è uno stimolo-mezzo, che media il rapporto tra il dovere di compiere una mansione e l'azione-risposta. Il comportamento umano non è quindi per Vygotskij la semplice interazione fra stimoli e risposte, ma è mediato da stimoli-mezzo, i quali possono essere strumenti esterni (il nodo del fazzoletto), ma anche strumenti acquisiti dall'ambiente sociale e interiorizzati.
In virtù di tale caratteristica i processi psichici superiori (pensiero, linguaggio, memoria) non hanno un'origine naturale, ma sociale e li si può comprendere solo prendendo in considerazione la storia sociale.
Vygotskij e la censura comunista
Con la Rivoluzione russa (1917) si verificò una profonda trasformazione nella cultura e nella scienza russa. Anche la psicologia doveva essere trasformata ed edificata su nuove basi alla luce del materialismo storico. Nei primi anni trenta, Vygotskij fu vittima della repressione politica che avvenne durante il governo Stalinista. Nel 1936 il decreto del Comitato centrale del PCUS, condannò la pedologia perché si richiamava a valori borghesi, utilizzava test intellettivi e proponeva una prassi meccanica dello sviluppo psichico e della prassi educativa. Dal 1936 al 1950 le opere di Vygotskij vennero bandite.
Vygotskij e l'Occidente
Nella prima metà del XX secolo l'attenzione in Occidente era rivolta soprattutto a Jean Piaget. L'attività di Vygotskij era praticamente sconosciuta. Solo negli anni sessanta si è verificata una riscoperta delle sue opere, in particolare grazie alla traduzione inglese di Pensiero e Linguaggio ad opera di A. Kozulin.
Ad ostacolare la conoscenza di Vygotskij è stata soprattutto la difficoltà di reperire le sue opere, alcune delle quali sono rimaste inedite fino agli anni ottanta. Molte edizioni di Pensiero e Linguaggio, stampate in questo periodo, erano sintetiche, agili e facilmente comprensibili, pur a scapito del testo e del contenuto. Solo intorno agli anni novanta hanno iniziato a diffondersi edizioni complete e fedeli al testo. La prima edizione integrale di Pensiero e Linguaggio al livello internazionale fu quella curata nel 1990 da Luciano Mecacci. Questa traduzione si basava per la prima volta sulla prima edizione russa del 1934, permettendo così di individuare i tagli e le censure effettuati sulle ristampe russe del 1956 (su cui si erano basate le varie traduzioni occidentali precedenti) e del 1982. La prospettiva di Vygotsky ha influenzato lo sviluppo della psicologia contemporanea ed in particolare di molte teorie importanti in ambito educativo quali: il modello ecologico di Urie Bronfenbrenner, la Teoria dell'attività, ecc.
Forti influenze di Vygotsky possono essere rintracciate in Jerome Bruner, Michael Cole, James Wertsch, Sylvia Scribner, Vera John-Steiner, Ann Brown, Courtney Cazden, Gordon Wells, René van der Veer, Jaan Valsiner, Pentti Hakkarainen, Seth Chaiklin, Alex Kozulin, Nikolai Veresov, Anna Stetsenko, Kieran Egan, Fred Newman, David McNeill, Lois Holzman.
In Italia si sono particolarmente interessati dell'opera di Vygotskij gli psicologi Luciano Mecacci e Maria Serena Veggetti.
▪ 1956 - Corrado Alvaro (San Luca, 15 aprile 1895 – Roma, 11 giugno 1956) è stato uno scrittore, giornalista e poeta italiano.
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile»
Corrado Alvaro nasce a San Luca, un piccolo paese sul versante jonico ai piedi dell'Aspromonte in provincia di Reggio Calabria. Primo di sei figli di Antonio, un maestro elementare, e di Antonia Giampaolo, figlia di piccoli proprietari.
Compì i sui studi liceali a Catanzaro dove nel 1913 conseguì la "licenza liceale"[1] e dove rimase fino al gennaio del 1915, anno in cui partì militare per combattere la Prima guerra mondiale. Fu assegnato ad un reggimento di Fanteria a Firenze.
Ferito nei pressi di San Michele del Carso, nel settembre del 1916 è a Roma, dove comincia a collaborare al Resto del Carlino e, quando ne diventa redattore, si trasferisce a Bologna. L'8 aprile del 1918 sposa la bolognese Laura Babini.
Nel 1919 si trasferisce a Milano come collaboratore del Corriere della Sera. Sempre nel 1919 consegue la laurea in Lettere all'Università di Milano. Nel 1921 diventa corrispondente da Parigi de Il Mondo di Giovanni Amendola. Nel 1925 è tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce.
Si reca nel 1928 a Berlino, dove continua la sua attività di giornalista, collaborando con La Stampa e con L'Italia letteraria (per cui il 14 aprile 1929 intervistò Luigi Pirandello). Tornò in Italia nel 1930, in Turchia nel 1931 ed in Russia nel 1935. Quindi, nello stesso anno scrive, sulla rivista Omnibus di Longanesi, diversi articoli sulla Rivoluzione d'ottobre del 1917.
Nel gennaio del 1941 torna per l'ultima volta a San Luca per i funerali del padre. Tornerà invece più volte a Caraffa del Bianco a far visita alla madre e al fratello don Massimo, parroco del paese. Dal 25 luglio all'8 settembre del 1943 assume la direzione del Popolo di Roma, del quale era già stato critico teatrale tra il 1940 e il 1942. Costretto alla fuga dall’ occupazione tedesca di Roma si rifugia a Chieti sotto il falso nome di Guido Giorgi. A Chieti si guadagna da vivere impartendo lezioni d’inglese.
Nel 1945 fonda il Sindacato Nazionale Scrittori, insieme a Libero Bigiaretti e Francesco Jovine, nel quale ricopre la carica di segretario fino alla sua morte, e la Cassa Nazionale Scrittori.
Nel 1947 assume la direzione del Risorgimento di Napoli, ma si dimette subito dopo per divergenze politiche; dichiarandosi politicamente schierato a sinistra, non riteneva di poter dirigere un giornale liberale.
Nel 1951 vince il premio Strega con "Quasi una vita". Da sottolineare che il 1951 fu l'anno della cosiddetta "grande cinquina" nella quale figuravano, oltre a Quasi una vita di Alvaro, L'orologio di Carlo Levi, Il conformista di Alberto Moravia, A cena col commendatore di Mario Soldati e Gesù, fate luce di Domenico Rea.
Nel 1954, colpito da un tumore addominale, si sottopone ad un delicato intervento chirurgico. La malattia colpisce anche i polmoni e muore nella sua casa di Roma l'11 giugno del 1956, lasciando incompiuti alcuni romanzi.
È storia recente l'acquisto dei manoscritti conservati a Roma da parte della Regione Calabria e donati alla Fondazione Corrado Alvaro che ha sede a San Luca (RC). Corrado Alvaro è sepolto nel piccolo cimitero di Vallerano (Viterbo), dove aveva acquistato nel 1939 una grande casa in mezzo alla campagna, casa che gli eredi di Alvaro vendettero poi allo scrittore Libero Bigiaretti.
Presso la Biblioteca Pietro De Nava di Reggio Calabria in sua memoria è stata istituita la Sala Corrado Alvaro, che contiene gli arredi, i tappeti, i quadri e i libri dello studio dello scrittore, donati alla Biblioteca dalla moglie Laura e dal figlio Massimo.
• 1967 - Wolfgang Köhler (Reval, 21 gennaio 1887 – Enfield, 11 giugno 1967) è stato uno psicologo tedesco, esponente della psicologia gestaltica.
Köhler studiò filosofia, scienze naturali e psicologia alle università di Tübingen, Bonn e Berlino. Nel 1909 ottenne il dottorato all'Università di Berlino con la dissertazione Akustische Untersuchungen (Ricerche Acustiche) sotto Carl Stumpf, dopodiché divenne assistente all'istituto psicologico dell'Università di Francoforte dove collaborò con Max Wertheimer.
Dal 1913 al 1920 (in parte per via della Prima Guerra Mondiale) lavorò alla stazione antropoide di Tenerife nelle Isole Canarie per la Preußischen Akademie der Wissenschaften. Lì condusse ricerche riguardo alle capacità di risolvere i problemi dei primati (in particolare scimpanzé), risultando nel libro Die Methoden der Psychologischen Forschung an Affen (apparso in italiano come "La mentalità delle scimmie").
Dal 1922 al 1935 divenne professore e direttore dell'istituto di psicologia sperimentale dell'Università di Berlino, fondato dal suo maestro Carl Stumpf. Nel 1929 scrisse La Psicologia Gestaltica.
Dopo aver protestato apertamente contro le teorie razziali del nazismo, nel 1934 fuggì dalla Germania e si trasferì negli Stati Uniti dove approdò prima ad Harvard, trasferendosi però poco dopo (nel 1935) al Swarthmore College).
Dal 1958 al 1959 Köhler fu presidente della American Psychological Association (Associazione Psicologica Americana). Nel 1962 gli fu donata la cittadinanza onoraria della Freien Universität Berlin.
Dopo il pensionamento si stabilì nel New England, presso il Dartmouth College.
Il concetto di Insight per Kohler
Kohler introdusse nelle sue trattazioni il concetto di insight, osservando il comportamento degli scimpanzé posti di fronte a situazioni di tipo problematico. L'insight per Kohler è l'improvvisa scoperta di un nuovo modo di interpretare la situazione totale, quindi assume importanza la configurazione piuttosto che l'oggetto. L'insight è dunque la scoperta di rapporti tra gli elementi, rapporti diversi da quelli individuati prima della scoperta. L'analisi dei gestaltisti verte sulla soluzione dei problemi piuttosto che sull'apprendimento, inteso come accumulo di esperienza e ricorso alla continuità. Ma l'insight non nega l'esperienza passata, nei casi in cui la situazione non presenta possibilità di ristrutturazione e in assenza di strategie, il soggetto ricorre a ciò che gli è già noto, mentre la discontinuità rispetto alle condizioni precedenti, avviene quando la situazione la rende possibile. L'insight definisce quindi l'intuizione nella forma immediata e improvvisa.
L'esperimento di Booba e Kiki
In un esperimento psicologico ideato da Wolfgang Köhler, viene chiesto ad un gruppo di persone di decidere a quale di due immagini assegnare il nome Booba (leggi buba) e a quale Kiki. Dal 95% al 98% delle persone scelgono Kiki per la figura con gli spigoli, Booba per quella tondeggiante.
Si pensa che questo abbia implicazioni per lo sviluppo del linguaggio, infatti i nomi scelti per le cose non sono frutto di una decisione arbitraria ma di somiglianze (fisiche ecc.) La figura tondeggiante è spesso chiamata Booba perché questa parola fa sì che le labbra formino un'apertura circolare, mentre avviene il contrario per il suono Kiki, dove il suono della K è più duro e forzato di quello della B, appunto.
Da notare anche che nell'alfabeto romano la "K" e la "I" hanno una forma piena di linee intersecate che formano spigoli, mentre la "B" e la "O" sono forme tondeggianti.
▪ 1974 - Il barone Julius Evola (pseudonimo di Giulio Cesare Andrea Evola) (Roma, 19 maggio 1898 – Roma, 11 giugno 1974) è stato un filosofo, pittore e poeta italiano. Fu personalità poliedrica nel panorama culturale italiano del Novecento, in ragione dei suoi molteplici interessi: arte, filosofia, storia, politica, esoterismo, religione, costume, studi sulla razza.
Le sue posizioni si inquadrano, in parte, nell'ambito di una cultura e di tendenze ideologiche assimilabili o vicine a quelle del fascismo e ancor più del nazionalsocialismo, pur esprimendosi spesso in una critica in chiave tradizionalista nei confronti di alcune componenti dei due regimi.
Mussolini ne apprezza alcune impostazioni: in particolare il ritorno alla romanità e una teoria della razza in chiave spirituale. Da parte sua il filosofo nutre un'indubbia ammirazione nei confronti del "Duce".
Evola ha una sua influenza, anche se difficilmente quantificabile, nel variegato mondo della cultura fascista: scrive numerosi saggi, collabora intensamente con riviste e giornali di grande tiratura e partecipa alla vita accademica del suo tempo in veste di conferenziere, sia presso alcune prestigiose università italiane e straniere che nell'ambito dei corsi di mistica fascista. C'è anche chi ritiene che in sede diplomatica Evola svolga missioni ad altissimi livelli per conto dello stesso governo italiano.
Nonostante ciò, le sue idee eterodosse non sempre sono ben accette dalla classe dirigente italiana del tempo e gli valgono la sospensione di alcune pubblicazioni da parte dello stesso PNF e in Germania il sospetto delle gerarchie naziste.
Evola contribuisce alla divulgazione in Italia di importanti autori europei del XIX e del XX secolo: Bachofen, Guénon, Jünger, Ortega y Gasset, Spengler, Weininger, traducendo alcune loro opere e pubblicando saggi critici.
La complessità del suo pensiero gli procura, anche dopo la fine della guerra, un grande seguito negli ambienti conservatori italiani ed europei, da quelli più tradizionalisti del neofascismo (Pino Rauti ed Enzo Erra del Centro studi Ordine Nuovo) fino a quelli rappresentati da esponenti della destra più moderata (Giano Accame, Marcello Veneziani).
Le sue opere vengono tradotte e pubblicate in Germania, Francia, Spagna, Portogallo, Grecia, Svizzera, Gran Bretagna, Russia, Stati Uniti, Messico, Canada, Romania, Argentina, Brasile, Ungheria, Polonia, Turchia.
Evola e il fascismo
Se i rapporti che Evola intrattiene col fascismo sono innegabili, soprattutto a partire dalla metà degli anni trenta, tutt'oggi è oggetto di dibattito, tra gli studiosi, l'appartenenza del filosofo ad un orizzonte intellettuale propriamente fascista.
È il 1964 quando Evola pubblica Il fascismo. Saggio di un'analisi critica dal punto di vista della Destra per i tipi dell'editore Volpe.
Evola durante il fascismo non ha una particolare risonanza popolare e per lungo tempo è quasi ignorato dalla cultura ufficiale dell'epoca. Il filosofo infatti, pur iniziando ad entrare in sintonia con i temi culturali del regime fin dal 1927 – è di quell'anno il suo primo articolo pubblicato su Critica Fascista – si farà conoscere e apprezzare dall'intelligencija e dalle gerarchie fasciste solo attorno al 1934 (con le prime collaborazioni nell'ambito della Scuola di mistica fascista) e, ancor più, dopo il 1937, grazie all'avvicinamento dell'Italia alla Germania nazista ed al rapido sviluppo di una campagna e di politiche antiebraiche. Il "razzismo spirituale" di Evola viene allora recuperato dal Regime, insieme a quello di Preziosi, Orano, Bottai e di altri noti antisemiti italiani del tempo.
Da una ricerca effettuata presso l'Archivio di Stato e pubblicata nel 2001 sulla rivista Nuova storia contemporanea emerge che Evola, dal luglio 1941, ottiene dal Min.Cul.Pop. – per interecessione dello stesso Mussolini – uno stipendio mensile di duemila lire a fronte della stesura di alcuni articoli sulla razza. L'assegno cessa con la nascita della Repubblica di Salò in quanto Evola si rifiuta di trasferirsi al nord.
In quegli anni Evola scrive per quasi tutte le maggiori testate fasciste, anche se le sue collaborazioni più note (Regime fascista di Farinacci e La Vita Italiana di Preziosi) sono importanti ai fini del dibattito sul mondo della Tradizione, ma lo sono assai meno nel dibattito interno al fascismo.
Infatti, più che rappresentare una corrente interna al fascismo, «Evola intese rettificare il fascismo in senso spirituale e tradizionale, in nome di idee e valori che non erano quelli originari del fascismo, ma quelli della destra conservatrice ed aristocratica».
Evola dunque non si pone come obiettivo quello di interpretare il fascismo nel suo contesto storico, ma di individuare quegli elementi che si possono ricondurre ai canoni della destra tradizionale. Già nel volume Imperialismo pagano (1928) l'autore esorta il fascismo a valorizzare quei simboli propri alla tradizione romana (il fascio, l'aquila, l'impero).
Quanto evidenziato può in parte spiegare la profonda ammirazione che Evola prova per la figura di Benito Mussolini, da lui definito «rappresentante di una razza nuova ed antica ad un tempo che ben si potrebbe chiamare razza dell'uomo fascista o razza dell'uomo Mussolini».
Mussolini infatti cerca di riesumare alcuni di quei simboli per stabilire improbabili parallelismi fra i fasti dell'antica Roma e l'Italia del tempo. Tuttavia l'incapacità di creare da parte del regime un homo novus propriamente fascista, unitamente al crollo delle speranze riposte da Evola in Mussolini, artefice di un sistema politico le cui «potenzialità positive» non sono state recepite dal popolo italiano, spingono il filosofo, nel secondo dopoguerra, a prendere sempre più le distanze dall'esperienza storica del nazifascismo.
Scrive a tale proposito Julius Evola che «non fu il fascismo ad agire negativamente sul popolo italiano, sulla "razza" italiana, ma viceversa, fu questo popolo, questa "razza" ad agire negativamente sul fascismo, cioè sul tentativo fascista, in quanto dimostrò di non sapere fornire un numero sufficiente di uomini che fossero all'altezza di certe esigenze e di certi simboli, elementi sani e capaci di promuovere lo sviluppo delle potenzialità positive che potevano essere contenute nel sistema». Secondo lo storico Claudio Pavone «nel fondo delle posizioni di questo tipo c'è l'idea che non è stato il fascismo a rovinare l'Italia, bensì l'Italia a rovinare il fascismo, di cui era indegna». Il passo summenzionato di Evola viene citato anche da Pino Rauti e Rutilio Sermonti.
I punti di criticità sollevati da Evola rispetto al fascismo sono sostanzialmente tre: il problema dello stato da un punto di vista istituzionale (rapporto tra fascismo e monarchia), il problema della rappresentanza (effettiva rilevanza del partito unico e della funzione carismatica di Mussolini) e, infine, alcuni aspetti direttamente correlati alla gestione della nazione (questione economica e sociale, autarchia, questione della razza e politica internazionale).
Secondo Evola il fascismo si distingue per un'ambiguità di fondo: oscilla fra una concezione religiosa del potere e una mistica della nazione di derivazione rivoluzionaria. Il concetto stesso di "nazione" – derivando dalla frantumazione della civiltà imperiale e feudale – è secondo l'autore un concetto falsamente di destra, in quanto si basa sui principi sovvertitori del mondo della tradizione promossi a partire dalla rivoluzione francese.
Così come lo è anche lo "stato totalitario": per Evola uno stato che tende ad occuparsi di tutto (economia, educazione, indirizzi morali, conformismo) non è uno stato tradizionale. Il potere organico che si richiama infatti alla vera destra è omnia potens, non omnia faciens.
In quest'ottica l'esperienza della Repubblica Sociale è per Evola totalmente da rigettare sotto il piano istituzionale («dal nostro punto di vista, nulla è da raccogliere dal fascismo della Repubblica Sociale») in quanto la stessa è condensata di elementi di populismo e di socialismo. Ciò che salva della RSI è quella mentalità per cui molti italiani decidono di continuare a lottare pur essendo consapevoli della disfatta. Questa mentalità si fonda per Evola sul concetto di onore e fedeltà proprio alla spirito legionario.
Evola critica inoltre il concetto di "partito politico" che, derivando da una concezione illuminista, rappresenta una forma di legame improprio tra la base e il vertice, una sorta di "democrazia plebiscitaria". Allo stesso modo sottolinea di come anche il concetto di "duce" presenti analoghe problematiche: Mussolini sceglie infatti una gestione populistica della propria figura, ritenendo che l'andare verso le masse sia un elemento rafforzativo del proprio potere, anziché optare per un aristocratico distacco dal popolo.
In appendice all'edizione del 2001 del libro Fascismo e Terzo Reich si trovano alcuni interessanti scritti di Evola che vanno dal 1930 al 1940 circa in cui l'autore opera un'analisi discriminatrice sul fascismo, non risparmiando critiche al regime di Mussolini. Gli scritti sono circa una ventina. Tra i più significativi: Carta d'identità (1930), Due facce del nazionalismo (1931), Paneuropa e fascismo (1933), Razza e cultura (1934), Significato spirituale dell'autarchia (1938), Legionarismo ascetico (1938) e Partito od Ordine? (1940).
In questi articoli, apparsi nel corso degli anni su alcune testate giornalistiche (La Nobiltà della Stirpe, Rassegna Italiana ed altre), Evola contesta, anche se in forme non esplicite, alcune scelte del regime (il retaggio socialista, la deriva populista di Mussolini, l'ingerenza dello stato totalitario nella vita del singolo, il concetto stesso di partito politico). Come rileva Gianfranco De Turris nella nota introduttiva al testo «Evola scrisse le sue critiche, espose i suoi dubbi, propose le sue interpretazioni alternative durante tutto il Ventennio fascista. Certo, con toni e con modi adeguati ai tempi, conformi al suo scrivere all'interno del regime e su testate del regime ancorché eterodosse e di fronda, ma lo fece a differenza di tanti altri che espressero i loro dubbi e le loro repulse [...] solo dopo il 1945».
Sintesi del pensiero
Evola è propugnatore del "tradizionalismo", un modello ideale e sovratemporale di società caratterizzato in senso spirituale, aristocratico e gerarchico. Secondo l'autore tale modello si riscontra, da un punto di vista storico, in civiltà quali quella egiziana, romana e indiana. Tali civiltà non si basano su criteri economici, materiali e biologici, ma sono suddivise e gestite in base a criteri di gerarchia sociale di carattere ereditario e spirituale.
Secondo Evola ogni azione che avviene durante la vita biologica (il divenire) rispecchia direttamente una medesima azione di carattere metafisico (l'essere) e dunque imperitura e sovratemporale.
Il cammino dell'uomo durante la sua involuzione (come la definisce lo stesso Evola in aperto contrasto con le teorie darwiniane) avviene attraverso un percorso di tipo circolare, non lineare. Traccia di questa teoria la si trova, ad esempio, nello schema proposto da Esiodo relativo alla così detta teoria delle quattro età.
Secondo Evola l'uomo ha la possibilità di elevarsi alla sfera divina e metafisica attraverso precise strade (il rito e l'iniziazione), utilizzando determinati strumenti (l'azione e la contemplazione) all'interno di contesti sociali predeterminati (la casta, l'impero). In aperto contrasto con le teorie di Sant'Agostino espresse nel De civitate dei ed in sintonia con i dettami del buddhismo delle origini, Evola sostiene che non esiste differenza quantitativa tra l'uomo e il dio. Per l'autore ogni uomo è un dio mortale e ogni dio un uomo immortale.
Queste civiltà – ritenute superiori – si basano dunque su una più elevata dimensione metafisica e spirituale dell'esistenza, anziché su criteri di ordine materiale. La naturale decadenza di queste società è inversamente proporzionale all'aumento del progresso e della modernità. Tale processo di decadenza ha inizio con la perdita dell'unico polo che in passato racchiude sia l'autorità spirituale che quella temporale e prosegue con la spinta propulsiva dei valori illuministi espressi con la Rivoluzione Francese: si arriva così alla società odierna dove la dimensione spirituale dell'esistenza è andata definitivamente perduta.
In particolare Evola rifiuta totalmente il concetto di egalitarismo in favore di una visione differenziatrice della natura umana. Ne consegue un netto rifiuto per la democrazia (intesa come strumento di massa) e parimenti per ogni forma di totalitarismo, anch'esso ritenuto uno strumento di massa che si basa non su un'autorità spirituale, bensì su un'autorità esclusivamente di tipo temporale.
Naturale conseguenza di questo pensiero è che le differenze naturali tra gli esseri umani si rispecchiano anche nelle razze. Il filosofo rifiuta una visione razzista della vita in senso biologico, affermando la sua teoria del così detto razzismo spirituale. La "razza interiore" di cui parla Evola è definita come un patrimonio di tendenze e attitudini che – a seconda delle influenze ambientali – giungono o meno a manifestarsi compiutamente. L'appartenenza ad una razza si individua dunque sulla base delle caratteristiche spirituali, e solo in seguito fisiche, diventandone col tempo queste ultime il segno visibile.
Orientamenti - undici punti
▪ La teologia della modernità e la teologia del progresso: chiusura del nostro ciclo storico.
▪ La sostanza umana esemplare: uomini dal giusto sentire e dal sicuro istinto.
▪ La vocazione allo stile legionario: rispetto di sé, fedeltà all'idea.
▪ La vera immagine gerarchica: disegnata dalle qualità dell'anima (ben-essere), non dalle quantità della ricchezza (benessere).
▪ La regressione delle caste e la lotta radicale alla decadenza.
▪ L'allucinazione materialistica dell'era economica. Necessità della sborghesizzazione e della sproletarizzazione.
▪ Organicismo e totalitarismo. Sovranità dell'aristocrazia.
▪ L'idea di Stato, paradigma degli uomini in ordine per formare compagini di uomini dell'Ordine.
▪ Cultura e visione del mondo. Le ossessioni culturali della modernità ultima.
▪ Il possesso di un ethos aristocratico ed eroico, condizione necessaria per rimanere fedeli alla consegna, propiziando la "ricostruzione": il ripristino delle forme originarie dell'essere nell'uomo e nel mondo.
▪ Il necessario orizzonte religioso: la spiritualità trascendente quale consacrazione alla vita eroica. J.E.
▪ 1979 - John Wayne, pseudonimo di Marion Robert Morrison (Winterset, 26 maggio 1907 – Los Angeles, 11 giugno 1979), è stato un attore statunitense.
Soprannominato Duke (Duca), cominciò la carriera con il cinema muto negli anni venti, diventando poi fra gli anni quaranta e gli anni settanta uno degli attori più famosi al mondo, celebre soprattutto per i suoi film western, ma anche per molti altri ruoli in generi differenti. Personificò in maniera esemplare il ruvido maschilista, ed è a tutt'oggi considerato una leggenda del cinema.
Nel 1999 l'American Film Institute lo ha nominato 13º tra le più grandi star maschili di tutti i tempi.
▪ 1984 - Enrico Berlinguer (Sassari, 25 maggio 1922 – Padova, 11 giugno 1984) è stato un politico italiano, segretario generale del Partito Comunista Italiano dal 1972 fino alla morte.
«La questione morale esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico.»
Enrico Berlinguer nacque a Sassari il 25 maggio 1922 da Mario Berlinguer (avvocato, deputato socialista) e Maria Loriga.
La famiglia, appartenente alla nobiltà terriera sassarese di tradizioni massoniche, gli permise di crescere in un ambiente culturalmente assai evoluto (il nonno, suo omonimo, era il fondatore del giornale "La Nuova Sardegna", e fu amico di Garibaldi e di Mazzini) e di profittare di relazioni familiari e politiche che influenzarono notevolmente la sua ideologia e la carriera politica successiva. Era parente di Francesco Cossiga (le rispettive madri erano cugine tra loro) - che fu presidente della Repubblica - ed entrambi erano parenti di Antonio Segni, anch'egli capo di stato.
Nel 1943 Berlinguer si iscrisse al Partito Comunista Italiano (PCI) e ne organizzò la sezione sassarese, svolgendo un'intensa attività di propaganda, che lo rese un osservato speciale della questura. Nel gennaio del 1944 la fame spinse la popolazione a saccheggiare i forni della città e Berlinguer fu accusato, a torto, di esserne stato uno degli istigatori. Fu quindi arrestato e trattenuto in carcere per tre mesi, dopo i quali fu prosciolto dalle accuse e liberato.
Dopo la sua scarcerazione, il padre lo portò a Salerno, luogo in cui la famiglia reale e il governo di Badoglio avevano trovato rifugio dopo l'armistizio di Cassibile fra l'Italia e gli alleati. Nella città campana il padre gli presentò Palmiro Togliatti, che era stato suo compagno di scuola. Berlinguer fece una buona impressione e perciò nel maggio del 1945 fu inviato a Milano, dove collaborò con Luigi Longo e Giancarlo Pajetta. Dopo un breve periodo come vicesegretario del PCI in Sardegna, Togliatti lo richiamò a Roma. Nel 1949 fu nominato segretario della Federazione Giovanile Comunista Italiana, carica che avrebbe mantenuto sino al 1956 e l'anno seguente divenne segretario della Federazione Mondiale della Gioventù Democratica, un'associazione internazionale di giovani marxisti. Durante l'esperienza come segretario della FGCI non si allontanò mai dall'impostazione filosovietica e stalinista che era prevalente nel PCI e che costituiva il fondamento della politica di Togliatti. In occasione della morte di Stalin, per esempio, pronunciò un discorso pieno di elogi nei confronti del dittatore. In questa veste Berlinguer visitò, insieme a Nerio Nesi, l'Unione Sovietica, ma nel 1957 abolì l'obbligatorietà di tale visita (comprendente anche corsi di formazione politica), sin allora (anche solo ufficiosamente) passaggio necessario di tutti i dirigenti che intendessero far carriera nel partito.
Nel 1956 fu favorevole all'invasione sovietica dell'Ungheria, coerentemente alla politica di tutto il Partito Comunista. Il 29 settembre 1957 sposò a Roma Letizia Laurenti, da cui ebbe quattro figli: Bianca Maria (Roma, 9 dicembre 1959), Maria Stella (Roma, 16 novembre 1961), Marco (Roma, 7 gennaio 1963) e Laura (Roma, 6 maggio 1970).
I familiari
▪ Il fratello Giovanni è uno dei leader del movimento politico Sinistra democratica
▪ Il figlio Marco è membro della Direzione Nazionale di Rifondazione Comunista.
▪ Luigi Berlinguer,(cugino) è stato ministro della Pubblica Istruzione e senatore tra le file dei Democratici di Sinistra.
▪ Bianca (figlia) è giornalista, direttrice del TG3.
▪ Laura (figlia) lavora a Studio Aperto.
Leader di partito
«Si iscrisse giovanissimo alla direzione del PCI.» (Giancarlo Pajetta)
Eletto per la prima volta deputato nel 1968, per il collegio elettorale di Roma, si fece portavoce della corrente progressista e popolare del partito. Nominato, nel corso del XII congresso, vice-segretario nazionale (durante la segreteria di Luigi Longo), guidò nel 1969 una delegazione del partito ai lavori della conferenza internazionale dei partiti comunisti che si tenne a Mosca; in tale occasione, trovandosi in disaccordo con la "linea" sovietica (fonte massima degli indirizzi dell'Internazionale comunista), a sorpresa rifiutò di sottoscrivere la relazione finale. Va ricordato comunque che simili prese di posizione da parte dei dirigenti comunisti spesso erano solo finalizzate all'acquisizione del consenso in Italia e non comportavano una critica effettiva e reale al comunismo sovietico. Dopo il crollo del regime comunista in Cecoslovacchia ad esempio si seppe da fonti locali che a Praga Longo aveva espresso posizioni identiche a quelle sovietiche e aveva approvato l'uso della forza da parte dei russi.
La presa di posizione, inattesa quanto "scandalosa", fu memorabile: tenne il discorso decisamente più critico in assoluto fra quelli che mai leader comunisti abbiano tenuto a Mosca, rifiutando tassativamente la "scomunica" dei comunisti cinesi e rinfacciando a Leonid Brežnev che l'invasione sovietica della Cecoslovacchia (che definì espressivamente la "tragedia di Praga") aveva solo evidenziato le radicali divergenze affioranti nel movimento comunista su temi fondamentali come la sovranità nazionale, la democrazia socialista e la libertà di cultura.
Nel 1970 Berlinguer proclamò un altrettanto inattesa apertura verso il mondo dell'industria: dichiarando che il PCI guardava con favore a un nuovo modello di sviluppo, inseriva il partito in un dibattito politico-economico fin allora considerato tabù per i comunisti.
La segreteria
Raggiunta prima del previsto a causa dei disagi medici patiti da Longo, che dovette prima delegare e poi definitivamente "abdicare" (nel 1972), la sua segreteria fu caratterizzata da un lato dal tentativo di collaborare con la DC nella prospettiva di realizzare riforme sociali ed economiche che considerava indispensabili, dall'altro dalla convinzione della necessità di rappresentare un nuovo comunismo indipendente dall'URSS (chiamato "eurocomunismo").
Negli anni in cui Berlinguer fu segretario il PCI raggiunse il suo massimo storico, il 34,4% del '76, e alcuni affermano che questo risultato sia stato ottenuto principalmente per merito di Berlinguer. Va d'altro canto ricordato che dopo avere toccato il proprio massimo storico negli anni '70 il Partito Comunista iniziò una fase di lento ma progressivo e inarrestabile declino, di cui si notarono chiaramente gli effetti già nei primi anni '80 sotto la segreteria di Berlinguer. Non si può escludere ed anzi è probabile che sia i migliori risultati elettorali del Partito Comunista sia i suoi insuccessi elettorali che a partire dagli anni '80 si sarebbero sistematicamente ripetuti e via via aggravati rispondessero in realtà a fenomeni di ampio respiro e a condizioni profonde della società italiana su cui solo in parte l'azione politica di Berlinguer poteva avere un impatto.
Il partito in movimento
Nel 1973 si verificano alcuni avvenimenti che segneranno profondamente le scelte del PCI nel successivo decennio. L'11 settembre, in Cile, un colpo di Stato spazza via il Governo di sinistra guidato da Salvador Allende, sostituendolo con una giunta militare capeggiata dal colonnello Augusto Pinochet. Il 3 ottobre 1973, al termine di una visita ufficiale a Sofia, la limousine su cui viaggia, una GAZ-13 Chaika, è investita da un camion militare. Berlinguer si salva miracolosamente, l'interprete ufficiale muore e gli altri due passeggeri (esponenti della dissidenza nel Partito Comunista Bulgaro) rimangono gravemente feriti. All'epoca dei fatti né Berlinguer né alcun altro dirigente comunista disse pubblicamente di sospettare che l'incidente fosse in realtà un attentato. Nel 1991Emanuele Macaluso, senatore del PDS ed ex dirigente comunista, rilascia un'intervista al settimanale Panorama dichiarando che il segretario del PCI, appena rientrato a Botteghe Oscure, gli avrebbe rivelato il sospetto che si fosse trattato in realtà di un "falso incidente", orchestrato ad arte dal KGB e dai servizi segreti bulgari per porre fine allo scomodo alleato italiano. Dopo la convalescenza seguita alle ferite riportate, Berlinguer scrisse per "Rinascita" tre famosi articoli intitolati "Riflessioni sull'Italia", "Dopo i fatti del Cile" e "Dopo il golpe del Cile", in cui sviluppava alcuni temi che abbozzavano la proposta del "compromesso storico" come possibile soluzione preventiva dinanzi alla deriva istituzionale che lasciava paventare possibili soluzioni di stile sud-americano.
L'anno successivo Berlinguer principiò a Belgrado una sorta di campagna di sensibilizzazione internazionale degli altri movimenti e partiti comunisti, incontrando per primo il maresciallo Tito; molti incontri di funzionari minori del partito con omologhi dei partiti comunisti di altri stati, preparavano frattanto la strada diplomatica per relazioni privilegiate con alcuni di essi.
Nel marzo 1975 durante il 14esimo congresso del Partito Comunista Berlinguer espresse il pieno sostegno dei comunisti italiani "agli eroici combattenti del Vietnam e della Cambogia". Apparentemente non sembra che fosse informato dei crimini di guerra compiuti dalle truppe comuniste, in particolare della ferocia dimostrata dagli khmer rossi cambogiani sia durante il conflitto sia nella fase successiva di normalizzazione del paese. Non risulta che Berlinguer abbia mai espresso alcuna condanna nei confronti di questi crimini, né che li abbia ritenuti degni di un commento, pur essendogli certamente noti dalle corrispondenze dei giornalisti italiani (celebri ad esempio quelle di Tiziano Terzani dalla Cambogia).
Nel1976 in occasione di un congresso a Mosca dinanzi a 5.000 delegati provenienti da tutto il mondo Berlinguer parlò in aperto contrasto con le posizioni "ufficiali" di "sistema pluralistico" (che l'interprete simultaneo coscienziosamente rese come "sistema multiforme") e descrisse l'intenzione del PCI di costruire un socialismo "che riteniamo necessario e possibile solo in Italia". Tuttavia nello stesso periodo il Partito Comunista Italiano continuava a ricevere i finanziamenti illegali dall'Unione Sovietica, che anzi proprio verso la metà degli anni '70 raggiunsero l'importo più elevato. [senza fonte] Da parte del Cremlino si replicò che essendo l'Italia sotto un marcato controllo della NATO, si era costretti a concludere che l'unica interferenza davvero sgradita ai comunisti italiani fosse quella sovietica. Berlinguer, del resto, avrebbe loro risposto, attraverso un'intervista rilasciata a Giampaolo Pansa per il Corriere della Sera, definendo il Patto Atlantico «uno scudo utile per la costruzione del socialismo nella libertà, un motivo di stabilità sul piano geopolitico ed un fattore di sicurezza per l'Italia». Peraltro all'apertura di Berlinguer nei confronti della NATO non corrispose un'analoga apertura della NATO nei confronti del Partito Comunista Italiano, che i leader politici dei paesi membri della NATO non consideravano un partito democratico e non giudicavano adatto a governare l'Italia o a fornire ministri ad un governo democristiano. È nota ad esempio la posizione di netta condanna nei confronti del Partito Comunista Italiano emersa nel vertice G8 tenutosi a Portorico nel 1976.
La ricerca del consenso
Il programma seguito dal sempre più dinamico segretario intendeva aprire al partito strade nuove per allargare il consenso. L'ampio seguito elettorale non era infatti, da sé, sufficiente a consentire che il PCI potesse, con la necessaria autorevolezza, contribuire alla vita democratica del Paese; vi erano diversi motivi di esclusione, che il segretario si propose di abbattere.
I comunisti, scomunicati da Papa Pacelli dopo le elezioni politiche del 1948, cercavano intanto di uscire da un isolamento ideologico che nel propugnare idee di tutela del ceto proletario, e nel volerne rappresentare gli interessi, li aveva in pratica relegati a questa sola funzione politica. Sostenitori inoltre della dottrina marxista (come, peraltro, sempre meno visibilmente erano gli altri movimenti della sinistra, da tempo in verità assai occupati a diluirne le asperità), erano fisiologicamente invisi all'elettorato cattolico come a quello dei ceti più elevati e le vicinanze "pre-strappo" con la Russia, avversaria del Patto Atlantico nella guerra fredda, destavano più di un'inquietudine fra coloro che ne sostenevano la fazione occidentale.
Con sagace scelta di tempi, Berlinguer rese di pubblica notorietà una sua privata corrispondenza con il vescovo di Ivrea, Mons. Luigi Bettazzi, che avrebbe dovuto testimoniare della "possibilità" di un dialogo intellettuale e sociale (e poi, certo, anche politico) fra cattolici e comunisti.
Al contempo, però, montavano le tragiche proporzioni del terrorismo, che cresceva di "qualità" e di quantità di vittime, all'inizio di un periodo che sarebbe poi stato definito degli "anni di piombo". In una prima fase il Partito Comunista non si accorse della drammatica importanza del fenomeno e assunse un atteggiamento ambiguo e assolutorio nei confronti dei terroristi, di cui addirittura veniva negata l'esistenza. Il quotidiano l'Unità ad esempio, che era l'organo di stampa ufficiale del Partito Comunista, fece proprie le tesi della propaganda vicina ai gruppi terroristici in varie occasioni: la morte di Giangiacomo Feltrinelli, che fu attribuita ad un presunto complotto; l'assassinio dei militanti dell'MSI Mazzola e Giralucci a Padova, che fu attribuito a presunte faide interne tra gruppi neofascisti invece che alle Brigate Rosse, e così via. In seguito il Partito Comunista assunse una posizione sempre più netta di distanza dalle Brigate Rosse e di adesione alla "linea della fermezza", specie a partire dal momento in cui alcuni militanti comunisti o di simpatie comuniste divennero bersagli delle formazioni terroristiche di estrema sinistra.
La presentabilità e la presentazione
Il contatto col mondo cattolico si rese allora più intensamente ricercato da parte del partito e fu creata la formula del "catto-comunismo", con la quale si pubblicizzavano ed esaltavano i punti di contatto con le componenti dei partiti cattolici (ma essenzialmente della DC) più attente alle tematiche sociali, con i cosiddetti "basisti" (cioè rappresentanti della "base", l'elettorato di basso ceto) degli altri schieramenti.
In realtà, fin dai tempi del voto a favore dell'art. 7 della Costituzione il PCI aveva cercato di evitare che questioni di carattere religioso diventassero motivo di scontro sociale, e a tal fine cercò fino all'ultimo di trovare una soluzione parlamentare per evitare il referendum popolare per l'abolizione del divorzio introdotto in Italia dalla legge Fortuna-Baslini. E' molto probabile che lo scarso impegno divorzista del PCI derivasse anche da una valutazione gravemente errata dei rapporti forza politici sul tema (comune del resto a vari altri partiti, divorzisti e antidivorzisti). Sembra che Berlinguer abbia più volte espresso ai suoi collaboratori profondo scetticismo sulle possibilità dei divorzisti di vincere una consultazione referandaria sul divorzio. Tuttavia quando il ricorso alle urne fu inevitabile, si schierò risolutamentea favore del NO all'abrogazione della legge, e data la sua enorme capacità organizzativa, il suo contributo alla campagna referendaria fu decisivo per la sconfitta degli abrogazionisti impersonati dall'allora segretario della DC Amintore Fanfani.
Nelle elezioni politiche del 20 giugno 1976 il PCI (che aveva ormai abbandonato le cordate elettorali allestite insieme ad altre forze - ad esempio il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria) ottenne da solo il 34,4% dei voti e 227 seggi alla Camera dei deputati e il 33,8% dei suffragi con 116 seggi al Senato della Repubblica: la differenza rispetto ai voti ottenuti dalla DC era di pochi punti percentuali, molti di meno rispetto alle precedenti votazioni, avvicinando il PCI ad una quota di elettorato che poteva eventualmente ambire anche alla maggioranza relativa. Molti incominciarono perciò a rispettivamente sperare e temere un possibile "sorpasso". Va comunque ricordato che la maggioranza assoluta era molto lontana dalle possibilità del PCI, mentre nei principali partiti necessari al PCI per la formazione di un eventuale governo (DC e Partito Socialista) rimanevano forti resistenze alla partecipazione dei comunisti all'esecutivo per le caratteristiche da molti giudicate antidemocratiche del partito comunista. Inoltre, nello stesso partito comunista esistevano resistenze ideologiche dell'elettorato verso vari aspetti delle tradizionali politiche di governo, destinate ad emergere durante l'esperienza del "compromesso storico" e a sfociare in varie forme di voto di protesta, in particolare a favore del Partito Radicale di Pannella che si opponeva alla linea della fermezza in materia di terrorismo. Alcuni a questo riguardo affermano che la politica del compromesso storico delineata da Moro prima della sua morte e attuata da Andreotti durante il governo cosiddetto della "non sfiducia" per i democristiani non fosse una autentica strategia di governo comune con il PCI ma una sorta di espediente tattico di breve termine. Una volta che il PCI fosse entrato nell'area di governo, senza parteciparvi direttamente, sarebbe stato costretto ad assumersi responsabilità che gli avrebbero alienato il consenso di significative componenti del suo elettorato nel momento del suo massimo storico, in attesa che i mutamenti sociali ne determinassero il declino elettorale e l'inutilità come alleato per la formazione di altri governi, come in effetti sarebbe accaduto a partire dalla fine degli anni '70.
▪ 1997 - Silvia Ruotolo (Napoli, 1958 – Napoli, 11 giugno 1997) è stata una donna italiana vittima innocente della Camorra.
Silvia Ruotolo, 39 anni, è stata assassinata l’11 giugno del 1997 a Napoli, mentre stava tornando nella sua casa di salita Arenella, nel quartiere Vomero, dopo essere andata a prendere a scuola suo figlio Francesco di 5 anni. A guardarla dal balcone c’era Alessandra, la figlia di 10 anni.
Il commando di camorra che sparò all’impazzata aveva come obiettivo Salvatore Raimondi, affiliato al clan Cimmino, avversario del clan Alfieri. Furono sparati quaranta proiettili che oltre ad uccidere Salvatore Raimondi e ferire Luigi Filippini, la cui collaborazione con la polizia risultò decisiva per l'individuazione del gruppo di fuoco, uccisero sul colpo Silvia Ruotolo, colpita da una pallottola alla tempia.
Uno degli assassini, Rosario Privato, fu arrestato il 24 luglio dello stesso anno mentre era in vacanza al mare in Calabria.
L'assassinio di Silvia Ruotolo ebbe grande risalto mediatico e contribuì alla crescita della consapevolezza sulla gravità del fenomeno camorristico.
Silvia Ruotolo era cugina di Sandro Ruotolo, giornalista della RAI.