Il calendario del 6 Luglio
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Eventi
▪ 1415 - Morte del riformatore religioso Jan Hus sul rogo a Costanza, dove era giunto con un salvacondotto dell'Imperatore Sigismondo
▪ 1439 - Concilio di Firenze: effimero risanamento dello scisma d'oriente
▪ 1449 - Con la vittoria nella battaglia di Castione la Repubblica Ambrosiana ferma momentaneamente l'avanzata svizzera a sud delle alpi
▪ 1450 - Durante la Guerra dei Cento Anni la città di Caen si arrende ai francesi
▪ 1483 - Riccardo III viene incoronato re d'Inghilterra
▪ 1495 - Con la battaglia di Fornovo Carlo VIII di Francia riesce a ritirarsi in patria
▪ 1609 - Alla Boemia viene garantita libertà di culto
▪ 1630 - Guerra dei Trent'Anni: 4.000 soldati svedesi, guidati da Gustavo Adolfo, sbarcano in Germania
▪ 1785 - Il dollaro viene scelto all'unanimità come valuta degli Stati Uniti. È la prima volta che una nazione adotta una valuta con il sistema decimale
▪ 1801 - Battaglia di Algeciras: la flotta francese sconfigge quella britannica
▪ 1885 - Louis Pasteur testa con successo il suo vaccino contro la rabbia. Il paziente è Joseph Meister, un ragazzo morso da un cane rabbioso
▪ 1892 - Dadabhai Naoroji viene eletto come primo parlamentare Indiano del Regno Unito
▪ 1908 - Robert Edvin Peary salpa per l'Artico in una spedizione con la quale raggiungerà il Polo Nord
▪ 1917 - Truppe arabe guidate da T.E. Lawrence strappano Aqaba ai turchi
▪ 1919 - Il dirigibile britannico R-34 atterra a New York, completando la prima traversata dell'Oceano Atlantico in dirigibile
▪ 1939 - Olocausto: le ultime imprese ebraiche in Germania vengono chiuse
▪ 1942 - Mussolini invia l'Armir (Armata italiana in Russia)
▪ 1943 - Battaglia del Golfo di Kula tra le forze americane e quelle giapponesi
▪ 1944 - Alle ore 8 del mattino il gap "Fabrizi" e lo "Stacchiotti" e i bianchi del "Riccio" entrarono ad Osimo precedendo di qualche ora le truppe della II Divisione polacca al comando del generale W.Anderss
▪ 1945 - Eccidio di Schio: i partigiani uccidono 54 fascisti rinchiusi nel carcere
▪ 1955 - In Italia ha inizio il primo governo Segni
▪ 1964 - Il Malawi dichiara l'indipendenza dal Regno Unito
▪ 1966 - Il Malawi diventa una repubblica
▪ 1967 - Guerra del Biafra: le forze Nigeriane invadono il Biafra dando il via alla guerra
▪ 1970 - In Italia cade il terzo governo Rumor
▪ 1975 - Le Comore dichiarano l'indipendenza dalla Francia
▪ 1976 - L'Unione Sovietica lancia nello spazio la navicella Soyuz 21 con due astronauti a bordo
▪ 1984 - C'era una volta in America di Sergio Leone esce ufficialmente in Italia.
▪ 1985 - La Chiesa cattolica dichiara venerabile il papa Pio IX
▪ 1988 - La piattaforma di trivellazione Piper Alpha, nel Mare del Nord, viene distrutta da un'esplosione e dal successivo incendio uccidendo 167 lavoratori.
▪ 1997 - La sonda spaziale Pathfinder si posa su Marte
▪ 2003
- - Intervento chirurgico di separazione delle sorelle siamesi Ladan e Laleh Bijani, che moriranno due giorni dopo.
- - Corsica: prevalgono i "no" al referendum per l'introduzione di alcune autonomie.
▪ 2004 - La sonda Cassini/Huygens entra nell'orbita di Titano
▪ 2005 - Singapore: il CIO assegna a Londra le Olimpiadi e le Paraolimpiadi estive del 2012. Sarà la prima città al mondo ad averle ospitate per tre volte, dopo quelle del 1908 e del 1948
▪ 2008 - Torneo di Wimbledon: Rafael Nadal interrompe la serie di vittorie di Roger Federer vincendo il torneo.
Anniversari
▪ 1415 - Jan Hus (Husinec, 1371 circa – Costanza, 6 luglio 1415) fu un teologo e un riformatore religioso boemo. Promosse un movimento religioso basato sulle idee di John Wyclif e i suoi seguaci divennero noti come Hussiti. Scomunicato nel 1411 dalla Chiesa cattolica e condannato dal Concilio di Costanza, fu bruciato sul rogo.
«Perciò, fedele cristiano, cerca la verità, ascolta la verità, apprendi la verità, ama la verità, di' la verità, attieniti alla verità, difendi la verità fino alla morte: perché la verità ti farà libero dal peccato, dal demonio, dalla morte dell'anima e in ultimo dalla morte eterna.» (Jan Hus, Spiegazione della Confessione di fede, 1412)
Giovane studente povero, giunse a Praga nel 1390 per studiare all'Università, ove erano vivi i fermenti del movimento riformatore boemo - fondato vent'anni prima fuori dell'Università da Jan Milič ma oggetto di una repressione che aveva portato alla chiusura della scuola dei predicatori aperta dallo stesso Milič nel 1372 - che si proponeva il rinnovamento della chiesa attraverso il ritorno a un pauperistico cristianesimo primitivo e all'attesa del prossimo Nuovo Regno. Milič, che aveva individuato nell'eccessiva ricchezza accumulata dalla chiesa avignonese e romana una delle cause più importanti del decadimento dei costumi ecclesiastici, aveva inutilmente cercato di premere sulle gerarchie; sospettato di eresia e convocato ad Avignone per essere esaminato, vi era morto nel 1374. La sua dottrina fece proseliti e nel maggio del 1391 fu fondata a Praga la Cappella di Betlemme, una nuova scuola ove si predicava in lingua boema e si ospitavano studenti universitari.
Nel 1393 Hus ottiene il baccellierato in filosofia, nel 1395 si laurea magister in artibus e nel 1398 inizia a insegnare Filosofia nella stessa Università praghese; ordinato sacerdote nel 1400, continua a studiare Teologia con Stanislao da Znojmo e dal marzo del 1402 predica per la prima volta nella "Cappella di Betlemme". È un suo avversario, l'agostiniano norimberghese Oswald Reinlein, a lasciare una testimonianza della sua attività:
«Le sue prediche erano frequentate dalla quasi totalità della popolazione praghese; nella Cappella di Betlemme egli predicava due volte nei giorni festivi e ancora due volte nel periodo di Quaresima. In tutti gli altri giorni teneva due lezioni e tre discorsi la domenica. Per i poveri che gli venivano raccomandati Hus chiedeva elemosine ai suoi conoscenti; usava invitare a tavola i maestri e ricevere con amore e bontà ogni visitatore».
Nei primi anni Hus si limitò a insegnare le Sacre Scritture ma in breve cominciò, nelle sue prediche, a richiedere una riforma dei costumi ecclesiastici.
Erede di Wyclif
Hus conobbe le opere di Wyclif (ca 1329 - 1384) verso il 1398. Il doctor evangelicus inglese considerava la gerarchia ecclesiastica romana profondamente corrotta e, non avendo alcuna fiducia nelle possibilità di autoriforma delle autorità ecclesiastiche, sperava che una riforma della Chiesa si potesse ottenere attraverso un'iniziativa dei governi; condannato nel Concilio di Londra del 1382, i suoi scritti furono proibiti anche dall'Università di Praga nel 1403.
Jan Hus concordava pressoché in tutto con Wycliff (tranne che a riguardo della dottrina eucaristica, ove manteneva l'opinione ortodossa della transustanziazione) e, più ancora, vi concordavano i riformatori boemi, Stanislao da Znojmo e Stefano Páleč i quali infatti, convocati a Bologna per discolparsi del loro appoggio all'eresia wyclifiana, furono incarcerati e percossi su ordine del cardinale Baldassarre Cossa, futuro Papa, ma poi considerato antipapa, Giovanni XXIII. Dopo quell'esperienza, il Páleč rientrò prontamente nei ranghi dell'ortodossia romana e sarà uno degli accusatori di Hus.
La chiesa era allora divisa dallo scisma avignonese, con un papa, Benedetto XIII, ad Avignone e un altro, Gregorio XII, a Roma, eletto nel 1406. Per porre termine alla scissione, alcuni cardinali delle due fazioni avevano progettato di indire un Concilio a Pisa che eleggesse di comune accordo un nuovo papa, ponendo termine alla divisione.
Di fronte alla scissione, Hus era favorevole a mantenere una posizione di neutralità, in attesa che il futuro concilio dirimesse lo scisma. Analogo atteggiamento fu deciso dal re boemo Venceslao IV, diversamente dall'arcivescovo di Praga Zajíc Zbynek, che insisteva sulla necessità di obbedire al papa di Roma. Sospettando in Hus un seguace di Wyclif, l'arcivescovo costituì una commissione, presieduta dall'inquisitore Maurizio Rvačka, incaricata di valutarne l'ortodossia.
Intanto, una riforma dell'amministrazione dell'Università di Praga, decisa da re Venceslao rovesciava la norma vigente fino ad allora, in cui fra gli elementi nazionali lì rappresentati, quello tedesco aveva diritto a tre voti e ogni altro ad uno, attribuendo ora tre voti all'elemento nazionale boemo e uno a ciascun altro. In seguito a questa riforma, nel maggio 1409 i docenti e gli studenti tedeschi abbandonarono Praga per stabilirsi soprattutto a Lipsia, dove fu fondata una nuova Università, mentre a ottobre, grazie ai nuovi statuti, il boemo Hus poté essere eletto rettore dell'Università di Praga.
Il concilio di Pisa si era intanto concluso il 26 giugno 1409 con l'elezione di un nuovo papa, Alessandro V, non riconosciuto però da tutta la cristianità, cosicché ora risultavano in carica ben tre papi. A dicembre, Alessandro V firmava la bolla che, dopo aver nuovamente condannato gli scritti di Wyclif, autorizzava l'arcivescovo praghese a vietare a Hus di predicare, notifica comunicatagli solo nel giugno 1410, quando Alessandro V era già morto e gli era succeduto Giovanni XXIII.
Hus decise di non obbedire e di appellarsi al papa; si rivolge ai fedeli nella Cappella di Betlemme: «Il defunto papa, di cui non saprei dirvi se si trova in paradiso o all'inferno, scriveva nelle sue pergamene contro gli scritti di Wyclif in cui vi sono pure molte cose buone. Io ho presentato appello e mi appellerò nuovamente [...] Io devo predicare anche se un giorno dovessi lasciare il paese o morire in carcere. Poiché i papi possono mentire ma il Signore non mente».
Convocato a Roma per giustificare la propria posizione, Hus rifiuta e ha la protezione del re che, ambendo alla carica imperiale, vuole risolvere la disputa teologica per mostrare la propria autorità tanto nei problemi civili che in quelli religiosi. L'arcivescovo Zbynek bandisce invano Hus il 15 marzo 1411 e altrettanto vanamente lancia l'interdetto su Praga l'8 giugno: re Venceslao affida a un collegio arbitrale la disputa tra l'arcivescovo e Hus e l'arbitrato stabilisce che il bando e l'interdetto siano rimessi e che Hus non sia tenuto a presentarsi a Roma.
Il mercato delle indulgenze
Intanto Giovanni XXIII aveva proclamato la "guerra santa" contro Ladislao, re di Napoli, sostenitore di Gregorio XII, e iniziato la raccolta dei fondi necessari alla guerra mediante la vendita delle indulgenze, ossia la remissione delle pene temporali in cambio di denaro. Anche il re boemo appoggia l'iniziativa papale, dal momento che una percentuale del ricavato sarebbe finita nelle casse statali.
Le proteste di Hus, che dichiara che ogni guerra santa non può corrispondere al messaggio evangelico, di Girolamo da Praga e di molti cittadini furono represse; lo stesso Stefano Páleč, ora dottore in teologia dell'Università, esortò il re a soffocare la protesta; tre giovani furono condannati e decapitati.
Hus si spinge oltre: sostiene la tesi di Wyclif secondo la quale un predicatore può predicare senza il permesso del vescovo, dal momento che il dovere di annunziare il Vangelo è un comandamento di Cristo. Scomunicato alla fine di luglio 1412, il cardinale Pietro degli Stefaneschi, che presiede il processo ordinato dalla Curia romana, ne ordina l'arresto e la demolizione della Cappella di Betlemme; il cardinale Giovanni di Lisbona reca a Praga l'atto di scomunica, promulgato nel sinodo della diocesi praghese il 18 ottobre 1412.
L'appello a Cristo
In risposta, Hus aveva già esposto, il 12 ottobre, sul ponte di Praga, nei pressi del palazzo arcivescovile, il suo "appello a Cristo", rivolto da «Jan Hus da Husinec, maestro e baccelliere formato in teologia presso la illustre Università di Praga, sacerdote e predicatore titolare della Cappella detta di Betlemme [...] a Gesù Cristo, giudice equo il quale conosce, protegge, giudica, rivela e corona immancabilmente la giusta causa di ognuno».
Sottolinea la legittimità del suo ricorso «per l'ingiusta sentenza e la scomunica comminatami dai pontefici, scribi, farisei, e giudici insediatisi sulla cattedra di Mosè [...] come il santo e grande patriarca di Costantinopoli Giovanni Crisostomo presentò ricorso alla sentenza di due Concili di vescovi e chierici e così come i vescovi, spero beati, Andrea di Praga e Roberto di Lincoln, presentarono ricorso contro la sentenza del papa [...]».
Ricorda che, convocato, non si presentò a Roma perché «Lungo la strada mi erano tese ovunque insidie e il pericolo corso da altri mi rese prudente» citando il trattamento riservato a Bologna ai suoi procuratori Stanislao da Znojmo e Stefano Páleč, e menziona il concordato raggiunto con l'arcivescovo di Praga Zbynek, al quale «non era noto in tutto il regno di Boemia un solo eretico e nemmeno nella città di Praga e nel Margraviato di Moravia».
Conclude come, a suo avviso, «tutte le antiche leggi divine dell'Antico e del Nuovo Testamento, nonché le leggi canoniche dispongono che i giudici devono visitare i luoghi dove si dice che sia stato commesso un delitto ed ivi esaminare l'accusa fatta [...] devono rivolgersi a quelli che conoscono la condotta dell'accusato che non siano malevoli né gelosi verso di lui [...] poiché l'incolpato o accusato deve avere sicuro e libero accesso al luogo di giustizia e il giudice, come i testimoni, non devono essere suoi nemici: è dunque evidente che non sussistevano queste condizioni per farmi comparire in giudizio».
Il Concilio di Costanza
All'ordine del re di non predicare, in un primo momento obbedisce ma qualche settimana dopo riprende le sue prediche nei paesi della Boemia. Nel 1413 conclude quello che resta il suo scritto più noto, il De ecclesia, e scrive Sulla simonia e la raccolta di sermoni Postilla.
Dopo il fallimento del Concilio di Pisa nel 1409, il re d'Ungheria, Sigismondo, che sarà incoronato imperatore l'8 novembre 1414, convocò il 30 ottobre 1413 un nuovo concilio, da tenersi a Costanza l'1 novembre 1414, che affrontasse il problema dell'unità della Chiesa, eleggendo un nuovo papa, e che combattesse la corruzione ecclesiastica e ponesse fine alle dispute dottrinali, affrontando anche il caso Hus. A questo scopo Hus fu sollecitato a raggiungere Costanza, con la garanzia dell'incolumità. Hus partì per Costanza l'11 ottobre, sostando a Norimberga, a Ulma e a Biberach, e giungendo nella città tedesca il 3 novembre.
Il 27 novembre, invitato a un incontro amichevole dai cardinali Pierre d'Ailly, Ottone Colonna, prossimo papa Martino V, Guillaume Fillastre e Francesco Zabarella, è da loro fatto subito arrestare e incarcerare. In carcere, il 4 marzo 1415, termina di scrivere un opuscolo dedicato al suo carceriere, il De matrimonio ad Robertum.
Il 20 marzo Giovanni XXIII, sul quale erano insistenti le accuse di corruzione, fugge da Costanza e viene dichiarato decaduto in quanto simoniaco, mentre il secondo papa, Gregorio XII, si dimette spontaneamente; quanto al terzo papa, Benedetto XIII, sarà deposto dal concilio il 26 luglio 1417 come scismatico ed eretico.
Il processo
Ad aprile giunge a Costanza il discepolo di Hus, Girolamo da Praga, per ottenere da Sigismondo la liberazione del suo maestro ma il Concilio risponde con un mandato di cattura; Girolamo fugge ma è arrestato alla frontiera bavarese: sarà mandato al rogo il 30 maggio 1416.
Il 18 maggio 1415 viene intimato a Hus di ritrattare le sue affermazioni, considerate eretiche; ottiene un'udienza pubblica, da tenersi il 5 giugno, ove poter dimostrare l'ortodossia delle sue dottrine, ma gli viene impedito di parlare. Interrogato nei giorni successivi, alla presenza di Sigismondo, dai cardinali Zabarella e d'Ailly, che gli contestano la sua tesi, secondo la quale un re, un papa o un vescovo, che siano in peccato mortale, decadono dalla loro carica e il suo dubbio della necessità di un capo visibile della Chiesa, dal momento che solo Cristo è alla testa della comunità cristiana. Risponde che con la deposizione di Giovanni XXIII la Chiesa continua a essere retta da Cristo e rifiuta di abiurare.
Le accuse contro Jan Hus
Il 18 giugno 1415, il Concilio di Costanza ratificò un elenco di 30 accuse contro Hus, proposizioni considerate eretiche tratte da tre sue opere, il De ecclesia, soprattutto e dal Contra Stephanum Palec e il Contra Stanislaum de Znoyma, dandogli tempo due giorni per contestarle. Si riportano le accuse e, in corsivo fra parentesi, le note di Hus:
▪ 1. Vi è una sola chiesa universale [intesa nel suo senso proprio, secondo Agostino], che è la totalità dei predestinati. E poi prosegue: la santa chiesa universale [intesa nel suo senso proprio] è solo una [cioè, propriamente parlando, non è parte di un'altra], dal momento che uno solo è il numero dei predestinati.
La frase è tratta dal De ecclesia. Qui e altrove, per predestinati s'intendono gli eletti, coloro che si salveranno, e per preconosciuti i dannati nell'ultimo giudizio. Con la sua precisazione, Hus vuole escludere l'interpretazione, che gli si vorrebbe attribuire, di concepire la chiesa militante costituita solo da predestinati.
▪ 2. Paolo non è mai stato membro del diavolo (preconosciuto riguardo a una sua definitiva adesione), benché abbia compiuto alcuni atti simili a quelli della chiesa dei malvagi.
▪ 3. I preconosciuti non sono parte della chiesa (cattolica, in senso proprio), poiché alla fine nessuna sua parte le sarà tolta, in quanto la carità predestinante che la tiene unita non verrà mai meno.
▪ 4. Le due nature, divina e umana, costituiscono un solo Cristo [concretamente, per unione]. E prosegue poi al capitolo X: ogni uomo è spirito [questo è spesso affermato dal beato Agostino nei suoi Commentari al Vangelo di Giovanni], dal momento che è composto di due nature.
▪ 5. Il preconosciuto per quanto talvolta, secondo la presente giustizia, possa essere nella giustizia, possa essere nella grazia - non fa però mai parte della santa chiesa [cattolica, in senso proprio]; il predestinato rimane sempre membro della chiesa, anche se qualche volta decade dalla grazia occasionale, ma mai dalla grazia della predestinazione.
▪ 6. La chiesa intesa come congregazione dei predestinati, che siano o no nella grazia secondo la presente giustizia, è un articolo di fede [così pensa il beato Agostino in sue varie opere: Super Johannem, Enchiridion, Super Psalmos, De doctrina christiana, e nel libro De praedestinatione].
▪ 7. Pietro non è oggi e non fu mai il capo della santa chiesa cattolica (universale, intesa in senso proprio).
Per Hus solo Cristo è il capo della chiesa universale; rifacendosi ad Agostino, (Retractationes, I, 21, 1) e allo Pseudo-Agostino (Questiones Veteris et Novi Testamenti, 75) nel De ecclesia Hus scriveva «che Cristo abbia inteso fondare l'intera chiesa sulla persona di Pietro è contraddetto dalla fede nel Vangelo, dall'argomentazione di Agostino e dalla ragione». Agostino aveva scritto che «Tu es Petrus (Mt, 16, 18-19)» significava «Edificherò la mia chiesa sopra ciò che è stato confessato da Pietro quando diceva "Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente"». Infatti a Pietro non fu detto "Tu sei la pietra" ma "Tu sei Pietro". La pietra era invece il Cristo confessato da Simone». L'interpretazione di Agostino fu però presto abbandonata e sarà ripresa da John Wyclif, Hus e poi da Lutero e dagli altri riformatori protestanti.
▪ 8. Quei sacerdoti che in qualsiasi modo vivono una vita criminosa contaminano la potestà sacerdotale e come figli infedeli [vedi Deuteronomio 32:"La perversa generazione e i figli infedeli"], ragionano da miscredenti a proposito dei setti sacramenti della chiesa, delle chiavi, gli iffici, le censure, i costumi, i riti e le cose sacre della chiesa, la venerazione delle reliquie, le indulgenze e gli ordini [Come afferma il Salmo 78: "Essi lo lusingavano con la loro bocca e gli mentivano con la loro lingua, perché il loro cuore non era retto, né essi erano fedeli al suo patto"].
Hus precisò nell'udienza dell'8 giugno 1415 nel Concilio di Costanza che quei sacerdoti «ragionano da miscredenti perché mancano di fede formata dalla carità e hanno ormai una fede morta».
▪ 9. La dignità papale trasse origine da Cesare e l'istituzione papale e la sua preminenza provennero dal potere di Cesare [Mi riferivo qui al potere temporale, alle insegne imperiali e alla supremazia riconosciuta al papa sulle quattro sedi patriarcali].
▪ 10. Nessuno può ragionevolmente affermare di se stesso e di altri, senza rivelazione [particolare, perché è detto nell'Ecclesiaste 9: "Nessuno sa se è degno di grazia o di odio"], che è a capo di una chiesa particolare, neppure il romano pontefice può dire di essere il capo della chiesa romana.
Tratto dal De ecclesia, tranne l'ultima affermazione «neppure il romano pontefice...» che non esiste né nel De ecclesia né in altri testi di Hus.
▪ 11. Non bisogna credere che ogni romano pontefice, chiunque sia, è a capo [pur perseverando nei meriti della vita] di qualunque santa chiesa particolare, salvo che Dio ve lo abbia predestinato.
Per Hus esistono diverse chiese cristiane e quella romana è solo una di esse.
▪ 12. Nessuno fa le veci di Cristo o di Pietro [nell'ufficio e nel merito] se non lo segue nel modo di comportarsi, dal momento che nessun altro discepolato è più pertinente, né altrimenti [sotto alcun'altra condizione] colui ha ricevuto da Dio il potere di rappresentarlo; infatti per quell'ufficio di vicario si richiede [la compresenza di] conformità di vita morale e autorità di chi istituisce.
Tratto dal De ecclesia che a sua volta lo riprende dal De potestate papae di Wyclif.
▪ 13. Il papa non è vero e manifesto successore [nell'ufficio e nel merito] del principe degli Apostoli Pietro, se si comporta in modo contrario a Pietro e si lascia sedurre dalla cupidigia di denaro: in tal caso è vicario di Giuda Iscariot. Per lo stesso motivo i cardinali non sono veri e manifesti successori del collegio degli altri Apostoli di Cristo, salvo che vivano come vissero gli Apostoli, osservando i precetti e i consigli del nostro Signore Gesù Cristo.
▪ 14. I dottori che affermano che se alcuno, soggetto a censura ecclesiastica, rifiuti di lasciarsi correggere, debba essere consegnato al giudizio secolare, in pratica si comportano come il sommo sacerdote, gli scribi e i farisei i quali, di fronte al rifiuto di obbedienza del Cristo, dissero: «Non ci è lecito mettere a morte un uomo» e lo consegnarono al giudizio secolare [qui, com'è evidente, mi riferisco a coloro che consegnarono Cristo a Pilato]. Quei dottori, dunque, commettono un omicidio ancor più grave di quello di Pilato [Mi riferisco qui agli otto dottori di Praga i quali scrissero che chiunque non avesse obbedito ai loro ordini sarebbe stato consegnato al braccio secolare].
È un episodio avvenuto nel 1413: gli otto dottori dell'Università di Praga consideravano la chiesa costituita da un capo, il papa, e da un corpo, il collegio dei cardinali; per loro, la chiesa era infallibile e di autorità stabiliva il senso autentico delle Scritture.
▪ 15. L'obbedienza ecclesiastica è obbedienza secondo l'invenzione dei preti della chiesa, prescindendo da ogni esplicito comandamento della Scrittura [qui mi riferivo a un'obbedienza ben distinta dall'obbedienza esplicita alla legge di Dio, come risulta evidente dall'articolo da cui la frase è tratta; ma Dio proibisce che tutta l'obbedienza della legge di Dio sia di quel genere che è anche chiamata, in un certo senso, obbedienza della chiesa].
L'articolo, tratto dal De ecclesia, è una citazione dal De officio regis di Wyclif. Hus distingue tre tipi di obbedienza: l'obbedienza spirituale alla legge di Dio, l'obbedienza secolare alle leggi civili e l'obbedienza ecclesiastica ai precetti della chiesa che non hanno fondamento sulla Scrittura.
▪ 16. L'ovvia distinzione fra gli atti umani è che sono virtuosi o malvagi. Perché, se un uomo è malvagio, agirà malvagiamente qualsiasi cosa faccia; se è virtuoso, agirà virtuosamente qualsiasi cosa faccia. La malvagità, la si chiami crimine o peccato mortale, infetta totalmente gli atti dell'uomo, mentre la virtù vivifica tutti gli atti di un uomo virtuoso.
Tratto dal De ecclesia, Hus richiamava il suo passo da Luca, 11,34: «Se il tuo occhio - la tua intenzione - è sano, non è depravato dal peccato, anche il tuo corpo - tutti i tuoi atti - è illuminato, puro al cospetto di Dio».
▪ 17. I sacerdoti di Cristo che vivono secondo la sua legge, che hanno conoscenza delle Scritture e desiderio di edificare il popolo, devono predicare malgrado una pretesa scomunica [ingiuriosa e illegale, comminata per malizia]. E poco oltre: se il papa o un altro prelato ordina a un sacerdote avente le suddette qualità di non predicare, l'inferiore non dovrebbe ubbidire.
Hus giustificava la sua disubbidienza con la preminenza data a Dio piuttosto che agli uomini: il cristiano ha diritto di giudicare se un ordine della chiesa proveniva da Dio piuttosto che da uomini.
▪ 18. Chiunque acceda al sacerdozio riceve, in conformità a questo preciso mandato, l'ufficio del predicatore [così affermano molti santi: Agostino, Gregorio, Isidoro, ecc.] e deve pertanto eseguire quel mandato malgrado ogni pretesa scomunica [illegale, ingiuriosa e comminata per malizia].
▪ 19. Servendosi delle censure ecclesiastiche di scomunica, sospensione o interdetto [spesso, ahime, abusando di quelle censure che possono essere e spesso sono imposte legittimamente] il clero assoggetta il popolo laico per innalzare se stesso, dà libero corso alla propria cupidigia di denaro, protegge la malvagità e prepara la via all'Anticristo. È evidente che provengono dall'Anticristo quelle censure che essi, nei loro processi, chiamano "fulminazioni". Il clero ne usa innanzitutto contro coloro i quali mettono a nudo la delinquenza con la quale l'Anticristo si è appropriato del clero.
▪ 20. Se il papa è malvagio e soprattutto se è preconosciuto, allora è un diavolo, come l'Apostolo Giuda, un ladro e un figlio di perdizione, e non è capo della santa chiesa militante [per quanto attiene alla perseveranza nella vita meritoria fino alla fine], non essendo neppure membro della chiesa.
▪ 21. La grazia della predestinazione è il legame che unisce indissolubilmente il corpo della chiesa e ogni suo membro con il suo capo.
Tratto dal Contra Stephanum Páleč, ove Hus citava Paolo, Romani, 8,35, 8,38, 8,39.
▪ 22. Un papa o un prelato malvagio e preconosciuto è un pastore solo in apparenza, in realtà è un ladro e un brigante [perché non è tale per il proprio ufficio e la vita meritoria, ma solo in base all'ufficio].
Tratto dal Contra Stephanum Páleč; il problema consisteva in ciò: se un papa malvagio resti papa in quanto la sua carica è indipendente dall'indole della persona - come sostenevano Paleč e i difensori delle prerogative papali - oppure se un papa malvagio non possa essere considerato papa e sia stata legittima la decisione del Concilio di Costanza di deporre Giovanni XXIII. Hus sostiene la seconda ipotesi.
▪ 23. Il papa non deve farsi chiamare «santissimo» neppure limitatamente al suo ufficio [perché Dio solo è santissimo], perché altrimenti anche un re dovrebbe esser chiamato santissimo secondo il suo ufficio e così pure il boia e l'araldo divrebbero esser chiamati santi; in verità perfino il diavolo dovrebbe esser chiamato santo, essendo agli ordini di Dio.
▪ 24. Se il papa vive in modo contrario a Cristo, per quanto sia asceso al trono mediante un'elezione regolare e legittima secondo la costituzione umana in vigore, egli non è purtuttavia asceso al trono per opera di Cristo, ma per altra via [perché si è elevato per superbia al di sopra di Cristo], pur ammettendo che egli sia risultato prescelto mediante un'elezione compiuta in primo luogo da Dio. Infatti Giuda Iscariot fu eletto regolarmente e legittimamente all'episcopato da Gesù Cristo che è Dio, eppure egli si introdusse per altra via nell'ovile delle pecore [perché non entra attraverso la porta stretta, cioè Cristo che dice: "Io sono la porta; chiunque entra attraverso me sarà salvato". Dissi questo a puro titolo d'ipotesi, in attesa di migliore informazione].
Qui Hus faceva riferimento alla deposizione di Giovanni XXIII, deposto dallo stesso Concilio per indegnità, benché la sua elezione fosse stata legittima.
▪ 25. La condanna dei 45 articoli di John Wycliffe pronunciata dai dottori è assurda e iniqua; errato è il presupposto su cui si fonda. Tale presupposto è che nessuno di tali articoli sia cattolico, ma che ognuno di essi sia eretico.
In realtà Hus sosteneva che 5 delle 45 proposizioni di Wyclif condannate dal Concilio di Costanza il 4 maggio 1415 fossero ortodosse.
▪ 26. Per il solo fatto che gli elettori o la maggioranza di essi abbia espresso a viva voce il proprio voto a favore di una data persona, secondo le consuetudini umane [come avvenne nel caso di Agnese che fu ritenuta papa legittimo della chiesa], tale persona non dev'essere considerata ipso facto legittimamente o, per quel solo fatto, vero e manifesto successore e vicario [nell'ufficio e nella vita meritoria] dell'Apostolo Pietro o di un altro Apostolo nell'ufficio ecclesiastico. Per cui, sia che elettori abbiano eletto bene o male, dobbiamo credere alle opere dell'eletto. Per tale ragione, quanto più uno si affatica meritoriamente a beneficio della chiesa, tanto maggior potere egli ottiene da Dio.
Con "Agnese", Hus si riferisce alla "papessa Giovanna", la cui leggenda era allora considerata ancora un fatto storico.
▪ 27. Non vi è un minimo barlume di evidenza nel fatto che vi debba essere un capo che regge la chiesa nelle questioni spirituali, che sia sempre a disposizione della chiesa militante [È evidente, dato che è risaputo che la chiesa è stata per lunghi periodi senza papa e così si trova tuttora dopo la condanna di Giovanni XXIII].
Tratto dal Contra Stanislaum di Hus, come i due successivi capi d'accusa.
▪ 28. Cristo, senza tali capi mostruosi [cioè senza Agnese e Giovanni XXIII e altri che furono eretici o per vari motivi dei criminali] reggerebbe molto meglio la sua chiesa mediante i suoi veri discepoli sparsi in tutto il mondo.
▪ 29. Gli apostoli e i fedeli sacerdoti del Signore avevano coraggiosamente organizzato la chiesa nelle cose necessarie alla salvezza ben prima che fosse istituito l'ufficio papale [per quanto riguarda il dominio e il governo temporale]. E così farebbero se non vi fosse più un papa - cosa possibilissima - fino al giorno del giudizio.
Nella Relazione di Pietro Mladonovic si legge che quando, l'8 giugno 1415 fu letta questa proposizione nell'assise del Concilio, i presenti derisero Hus accusandolo di fare profezie. Hus rispose sostenendo che «al tempo degli apostoli la chiesa era governata infinitamente meglio di adesso. Che cosa impedisce a Cristo di reggerla meglio anche ora, senza quei capi mostruosi che ora abbiamo avuto, mediante suoi discepoli veri? Vedete! Ora non abbiamo nessun capo, eppure Cristo non cessa di reggere la sua chiesa».
▪ 30. Nessuno è signore in campo secolare, nessuno è prelato, nessuno è vescovo fintantoché sia in peccato mortale [per quanto attiene all'ufficio e alla vita meritoria, come i santi hanno affermato. Osea, 8, 4: "Si sono stabiliti dei re senza mio ordine, si sono eletti capi a mia insaputa". lo stesso affermano anche i santi Gregorio, Bernardo, ecc.].
La proposizione, tratta dal Contra Stephanum Páleč di Hus, apparteneva a quelle di Wyclif condannate dal Concilio ma era considerata corretta da Hus.
La sentenza
Il 23 giugno scrive dal carcere all'amico Giovanni di Chlum: «Devi sapere che Páleč insinuò che non dovrei temere la vergogna dell'abiura, ma considerare invece il vantaggio che ne deriverebbe. E io gli risposi: "È più vergognoso essere condannato e bruciato che abiurare. In che modo potrei temere la vergogna? Ma dimmi il tuo parere: che cosa faresti tu se fossi certo di non essere incorso negli errori che ti sono imputati? Abiureresti?" E lui rispose: "È difficile". E si mise a piangere».
Il 5 luglio scrive agli amici boemi: «Se mi dessero carta e penna, con l'aiuto di Dio, risponderei anche per iscritto: Io, Jan Hus, servo di Gesù Cristo in speranza, non intendo dichiarare che ogni articolo ricavato dai miei scritti sia errato, per non condannare i detti delle sacre Scritture e specialmente di Agostino».
Il giorno dopo, nel duomo di Costanza, è dichiarato colpevole. La Relatio de Magistro Johanne Hus, stilata da Pietro Mladonovic, testimone di quella drammatica giornata, riporta vivamente i fatti.
«Fu eretto un palco simile a un tavolo nel mezzo dell'assemblea e della chiesa. Vi si pose sopra una specie di piedistallo, su cui furono sistemati i paramenti, la pianeta per la messa e gli abbigliamenti sacerdotali appositamente per procedere alla svestizione di mastro Jan Hus. Così, quando fu condotto in chiesa nei pressi del palco, cadde in ginocchio e pregò a lungo. Contemporaneamente, il vescovo di Lodi salì sul pulpito e pronunciò un sermone sulle eresie [...]».
Il revisore pontificio, Bernardo di Wildungen, lesse poi i capi d'accusa estratti dai suoi scritti, ai quali Hus cercò di replicare, ma gli fu imposto di tacere. Si lessero poi i capi d'accusa estratti dalle dichiarazioni rilasciate dai testimoni ascoltati al processo; «fra questi articoli c'era quello secondo cui, dopo la consacrazione dell'ostia, sull'altare permane il pane materiale o la sostanza del pane. Ve n'era anche uno per cui un prete in peccato mortale non può operare la transustanziazione, né consacrare, né battezzare [...]». Hus riuscì a rispondere di non aver «mai sostenuto, insegnato o predicato che nel sacramento dell'altare, dopo la consacrazione, permanga il pane materiale».
Lo accusarono anche di aver sostenuto di essere, lui, «la quarta persona della Deità. Tentavano di comprovare quest'accusa, citando un certo dottore. Ma il maestro gridò: "Nominate il dottore che ha deposto contro di me!". Al che, il vescovo che stava dando lettura della cosa rispose: "Non c'è alcun bisogno di nominarlo, qui e ora"».
Fu poi condannato il suo appello a Cristo e l'aver egli, scomunicato, continuato a predicare. Il vescovo italiano della Diocesi di Concordia-Pordenone lesse poi della sua condanna al rogo, unitamente a tutti i suoi scritti. «Mentre procedeva la lettura della sentenza, egli l'ascoltava in ginocchio e in preghiera con gli occhi levati al cielo [...] "Signore Gesù Cristo, io t'imploro, perdona tutti i miei nemici per amore del tuo nome. Tu sai che essi mi hanno accusato falsamente, che hanno prodotto falsi testimoni, che hanno orchestrato falsi capi d'accusa contro di me. Perdonali, per la tua sconfinata misericordia"».
Rivestito di paramenti sacri, fu invitato ad abiurare, ma rifiutò. Disceso dal palco, «i vescovi cominciarono subito a spogliarlo. Prima gli tolsero di mano il calice, pronunciando questo anatema: "O Giuda maledetto, perché hai abbandonato la via della pace e hai calcato i sentieri dei giudei, noi ti togliamo questa coppa della redenzione" [...] e così di seguito, ogni volta che gli toglievano uno dei paramenti, come la stola, la pianeta e tutto il resto, pronunciavano un anatema appropriato. Al che egli rispondeva di accogliere quelle umiliazioni con animo mansueto e lieto per il nome del nostro Signor Gesù Cristo».
Annullatagli la tonsura, gli posero sulla testa una corona di carta tonda, alta circa 45 centimetri, con tre diavoli dipinti e la scritta "Questi è un eresiarca". «A questo punto il re disse al duca Lodovico, figlio del defunto Clemente di Bavaria, che in quel momento gli stava di fronte, tenendo in mano il globo con la croce: "Va', prendilo in consegna!"». E costui ricevette in custodia il maestro e a sua volta lo diede nelle mani dei suoi aguzzini perché fosse condotto a morire».
Il rogo
Portato fuori dalla chiesa, il corteo passò davanti al cimitero dove si stavano bruciando i suoi libri ed egli sorrise a quello spettacolo. Lungo la strada, «esortava gli astanti e quelli che lo seguivano a non credere che egli andasse a morire per gli errori che gli erano stati falsamente attribuiti e appoggiati dalla falsa testimonianza dei suoi peggiori avversari. Quasi tutti gli abitanti di quella città lo accompagnavano in armi a morire»
Giunto sul luogo del supplizio, che si trovava in un prato circondato da giardini - ora corrispondente alla Alten Graben strasse - s'inginocchiò e, mentre pregava, «quella scandalosa corona, raffigurante i tre demoni, gli cadde dalla testa ed essendosene accorto, sorrise. Alcuni dei soldati mercenari, che stavano lì intorno, dissero: "Rimettetegliela su; che sia bruciato coi demoni suoi signori che ha servito in terra"».
Denudato, le mani legate dietro la schiena, è legato a un palo con funi e con una catena intorno al collo. Gli misero sotto i piedi due grandi fascine di legna mista a paglia e altre intorno al corpo fino al mento. Esortato ancora ad abiurare, «levati gli occhi al cielo, replicò ad alta voce: "Dio m'è testimone che mai insegnai le cose che mi sono falsamente attribuite e di cui falsi testimoni mi accusano. Egli sa che l'intenzione dominante della mia predicazione e di tutti i miei atti e dei miei scritti era solo tesa a strappare gli uomini dal peccato. E oggi [...] sono pronto a morire lietamente"».
Allora si accese il rogo. Hus cominciò a cantare, uno dopo l'altro, due inni «ma come egli cominciò a cantare il terzo inno, una folata di vento gli coperse il volto di fiamme. E così, pregando nell'intimo, muovendo appena le labbra e scuotendo il capo, spirò nel Signore. Prima di morire, mentre pregava in silenzio, sembrò balbettare giusto il tempo sufficiente a recitare due o tre volte il "Padre nostro"».
Consumata la legna e le funi dal fuoco, «i resti di quel corpo rimasero in catene appesi per il collo; allora i boia tirarono giù le membra abbrustolite e il palo. Le bruciarono ulteriormente, portando altra legna al fuoco da un terzo carico. Poi, camminando torno torno, spezzarono le ossa a bastonate per farle bruciare più presto. Quando trovarono la testa, la fecero a pezzi con i randelli e la gettarono sul fuoco. Quando trovarono il cuore in mezzo alle interiora, dopo aver appuntito un bastone come uno spiedo, lo infilzarono sulla punta e fecero particolare attenzione a farlo arrostire e consumare, punzecchiandolo con le lance, finché non fu ridotto in cenere».
Bruciati anche scarpe e vestiti perché non potessero servire da reliquie, «caricarono tutte le ceneri su di un carro e le buttarono nel Reno che scorreva lì vicino».
Il pensiero di Hus - La verità
L'elemento centrale del pensiero di Hus risiede nella nozione di verità. Realista nel senso della filosofia scolastica - la verità non è un'opinione, un concetto esistente unicamente nell'intelletto umano, ma ha una realtà indipendente dall'uomo, è la realtà delle cose - come cristiano, per Hus la verità è la testimonianza di Cristo il quale, in quanto Dio incarnato, in quanto uomo, è conoscibile dall'uomo. Dunque la verità è la testimonianza di Cristo, registrata nelle Scritture; ma Hus precisa che il cristiano deve rimanere costante nella fede e «nella conoscenza di questa tripice verità: prima, quella contenuta evidentemente nella Scrittura, poi quella che fu toccata dalla ragione infallibile e infine quella che il cristiano fece sua partendo dalla propria esperienza personale. Fuori di tale verità nulla deve essere affermato o riconosciuto come vero».
Sembra che le tre fonti di verità così elencate non siano concepite in contraddizione da Hus, per il quale la fede in Cristo dovrebbe trovare conferma nella ragione e questa nell'esperienza di ciascuno; la verità resta unica ma può essere comprensibile a chiunque: non ci sono uomini che ne siano i depositari e non può essere in contraddizione con la condotta di vita di ciascuno. Così la vita di Cristo è esemplare perché è espressione della verità da lui testimoniata e morì per averla espressa, così per difendere la verità ciascuno può sacrificare la propria vita.
La mancanza di verità non è semplice errore ma per Hus è menzogna e la lotta contro la menzogna è affermazione tanto del vero quanto del giusto, perché la verità non può che essere giustizia; è qui la radice rivoluzionaria che sarà colta dai suoi seguaci: si deve dare la vita per difendere la verità e affermare così la giustizia; tale elemento va unito alla concezione della Chiesa, ripresa da Wyclif, come insieme di tutti gli eletti, i predestinati, i quali, fatto salvo da Hus il libero arbitrio, sono tali in quanto guadagnano da Cristo, e non dagli uomini che pretendono di rappresentarlo, la propria salvezza.
L'influsso di Wyclif
L'adesione di Hus alle teorie di Wyclif appare nel suo Commento alle Sentenze, ove accetta il realismo filosofico dell'inglese in contrasto con l’orientamento nominalista dei teologi praghesi. Ma si differenzia nella dottrina eucaristica dove, nonostante le accuse mossegli dagli inquisitori, la sua interpretazione è ortodossa, mentre Wyclif negava la transustanziazione e affermava che il pane resta tale nella consacrazione e se l'inglese sostiene l'assoluta illegittimità delle indulgenze, Hus si limitò a denunciarne gli abusi.
Di Wyclif condivide invece la denuncia dello stato in cui versa la Chiesa, la corruzione degli ecclesiastici e la loro pretesa di essere insindacabili dai fedeli laici. Nel suo trattato De ecclesia mostra la separazione esistente tra la chiesa gerarchica e istituzionale e la comunità dei cristiani uniti dalla fede e dall’osservanza dei precetti divini: quest'ultima, chiamata universitas praedestinatorum, è per Hus la vera chiesa santa e cattolica.
Il De ecclesia
Iniziato a scrivere a Praga nel 1412, fu terminato verso il maggio 1413 nel periodo della sua lontananza da Praga: inviato nella capitale per ricavarne diverse copie, il trattato fu diffuso l'8 giugno 1413 dalla Cappella di Betlemme.
Cristo è il capo della chiesa e a lui solo spetta il titolo di «sommo Pontefice». La chiesa universale è l'assemblea dei predestinati, che possiamo distinguere solo dal loro modo di vivere e dalle loro azioni: solo costoro possono essere considerati vescovi o pontefici. Chi non ha una condotta conforme a quella degli apostoli, non può essere legittimo detentore di una carica ecclesiastica e può e deve essere deposto; a costoro è lecito disubbidire e resistere.
Vi sono segni che mostrano l'indegnità della carica rivestita dagli ecclesiastici: «Il primo segno dell'indegnità del papa è quando, dimenticando la legge di Dio e i devoti testimoni dell'Evangelo, si dà tutto alle umane tradizioni [...] il secondo segno è quando il papa e i prelati ecclesiastici, abbandonando la conversazione di Cristo, si immergono negli affari mondani. Il terzo segno è quando il papa mette a capo dei ministeri di Cristo i mercanti di questo mondo, e per le esigenze della vita mondana, tartassa le chiese povere.
Il quarto segno è quando, o per suo comando o perché degli inetti sono preposti alla cura pastorale, priva della Parola di Dio le anime che dovrebbe salvare [...] l'uccisione e la perdizione delle pecorelle di Cristo sono i due peggiori peccati, per il fatto che la vivificazione per grazia e la glorificazione delle pecorelle sono i loro massimi beni, ai quali si oppongono l'uccisione e la distruzione [...] è chiaro che coloro che uccidono le anime sono ministri dell'Anticristo e di Satana.
Da ciò si deduce che ribellarsi al papa che travia è obbedire al Cristo Signore: cosa che frequentemente avviene, quando si tratta di provvedimenti che risentono di interessi personali. Perciò chiamo a testimone tutto il mondo che la distribuzione dei benefici da parte del papa semina dappertutto mercenari nella chiesa, gli dà occasione di gonfiare esageratamente la sua potestà vicaria, di dar troppo valore alla dignità mondana, di voler ostentare una falsa santità».
▪ 1533 - Ludovico Ariosto (Reggio Emilia, 8 settembre 1474 – Ferrara, 6 luglio 1533) è stato uno scrittore e drammaturgo italiano, autore dell'Orlando furioso (1516-32). È considerato uno degli autori più celebri e influenti del suo tempo. Le sue opere, il Furioso in particolare, simboleggiano una potente rottura degli standard e dei canoni epocali. La sua ottava, definita "ottava d'oro", rappresenta uno dei massimi della letteratura pre-illuminista.
Ludovico Ariosto nacque a Reggio Emilia l'8 settembre del 1474, primo di dieci fratelli. Suo padre Niccolò, di nobile famiglia, faceva parte della corte del duca Ercole I d'Este ed era comandante del presidio militare degli Estensi a Reggio Emilia.
La madre, Daria Malaguzzi Valeri, era una nobildonna di Reggio. Ludovico dapprima intraprese, per volontà del padre, degli studi di legge a Ferrara, ma li abbandonò dopo poco tempo per concentrarsi pienamente sugli studi umanistici sotto la guida del monaco agostiniano Gregorio Da Spoleto.
Ariosto seguì nel frattempo studi di filosofia presso l'Università di Ferrara, appassionandosi così anche alla poesia in volgare. Divenuto amico di Pietro Bembo, condivise con lui l'entusiasmo e la passione per le opere di Petrarca.
Alla morte improvvisa del padre, nel 1500, Ludovico si ritrovò a dover badare alla famiglia; di conseguenza si vide "costretto" ad accettare l'incarico di capitano della rocca presso Canossa. Successivamente, rientrato a Ferrara, venne assunto dal cardinale Ippolito d'Este (figlio di Ercole), per ottenere alcuni benefici ecclesiastici, facendosi poi chierico. Nel 1506 fu investito del beneficio della ricca parrocchia di Montericco (ora frazione di Albinea in provincia di Reggio Emilia).
Questa condizione gli spiacque molto: Ippolito era uomo avaro, ignorante e gretto; Ariosto stesso era divenuto un umile cortigiano, un ambasciatore, un "cavallaro". In questo periodo, quindi, a causa delle faccende diplomatiche e politiche di cui doveva occuparsi, non ebbe tempo di dedicarsi alla letteratura.
Nel 1513, dopo la morte del papa Giulio II della Rovere, venne eletto papa Leone X (Giovanni dei Medici), che aveva spesso manifestato stima ed amicizia nei confronti dell'Ariosto. Il poeta considerava Roma il centro culturale italiano per eccellenza e decise così di recarsi alla curia papale con la speranza di trasferirvisi dopo aver ottenuto un incarico, ma nessun incarico gli fu offerto.
Intanto a Firenze Ariosto si innamorò di una donna, Alessandra Benucci, moglie del mercante Tito Strozzi, che frequentava la corte estense per affari. Successivamente, dopo essere rimasta vedova nel 1515, la donna si trasferì a Ferrara, iniziando una relazione con lo scrittore. L'Ariosto era stato sempre restio al matrimonio; pertanto si sposò solo dopo anni, in gran segreto per la paura di perdere i benefici ecclesiastici che gli erano stati concessi e con lo scopo di evitare che alla donna venisse revocata l'eredità del marito. (Precedentemente Ariosto aveva avuto due figli da due donne diverse).
Nel 1516 pubblicò la prima edizione dell'Orlando Furioso, poema diviso in 40 canti, la cui stesura era iniziata 11 anni prima della pubblicazione. Lo dedicò al suo signore, il quale non lo apprezzò affatto. Quando nel 1517 Ippolito d'Este divenne vescovo di Agria (nome italiano per Eger, nell'Ungheria orientale), Ludovico si rifiutò di seguirlo, adducendo motivi di salute. In realtà le cause sono da ricercare nell'astio verso il cardinale, nell'amore per la sua Ferrara e in quello per la sua donna. Passò quindi al servizio di Alfonso. Egli era meno ignorante e gretto del fratello Ippolito ma comunque, "sia l'una che l'altra soma", ci dice l'Ariosto, erano gravi.
Nel 1522 Alfonso gli affidò l'arduo compito di governatore della Garfagnana, appena annessa al Ducato, regione turbolenta, infestata da banditi, in cui l'ordine doveva essere mantenuto con la forza; in quest' occasione Ariosto dimostrò abilità politiche e pratiche. Pure queste attività gli erano invise perché gli impedivano di dedicarsi agli studi ed alla poesia. Dal 1525 tornò a Ferrara e passò i suoi ultimi anni tranquillamente, dedicandosi alla scrittura e alla messa in scena di alcune commedie e all'ampliamento dell'Orlando Furioso. Rifiutò l'incarico di ambasciatore papale, spiegando che desiderava occuparsi delle sue opere e della famiglia.
Nel 1532 Ariosto accompagnò Alfonso all'incontro a Mantova con l'imperatore Carlo V; al rientro a Ferrara, si ammalò di enterite e morì, dopo alcuni mesi di malattia, il 6 luglio 1533.
Ludovico fu sepolto dapprima nella chiesa di S. Benedetto a Ferrara e successivamente venne tumulato con grandi onori a Palazzo Paradiso.
Personalità
Ariosto attraverso le sue opere lascia di sé l'immagine di uomo amante della vita sedentaria e tranquilla e dell'evasione fantastica.
«E più mi piace posar le poltre
membra, che di vantarle che alli Sciti
sien state, agli Indi, a li Etiopi et oltre. [...]
Chi vuole andare a torno, a torno vada:
vegga l'Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna;
a me piace abitar la mia contrada» (Ludovico Ariosto, Satira III)
In realtà si tratta di un'immagine letteraria, "una scelta matura e meditata" (Caretti). Per dovere o per scelta, egli viaggiò molto e dimostrò anche notevoli doti pratiche.
Si è di fronte all'ultimo grande umanista e alla crisi dell'Umanesimo: Ariosto rappresenta ancora l'uomo nuovo che si pone al centro del mondo, il demiurgo che con l'arte plasma la realtà fantastica, ma non lo è nella sua vita sociale di umile cortigiano subordinato alla volontà di un signore.
Opere - Orlando Furioso
L'opera fonde insieme la materia carolingia con quella bretone. Le vicende dei personaggi si intrecciano continuamente, costituendo molteplici fili narrativi tutti armonicamente tessuti insieme. La trama ruota intorno a tre motivi: epico (lotta tra pagani e cristiani), amoroso (passione amorosa di Orlando per Angelica) ed encomiastico (amore di Ruggero e Bradamante dalla cui unione discenderà la Casa d'Este).
Composizione dell'opera
Ludovico Ariosto iniziò la prima stesura nel 1505. Le vicende di Orlando e dei paladini di Carlo Magno erano già molto note alla corte estense di Ferrara grazie a Boiardo, quando l'intellettuale cortigiano Ariosto comincia a scrivere il nuovo romanzo. La trama si sviluppa a partire dalla storia dell'amore fra Angelica e Orlando dal punto in cui questa si interrompeva (e vi sono alcuni rimandi ironici a fatti antecedenti). La materia cavalleresca, i luoghi e i personaggi principali sono gli stessi, ma l'elaborazione di tutti gli elementi risponde a una ricerca letteraria molto più profonda. I personaggi acquistano una dimensione psicologica potente, il racconto diviene un insieme organico di vicende intrecciate in un'architettura di complessità grandiosa. La veste linguistica – specialmente dalla terza edizione – è completamente rivista, dando vita ad una forma di comunicazione letteraria del tutto nuova. La prima edizione dell'Orlando Furioso, in 40 canti, fu pubblicata a Ferrara nell'aprile 1516, per l'editore Giovanni Mazocco. Portava una dedica al cardinale Ippolito d'Este il quale, poco interessato alla letteratura, non mostrò alcun apprezzamento. Il nuovo poema di Ariosto differiva dalle opere letterarie precedenti: non è più, in senso stretto un poema di corte, ma è la prima opera letteraria di intrattenimento ad essere pensata e curata per la pubblicazione a stampa, cioè per la diffusione presso un pubblico più vasto possibile. Si tratta perciò della prima, grande opera di letteratura moderna nella cultura occidentale. L'edizione del 1516 aveva molte imperfezioni, dal punto di vista dell'autore, che si impegnò subito in una lunga revisione. Questa prima edizione è pensata in primo luogo per divertire la corte e per celebrare la famiglia estense. Ariosto è proiettato in una prospettiva municipale, la lingua dell'opera è una ricca fusione di termini toscani, padani e latineggianti. Nella seconda edizione, pubblicata a Ferrara nel 1521, c'è una revisione della lingua, ora molto più orientata al toscano. Non ci sono modifiche di rilievo nella struttura narrativa, nonostante fra il 1518 e il 1519 l'autore avesse ideato cinque nuovi canti (poi espunti). Queste due edizioni erano però ancora molto diverse da quella finale. Nel frattempo, Ariosto si rese conto che l'opera aveva la portata di un capolavoro: prima della terza edizione l'opera aveva già avuto 17 ristampe. La terza edizione fu pubblicata nel 1532. Ariosto aveva rielaborato il testo in maniera più ampia. La differenza è subito evidente sul piano linguistico: le prime due edizioni erano comunque rivolte prevalentemente a un pubblico ferrarese o padano, scritte in una lingua che teneva conto delle espressività popolari, lombarde e toscane. La versione definitiva invece mira a creare un modello linguistico italiano nazionale, secondo i canoni teorizzati da Pietro Bembo nelle sue Prose della volgar lingua. Vengono inseriti nuovi canti e gruppi di ottave, distribuiti in parti diverse dell'opera. Le dimensioni cambiano, il poema viene portato a 46 canti, modificando la suddivisione e l'architettura. Vengono aggiunte diverse storie e scene, che risultano tra quelle di maggiore intensità (anticipando in un certo grado anche la futura teatralità shakespeariana). Compaiono molti riferimenti alla storia contemporanea, con la gravissima crisi politica-salutare francese-italiana-tedesca.
Il dibattito sul poema
Fin dalla prima pubblicazione l' Orlando furioso fu oggetto di vivaci discussioni critiche. Nell'Apologia contra ai detrattori dell'autore premessa alla sua edizione del poema (Venezia, Pasini & Bindoni, 1535), Ludovico Dolce prendeva posizione a favore della tecnica narrativa ariostesca. La polemica raggiungeva il culmine nel 1554, anno della pubblicazione congiunta dei trattati di Giambattista Giraldi Cinzio, Discorso intorno al comporre de' romanzi (datato però 1548), e di Giovan Battista Pigna, I romanzi, entrambi favorevoli ad Ariosto, ma in due modi profondamente diversi, il primo a difesa della libertà creatrice del poeta e il secondo a favore del rispetto delle regole poetiche. Con la pubblicazione della Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso iniziava il confronto fra i due poemi: meglio la narrazione fantasiosa e divertente ma disordinata di Ariosto o quella consequenziale ed edificante ma meno coinvolgente di Tasso? Galileo preferiva decisamente il primo, ma i giudizi sono rimasti contrastanti fino ai giorni nostri.
▪ 1535 - Thomas More, italianizzato in Tommaso Moro (Londra, 7 febbraio 1478 – Londra, 6 luglio 1535), è stato un umanista, scrittore e politico inglese.
Nel corso della sua vita si guadagnò fama a livello europeo come autore umanista e occupò numerose cariche pubbliche, compresa quella di Lord Cancelliere d'Inghilterra tra il 1529 e il 1532 sotto il re Enrico VIII. Cattolico, il suo rifiuto di accettare l'Atto di Supremazia del re sulla Chiesa in Inghilterra mise fine alla sua carriera politica e lo condusse alla pena capitale con l'accusa di tradimento. La Chiesa cattolica e la Chiesa anglicana lo venerano come santo; nel 2000 papa Giovanni Paolo II lo proclamò patrono dei governanti e dei politici.
Tommaso Moro coniò il termine "utopia", con cui battezzò un'immaginaria isola dotata di una società ideale, di cui descrisse il sistema politico nella sua opera più famosa, L'Utopia, pubblicata nel 1516.
Moro nacque a Londra (Inghilterra). Entrò alla corte di Enrico VIII nel 1520 e venne nominato cavaliere nel 1521. Figlio di Sir Giovanni Moro, un avvocato di successo e giudice, la sua carriera forense è celebrata sebbene non sia sopravvissuta ad oggi alcuna testimonianza dei casi di cui si occupò. Come studioso fu inizialmente un umanista nel senso più comune del termine. Fu grande amico di Erasmo da Rotterdam, che gli dedicò il suo Elogio della follia (la parola "follia" in greco si pronuncia moria). In seguito, le relazioni tra i due furono tese, poiché Moro fu impegnato nella difesa dell'ortodossia religiosa, mentre Erasmo denunciò quelli che vedeva come errori intrinseci della dottrina cattolica.
Come consigliere e segretario di Enrico VIII, Moro contribuì alla redazione de La difesa dei sette sacramenti, una polemica contro la dottrina protestante che fece guadagnare al sovrano il titolo di difensore della Fede da parte di papa Leone X nel 1521. Sia la risposta di Martin Lutero ad Enrico che la conseguente Responsio ad Lutherum (Risposta a Lutero) furono criticate per i loro intemperanti attacchi ad hominem.
Moro fu un acceso difensore del primato della Chiesa, sia dal punto di vista spirituale (come il titolo del clero di redimere il peccato) che temporale (come per il primato della legge canonica sulla legge comune). Il suo cancellierato (1529-1532) si distinse anche per la sua costante caccia agli eretici e alle loro opere, in questo periodo diversi furono infatti i riformisti portati al rogo come eretici. Alcuni ritengono un paradosso che un uomo visto oggi come un libertario e un libero pensatore fu a suo tempo un conservatore nelle questioni di religione.
Il divorzio di Enrico VIII
Il cardinale Thomas Wolsey, arcivescovo di York, non riuscì ad ottenere il divorzio e l'annullamento che Enrico aveva cercato e fu costretto a dimettersi nel 1529. Moro venne nominato cancelliere al suo posto. Enrico evidentemente non realizzò le resistenze di Moro su quella questione. Essendo stato ben istruito in diritto canonico, oltre che profondamente religioso, Moro considerava l'annullamento del sacramento del matrimonio come una questione all'interno della giurisdizione del Papato, e la posizione di papa Clemente VII era chiaramente contro il divorzio.
La reazione di Enrico fu quella di mettersi a capo della Chiesa d'Inghilterra. Solo al clero venne richiesto di prestare l'iniziale giuramento di Supremazia, dichiarando il sovrano come capo della Chiesa. Moro, in quanto laico, non sarebbe stato soggetto a questo giuramento, ma si dimise da cancelliere il 16 maggio 1532, piuttosto che servire il nuovo regime.
In un primo tempo Moro sfuggì a un tentativo di collegarlo a un episodio di tradimento. Tuttavia l'approvazione nel 1534 l'"Atto di successione" da parte del Parlamento di Westminister (che includeva un giuramento che riconosceva la legittimità di ogni figlio nato da Enrico ed Anna Bolena e ripudiava ogni autorità straniera, principe, o potentato) si rivelò uno strumento nelle mani della corona contro gli oppositori del re. L'Atto prevedeva infatti che questo giuramento non venisse richiesto a tutti i sudditi, ma solo a coloro che vennero specificamente convocati a prestarlo: ovvero, coloro che rivestivano un incarico pubblico e coloro i quali erano sospettati di non appoggiare Enrico. Moro venne chiamato a prestare tale giuramento nell'aprile del 1535 e, a causa del suo rifiuto, fu imprigionato nella Torre di Londra.
La prigionia
Nella Torre di Londra egli continuò a scrivere. La sua scelta fu quella di mantenere il silenzio, comunemente interpretato come allo stesso tempo assenso e rifiuto di abiura.
«Sapessi Margaret, quante e quante notti insonni ho trascorse, mentre mia moglie dormiva o credeva che fossi anch'io addormentato, a passare in rassegna tutti i pericoli cui potevo andare incontro: spingendomi così lontano con l'immaginazione che ti assicuro che non può accadermi niente di più grave. E mentre ci pensavo, bambina mia, sentivo l'animo oppresso dall'angoscia. E tuttavia ringrazio Dio che, nonostante tutto, non ho mai pensato di venire meno al mio proposito, anche se fosse dovuto accadermi il peggio che andava raffigurandomi la mia paura.» (Tommaso Moro alla figlia in una lettera inviata dal carcere)
Quando però questa mossa fallì venne processato, condannato, incarcerato e quindi giustiziato a Tower Hill il 6 luglio. La sua testa venne mostrata sul London Bridge per un mese, quindi recuperata (dietro pagamento di una tangente) da sua figlia, Margaret Roper.
Le opere - L'Utopia
L'opera più famosa di Moro è L'Utopia (Utopia, 1516 circa), in cui descrive un'immaginaria isola-regno abitata da una società ideale, nella quale alcuni studiosi moderni hanno ravvisato un opposto idealizzato dell'Europa sua contemporanea, mentre altri vi riscontrano una satira sferzante della stessa. Moro derivò il termine dal greco antico con un gioco di parole fra ou-topos (cioè non-luogo) ed eu-topos (luogo felice); utopia è quindi, letteralmente un "luogo felice inesistente".
L'Utopia si divide in due libri: città reale e città perfetta.
Città reale
Viene fatta un'analisi critica sulla situazione politica ed economica dell'Inghilterra dell'epoca. In particolare Moro ritiene assurda e illegittima la sanzione di pena capitale per il furto (in Inghilterra erano aumentati i furti con l'introduzione del sistema delle enclosures). Va dato atto a Moro che la pena di morte non fece altro che aumentare i furti e gli omicidi.
Ci sono due possibilità per risolvere questo problema:
▪ tornare alla situazione economica del medioevo (una posizione reazionaria che Moro non condivide)
▪ sviluppare un'industria manifatturiera per la produzione di lana in modo da creare un'economia mercantile che possa favorire il benessere sociale nella nazione.
Moro sembra escludere queste ipotesi. Ritenendo che il male dei mali sia la proprietà privata, ne propone l'abolizione, in maniera da ripartire i beni materiali in maniera eguale. Si tratta di un sistema di tipo comunistico. È possibile fare paragoni con La repubblica di Platone; tuttavia nell'Utopia lo stato perfetto non esiste, ma si può conoscerlo in maniera analitica, mentre nella Repubblica invece la città ideale esiste solo nell'iperuranio.
Città perfetta
Nella seconda parte viene descritta L'Utopia.
Nell'isola di Utopia (la forma è simile a quella della Gran Bretagna) secondo Moro, la proprietà privata è vietata per legge e la terra deve invece essere coltivata, a turni di due anni, da ciascun cittadino, nessuno escluso: tutti hanno un lavoro, di 6 ore al giorno; nel tempo libero, tutti i cittadini possono altresì dedicarsi alle proprie passioni e professioni abituali, ma un posto fondamentale è occupato dallo studio delle scienze e della filosofia. La famiglia rappresenta un nucleo fondamentale per l'Utopia: un tipo di famiglia allargata e monogamica. L'uomo si può sposare all'età di 22 anni e la donna a 18 anni. Il divorzio è consentito, l'adulterio è severamente punito: l'individuo che ne è reo viene incarcerato e incatenato con catene e biglie d'oro (l'oro in Utopia non vale nulla, ad esso si ricorre solo per sostenere economicamente eventuali guerre).
Per quanto riguarda la religione, nell'isola di Utopia deve essere prevista la più larga tolleranza religiosa, fermo restando però l'obbligo di credere nella Provvidenza di Dio e nell'immortalità dell'anima. Chi infrange le regole viene scacciato da Utopia. Tutti hanno diritto a una vita pacifica, il cui fine è il benessere.
Gli stessi nomi all'interno della descrizione ricalcano lo spirito utopico dell'isola. La città si chiama Amauroto, dal greco "amauros" che significa evanescente. Allo stesso modo il principe Ademo (dal greco alfa privativo + demos cioè "senza popolo") o il fiume Anidro ovvero "senza acqua".
Caratteristiche dell'opera
Una delle caratteristiche delle opere di Moro rimane l'uso esagerato di tropi, sia di una presunta voce autoritaria (come nel "Dialogo del conforto", apparentemente una conversazione tra zio e nipote) che di una altamente stilizzata, che di entrambe. Questo, assieme alla mancanza di una direzione chiara di Moro circa il suo punto di vista - per ragioni che diverranno ovvie - significa che è possibile dibattere praticamente qualsiasi opinione di qualsiasi suo lavoro. Per la realizzazione della sua opera si ispira alla dottrina Neoplatonica: ad esempio la descrizione di questa società ideale richiama la Repubblica di Platone.
La Storia di Riccardo III
I riccardiani hanno molto studiato i manoscritti della Storia di Riccardo III di Moro, da cui deriva molta propaganda anti-Riccardo, comprese le opere di Shakespeare. Il lavoro esiste in diverse versioni, sia in inglese che in latino, tutte incomplete. Non venne pubblicato quando Moro era in vita, ma fu trovato tra le sue carte dopo l'esecuzione, circa un quarto di secolo dopo la sua stesura. Riccardo III è un'opera storica nel senso che tratta di eventi passati di cui Moro non fu testimone. Resta comunque un'opera di storia Tudor (nell'accezione classica) intendendo con ciò che include una considerevole quantità di discorsi inventati dall'immaginazione di Moro e passaggi allegorici e di colore. Ancora una volta, l'opinione di Moro sul testo è sconosciuta, con il risultato che è stata considerata come una fonte storica affidabile da Alison Weir, una parodia da Alison Hanham, e un esercizio letterario della drammatica rappresentazione della scelleratezza da Jeremy Potter. La verità sta senza dubbio da qualche parte nel mezzo. Gli storici moderni hanno demistificato la pretesa che il lavoro fosse in realtà opera del vescovo John Morton.
Il culto
Moro venne canonizzato dalla Chiesa cattolica nel 1935 da Papa Pio XI ed è commemorato il giorno 22 giugno; dal 1980 è commemorato anche nel calendario dei Santi della Chiesa anglicana (il 6 luglio), assieme all'amico Giovanni Fisher, vescovo di Rochester, decapitato quindici giorni prima di Moro. Nel 2000 san Tommaso Moro venne dichiarato patrono degli statisti e dei politici da papa Giovanni Paolo II.
Biografie
L'opera teatrale di Robert Bolt Un uomo per tutte le stagioni parla della battaglia persa da Moro contro la determinazione di re Enrico nell'ottenere una Chiesa nazionale inglese che fosse sotto il suo controllo. Da tale opera sono stati tratti film: il primo nel 1966, vincitore di sei Premi Oscar, con Paul Scofield, e un secondo del 1988, con Charlton Heston come protagonista.
Karl Zuchardt scrisse un romanzo, dal titolo esplicativo Stirb Du Narr! (Muori sciocco!), sulla lotta di Moro contro re Enrico, che ritrae Moro come un umanista idealista, destinato a fallire nella lotta di potere contro un governante spietato ed un mondo ingiusto.
Fra le buone biografie recenti si trovano quelle di Richard Marius e di Peter Ackroyd.
Filmografia
▪ 1966 - Un uomo per tutte le stagioni, con Paul Scofield, Wendy Hiller, Leo McKern, Robert Shaw, Orson Welles, regia di Fred Zinnemann;
▪ 1553 - Edoardo VI Tudor (12 ottobre 1537 – 6 luglio 1553) fu il secondo figlio maschio di re Enrico VIII d'Inghilterra, che lo ebbe della sua terza moglie, la regina Jane Seymour. La madre morì dandolo alla luce.
Fu molto atteso dal padre perché, essendo l'unico erede maschio vivente, garantiva la successione maschile al trono inglese e la continuità della dinastia Tudor: infatti il primo figlio maschio sopravvissuto all'infanzia, il duca di Richmond (avuto con Bessie Blount) era morto pochi mesi prima della nascita di Edoardo.
Dopo la morte di Enrico VIII fu incoronato re d'Inghilterra e Irlanda il 20 febbraio 1547, all'età di neanche 10 anni.
Nel 1544 Enrico VIII, con l'Act of Succession, aveva indicato la linea di successione designando al trono, dopo Edoardo, la cattolica Maria.
Ma Edoardo, sollecitato dal suo Consiglio a non ridare l'Inghilterra in mano ai papisti, designò come propria erede la sua coetanea e compagna d'infanzia lady Jane Grey, pronipote di Enrico VII che era stata educata alla corte dell'ultima moglie di suo padre, Caterina Parr, come Elisabetta.
Il giovane re era di bell'aspetto e di intelligenza non comune, ma assai fragile nel corpo. Nell'inverno del 1552 si ammalò, e morì nell'estate successiva, a 16 anni (ci fu chi disse che era stato avvelenato).
Alla notizia della sua morte Maria venne a Londra a prendere possesso del trono che era stato, secondo lei, usurpato da Jane Grey e da suo marito Dudley. Jane e i componenti del Consiglio reale che ne avevano supportato la successione furono accusati di tradimento e giustiziati all'inizio del 1554.
▪ 1849 - Goffredo Mameli, nome con il quale è più noto Gotifredo Mameli dei Mannelli (Genova, 5 settembre 1827 – Roma, 6 luglio 1849) è stato un poeta, patriota e scrittore italiano.
Annoverato tra le figure più famose del Risorgimento italiano, morì a seguito di una ferita infetta che si procurò durante la difesa della seconda Repubblica Romana. È l’autore delle parole dell’attuale inno nazionale italiano.
I genitori erano Giorgio (Giorgio Giovanni), della famiglia aristocratica sarda dei "Mameli" o "Mameli dei Mannelli", nonché Cavaliere dell'Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, contrammiraglio della Regia Marina Sarda, aveva percorso tutta la carriera nella marina iniziando da ufficiale, spostandosi per ricoprire la carica a Genova e parlamentare a Torino; la madre era Adelaide (Adele) Zoagli, della famiglia aristocratica genovese degli Zoagli figlia a sua volta del Marchese Nicolò Zoagli e di Angela dei Marchesi Lomellini. Giorgio Mameli, il padre, aveva comandato a Genova una squadra della flotta del Regno di Sardegna le cui capitali erano Cagliari e Torino.
Goffredo Mameli, istruito nelle Scuole Pie di Genova, docente nel collegio di Carcare in provincia di Savona, fu autore, all'età di 20 anni, delle parole del Canto degl'Italiani (1847), più noto come Inno di Mameli, adottato poi come inno nazionale della Repubblica Italiana, musicato da Michele Novaro. Ma già ai tempi della scuola dimostrò il suo talento letterario componendo versi d'ispirazione romantica, intitolati Il giovane crociato, L'ultimo canto, Le vergine e l'amante.
Mameli venne presto conquistato dallo spirito patriottico e, durante i pochi anni della sua giovinezza, riuscì a far parte attiva in alcune memorabili gesta che ancor oggi vengono ricordate, come ad esempio l'esposizione del tricolore per festeggiare la cacciata degli Austriaci nel 1846.
Nel marzo 1848 organizzò una spedizione per andare in aiuto a Nino Bixio durante l'insurrezione di Milano e, in virtù di questa impresa coronata da successo, venne arruolato nell'esercito di Giuseppe Garibaldi con il grado di capitano. In questo periodo compose un secondo canto patriottico, intitolato l'Inno militare musicato da Giuseppe Verdi.
Tornato a Genova riuscì a dedicarsi alla composizione musicale diventando contemporaneamente direttore del giornale Diario del Popolo e senza dimenticare di pubblicizzare le sue idee irredentiste nei confronti dell'Austria.
La sua opera di patriota venne anche svolta: a Roma, nell'aiuto a Pellegrino Rossi e per la proclamazione del 9 febbraio 1849 della Repubblica romana di Mazzini, Armellini e Saffi; e in una campagna, svolta a Firenze, per la fondazione di uno stato unitario tra Lazio e Toscana. Nel suo continuo vagabondaggio si trovò nuovamente a Genova, sempre al fianco di Nino Bixio nel movimento irredentista fronteggiato dal generale Alberto La Marmora, quindi nuovamente a Roma nella lotta contro le truppe francesi venute in soccorso di Papa Pio IX (che nel frattempo aveva lasciato la città).
La sua morte avvenne in seguito a delle circostanze accidentali: nella difesa della Villa del Vascello durante la breve Repubblica romana del 1849 fu ferito in maniera non particolarmente grave da un commilitone, con la baionetta, ad una gamba. Morì per la sopravvenuta infezione il 6 luglio 1849 a soli 21 anni, all'ospizio della Trinità dei Pellegrini.
Fu sepolto al Verano, dove è ancor oggi visibile il suo monumento. Tuttavia le sue spoglie vennero traslate nel 1941 al Gianicolo, dove il fascismo belligerante aveva spostato e ricostruito il "Monumento ai caduti per la causa di Roma Italiana" eretto inizialmente (nel 1879) lì presso, nel piazzale di San Pietro in Montorio.
Curiosità
È citato insieme a Michele Novaro nella canzone Sfiorivano le viole di Rino Gaetano.
Nel 1975 l'Esercito italiano gli dedicò la neo costituità unità, la 32ª Brigata corazzata "Mameli".
▪ 1893 - Henri-René-Albert-Guy de Maupassant (Tourville-sur-Arques, 5 agosto 1850 – Parigi, 6 luglio 1893) è stato uno scrittore francese, nonché uno dei padri del racconto moderno.
Nacque presso il Castello di Miromesnil, vicino a Dieppe, in Francia. La famiglia Maupassant era originaria della Lorena ma si spostò in Normandia intorno alla metà del XIX secolo. Il padre sposò nel 1846 una giovane donna dell'alta borghesia, Laure le Pottevin. Con il fratello Alfred, fu compagna di giochi di Gustave Flaubert, il figlio del chirurgo di Rouen, destinato ad esercitare una forte influenza nella vita di Maupassant. Fu una donna dalle non comuni doti letterarie, appassionata di classici, in particolare Shakespeare. Separata dal marito, si prese cura dei suoi due figli, Guy ed il fratello più giovane Hervé. Fino all'età di tredici anni Guy visse con la madre a Étretat, nella Villa dei Verguies, dove tra il mare ed un entroterra lussureggiante, crebbe appassionandosi di natura e di sport da praticare all'aperto; andava a pescare con i pescatori lungo la costa e parlava patois con i contadini.
La sua educazione cominciò presso il seminario a Yvetot, da dove deliberatamente fece di tutto per farsi espellere. A causa della sua educazione di stampo religioso, sviluppò una forte ostilità nei confronti della religione. In seguito fu iscritto al Lycée du Rouen dove si dimostrò uno studente molto dotato, si dedicò alla poesia e prese parte ad alcune rappresentazioni filodrammatiche.
Non appena conseguita la laurea presso il collège nel 1870, scoppiò la guerra franco-prussiana, si arruolò come volontario e combatté con onore. Dopo la guerra, nel 1871, lasciò la Normandia e giunse a Parigi dove trascorse dieci anni come impiegato presso il Dipartimento Navale. Durante questi anni di tediosa occupazione, i soli momenti di svago li trascorreva andando in canoa sulla Senna di domenica e durante le vacanze.
Gustave Flaubert lo prese sotto la sua protezione e si comportò con lui come una sorta di protettore, accompagnandolo nel suo debutto nell'ambito del giornalismo ed in letteratura[2]. A casa di Flaubert incontrò il romanziere russo Ivan Turgenev ed il francese Émile Zola, così come molti dei protagonisti della scuola realista e naturalista. Scrisse versi interessanti e brevi operette teatrali.
Nel 1878 fu trasferito al Ministero della Pubblica Istruzione a divenne un importante curatore di giornali di successo come Le Figaro, Gil Blas, Le Gaulois e L'Echo de Paris. Dedicò il suo tempo libero alla stesura di romanzi e racconti. Nel 1880 pubblicò il suo primo capolavoro Boule de Suif, racconto che ebbe un immediato e straordinario successo. Flaubert lo definì «un capolavoro destinato a durare nel tempo».
Gli anni compresi tra il 1880 ed il 1891 sono quelli di più intenso lavoro. Divenuto famoso grazie al suo primo racconto, lavorò in modo metodico arrivando a scrivere dai due ai quattro volumi all'anno. Combinò talento e senso pratico per gli affari, doti che gli garantirono salute e ricchezza.
Nel 1881 pubblicò il suo primo volume di racconti dal titolo La Maison Tellier, con la quale arrivò in due anni alla dodicesima edizione. Nel 1883 terminò il romanzo Une vie, vendendone 25.000 copie in meno di un anno. Il suo secondo romanzo Bel Ami, apparso nel 1885, raggiunse le 37 ristampe in quattro mesi. Harvard, il suo editore, gli commissionò nuovi romanzi. Maupassant, senza grossi sforzi, scrisse dei testi interessanti dal punto di vista stilistico, descrittivo ed estremamente profondi. Fu a quest'epoca che scrisse quello che molti critici considerano il suo vero capolavoro Pierre et Jean.
Provava una sorta di naturale avversione nei confronti della società e per questo motivo amava la solitudine e la meditazione. Viaggiò tantissimo in Algeria, Italia, Gran Bretagna, Sicilia, Auvergne e da ciascuno dei suoi viaggi tornava con un nuovo volume. Navigò moltissimo sul suo yacht privato "Bel Ami", così chiamato in onore del suo romanzo.
Dopo il 1889, lo scrittore viaggiò moltissimo, tornando di rado a Parigi. In una lettera ad un amico, confidò che ciò era dovuto al fastidio che egli provava nel vedere la Tour Eiffel, da poco inaugurata: non a caso era stato, assieme a molte altre personalità della cultura francese dell'epoca, uno dei firmatari della petizione con la quale si chiedeva di sospenderne la costruzione.
Da mettere in rilievo, che i numerosi viaggi e la febbrile attività letteraria non gli impedirono di farsi parecchi amici tra le celebrità del mondo letterario del suo tempo: Alexandre Dumas figlio; a Aix-les-Bains incontrò Taine, il quale lo affascinò profondamente.
Flaubert continuò a comportarsi come una sorte di guida letteraria. La sua amicizia con i fratelli Goncourt fu però di breve durata; il suo carattere schietto e franco mal si adattava alle esigenze dell' ambiente pettegolo, attratto dagli scandali e pieno di invidie che i due fratelli avevano creato attorno al loro gruppo.
Negli ultimi anni di vita la sua salute si deteriorò, nonostante una costituzione apparentemente robusta, e il suo equilibrio mentale entrò in crisi, per colpa, quasi sicuramente, della sifilide, ereditata dal padre o trasmessagli dall'occasionale rapporto con qualche prostituta. Degli stati allucinatori accompagnano la costante paura della morte. In seguito all'ennesimo tentativo di suicidio, venne internato nella clinica del dottor Blanche a Passy. Morì all'età di 43 anni, dopo diciotto mesi di incoscienza, e venne sepolto nel cimitero di Montparnasse a Parigi.
Note stilistiche
Fondatore del racconto moderno, Maupassant è stato profondamente influenzato da Zola e Flaubert, nonché dalla filosofia di Schopenhauer. I suoi racconti ed i suoi romanzi presentano spesso una satira, ora quasi feroce, ora più bonaria della piccola borghesia, guardata con un certo senso di superiorità nobiliare del piccolo nobile di recente nomina. La stupidità, la cupidigia la crudeltà e soprattutto la meschinità sono comunque nella sua opera un tratto onnipresente e trasversale ad ogni ceto sociale e spesso l' amore fisico, talvolta bestiale è rappresentato come l' unica vera parvenza di "consolazione". Questo forte pessimismo pervade tutta la sua opera.
Le sue novelle si contraddistinguono per uno stile breve e sintetico e per il modo ingegnoso in cui le singole tematiche vengono sviluppate. Alcuni dei suoi racconti vengono fatti rientrare nel genere della narrativa horror. Eccelse nell'arte della costruzione dell'intreccio, ma la sua narrazione non ha quasi mai il carattere di indagine scientifica tipica del naturalismo, né la profondità psicologica dei romanzi di Cechov e Turgenev.
▪ 1902 - Maria Teresa Goretti (Corinaldo, 16 ottobre 1890 – Nettuno, 6 luglio 1902) è venerata come santa e martire dalla Chiesa cattolica. Vittima di omicidio a seguito di tentato stupro, fu canonizzata nel 1950 da papa Pio XII con il nome di santa Maria Goretti.
L'infanzia
La famiglia Goretti, originaria di Corinaldo nelle Marche, era composta dai coniugi Luigi Goretti e Assunta Carlini e dai loro sei figli vivi: Angelo, Mariano, Alessandro, Maria Teresa, Ersili e Teresa; un settimo figlio, Antonio, il primogenito, era morto a pochi mesi.
La vita della giovane Maria, fino al suo omicidio, non fu diversa da quella dei figli di molti lavoratori agricoli che dovettero lasciare le proprie terre per cercare sostentamento altrove: bassa o quasi nulla scolarizzazione, analfabetismo, denutrizione, lavoro casalingo o nei campi fin dall'infanzia, mortalità infantile ed epidemie di malattie infettive. Le Paludi Pontine erano all'epoca zona infestata dalla malaria, con un altissimo tasso di omicidi e fatti di sangue e condizioni di vita assolutamente misere.
Il martirio
I Goretti, in cerca di una migliore occupazione, si trasferirono dapprima a Paliano (nei pressi di Frosinone), ove conobbero i Serenelli, famiglia marchigiana composta dal padre e da due figli, con la quale strinsero rapporti di collaborazione e buon vicinato. In seguito i Goretti e i Serenelli si trasferirono insieme alle Ferriere di Conca Cascina Antica nel comune di Nettuno, in provincia di Roma. Nel 1900, a causa del clima nocivo, Luigi Goretti morì di malaria. Il capofamiglia dei Serenelli era vedovo da anni oltre che debilitato da anni di lavori pesanti e dalla malaria; la collaborazione tra le due famiglie si fece ancora più stretta. È in tale contesto sociale che il diciannovenne Alessandro, secondogenito dei Serenelli, tentò diversi approcci di natura anche sessuale nei confronti dell'undicenne Maria, che raggiunsero il culmine nell'estate del 1902: il 5 luglio, con la scusa di farsi rammendare dei vestiti, Alessandro attirò Maria in casa e tentò un'ultima volta di violentare la bambina. Di fronte alle sue grida ed alla sua disperata resistenza al «brutto peccato», la ferì più volte con un punteruolo in legno. Al processo, il giovane ammise di aver preparato l'arma e di aver deciso di usarla qualora la bambina gli avesse opposto resistenza. È stata ventilata l'ipotesi che il giovane, proveniente da una famiglia in cui numerosi membri erano stati internati in manicomio e avevano dato segni di malattia mentale fosse in realtà affetto da impotenza. Maria, gravemente ferita ma ancora cosciente, venne trasportata all'ospedale Orsenigo di Nettuno; la morte non sopravvenne subito, ma il giorno successivo, per le complicazioni di un intervento chirurgico senza anestesia, si aggravò morendo poi di setticemia. La cronaca narra che, dopo aver ricevuto l'estrema unzione, tra le insistenze di un sacerdote e di alcune suore che lavoravano in ospedale, la bambina perdonò il suo assalitore.
Le esequie vennero celebrate l'8 luglio 1902 nella cappella dell'ospedale, oggi chiesa parrocchiale di Santa Barbara Vergine e Martire di Nettuno, conosciuta sotto il nome di chiesa della Divina Provvidenza, e il corpo della bambina tumulato nel cimitero comunale.
Il pentimento del suo assassino
Alessandro Serenelli fu condannato a 30 anni di reclusione. Ospite nel carcere giudiziario di Noto dal 1902 al 1918 iniziò qui il suo cammino di pentimento e conversione, incoraggiato dal vescovo di Noto del tempo, mons. Giovanni Blandini. Secondo quanto da egli stesso raccontato anni dopo, avrebbe tentato una riconciliazione con la famiglia e i propri dettami religiosi dopo avere sognato la sua vittima che gli offriva dei gigli che si trasformavano in fiammelle. Nel 1929, dopo 27 anni di reclusione, Serenelli fu scarcerato e chiese il perdono dei familiari di Maria Goretti. La madre glielo accordò. Dopo tale episodio, Serenelli trascorse il resto della sua vita come lavorante laico in un convento di cappuccini ad Ascoli Piceno e morì il 6 maggio 1970, a 88 anni, in un convento di Macerata.
La canonizzazione
Già durante il Fascismo Maria Goretti iniziò a divenire oggetto di culto tra gli strati meno istruiti della popolazione, in particolare proprio quelli rurali, e lo stesso regime cercò di cavalcare questa devozione popolare per favorire la nascita di un'icona cara ai contadini; una volta caduto prima il fascismo e poi la monarchia sabauda, nel 1950, in pieno periodo di affermazione di un nuovo ruolo femminile in seno alla famiglia e alla società, l'immagine di Maria Goretti fu adottata a simbolo di una visione tradizionale della donna, obbediente e dedita alla maternità e al lavoro domestico e, in tale chiave, additata a esempio anche dalla Chiesa cattolica: la canonizzazione avvenuta a opera di Pio XII precedette di poco la proclamazione del dogma dell'Assunzione di Maria.
L'11 dicembre 1949 Pio XII riconobbe come miracolose due guarigioni attribuite all'intercessione di Maria Goretti: quella di Giuseppe Cupe da un grave ematoma (8 maggio 1947) e quella di Anna Grossi Musumarra da pleurite (11 maggio dello stesso anno).
La cerimonia di canonizzazione si tenne il 24 giugno 1950 a piazza San Pietro nella Città del Vaticano e il giorno di commemorazione istituito fu il 6 luglio, anniversario della morte della giovane contadina. Secondo l'agiografia a motivare la sua canonizzazione sarebbe stato, a parte la resistenza opposta al tentativo di stupro e il citato perdono concesso al suo assalitore, il proposito fatto a 11 anni al momento di ricevere la prima comunione «di morire prima di commettere dei peccati».
Il corpo e le reliquie di Maria Goretti sono conservati a Nettuno, nel santuario di Nostra Signora delle Grazie.
Filmografia
▪ Cielo sulla palude, film per il cinema, regia di Augusto Genina, Italia 1949
▪ Maria Goretti, film per la televisione, regia di Giulio Base, Italia 2002
▪ 1918 - Stefano Oberto (Treia, 14 marzo 1888 – Monte Grappa, 6 luglio 1918) è stato un presbitero e militare italiano, medaglia d'oro al valor militare.
Medaglia d'oro al valor militare
«Eroica figura di sacerdote e di soldato, durante cruento combattimento, ottenuto, dopo viva insistenza, di unirsi alla prima ondata d’assalto, slanciavasi, munito soltanto di bastone, alla testa dei più animosi, giungendo per primo sulla trincea nemica. Colpito mortalmente al ventre da scheggia di granata, incurante di sè, rimaneva in piedi, appoggiato ad un albero, ad incorare i soldati. Trasportato a viva forza al posto di medicazione, sebbene morente, consolava, con stoica virtù, gli altri feriti e spirava glorificando e benedicendo la fortuna delle nostre armi. [1].»
— Monte Grappa, 6 luglio 1918.
▪ 1922 - Maria Teresa Ledóchowska (Loosdorf, 29 aprile 1863 – Roma, 6 luglio 1922) è stata una religiosa polacca, fondatrice della congregazione delle Suore Missionarie di San Pietro Claver. Morì in fama di santità: venne proclamata beata il 19 ottobre 1975 da papa Paolo VI.
Apparteneva ad una nobile famiglia di origini polacche di illustri tradizioni religiose: lo zio Mieczysław era cardinale, il fratello Włodzimierz fu preposito generale della Compagnia di Gesù e la sorella Urszula fondò le Suore Orsoline del Sacro Cuore di Gesù Agonizzante e venne canonizzata da papa Giovanni Paolo II nel 2003.
Maria Teresa fu dama di corte della granduchessa di Toscana Alice di Borbone-Parma. Dopo il suo incontro con le Missionarie Francescane di Maria e la lettura degli scritti del cardinal Lavigerie sulla schiavitù si dedicò al servizio delle missioni africane: lasciò la corte e riunì intorno a sé un gruppo di persone con il quale nel 1894 diede vita al Sodalizio di San Pietro Claver per le Missioni africane.
Attività per le missioni
Contribuì validamente a propagare la conoscenza le Missioni africane ed a promuoverne il sostegno grazie alla pubblicazione di due riviste: una per gli adulti ("Eco dell'Africa") e l'altra per i giovani ("Il fanciullo negro"), ambedue in nove lingue europee. Scrisse molti articoli, appelli ed opuscoli per diffondere l'idea missionaria e tenne molte conferenze in diverse lingue e diversi paesi.
Grazie al suo attivismo riuscì a ricavare una cospicua somma, oltre ad arredi sacri e a di libri, che servì a sostenere l'impegno missionario in Africa.
▪ 1942 - Cesare Primo Mori (Pavia, 22 dicembre 1871 – Udine, 6 luglio 1942) è stato un prefetto e politico italiano. Fu senatore del Regno. È passato alla storia col soprannome di Prefetto di Ferro. In realtà non ha mai avuto un cognome e nome reali essendo figlio adottato; al brefotrofio di Pavia ebbe come nome e cognomi provvisori Primo Nerbi, in quanto fu il primo orfano ad essere accolto: Primo resterà comunque il suo secondo nome
Infanzia e giovinezza
Cresciuto in un orfanotrofio, fu riconosciuto dai suoi genitori naturali nell'ottobre del 1879. Studiò presso l'Accademia Militare di Torino, ma avendo sposato una ragazza, Angelina Salvi, che non disponeva della dote richiesta dai regolamenti militari dell'epoca, dovette dimettersi. Passò quindi in Polizia, operando prima a Ravenna, poi, nel 1904, a Castelvetrano, in provincia di Trapani.
Le prime esperienze in Sicilia
Nel trapanese Mori cominciò subito ad agire energicamente, usando quegli stessi metodi decisi, inflessibili e poco ortodossi che riprenderà - con un'autorità ed una libertà di azione incomparabilmente superiori - molti anni dopo in tutta la Sicilia. Compì numerosi arresti e sfuggì a vari attentati: fu infinite volte denunciato per abuso di potere ma sempre assolto; una volta fu anche rinviato a giudizio ma fu fatta una particolare amnistia.
Scrisse il Procuratore Generale di Palermo:
«Finalmente abbiamo a Trapani un uomo che non esita a colpire la mafia dovunque essa si alligni. Peccato, purtroppo, che vi siano sempre i cosiddetti "deputati della rapina" contro di lui...»
Mori fu quindi trasferito a Firenze nel gennaio del 1915, con la carica di vicequestore. In seguito ad un inasprimento della situazione in Sicilia, coincidente con l'inizio della guerra, vi fu rimandato al comando di squadre speciali mirate ad una campagna contro la delinquenza. Nel corso dei suoi rastrellamenti, Mori si distinse ancora una volta per i suoi metodi energici e radicali. A Caltabellotta, in una sola notte, fece arrestare più di 300 persone; nel complesso, ottenne risultati molto positivi. Quando i giornali parlarono di "Colpo mortale alla mafia", Mori dichiarò ad un suo collaboratore:
«Costoro non hanno ancora capito che i briganti e la mafia sono due cose diverse. Noi abbiamo colpito i primi che, indubbiamente, rappresentano l'aspetto più vistoso della malvivenza siciliana, ma non il più pericoloso. Il vero colpo mortale alla mafia lo daremo quando ci sarà consentito di rastrellare non soltanto tra i fichi d'india, ma negli ambulacri delle prefetture, delle questure, dei grandi palazzi padronali e, perché no, di qualche ministero.»
Promosso e decorato con medaglia d'argento al valore militare, Mori passò successivamente a Torino come questore, poi a Roma e a Bologna.
Bologna e lo squadrismo fascista
Nel 1922, con la carica di questore di Bologna, Cesare Mori fu - da ligio servitore dello Stato deciso ad applicare la legge in modo inflessibile - tra i pochi membri delle forze dell'ordine ad opporsi allo squadrismo dei fascisti.
Il crescendo della tensione politica avvenne in seguito al ferimento di Guido Oggioni, fascista e vicecomandante della "Sempre Pronti", mentre tornava da una spedizione punitiva contro i "rossi", e all'uccisione di Celestino Cavedoni, segretario del Fascio. Mori si oppose alle rappresaglie violente e alle spedizioni punitive dei fascisti, inviando contro di loro la polizia, e fu per questo ampiamente contestato. Ad un ufficiale che gli confessava di supportare la "gioventù nazionale" di Mussolini, Mori avrebbe risposto equiparando i fascisti ai "rossi":
«Gioventù nazionale un corno! Quelli sono dei sovversivi come gli altri.»
A causa di questi precedenti, con l'ascesa al potere del Fascismo Mori cadde in disgrazia e fu dispensato dal servizio attivo. Si ritirò in pensione nel 1922 a Firenze, assieme alla moglie.
La lotta alla Mafia
Per la sua fama di uomo energico e di uomo non siciliano (non in contatto con la mafia locale) ma conoscitore della Sicilia, fu richiamato in servizio all'inizio di giugno del 1924 dal ministro dell'Interno Federzoni fu nominato prefetto e inviato a Trapani, dove arrivò il 2 giugno 1924 e dove rimase fino al 12 ottobre 1925. Come primo provvedimento ritira subito tutti i permessi d'armi, e nel gennaio 1925 nomina una commissione provinciale che provvede ai nullaosta che rende obbligatori per il campieraggio e la guardiania, attività tradizionalmente controllate dalla mafia.
Dopo l'ottimo lavoro a Trapani, il 20 ottobre Benito Mussolini nomina Mori prefetto di Palermo, con poteri straordinari e con competenza estesa a tutta la Sicilia, al fine di sradicare il fenomeno mafioso nell'isola. Questo il testo del telegramma che sembra essere stato inviato da Mussolini:
...vostra Eccellenza ha carta bianca, l'autorità dello Stato deve essere assolutamente, ripeto assolutamente ristabilita in Sicilia. Se le leggi attualmente in vigore la ostacoleranno, non costituirà problema, noi faremo nuove leggi...
Mori si insediò quindi a Palermo il 1 novembre dello stesso anno e vi rimase fino al 1929. Qui attuò una durissima repressione verso la malavita e la mafia, colpendo anche bande di briganti e signorotti locali, anche attraverso metodi extralegali (fra cui la tortura, la cattura di ostaggi fra i civili e il ricatto), con l'esplicito appoggio di Mussolini, otterrà significativi risultati e la sua azione continuerà per tutto il biennio 1926-27. Il 1º gennaio 1926 compì quella che è probabilmente la sua più famosa azione, e cioè l'occupazione di Gangi, paese roccaforte di numerosi gruppi criminali. Con numerosi uomini dei Carabinieri e della Polizia passò quindi al rastrellamento del paese casa per casa, arrestando banditi, mafiosi e latitanti vari. I metodi attuati durante quest'azione furono particolarmente duri e Mori non esitò ad usare donne e bambini come ostaggi per costringere i malavitosi ad arrendersi. Fu proprio per la durezza dei metodi utilizzati che venne soprannominato Prefetto di Ferro.
Anche nei tribunali le condanne per i mafiosi cominciarono a essere durissime. Fra le "vittime eccellenti" iniziano a figurare anche personalità del calibro del generale di Corpo d'Armata Antonio di Giorgio, il quale riesce ad ottenere un colloquio riservato con Mussolini, cosa che non impedirà né il processo né il pensionamento anticipato dell'alto ufficiale. Ben presto però circoli politico-affaristici di area fascista collusi con la mafia riescono a indirizzare, tramite attività di dossieraggio, le indagini di Mori e del procuratore generale Luigi Giampietro sull'ala radicale del fascismo siciliano, coinvolgendo anche il federale Alfredo Cucco, uno dei massimi esponenti del fascio dell'isola. Cucco nel 1927 viene espulso dal PNF "per indegnità morale" e sottoposto a processo con l'accusa di aver ricevuto denaro e favori dalla mafia, venendo assolto in appello quattro anni dopo, ma nel frattempo il fascio siciliano è stato decapitato dei suoi elementi radicali. L'eliminazione di Cucco dalla vita politica dell'isola favorisce l'insediamento nel PNF siciliano dei latifondisti dell'Isola, essi stessi affiliati, collusi o quantomeno contigui alla mafia.
A questa azione si aggiunge quella delle "lettere anonime" tempestano le scrivanie di Mussolini e del ministro della Giustizia Alfredo Rocco, avvisando dell'esasperazione dei palermitani e minacciando rivolte se l'operato eccessivamente moralistico di Giampietro non si fosse moderato. Contestualmente il processo a Cucco si rivela uno scandalo, nel quale Mori viene dipinto dagli avvocati di Cucco come un persecutore politico e nel 1929 Mussolini decide di porre a riposo il prefetto Mori facendolo cooptare dal Senato del Regno. La propaganda fascista dichiara orgogliosa che la mafia è stata sconfitta: tuttavia l'attività di Mori e Giampietro aveva avuto drastici effetti soltanto su figure di secondo piano, lasciando in parte intatta la cosiddetta "cupola" (composta da notabili, latifondisti e politici), la quale riuscì a reagire attraverso l'eliminazione di Cucco, e così addirittura installarsi all'interno delle federazioni del fascio siciliane.
Alcuni autori sostengono che Mussolini avesse rimosso Mori perché nelle sue indagini si sarebbe spinto eccessivamente in alto, andando a colpire interessi e collusioni fra Stato e mafia. Questa tesi viene recisamente respinta da altri, come Alfio Caruso.
Risultati dell'azione di Mori
Ancora oggi si discute sui metodi impiegati da Mori nella sua lotta al fenomeno mafioso. È indubbio che la sua azione fu vigorosa ed efficace: ebbe la fama di personaggio scomodo per la sua capacità di colpire molto in alto, senza curarsi dell'opposizione di molti fascisti della prima ora. Alla fine degli anni venti, il "prefetto di ferro" era un personaggio estremamente noto ed alcune sue imprese, che la macchina propagandistica del regime copriva di consensi plebiscitari, erano giunte a rasentare la popolarità di Mussolini. Cesare Mori non si fece problemi nemmeno a perseguire (con il consenso del Duce) sia l'uomo più in vista del fascismo in Sicilia, Alfredo Cucco, sia l'ex ministro della Guerra, il potente generale Antonino Di Giorgio.
Molti mafiosi dovettero emigrare negli Stati Uniti dove diedero origine alla Cosa Nostra americana.
I cardini principali dell'azione di Mori - forte della carta bianca che gli era stata attribuita, e assistito da uomini quali il nuovo Procuratore Generale di Palermo da lui nominato, Luigi Giampietro, e il delegato calabrese Francesco Spanò - furono:
▪ Cogliere un primo importante successo con un'operazione in grande stile per riaffermare l'Autorità dello Stato e dare un segnale forte (l'occupazione di Gangi).
▪ Riottenere l'appoggio della popolazione impegnandola direttamente nella lotta alla mafia.
▪ Creare un ambiente culturalmente ostile alla mafia, combattendo l'omertà e curando l'educazione dei giovani e stimolando la ribellione contro la mafia
▪ Combattere la mafia nella consistenza patrimoniale e nella rete di interessi economici.
▪ Ripristinare il normale funzionamento e sviluppo delle attività produttive della Sicilia
▪ Condannare con pene severe e implacabili i criminali sconfiggendo il clima di impunità.
La sua strategia si basava anche sul seguente schema: i mafiosi appartenevano essenzialmente al ceto medio rurale (gabelloti, campieri, guardiani e sovrastanti) e tenevano in soggezione sia i grandi proprietari, sia i ceti più poveri. Eliminato il "ceto medio mafioso", i latifondisti si sarebbero liberati del doppio ruolo di vittime dei mafiosi e, al tempo stesso, di bersagli della rabbia popolare che li vedeva in combutta con la mafia.
L'azione di Mori si rivelò in tutta la sua clamorosa efficacia sin dal primo anno: nella sola provincia di Palermo gli omicidi scesero da 268 nel 1925 a 77 nel 1926, le rapine da 298 a 46, e anche altri crimini diminuirono drasticamente.
Pentiti mafiosi hanno riconosciuto il grave stato di difficoltà nella mafia dopo quegli anni.
Mori non si occupò solo degli strati più bassi della mafia, ma anche delle sue connessioni con la politica - portando lo stesso Mussolini a sciogliere il Fascio di Palermo ed espellere Cucco, che pure era membro del Gran Consiglio del Fascismo, dal PNF.
Dopo il suo congedo, vi fu ben presto una recrudescenza del fenomeno mafioso in Sicilia. Come scrisse nel 1931 un avvocato siciliano in una lettera indirizzata a Mori:
«Ora in Sicilia si ammazza e si ruba allegramente come prima. Quasi tutti i capi mafia sono tornati a casa per condono dal confino e dalle galere...»
In realtà i vertici della mafia avevano piegato il capo sotto la repressione, e colsero l'occasione dello sbarco degli Alleati in Sicilia per rialzare la testa, con gli Statunitensi che spesso li misero ai vertici delle amministrazioni locali siciliane, come sicuri antifascisti.
Ultimi anni
Come senatore continuò a occuparsi dei problemi della Sicilia, sui quali seguitò a rimanere ben informato, ma ormai senza potere effettivo e sostanzialmente emarginato.
«La misura del valore di un uomo è data dal vuoto che gli si fa dintorno nel momento della sventura » (Cesare Mori)
La sua abitudine di sollevare il problema della mafia era vista con fastidio dalle autorità fasciste, tanto che fu invitato a "non parlare più di una vergogna che il fascismo ha cancellato". Mori scrisse le sue memorie nel 1932 e il suo libro più famoso fu Con la mafia ai ferri corti (ripubblicato nel 1993 dall'editore Pagano di Napoli).
Si ritirò infine a Udine dove morì nel 1942, dimenticato da tutti, in un'Italia ormai avviata nei drammi della Seconda guerra mondiale.
È sepolto nel Cimitero di Pavia.
Mori nella letteratura e nel cinema
▪ La figura di Mori è ricordata nel romanzo Il Giorno della Civetta di Leonardo Sciascia.
▪ Sull'opera di Cesare Mori è stato girato nel 1977 il film Il prefetto di ferro, diretto da Pasquale Squitieri, interpretato da Giuliano Gemma e Claudia Cardinale e accompagnato dalle musiche di Ennio Morricone.
▪ 1962 - William Cuthbert Faulkner (New Albany, Mississippi, 25 settembre 1897 – Oxford, 6 luglio 1962) è stato uno sceneggiatore e drammaturgo statunitense, vincitore del Premio Nobel per la letteratura nel 1949 e considerato uno dei più importanti romanzieri statunitensi, autore di opere spesso provocatorie e complesse.
Le opere di William Faulkner sono caratterizzate da una scrittura densa di pathos e di grande spessore psicologico, da periodi lunghi e sinuosi e da una cura meticolosa nella scelta dello stile e del linguaggio. Nella pratica stilistica, fu considerato il rivale di Ernest Hemingway, che gli si oppone con il suo stile conciso e minimalista. È stato ritenuto forse l'unico vero scrittore modernista statunitense degli anni trenta: Faulkner si allaccia alla tradizione sperimentale di scrittori europei quali James Joyce, Virginia Woolf, e Marcel Proust, ed è noto per l'uso di strumenti espressivi innovativi: il flusso di coscienza, narrazioni elaborate da punti di vista multipli e salti temporali nella cronologia del racconto.
Faulkner nacque William Falkner (senza la "u": uno dei primi editori scrisse per errore il nome di Falkner come "Faulkner" e l'autore decise di mantenere quel cognome) a New Albany, nel Mississippi a cinquanta chilometri da Oxford, figlio di Murry Falkner e Maud Butler. Murry Falkner si era recato a New Albany per lavorare nella ferrovia del padre, il nonno dello scrittore, che era stata ereditata da suo padre, il Vecchio colonnello, bisnonno dello scrittore, che l'aveva fondata nel 1868 chiamando il tronco ferroviario "Ripley Ship Island and Kentucky".
Quando il giovane William nacque il padre era capostazione a New Albany e in seguito, nominato amministratore della compagnia, si trasferì con la famiglia dapprima a Ripley e il 24 settembre 1902, quando la ferrovia venne venduta dal padre, a Oxford dove si interessò di allevamento, divenne rappresentante della "Standard Oil", di un frantoio di semi di cotone, di una fabbrica di ghiaccio e di una ditta di ferramenta, fino ad ottenere, nel 1918, la carica di segretario e amministratore dell'Università.
Gli anni dell'infanzia
Ad Oxford i Faulkner erano andati a vivere vicino ai genitori materni e paterni, accanto alla casa degli Oldham, che avevano una figlia di nome Estelle che diventerà la compagna di giochi del piccolo William, il suo primo amore e infine sua moglie.
L'infanzia del piccolo William fu lieta e le esperienze fatte nell'ambiente del profondo Sud aiutarono il formarsi del suo mondo fantastico. Egli trascorreva molto tempo con il padre accanto ai recinti dei cavalli e quando ebbe l'età per cavalcarlo gli venne regalato un pony. Sempre con il padre esplorava la natura, girando per i boschi e osservando con occhio sempre più attento l'impoverimento dovuto allo sfruttamento economico. Iniziò allora l'interesse per gli ex schiavi negri che vedeva umiliati per la discriminazione razziale e soprattutto incominciò l'amore per tutti i miti e le leggende della sua terra alla quale lo scrittore si accostò ascoltando le storie della famiglia e in particolare del suo bisnonno, William Clark Falkner.
La nascita della tradizione letteraria di famiglia
Il bisnonno
Il bisnonno era stato una figura importante nella storia dello stato: era giunto nel Mississippi, nella contea di Tippah a Ripley nel 1839, dopo essere fuggito da casa a soli 14 anni per raggiungere uno zio che lo aveva fatto in seguito studiare legge, aveva combattuto durante la guerra civile nell'esercito dei confederati con il grado di colonnello e guidato nel 1871 la battaglia di Manassan, chiamata dai nordisti di Bull Run, costruito una ferrovia, e dato il proprio nome, Falkner, ad una città della vicina contea. Si era sposato, aveva visto morire la moglie in seguito al parto del primogenito John, il nonno di William, aveva partecipato ad alcuni duelli, si era risposato con una compagna d'infanzia dalla quale aveva avuto tre figli e due figlie e da queste vicende il pronipote scrittore avrebbe poi costruito la saga e la leggenda della sua famiglia. Ebbero inoltre importanza per la carriera del pronipote le sue opere, fra cui molti romanzi, che diedero vita ad una tradizione letteraria familiare. Il Vecchio colonnello aveva infatti scritto un romanzo, dal titolo The White Rose of Memphis, che era uscito dapprima a puntate sul giornale di Repley e in seguito diventato un vero bestseller, nel quale raccontava le sue avventure. Nel 1882 aveva pubblicato un altro romanzo ambientato a New York e nel 1884 le sue impressioni in seguito ad un viaggio fatto in Europa dove raccontava che in Italia si era fatto scolpire una statua che sarà poi messa davanti alla sua tomba, di fronte alla ferrovia.
Questa storia sarà poi narrata da Faulkner non solo nel suo romanzo Sartoris, dove l'ispirazione per il personaggio di John Sartoris deriverà proprio dalla figura del bisnonno, ma anche in altri racconti, sia in quelli raccolti in The Unvanquished, sia in molti altri.
Data la peculiarità sociale e storica del sud degli Stati Uniti, è comprensibile che il giovane Faulkner sia stato influenzato ed abbia attinto dalla storia della propria famiglia e della sua regione. Il Mississippi ha segnato il suo sense of humor, il suo sentire la tragica contrapposizione tra neri e bianchi, le sue caratterizzazioni nitide dei personaggi tipici ed i suoi temi ricorrenti, come l'idea che dietro l'apparenza di sempliciotti e di eterni bravi ragazzi, si potessero scovare menti brillanti e fuori dal comune.
Faulkner stesso raccontava un aneddoto spiritoso al quale faceva risalire la sua decisione di scrivere. Raccontava che da giovane si ubriacava, la sera, con i suoi amici. Tra questi c'era l'allora già noto scrittore Sherwood Anderson. Osservandolo, Faulkner pensò: “Bel mestiere scrivere. La mattina lavori, il pomeriggio correggi un po' e prima di cena sei libero di andare ad ubriacarti con gli amici”. Comunicò quindi ad Anderson che aveva deciso di diventare uno scrittore anche lui. Da quella sera, per un mese, Anderson disertò le riunioni etiliche. Alla fine del mese la moglie di Sherwood Anderson bussò alla porta di Faulkner e gli disse: “Sherwood dice che se giuri di non parlargli mai di letteratura ti farà pubblicare dal suo editore. Non ne può più di stare tappato in casa per paura di incontrare un altro scrittore”. Faulkner era un burlone, ovviamente, e si divertiva a colorire questo aneddoto, ma il suo primo romanzo fu effettivamente pubblicato dall'editore di Sherwood Anderson.
Il nonno
Il nonno di William, il Giovane Colonnello, era un tipo facile al litigio e piuttosto arrogante con una reputazione di grande bevitore. Aveva fondato nel 1912 la Banca di Oxford che era poi fallita e ne aveva fondata una tutta sua, la First National dalla quale però aveva in seguito ritirato il suo denaro per trasportarlo nella banca rivale perché non era stato rinominato amministratore.
Il padre
Dal padre William ereditò invece solamente il nome: egli era un uomo tranquillo e viveva da sudista decaduto. Insieme ai fratelli e la nutrice negra William bambino trascorreva il tempo nei boschi a prendere le uova degli uccelli dai nidi o a scovare le vecchie reliquie di guerra disseminate ovunque dai soldati durante la guerra civile e alla domenica andava a messa con i fratelli o passava il tempo, nei giorni di cattivo tempo, a giocare in una stanza che essi stessi avevano dipinto di rosso.
Era una esistenza felice ma tranquilla a contatto con le donne negre che lavoravano in casa come domestiche, con il cocchiere negro che gli insegnò a guidare il calesse, con le ex cuoche ed ex lavandaie che, insieme al padre, andava a trovare nelle loro abitazioni. Saranno questi personaggi a diventare i protagonisti di molti dei suoi racconti e dei suoi libri dove egli molte volte descrisse i personaggi senza cambiarne neppure il nome.
Gli anni della adolescenza
Durante il periodo dell'adolescenza, che trascorse serenamente, iniziò il suo interesse per le arti e scrisse le sue prime poesie. Nel 1915 abbandonò la scuola e per due anni studiò da autodidatta e venne assunto nella banca del nonno.
Il corso all'aeronautica britannica
Nel 1918, Estelle, della quale il giovane era innamorato, annunciò il suo fidanzamento con un altro e Faulkner lasciò il lavoro presso la banca per trasferirsi a Oxford dove lavorò per un breve periodo di tempo in una libreria. In seguito cercò di entrare nell'aeronautica ma non venne accettato sia perché non aveva frequentato l'Università, sia per la statura troppo bassa. Provò allora con l'aeronautica britannica e a Toronto iniziò l' 8 luglio di quell'anno un corso di aggiornamento che gli valse, il 22 dicembre, il brevetto di sottotenente ad honorem.
I primi scritti
Nell'inverno del 1918-1919 pubblicò i suoi primi racconti sul giornale "Eagle" di Oxford e il 6 agosto 1919 la sua prima poesia, intitolata L'après-midi d'un faune, sul "New Republic".
L'estate del 1919 Faulkner la trascorse come istruttore di golf presso il campus dell'università e a settembre venne ammesso a un corso per ex combattenti. Seguì per alcuni trimestri i corsi di francese, di spagnolo e di letteratura inglese, senza però mai conseguire la laurea, e pubblicò qualche poesia sul giornale "The Mississippian" dell'università.
Gli anni a New York
Nel novembre del '19 andò a New York a trovare un amico che abitava in una camera in affitto di Elizabeth Prall, futura moglie di Sherwood Anderson, che dirigeva la libreria di Scribner e accettò di lavorare in essa come commesso. Il 3 dicembre del 1921 ritornò ad Oxford e a marzo del 1922 ottenne un posto presso l'ufficio postale dell'università dove lavorava il padre, ma siccome lo stipendio era basso, egli si inventò i lavori più disparati: fondò una società d'assicurazione, la "Bluebird Insurance Company", che assicurava gli studenti dalle bocciature, ma che fu messa in seguito fuori legge dall'università stessa, organizzò un gruppo di Boy scouts e accompagnava i ragazzi nei boschi per studiare storia naturale. Nell'ottobre del 1924 lasciò il posto presso l'ufficio postale e a dicembre di quell'anno uscì, a spese di Phil Stone che era stato il suo precettore, una raccolta di poesie in 1.000 copie dal titolo The Marble Faun della quale riuscì a venderne solamente una cinquantina.
Un anno a New Orleans
A gennaio del 1925 si recò a New Orleans per incontrare Sherwood Anderson con l'intenzione di partire poi da lì per l'Europa ma, essendo stato rimandato il viaggio di sei mesi, iniziò a collaborare alla rivista "The Double Dealer" e all'edizione della domenica del "Times-Picayune" che lo pagava dieci dollari alla settimana.
A marzo arrivò Sherwood con Joseph Conrad che era tra gli scrittori più apprezzati da Faulkner e sotto il suo influsso incominciò a scrivere prosa. In poche settimane scrisse The Soldier's Pay (La paga del soldato) che, grazie alla raccomandazione di Sherwood presso il suo editore, "Boni & Living", uscirà nel 1926 ottenendo poco successo e poca vendita. Nello stesso anno vide le stampe una raccolta di caricature di personaggi celebri di New Orleans, Sherwood Anderson and Other Famous Creoles, che aveva scritto in collaborazione con William Spratling e che gli costò la perdita dell'amicizia con Sherwood.
Il ritorno a Oxford
Verso la fine del 1925 Faulkner ritornò a Oxford e durante la primavera del 1926 fece l'istruttore di golf mentre nel periodo estivo lavorò dapprima presso una segheria e in seguito sui battelli da pesca.
Mosquitos (Zanzare)
Nel 1927 venne pubblicato il romanzo Mosquitoes che descriveva in modo satirico la società letteraria di New Orleans. Il libro non ebbe alcun successo e l'editore, "Boni & Liveright" che già aveva pubblicato Soldier's Pay, sospese il contratto con il quale si era impegnato a pubblicare altri tre libri dell'autore.
Il matrimonio con Estelle
Faulkner senza scoraggiarsi continuò a scrivere e intanto cercava di guadagnarsi da vivere facendo lavori disparati e saltuari, come l'imbianchino e il falegname fino a quando nel 1927 la sua mai dimenticata Estelle divorziò e ritornò a casa con due figli e Faulkner la sposò e sarà Estelle la sua prima e unica moglie che lo sosterrà con fiducia fino alla fine dei suoi giorni.
Tra i lavori saltuari dell'estate del 1929, prima che uscisse Sartoris, ci fu quello di fuochista alla centrale elettrica dell'Università ma Faulkner, durante gli orari di minor lavoro, di solito tra la mezzanotte e le quattro del mattino continuava instancabilmente a scrivere.
Sartoris
Nel 1929 uscì Sartoris, nell'edizione "Harcourt, Brace", il primo romanzo ambientato nella mitica Yoknapatawpha County che era la fedele riproduzione della vera Contea Lafayette dove Faulkner trascorse quasi tutto l'arco della sua vita. La storia narrata nel romanzo è quella del bisnonno e del nonno dell'autore e darà inizio al filone faulkneriano con la ricostruzione immaginaria ma in fondo realistica della storia del Sud ottocentesco. Conobbe in questa occasione lo scrittore James Silver, diventato in seguito professore presso l'Università del Mississippi, che gli aveva portato da leggere la sua tesi di Laurea sulla guerra civile e ne divenne grande amico.
The Sound and the Fury (L'urlo e il furore)
Nell'ottobre di quell'anno (1929) uscì anche The Sound and the Fury (L'urlo e il furore) che narra il dramma di una vecchia famiglia del Sud, i Compson, una volta ricca e ora in decadenza. Il romanzo, pur essendo considerato dallo stesso autore il suo migliore, non ebbe successo e rimane ancor oggi una tra le sue opere più difficili.
As I Lay Dying (Mentre morivo)
Nel 1930 venne poi pubblicato As I Lay Dying (Mentre morivo), ma, come già era accaduto per L'urlo e il furore, il libro non accolse alcun consenso.
Sanctuary (Santuario)
In questi anni Faulkner, nel tentativo di guadagnare, ebbe l'idea di Santuario, un romanzo dal valore sensazionale, scritto in uno stile che anticipa il pulp e che venne pubblicato nel 1931 portandogli finalmente il successo e mettendo fine in gran parte ai problemi economici. In Santuario Faulkner affronta, in modo incredibilmente attuale, i temi della corruzione e del male con un tono definito gotico. Il libro produsse a Oxford un notevole scandalo e come scrive Fernanda Pivano[1] "Amici e parenti lessero il libro di nascosto, avvolgendolo in carte pesanti mentre lo portavano dal negozio di MacReed a casa, e subito andando a protestare dall'autore. Era fin troppo evidente, oltre tutto, che l'autore mostrava di conoscere un po' troppo da vicino gli ambienti che in quegli Anni Rosa sembravano malfamati: i contrabbandieri di alcool, i bordelli, le maîtresses".
Ma intanto Faulkner, grazie agli introiti dovuti dalle vendite del romanzo, poté restaurare la casa che aveva acquistato nel 1930 rendendola alla fine una bella palazzina in stile coloniale a due piani.
La casa era stata costruita nel 1836 da un piantatore irlandese, ereditata poi dalla famiglia Anderson che la usava come fattoria e nel suo frutteto William e i fratelli rubavano la frutta quando andavano a fare una nuotata nello stagno del bosco.
Essa era senza collegamento elettrico e non possedeva l'acqua ma aveva un pascolo discretamente vasto che avrebbe potuto diventare un galoppatoio e un campo da tennis facilmente trasformabile in un'ampia spianata. Tutto questo fu reso infatti possibile con i guadagni ricavati dalle vendite di Sanctuary.
Il lavoro a Hollywood
Con l'uscita di Santuario arrivarono anche le proposte di collaborazione con Hollywood dove Faulkner lavorò per i vent'anni successivi, alternando il suo tempo tra la città del cinema e Okford con un ritmo di vita tranquillo e poco appariscente. Gli era intanto nata una bambina che venne chiamata Alabama ma che morì dopo soli cinque giorni, perdita che fu in parte ricompensata dalla nascita di una seconda figlia battezzata Jill.
In questo periodo scrisse e pubblicò alcuni romanzi, come Luce d'agosto nel 1932, Assalonne, Assalonne! nel 1936, Gli invitti nel 1938 tutti considerati, insieme a L'urlo e il furore e Mentre morivo, dei capolavori oltre alla sua prima raccolta Queste 13, che comprende alcuni dei suoi racconti più conosciuti, come Una rosa per Emily, Foglie rosse e Settembre secco, pubblicata nel 1931.
Il successo fu però provvisorio e tra il 1931 e il 1945 la sua opera passò quasi inosservata in America mentre la sua fama era maggiore in Europa e soprattutto in Francia, dove Faulkner ebbe l'appoggio di Gide, Malraux e Sartre.
Dopo queste opere, Faulkner ha scritto cose di forza meno incisiva come The wild palms (Palme selvagge ) nel 1939; Go down, Moses (Scendi Mosè) nel 1942, curata da Malcolm Cowley (The portable Faulkner, 1947). Nel 1946, grazie al critico Malcom Cowley che divulgò la sua difficile prosa inserendolo in una antologia da lui curata The Portable Faulkner pubblicata per la Viking Press, l'opera di Faukner venne rilanciata.
Nel 1948 Faulkner pubblicò il romanzo Intruder in the Dust e nel 1949 una raccolta di racconti gialli intitolata Knight's Gambit dove il protagonista era Gavin Stevens (apparso anche in Luce d'agosto e in Scendi, Mosè), un detective ed avvocato, profondo conoscitore della vita e delle abitudini degli abitanti della contea di Yoknapatawpha.
Molti dei suoi racconti e dei suoi romanzi hanno per teatro l'immaginaria contea di Yoknapatawpha, per descrivere la quale si è ispirato alla contea reale, quasi identica in termini geografici, di Lafayette nel Mississippi, il cui capoluogo è la sua città natale, Oxford. Yoknapatawpha è il suo marchio di fabbrica ed è considerata una delle più monumentali creazioni di fantasia nella storia della letteratura.
Nel 1949 gli venne assegnato il premio Nobel, annunciato il 10 novembre 1950 e consegnato il 10 dicembre 1950
Nel 1951 scrisse "Requiem per una monaca", una commedia in tre atti preceduta da lunghi prologhi senza dialogo. Di fatto lo scritto era per metà un'opera narrativa e per metà un'opera teatrale, con le due parti alternate tra di loro. Lo stesso Faulkner, interrogato in proposito dai giornalisti, dichiarò che quella era semplicemente "la forma che riteneva più congeniale alla storia che voleva raccontare". Da Requiem per una monaca, che integrava parti drammatiche, e la cui introduzione consisteva in un'unica frase, che si prolungava per almeno due pagine, venne tratta, ad opera di Albert Camus, una versione teatrale in francese nel 1956.
Nel 1954 pubblicò il romanzo allegorico A Fable, (Una Favola) che gli fece ottenere il Premio Pulitzer, nel 1957 The Town e nel 1959 The Mansion con i quali concludeva la trilogia di The Hamlet scritto nel 1940.
L'ultima parte della sua vita fu segnata da un grave problema di alcolismo. Questo non gli impedì di presenziare all'assegnazione del Premio Nobel per la letteratura e di pronunciare uno dei discorsi più significativi mai ascoltati in tale occasione. Faulkner decise di devolvere il proprio premio per la costituzione di un fondo che avesse come scopo quello di aiutare ed incoraggiare nuovi talenti letterari, il Premio Faulkner.
Morì a sessantaquattro anni, il 16 luglio 1962, ad Oxford, Mississippi.
La vecchia casa di Oxford è stata donata all'università del Mississippi in ricordo dello scrittore e con l'intento di fornire alloggio per gli studenti di giornalismo.
▪ 1971 - Louis Daniel Armstrong noto anche con il soprannome di Satchmo o Pops (New Orleans, 4 agosto 1901 – New York, 6 luglio 1971) è stato un trombettista e cantante statunitense.
Armstrong è stato molto probabilmente il più famoso musicista jazz del XX secolo. Carismatico e innovativo, al suo talento ed alla sua luminosa personalità si deve molta della popolarità del jazz, che esce dai confini della sua regione d'origine per diventare un genere musicale amato in tutto il mondo.
Armstrong raggiunse la fama inizialmente come trombettista, ma fu anche uno dei più importanti cantanti jazz, soprattutto verso la fine della sua carriera.
* 1977 - Giuseppe Dessì (Cagliari, 7 agosto 1909 – Roma, 6 luglio 1977) è stato uno scrittore italiano.
Trascorre l'adolescenza a Villacidro, di cui sono originari i suoi parenti. La lontananza e le continue assenze, durante il periodo adolescenziale, del padre, ufficiale di carriera, costretto spesso a lunghi e continui spostamenti, incidono molto sul carattere già introverso e sensibile del giovane, che manifesta un profondo spirito di ribellione.
Dopo diverse bocciature durante il ginnasio, lascia gli studi regolari. La scoperta, dietro un muro della casa del nonno di una biblioteca, "la biblioteca murata" lo introdurrà alla lettura di testi filosofici e scientifici. Convinto da queste precoci letture, Leibniz e Spinoza in particolare, che l'uomo sia privo di libero arbitrio, matura pensieri di suicidio. L'affetto del padre, ritornato nel frattempo al paese, e la lettura dell'Orlando Furioso gli fanno ritrovare un equilibrio stabile e il desiderio di concludere gli studi. Decide di studiare latino e greco privatamente a Villacidro, con Don Luigi Frau, per sostenere gli esami di licenza ginnasiale, poi si trasferisce a Cagliari per completare la sua preparazione ginnasiale.
Nel 1929 s'iscrive al Liceo Dettori di Cagliari con un iniziale disagio dato dall'età avanzata rispetto ai suoi compagni di classe, conosce però un professore, Delio Cantimori, insegnante di filosofia che lo sostiene e lo incoraggia a continuare gli studi. Concluso il liceo, (nel frattempo gli muore dopo una lunga agonia la madre) su consiglio del professore Cantimori, tenta di entrare nella Classe di Lettere della prestigiosa Scuola Normale di Pisa ma non è ammesso, pertanto si iscrive alla Statale di Pisa rimanendo in stretto contatto però con alcuni Normalisti.
Segue i corsi di Momigliano e Russo, con i compagni di studio Claudio Varese, Carlo Raggianti, Claudio Baglietto, Aldo Capitini, Enrico Alpino e Carlo Cordiè con i quali instaura rapporti importanti per la sua formazione culturale. Dopo la laurea, per un certo periodo lo scrittore continua a frequentare il gruppo raccolto attorno alla rivista Letteratura, poi inizia ad insegnare in varie città italiane, tra le quali Ferrara e Bassano del Grappa; nel 1941 viene nominato, per meriti culturali, dal Ministro Bottai, Provveditore agli Studi di Sassari. Dopo essere stato Provveditore anche in altre sedi, tra cui Ravenna e Grosseto, viene comandato presso l'Accademia dei Lincei a Roma.
Inizia a scrivere i suoi primi racconti, nei quali è protagonista (come in tutta la sua narrativa) la sua Sardegna, tra i quali si nota La città rotonda (1930), inserito in seguito nel suo primo libro di racconti La sposa in città (1939).
Nel 1939 pubblica anche il romanzo San Silvano seguito dal romanzo Michele Boschino (1942). Dopo aver pubblicato una raccolta di racconti Racconti vecchi e nuovi (1945), tra i lavori successivi ci sono L'isola dell'angelo (1949) seguito da La frana (1950), e nel 1955 il romanzo I passeri, seguito da Paese d'ombre vincitore nel 1972 del Premio Strega. Nelle sue opere descrive la Sardegna, antica, mitica e immutabile, della sua infanzia contaminata dal "continente", visto come un mondo violento e senza valori.
Il romanzo Il disertore, ambientato durante la prima guerra mondiale, e giudicato uno dei migliori racconti della produzione italiana di quel periodo, si aggiudica nel 1962 il Premio Bagutta.
Ha prodotto anche diverse opere teatrali, sviluppate dai suoi racconti: il suo primo dramma, La giustizia fu diffuso dalla BBC inglese e poi dalla RAI, prima di essere incluso nei Racconti drammatici. Addirittura il dramma La Trincea che rievocava un episodio della prima guerra mondiale di cui fu protagonista il padre dello scrittore, fu messo in onda da Raidue il 4 novembre 1961 giorno dell'inaugurazione. Ha scritto anche l'opera teatrale Eleonora d'Arborea dedicato alla giudichessa sarda che nel Trecento animò la resistenza dell'isola contro gli Aragonesi.
Dopo la sua morte avvenuta a Roma il 6 luglio del 1977, in suo ricordo è stato istituito, nel 1986 a Villacidro, il Premio Letterario Giuseppe Dessì ed è stata costituita una Fondazione i cui soci fondatori sono la Regione Autonoma della Sardegna e il comune di Villacidro. Il premio si articola nelle sezioni Narrativa, Poesia e Premio Speciale della Giuria e viene assegnato ad autori di narrativa e di poesia in lingua italiana.
Pensiero e attività politica
Sin da adolescente Dessì confessa la sua profonda ammiriazione per Emilio Lussu ("Oltre che un uomo eccezionale, Lussu è stato un momento della storia, e non voglio dire della storia di ciascuno di noi e della nostra Isola, ma della storia semplicemente. Io lo conobbi sin da bambino, a Cagliari, tramite mio padre") e verso quell'idea liberalsocialista a cui sarà legato per tutta la sua vita. A Pisa, a contatto con molti "normalisti", Dessì si trova immerso in un ambiente culturale che lentamente sta passando dal "non fascismo" all'antifascismo vero e proprio. Nel 1944 esce a Sassari un settimanale "politico, letterario e d'informazione", intitolato <
In seguito, alla caduta del fascismo partecipa, insieme ad Antonio Borio, alla fondazione della prima sezione sassarese del partito ricostituito socialista. Nel 1960 accetta di essere presentato, come indipendente, nella lista del PCI per il Consiglio comunale di Grosseto. Eletto, partecipa alla vita politica di quel comune come consigliere dal 1960 al 1964.
Nel 1974 decide di iscriversi per la prima volta al PCI, nonostante non sia mai stato in sintonia con una certa ortodossia marxista-leninista allora dominante. Pur non essendo sempre stato attivamente impegnato in politica, Dessì non mancherà mai di diffondere il suo pensiero politico-sociale pacifista e, in qualche modo, antimilitarista (si pensi a Il Disertore del 1961).
Scelte linguistiche
Giuseppe Dessì, pur essendo uno dei più importanti scrittori sardi che raccontano la storia e le tradizioni dell'isola, scrive le sue opere in un italiano colto, frutto dei suoi studi al Liceo Dettori di Cagliari prima e successivamente alla Facoltà di Lettere di Pisa. Ma Dessì provvede a inserire parole e modi di dire in lingua sarda. Fra queste:
▪ MIGIURATO o GIODDU = "...una specie di yogurt molto in uso in parte d'Ispi"
▪ ZIPULAS = dolce di Carnevale.
▪ FILUFERRU = "...fortissima acquavite... che si usava per disinfettare le ferite, per prevenire la malaria e specialmente le infreddature e vi si inzuppavano i succhiotti dei lattanti, che smettevano di piangere e dormivano profondamente per ore, nelle loro culle"
▪ CABIDANNI = "...In Parte d'Ispi le parole durano a lungo come tutte le altre cose. Capidanni è puro latino e significa settembre. Per gli antichi abitanti che parlavano la lingua dei loro dominatori d'oltremare, l'inizio dell'anno CAPUT ANNI cadeva in settembre, che era considerato un mese propizio per cominciare cose nuove..."
▪ PICCIOCUS DE CROBI = "...furono circondati da un nugolo di picciocus de crobi, i piccoli facchini cagliaritani, scalzi, vestiti di stracci e vispi come passeri, con le loro gialle corbule di giunco, sempre pronti a trasportare qualsiasi merce per pochi centesimi..."
▪ MAIOLU = "... aveva sposato un plebeo paesano che si era fatto da sè, e che, per mantenersi agli studi era stato persino maiolu, cioè servetto, in casa di un nobile cagliaritano, secondo l'antica tradizione spagnuola."
▪ BAU DE SA MADIXEDDA = in "Paese d'Ombre", Dessì ci spiega che il punto in cui il rio Fluminera si allarga ed e più profondo viene chiamato "...BAU DE SA MADIXEDDA, guado della cutrettola, benché quando è in piena nemmeno un branco di tori riuscirebbe a guadarlo..."
▪ PRINZIPALES = "...il prete si era trovato schierato con i più ricchi, coi prinzipales..."
▪ MASSAIUS = "...Ognuno dei prinzipales... disponeva di un certo numero di voti dei massaius, cioè dei piccoli proprietari, padroni di pochi starelli di terreno, di qualche giogo di buoi, o di un branco di pecore."
▪ MAMMAI = richiamo affettuoso
▪ "A S'INFERRIU" e "LAMPU" = imprecazioni.
▪ 1979 - Marino Moretti (Cesenatico, 18 luglio 1885 – Cesenatico, 6 luglio 1979) è stato uno scrittore, poeta e romanziere italiano. Fu anche autore di opere teatrali. È noto soprattutto come poeta crepuscolare.
Anni giovanili
Nacque a Cesenatico in provincia di Forlì nel 1885, da Ettore, impiegato al Comune e imprenditore di trasporti marittimi, e da Filomena Moretti, insegnante elementare, di origine marchigiana.
Frequentò la scuola elementare a Cesenatico nella classe della madre, esperienza indubbiamente importante per la formazione della sua personalità.
Nel 1896 venne iscritto presso l'Istituto "Sant'Apollinare" di Ravenna diretto da religiosi, ma l'anno seguente lo abbandonò per il profitto scadente. Si iscrisse quindi al liceo-ginnasio "Vittorino da Feltre" di Bologna che lasciò nel 1900, senza aver conseguito la licenza ginnasiale.
La scuola di recitazione
Deciso a lasciare per sempre gli studi, convinse i genitori ad essere iscritto, nel 1901, alla «Regia Scuola di recitazione "Tommaso Salvini"» di Firenze diretta da Luigi Rasi. Viste le sue scarse doti in quel campo, il Rasi stesso gli consigliò di lasciare quella carriera suggerendogli una via diversa e maggiormente affine agli interessi letterari che aveva già in precedenza espresso. Rasi incaricò quindi Moretti di fargli da collaboratore lavorando per portare a termine il suo "Dizionario dei comici italiani", incarico che egli portò egregiamente a termine ottenendo così due vantaggi: quello di essere abbastanza autonomo economicamente e quello di poter svolgere un'attività gratificante. Alla scuola del Rasi conobbe Aldo Palazzeschi con il quale strinse un'amicizia solida e duratura nel tempo.
Gli anni fiorentini
Gli anni che trascorre a Firenze, che si prepara a diventare dal punto di vista intellettuale la capitale della nazione, sono anni importanti per la sua formazione centrale. Il clima fiorentino di questo periodo, con le nuove tendenze che danno il via a riviste come Hermes, Lacerba, La Voce, Leonardo, sarà per Moretti, che pure ne rimane ai margini, ricco di stimoli.
A Firenze il giovane Moretti frequenterà il Gabinetto Vieusseux, dove era possibile accedere alle più importanti riviste italiane ed europee, e la Biblioteca Nazionale dove ha modo di leggere e appassionarsi alle Myricae di Pascoli.
La prima produzione poetica
Al 1902 e 1903 appartengono le prime raccolte di novelle intitolate "Le primavere" e quelle di versi, "Il poema di un'armonia" e "La sorgente della pace".
Ma il vero debutto letterario avviene con la pubblicazione nel 1905 delle liriche di Fraternità, seguito dalle novelle intitolate Paese degli equivoci. Nel 1908 viene data alle stampe la raccolta La serenata delle zanzare [1] e nel giro di pochi anni vengono pubblicate le sue raccolte più famose: Poesie scritte col lapis del 1910 [2], Poesie di tutti i giorni del 1911, I poemetti di Marino del 1913 e Il giardino dei frutti del 1916. Con quest'opera Moretti sembra congedarsi come poeta dal pubblico, per darsi soprattutto alla memorialistica e alla narrativa. Riprenderà la sua attività di poeta solamente mezzo secolo dopo.
Gli anni della guerra
Era intanto scoppiata la prima guerra mondiale e lo scrittore, pur non essendo stato ritenuto idoneo al servizio militare, volle partecipare; si arruolò quindi come infermiere lavorando negli ospedali da campo.
Inviato a Roma, nel 1916 lavorò presso un'agenzia di stampa della Croce Rossa con Federigo Tozzi con il quale rimase in contatto sino al 1920, anno della sua morte.
Sarà durante gli anni della guerra che avverrà l'esordio di Moretti come romanziere con Il sole del sabato pubblicato nel 1916 ma già uscito nel 1913 sul «Giornale d'Italia», al quale seguirà nel 1918 Guenda che otterrà buoni consensi.
La collaborazione coi giornali
Moretti collaborò attivamente a numerosi periodici e giornali a partire dal 1923 e soprattutto alla pagina letteraria del Corriere della sera su invito di Luigi Albertini, direttore del giornale.
L'adesione al Manifesto degli intellettuali antifascisti
Dichiaratosi contrario al fascismo, firmò il Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, anche se non partecipò attivamente alla vita politica rimanendo sempre appartato tra Firenze e la città natale.
Durante gli anni della dittatura la pubblicazione nel 1928 in volume del "Trono dei poveri", che era già uscito a puntate tra il dicembre 1926 e il giugno 1927 su Il Secolo, gli creò qualche inconveniente. Esso infatti venne accolto dalle contestazioni dei fascisti della Repubblica di San Marino a causa del contenuto che riportava elogi alla libertà e all'indipendenza delle passate istituzioni.
Nel 1932 l'Accademia d'Italia assegnò a Moretti il premio intitolato a Mussolini, premio subito ritratto e dato invece a Silvio Benco. Nel 1944, essendo cambiata la politica, lo stesso premio verrà assegnato a Moretti, che lo rifiuterà con fermezza.
Lo scrittore intanto aveva continuato negli anni precedenti la sua attività scrivendo e pubblicando novelle, ricordi e romanzi. Risale al 1935 "L'Andreana", al 1937 "Anna degli elefanti" e al 1941 il romanzo che verrà accolto come il suo capolavoro da critici letterari autorevoli come Emilio Cecchi e Pietro Pancrazi.
Il dopoguerra e la fine della carriera di romanziere
Nel 1946, terminato il periodo bellico, Moretti iniziò la revisione delle sue opere dando alla ristampa alcune di esse e pubblicando un altro romanzo importante, "I coniugi Allori" al quale seguirà il romanzo di rievocazione "Il fiocco verde" nel 1948, il volume di ricordi "I grilli di Pazzo Pazzi" nel 1951 e un'ultima raccolta di novelle, intitolata "1945", nel 1956.
Nel 1958 Moretti termina con "La camera degli sposi" la sua carriera di romanziere e nel 1960, con il "Libro dei miei amici. Ritratti letterari", ne farà l'ultimo bilancio.
I riconoscimenti pubblici
Erano intanto iniziati i riconoscimenti pubblici per l'autore. Nel 1948 otterrà, a pari merito con Francesco Flora, il Premio Fila, nel 1952 il premio dell'Accademia dei lincei, nel 1955, con "Il libro dei sorprendenti vent'anni" il premio Napoli e nel 1959, con "Tutte le novelle", il premio Viareggio che sarà causa di polemiche perché aveva superato "Una vita violenta" di Pasolini.
Il ritorno alla poesia
Nel 1969, mentre l'editore Mondadori inizierà l'edizione, nei "Classici italiani contemporanei", delle opere dello scrittore, egli, in modo inaspettato e con grande vitalità, riprenderà a scrivere poesia. Usciranno nel 1969 la raccolta poetica "L'ultima estate", nel 1971 "Tre anni e un giorno", nel 1973 "Le poverazze" e nel 1974 "Diario senza fine".
Nel 1975, per il suo novantesimo compleanno, la Biblioteca di Cesenatico organizzerà un importante convegno di studi e nel volume degli atti che uscirà nel 1977 il nome di Moretti apparirà accanto a quello dei più noti e validi esponenti della critica letteraria.
A Cesenatico lo scrittore si spegnerà il 6 luglio del 1979.
Le raccolte poetiche
A parte i versi della giovanissima età Poema di un'armonia, La sorgente della pace (1903) e la raccolta di novelle del 1902 intitolata "Le primavere", si ricordano due opere che per molto tempo sono state ignorate dalla critica e messe in luce da Piero Bigongiari: "Il poema dell'armonia" e "La sorgente della pace", entrambe pubblicate a Firenze dall'editore Ducci nel 1903 che, nell'intenzione dell'autore, dovevano far parte di una trilogia che doveva concludersi con "L'autunno della vergine".
Queste raccolte risentono dell'atmosfera simbolista tipica del decadentismo europeo della fin de siècle e si possono collocare tra il gusto liberty e l'esempio dannunziano.
Ma il vero esordio pubblico di Moretti come poeta avvenne con la raccolta Fraternità. L'opera fu edita a Torino dalla casa editrice Remo Sandron nel 1905 arricchita da una incisione di Adolfo De Carolis e risente dell'influsso del Pascoli; venne recensita da Aldo Palazzeschi, mentre a sua volta Moretti recensiva I cavalli bianchi dell'amico.
Nel 1908 fecero seguito i poemetti de La serenata delle zanzare pubblicata presso l'editore Streglio di Torino con incisioni del De Carolis che, pur risentendo dell'influsso di Myricae e dei Canti di Castelvecchio di Pascoli, assumono una connotazione diversa e originale. Seguiranno Poesie scritte col lapis e Poesie di tutti i giorni, pubblicate nel (1910) e (1911) dall'editore Ricciardi, che segneranno la fase crepuscolare.
Nel 1916 uscirà un'altra opera significativa, Il giardino dei frutti pubblicate da Ricciardi che comprendeva le poesie del periodo 1911-1914 e che, in parte, erano già uscite, tra il 1912 e il 1913, sulla "Riviera Ligure".
Nel 1913 Moretti aveva pubblicato alcuni poemetti per l'infanzia su Il giornalino della domenica di Vamba, in seguito editi a Roma dalla Tipografia Ed. Nazionale con il titolo Poemetti di Marino, che, pur mantenendo il medesimo tono di certi poemetti precedenti risultarono di minore importanza. L'antologia Poesie 1905-1914, curata dal poeta per Treves, è simile ad un congedo poetico. Dopo il 1914 l'attività poetica di Moretti rimase per lungo tempo episodica e privata.
I ricordi
Tra la produzione letteraria di Moretti un forte significato assumono le pagine autobiografiche che si ritrovano in diversi contesti dei suoi romanzi, come in "Anna degli elefanti" o nella sezione del "Trono dei poveri" dove rivive l'esperienza vissuta in prima persona negli ospedali da campo nel periodo della guerra.
Moretti scrisse inoltre numerose memorie autobiografiche e impressioni di viaggio ("Mia madre", "Il tempo felice", "Via Laura", "Fantasie olandesi", "Scrivere non è necessario", "Pane in desco", "L'odore del pane", "I grilli di Pazzo Pazzi", "Il libro dei miei amici", "Ritratti letterari"), che nel 1962 entrarono a far parte del volume unico intitolato "Tutti i ricordi" a cura dell'editore Mondadori.
Le novelle
Ricca e varia fu anche la produzione di novelle tra le quali si ricordano Il paese degli equivoci (1907), I lestofanti (1909), Ah!Ah!Aha! (1909), I pesci fuor d'acqua (1914), La bandiera alla finestra (1917), Conoscere il mondo (1919), Personaggi secondari (1920), Una settimana in Paradiso e altre novelle (1920), Cinque novelle (1920), La vera grandezza (1925), Le capinere (1926), Allegretto quasi allegro (1927), Sorprese del buon Dio(1931), Novelle per Urbino (1937), Uomini soli (1954). Esse vennero pubblicate dapprima su riviste e giornali e poi raccolte in volume, sistemate e revisionate, dalla SEI nel 1942 e infine dalla Mondadori nel 1959 con una selezione definitiva che comprendeva cento testi divisi in quattro parti: Personaggi secondari, Da vita a vita, Presente del presente, Racconti brevi.
I romanzi
Romanzi della mia terra
Dopo la prima guerra mondiale Moretti si dedicò soprattutto alla narrativa e nel 1961 vengono ristampati, nei "Romanzi della mia terra", "La voce di Dio" del 1920, "Puri di cuore" del 1923, "L'Andreana" del 1935, "La vedova Fioravanti" del 1940.
Romanzi dal primo all'ultimo
Nel 1965 esce la raccolta dei "Romanzi dal primo all'ultimo" che comprende "Il sole del sabato", primo romanzo di Moretti pubblicato nel 1916, "Il segno della croce" del 1926, "Il trono dei poveri" del 1928, "Il fiocco verde" del 1948, il "Doctor Mellifluus" del 1954 e "La camera degli sposi" del 1958.
Romanzi dell'amorino
Nel 1968, quando lo scrittore era ormai ritornato alla poesia, saranno ristampati in una raccolta dal titolo "Romanzi dell'amorino", "Guenda" del 1918, "Né bella né brutta" del 1921, i "Due fanciulli" del 1922 (ristampato nel 1950 da Mondadori con il titolo "Il pudore", "Anna degli elefanti" del 1937, "I coniugi Allori" del 1946 legati tra loro, oltre a situazioni contingenti, dal fiore dell'amorino chiamato anche reseda.
Idilli in prosa
Gli altri romanzi, "L'isola dell'amore" del 1920, "Il romanzo della mamma" del 1924, "La casa del Santo Sangue" del 1929, furono ristampati da Moretti, con il titolo di "Idilli in prosa", nel 1966 nell'appendice dell'edizione di "Tutte le poesie".
Le ultime poesie
Nella tarda età Moretti ritornò con impeto alla poesia, dapprima con Diario senza le date, edito nel 1965, ed in seguito con L'ultima estate (1969), Tre anni e un giorno (1971), Le poverazze. Diario a due voci (1973) ed infine la riedizione, con aggiunta di nuovo materiale, del Diario senza date (1974).
Nel 1966 intanto aveva dato inizio alla nuova e ultima stagione poetica pubblicando "Tutte le poesie" che comprendeva una scelta e revisione delle precedenti raccolte oltre una sezione di testi inediti che daranno inizio al suo nuovo modo di fare poesia, quello di un esercizio di scrittura basato sull'uso dell'epigramma che, per la libertà delle forme e dello stile, raggiunge uno dei suoi più alti risultati.
L'interesse per la sua opera
Al convegno di Cesenatico del 1975 per il novantesimo compleanno dello scrittore si assistette ad un aumento d'interesse per la sua opera. Gli Atti del Convegno, con interventi di Gianfranco Contini, Geno Pampaloni e Luciano Anceschi, vennero pubblicati nel 1977 a Milano da Il Saggiatore.
Poetica La poesia
Moretti è tipicamente associato al crepuscolarismo. Il termine compare infatti per la prima volta proprio in una recensione a Poesie scritte con il lapis. La poesia di Moretti nonostante un'attività lunghissima, che ha sfiorato i settanta anni, non ha subito grandi modificazioni. Tipico rappresentante di un modo di vedere la vita nelle sue semplici cose senza tempo, ripiegandosi su se stesso e lasciandosi andare, Moretti, forse più dei suoi compagni crepuscolari, sente lo sfaldarsi del personaggio e la debolezza dell'uomo nei confronti del tempo, che procede inesorabile, cui non cessa di ribellarsi. La sua è una poesia che nasce dal contrasto fra le cose e i sentimenti, fra il mondo esterno e il mondo interno.
Nella poesia intitolata A Cesena tutti i temi crepuscolari sono presenti, soprattutto la posizione nei confronti del tempo, delle cose che ti circondano e del passato che non si riconosce:
« Piove. È mercoledì. Sono a Cesena
ospite della mia sorella sposa, sposa da sei, da sette mesi appena... [...] Piove. È mercoledì. Sono a Cesena, sono a Cesena e mia sorella è qui, tutta d'un uomo ch'io conosco appena, tra nuove gente, nuove cure, nuove tristezze, e a me così parla, così senza dolcezza, mentre piove: «La mamma nostra t'avrà detto che... E poi si vede, ora si vede e come!... Sì, sono incinta...Troppo presto, ahimè! Sai che non voglio balia? che ho speranza d'allattarlo da me? Cerchiamo un nome... Ho fortuna: è una buona gravidanza...» Ancora parli, ancora parli; e guardi le cose intorno. Piove. S'avvicina l'ombra grigiastra. Suona l'ora. È tardi.
E l'anno scorso eri così bambina! » (A Cesena)
Moretti va inoltre ricordato, oltre che per le poesie del periodo giovanile, per quelle della maturità e della vecchiaia nelle quali, come dice Carlo Bo,[senza fonte] il poeta si è sciolto maggiormente «annullando quelli che erano gli schemi iniziali riconducibili alla lezione crepuscolare e impostando la sua nuova lettura dentro il registro dell'ironia e di una filosofia dolorosa e quasi crudele».
La narrazione
Marino Moretti concepisce il romanzo o la novella come lo svolgimento di un tema semplice senza necessità di alcuna architettura al quale sia sufficiente l'alternarsi dei chiaroscuri per darne il giusto risalto.
Ad un certo punto della sua carriera, dopo La vedova Fioravanti (1941), lo scrittore giunge ad una maggiore complessità di temi narrativi e ad una maggiore scioltezza formale. Lo stile diventa più analitico e complesso e le emozioni, più sommesse, comprendono pause riflessive venate da un'intonazione ironica. Lo scrittore inizia a servirsi del materiale dei ricordi e lo intreccia a motivi fantastici, combinando e contaminando le forme narrative con quelle del saggio o della divagazione lirica.
Temi e motivi
Il tema della provincia, a diversi livelli di approfondimento, è tipico dell'opera morettiana. Ci si trova di fronte ad un "provincialismo" delle prime opere che si rifà ad un'atmosfera crepuscolare dove viene messo in evidenza un mondo dai contorni un po' ristretti, sonnolento e a volte e anche uggioso. Tutto questo appare legato al gusto italiano del momento, con riferimento a Fausto Maria Martini che pubblica nel 1910 le "Poesie provinciali" e anche a coloro, come Rodenbach o Mateterlink che possono considerarsi affini al crepuscolarismo.
In un secondo momento, come nei "romanzi della mia terra", l'analisi diventa più dettagliata nel descrivere soprattutto gli interni, dove certi elementi, che rappresentano il centro della vita domestica, assumono un ruolo simbolico, come il focolare (l'aròla) nel romanzo "Puri di cuore": "Grande la cucina quanto piccolo e modesto il tinello. Un gran cucinone con un'aròla non più alta delle seggiole, una rastrelliera rustica in tre file da cui gocciolavano i piatti e la terraglia rustica sul lavandino, una tavola quadrata nel mezzo, un canterano dalla patina nera con gli sportelli che ricordavano le porte delle chiese barocche e l'alzata a bocca di forno che si restringeva gradatamente in alto e reggeva piatti colorati e stoviglie."
Un maggiore ampliamento del tema avviene con l'interesse per quanto accade nel paese, l'accurata descrizione degli ambienti e soprattutto con la "tipizzazione" dei diversi personaggi che mette in evidenza la loro mentalità tanto legata alle abitudini di vita di quella terra e di quella cultura. E, come scrive Giuseppe Zaccaria, "In questo senso la narrativa morettiana affonda precise radici in una tradizione ottocentesca, quella del regionalismo e del verismo, anche se da questa tradizione tende, soprattutto nelle ultime opere, ad affrancarsi."
La lingua e lo stile
Il linguaggio della poesia e quello della prosa scorre parallelo nell'opera di Moretti con la conseguenza della scelta di una lingua molto vicina al parlato che si limita alla semplicità di una comunicazione piccolo-borghese fino a giungere alla cantilena infantile e alla cadenza ripetitiva con l'utilizzo di parole della quotidianità.
Lo stile è pertanto da ricercare nei moduli crepuscolari ma anche in un usus scribendi molto personale con il ripetersi di termini e stilemi maggiormente elevati. Tra gli elementi distintivi dello stile morettiano persistono le parole-cose che servono a determinare in modo preciso gli oggetti oltre l'uso costante di diminutivi, di sostantivi e aggettivi che vogliono indicare il grigiore, la noia, la malinconia. Si aggiungono inoltre tutti quei termini tipici dell'infanzia legati al mondo della scuola, dell'amore materno e dell'uso domestico che ricordano l'ascendenza pascoliana.
«Presso un'arola o in mezzo d'una strada
nessun desio si fa più vivo in me;
triste son io, triste son io, perché
la tristezza è il mio pane e la mia piada. - da all'Albergo della tazza d'oro in Poesie scritte col lapis »
La struttura e l'ideologia
Per quanto riguarda le situazioni espresse nei suoi romanzi, Moretti sceglie quelle più immediate e facilmente comprensibili dal comune lettore, sia che rappresenti il mondo popolare dei contadini o quello di ambienti borghesi, riprendendo gli schemi ottocenteschi che vanno dal bozzetto di carattere realistico alla ben delineata tipologia dei personaggi.
L'ideologia dell'autore è già espressa nelle sue poesie dove si sofferma sulla crisi dei valori dell'uomo e sulla mancanza delle motivazioni umane per poter affrontare con serenità la vita.
«Chinar la testa che vale
se la vita è sempre uguale? - da Che vale?»
▪ 2002 - Pietro Valpreda (Milano, 29 agosto 1933 – 6 luglio 2002) è stato un anarchico italiano, noto per il suo coinvolgimento nel procedimento giudiziario per la Strage di Piazza Fontana, dal quale uscì poi assolto.
Nel 1969 si trasferì a Roma dove frequentava il circolo Bakunin e dove poi fondò con alcuni amici il Circolo anarchico 22 Marzo.
Coinvolgimento nel processo per la Strage di Piazza Fontana
Nei giorni successivi alla Strage di Piazza Fontana fu additato come colpevole a causa della testimonianza del tassista Cornelio Rolandi, che dichiarò di averlo "visto" in piazza in un primo tempo con una valigetta e in un secondo tempo senza. Furono arrestati anche altri cinque aderenti al Circolo anarchico 22 marzo.
Valpreda rimase in carcere 1110 giorni, fino al 29 dicembre 1972, quando, insieme ai suoi compagni, fu rimesso in libertà per decorrenza dei termini di carcerazione, in forza di una legge ad personam, la cosiddetta legge Valpreda (legge n. 773), appositamente promulgata per permettere la scarcerazione di Valpreda. Questa legge abrogò la norma precedentemente in vigore, secondo la quale un imputato per gravissimi reati (tra cui, la strage) non poteva essere scarcerato fino ad una sentenza di assoluzione. Con la nuova legge, invece, la scarcerazione anche in quei casi è possibile.
Nel 1979 la Corte d'Assise di Catanzaro assolse Valpreda e gli altri imputati anarchici dall'accusa di strage, peraltro con la formula dell'insufficienza di prove. I successivi gradi di giudizio non mutarono la decisione in formula più favorevole.
Valpreda scrittore
Con Piero Colaprico scrisse i primi tre libri aventi come protagonista il maresciallo Binda: Quattro gocce di acqua piovana, La nevicata dell'85 e La primavera dei maimorti.
Valpreda morì all'età di 69 anni dopo l'aggravarsi della malattia che lo aveva colpito da parecchio tempo. I funerali si svolsero a Milano al Circolo anarchico Ponte della Ghisolfa.