Il calendario del 31 Ottobre

Fonte:
CulturaCattolica.it
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Eventi

* 1517 - Riforma protestante: Martin Lutero affigge le sue 95 tesi sul portale della chiesa di Wittenberg

* 1892 - Arthur Conan Doyle pubblica Le avventure di Sherlock Holmes

* 1922 - Benito Mussolini diventa il più giovane Primo Ministro d'Italia

* 1926 - Il Mago Harry Houdini muore di cancrena e peritonite sviluppatesi dall'aggravarsi di un'appendicite

* 1926 - Il sedicenne Anteo Zamboni attenta a Bologna alla vita del Duce, manca il bersaglio e viene linciato dalle squadre fasciste.

* 1940 - Seconda guerra mondiale: fine della battaglia d'Inghilterra - Il Regno Unito evita l'invasione tedesca della Gran Bretagna

* 1941

  1. - Dopo 14 anni di lavoro, viene completato il monumento del Monte Rushmore
  2. - Seconda guerra mondiale: l'incrociatore USS Reuben James viene silurato da un U-boot tedesco nei pressi della costa islandese, moriranno più di 100 marinai statunitensi

* 1946 L'Irgun e la Banda Stern, formazioni paramilitari e terroristiche ebraiche, portano a compimento un grave attentato contro l'Ambasciata britannica a Roma

* 1954 - Guerra d'indipendenza algerina: il Fronte Algerino di Liberazione Nazionale inizia la rivolta contro il governo coloniale francese

* 1956 - Crisi di Suez: Regno Unito e Francia iniziano a bombardare l'Egitto per costringerlo a riaprire il Canale di Suez

* 1961 - In Unione Sovietica, il corpo di Josif Stalin viene rimosso dal Mausoleo di Lenin

* 1968 - Guerra del Vietnam: citando progressi nei colloqui di pace di Parigi, il presidente statunitense Lyndon B. Johnson annuncia alla nazione che ha ordinato una cessazione completa di "tutti i bombardamenti aerei, navali e di artiglieria sul Vietnam del Nord", effettiva dal 1 novembre

* 1970 La teleselezione telefonica è estesa a tutta l'Italia: è possibile chiamare qualsiasi numero telefonico semplicemente anteponendo al numero chiamato il prefisso, senza dover più passare dal centralino centrale

* 1984 - Il primo ministro indiano Indira Gandhi viene assassinata da due guardie del corpo Sikh (a Nuova Delhi scoppiano delle rivolte e quasi 2.000 Sikh innocenti vengono uccisi)

* 1997 - Viene istituita la Libera Università di Bolzano

* 1998 - Inizia la Crisi del disarmo iracheno: l'Iraq annuncia che non coopererà più con gli ispettori delle Nazioni unite

* 1999
  1. - I capi della Chiesa Cattolica Romana e della Chiesa Luterana firmano una Dichiarazione congiunta sulla dottrina della giustificazione, ponendo fine alla secolare disputa dottrinale sulla natura della fede e della salvezza
  2. - Il Volo EgyptAir 990, in viaggio da New York al Cairo, si schianta al largo della costa di Nantucket (Massachusetts), uccidendo i 217 a bordo


* 2002 - Terremoto del Molise. Una potente scossa di magnitudo 5.4 della Scala Richter, alle ore 11,32, provoca il crollo della scuola elementare di San Giuliano di Puglia uccidendo 27 bambini e una maestra; altre due donne, residenti nello stesso paese, restano uccise dalle macerie delle proprie abitazioni

* 2003 - Giappone: l'esperimento Belle annuncia la probabile osservazione del primo tetraquark, X(3872)

* 2005 - Viene resa pubblica la scoperta di due nuovi satelliti di Plutone: Idra e Notte.

Anniversari

▪ 1918 - Egon Leon Adolf Schiele (Tulln, 12 giugno 1890 – Vienna, 31 ottobre 1918) è stato un pittore e incisore austriaco.

I primi anni e gli studi viennesi
Egon Schiele nasce nel 1890 in una stazione ferroviaria a Tulln, una cittadina nei pressi di Vienna. La città è, alla fine del XIX secolo, un crogiuolo di culture molto diverse tra loro e i movimenti indipendentisti ne minacciano la stabilità. L'Accademia delle Scienze e Belle arti, la presenza di numerosi altri istituti di ricerca e delle maggiori collezioni d'arte contribuiscono ad accrescere il richiamo come centro culturale ed intellettuale. Il clima sociale e la situazione politica appaiono un contesto ideale per la discussione dei temi fondamentali dell'esistenza umana. Mai, infatti, altrove ci si era occupati tanto profondamente della sessualità in letteratura, psicologia, pittura. La sua infanzia viene presto offuscata dal progredire della malattia mentale del padre e dalla sua precoce morte, esperienza traumatica che segnerà profondamente tutta la sua pittura, dandogli un'immagine del mondo tetra e malinconica. Alla morte di Adolf Schiele (capostazione), nel 1905 la tutela di Egon viene assunta dal suo ricco padrino, lo zio Leopold Czinaczek, il quale, dopo aver tentato inutilmente di orientarlo verso una carriera nelle ferrovie, ne riconobbe il talento artistico. Fu infatti in questo periodo che Schiele cominciò a dipingere, in particolare autoritratti, producendo in poco più di un decennio circa trecento dipinti e più di tre mila opere su carta. Dopo il suo ingresso all'Accademia di Belle Arti di Vienna nel 1906, dove studiò pittura e disegno, i rapporti con la madre (originaria di Krumau (oggi Český Krumlov), in Boemia) si deteriorano; Marie Schiele infatti non si sente sufficientemente tutelata e sostenuta dal figlio. Di fronte all'aridità degli insegnamenti proposti in Accademia, dal clima conservatore e chiuso della scuola (che abbandona nel 1909), dove gli era permesso solo di disegnare "secondo gli antichi", Egon cerca i suoi modelli al di fuori, soprattutto all'interno dei Cafè, dove si lega ad artisti molto vicini alla sua sensibilità. Studiando da solo, Egon, cresce e si migliora, sperimentando i diversi stili, all'epoca considerati d'avanguardia; porta il suo cavalletto all'aperto e inizia a dipingere nella natura; la sua tavolozza mostra ora colori luminosi applicati con una tecnica antiaccademica. L'incontro decisivo per tutto il suo percorso artistico avvenne nel 1907 nel Cafè Museum di Vienna: la personalità di Gustav Klimt lo influenza non meno di quanto avesse influenzato quell'arte che rappresentava modernità e progresso (propria delle teorie artistiche della Secessione Viennese di cui Klimt è un esponente). Un ulteriore elemento avvicina i due uomini: l'interesse per la raffigurazione del corpo nudo e della sessualità maschile.
Anche Klimt avrà per Schiele una grande stima: si impegna ad aiutare l'amico, attraverso l'acquisto di disegni, procurandogli modelle, presentandolo ad alcuni ricchi mecenati, che gli assicurarono una certa tranquillità finanziaria già dai suoi esordi sulla scena artistica viennese e facendo sì che nel 1908 Schiele potesse tenere la sua prima mostra personale per la Wiener Werkstätte, nata nel 1903 ad opere dell'architetto Hoffmann e il cui fondamento teorico risiede nell'idea di opera d'arte totale: l'arte non rinchiusa negli ambiti tradizionali ma influisce formalmente e spiritualmente sulla quotidianità. In quelle prime opere esposte il suo stile, abbandonate le rigide regole dell’accademia, è già espressionista: accanto a ritratti di amici ed autoritratti, viene rappresentata la fisicità del corpo attraverso un’aggressiva distorsione figurativa. In questo modo la sessualità diventa ossessione erotica che, accanto al tema della solitudine angosciosa ed inquieta, assume un’altissima tensione emotiva. In modo simile a quello che negli stessi anni fanno Alfred Kubin e Oskar Kokoschka, lo spazio diventa una specie di vuoto che rappresenta la tragica dimensione esistenziale dell’uomo, in continuo conflitto tra la vita e la morte.
Schiele utilizza una linea tagliente ed incisiva per esprimere la sua angoscia e per mostrare impietosamente il drammatico disfacimento fisico e morale. Il colore acquista un valore autonomo, non naturalistico, risultando particolarmente efficace nei moltissimi acquerelli e disegni di allucinata tensione. In molti trovarono troppo scioccanti i modi espliciti dei suoi lavori e ne denigrarono lo stile. La spiccata natura dei suoi dipinti e la sua morte prematura fanno assurgere Schiele a simbolo dell'artista incompreso, raffigurazione stereotipa di un artista frustrato ed alienato da una società percepita come bigotta e ignorante.
Nel 1909 espone quattro delle sue opere alla Kunstschau, la mostra collettiva in cui esponevano gli artisti usciti dalla Secessione nel 1905: Munch, Matisse, Bonnard, Gauguin, Kokoschka, Van Gogh. Il 1909 è un anno di nette cesure: ottiene il ritiro, da parte dello zio, della tutela, abbandona l'Accademia, fonda il Neukunstgruppe, si emancipa definitivamente dall'influsso di Klimt e, al raffinato erotismo dell'Art nouveau, contrappone una rappresentazione della sessualità intesa come pulsione esistenziale profonda dell'uomo. Schiele stende anche un manifesto teorico del nuovo gruppo:

«L'artista del Neukunstgruppe è e deve necessariamente essere se stesso, deve essere un creatore, deve saper creare i propri fondamenti artistici, senza utilizzare tutto il patrimonio del passato e della tradizione.»

La mostra organizzata al Salon Pisko riscuote un notevole successo di pubblico: anche l'arciduca Francesco Ferdinando è tra i visitatori. Schiele rappresenta se stesso con inusuale frequenza, rompendo con la tradizione dello specchio come strumento essenziale nella ricerca dell'io, fissando nell'autoritratto non la propria identità sociale ed emotiva, quanto piuttosto l'estraneo, lo sconosciuto, il lato estraneo dell'io; i suoi autoritratti, con l'eccentricità delle pose e l'innaturalità dei gesti producono un'immagine straniante e carica di tensione, dallo specchio nasce un doppio, dai tratti alterati e il cui corpo è torto e scavato.
Schiele mostra subito una passione per le figure femminili, soprattutto infantili. Le modelle preferite di Schiele sono donne cui era unito da un profondo legame personale. In gioventù e nei primi anni di attività artistica è soprattutto la sorella Gerti ad assumere questo ruolo; in lei Egon osserva nell'adolescenza lo sbocciare di un corpo di donna che gli si mostra semplicemente senza veli. In seguito, il legame sentimentale con Wally Neuzil, farà di questa ragazzina, poco più grande di Gerti, la sua seconda modella. Wally ispira disegni intensamente erotici ed è la modella per alcune grandi figure simboliche. Ma ben presto dovrà lasciare il posto a quella che sarà anche sua moglie, Edith Harms.
Le raffigurazioni di bambini occupano un posto importante nell'opera di Schiele che trova i suoi modelli nei quartieri proletari. Frequentemente usa ospitare dei bambini nei suoi atelier e il suo interesse è rivolto particolarmente alle bambine che ritrae preferibilmente nude o semivestite, modelle alle soglie dell'adolescenza nei cui sguardi si percepiscono il timore del divenire adulte e l'incipiente risveglio della sessualità. Nello stesso periodo realizza anche ritratti di bambini, come quello del giovane Herbert Rainer, uno dei ritratti più realistici probabilmente perché fu eseguito su commissione. Sino all'epoca della sua morte si dedica alla rappresentazione della natura, tutti i suoi paesaggi sono tesi all'espressione di stati d'animo, espressione simbolica di condizioni esistenziali, legate al declino e alla morte.

L’ispirazione in campagna
Fra il 1910 e il 1911 Egon trascorre lunghi periodi nella cittadina di Krumau nella Boemia del sud, dove temi quali la città, i bambini, e torna a dedicarsi al paesaggio. Risalgono a questo periodo anche una serie di composizioni simboliche nelle quali prevale il tema della morte ed entusiasmato dalla lettura delle poesie di Rimbaud si dedica egli stesso alla poesia. Nel 1911 Schiele incontra la diciassettenne Wally Neuzil, con la quale intreccia una relazione sentimentale e che gli fa da modella per alcune delle sue opere migliori. Schiele e Wally decidono di lasciare Vienna per cercare ispirazione in campagna. Dapprima si stabiliscono nella piccola città boema di Krumau, la città natale della madre di Schiele, ma gli abitanti del posto li costringono dopo breve tempo alla partenza, disapprovando fortemente il loro stile di vita, perché non sono sposati. Si recano allora nel paesino di Neulengbach, non lontano da Vienna. A causa della giovane età di Wally, nel 1912 Schiele è davanti al giudice e rinchiuso in prigione per un breve periodo, con l’accusa di avere traviato una minorenne, di aver avuto rapporti con lei, nonché di averla rapita. Alla fine del processo, è ritenuto colpevole soltanto di aver esibito le sue opere, ottusamente considerate pornografiche dalla pubblica autorità. Tuttavia i giorni trascorsi in cella si trasformano in un'esperienza traumatica e il processo si rivela pieno di rischi: in caso di condanna gli sarebbero toccati lunghi anni di segregazione. Schiele utilizza l'avvenimento per dare di se stesso l'immagine stilizzata della vittima della società gretta e ostile.
Tuttavia, deluso da questa esperienza, Schiele decide di tornare a Vienna.
Grazie al suo amico Klimt, riesce in breve tempo ad ottenere diverse commissioni, tornando alla ribalta sulla scena artistica austriaca e partecipando a molte mostre internazionali. Le sue opere del periodo sono numerose, per la maggior parte autoritratti e ritratti. Le figure sono solitamente nude, in pose insolite che tendono a sfociare nella caricatura; la figura tormentata richiama sia la morte che l’erotismo. Il disegno è molto netto con un tratto spesso e marcato, energico e sicuro, a volte persino violento. Queste opere cercano di provocare lo spettatore per suscitare un certo malessere. Il 1913 è per Schiele un anno di successo artistico e di soddisfazioni economiche, nel quale intraprende molti viaggi ed espone in numerose occasioni.

Il matrimonio
Nel 1914 la terza e ultima importante modella della sua vita, Edith Harms, figlia di un fabbro, pone come condizione per divenire sua moglie l'essere l'unica sua musa inspiratrice ed esige l'interruzione del rapporto con Wally. Schiele lascia allora quest'ultima che morirà in seguito al fronte come crocerossina e sposa Edith. Il matrimonio gli dona una serenità che muta la sua ispirazione: una composta forza emerge dai dipinti di questa nuova fase, in parte anche per l’influenza delle opere monumentali di Ferdinand Hodler. Proprio quando nel 1914 la sua fama artistica si va affermando, scoppia la prima guerra mondiale: sarà la fine di un'epoca, con il crollo definitivo dell'impero Asburgico. Nel 1915 è chiamato alle armi e, grazie a superiori comprensivi e amanti dell'arte, può continuare a dipingere. In questo periodo realizza ritratti di ufficiali russi e disegni di interni; le opere mostrano una trasformazione della concezione artistica di Schiele: l'espressivo gesto pittorico è segnato da un chiaro ritorno alla rappresentazione naturalistica.

La morte
Un definitivo trasferimento lo conduce, nell'aprile del 1918 al museo militare di Vienna, anno in cui un mutamento di stile gli frutta fama e riconoscimenti; inoltre partecipa con successo alla quarantanovesima mostra della Secessione Viennese; nello stesso anno, tiene esposizioni di successo a Zurigo, Praga e Dresda. Alla morte di Klimt è considerato il più importante pittore austriaco, ma la sua carriera, finalmente toccata dal successo, viene stroncata dalla terribile epidemia di influenza spagnola. Nell’autunno del 1918 (un mese prima della fine della guerra) l’influenza spagnola, che provocò più di venti milioni di morti in Europa, raggiunge Vienna. Edith, incinta di sei mesi, muore il 28 ottobre. Durante l'agonia della moglie Schile la ritrae più volte. Purtroppo Egon non scampò al contagio e tre giorni dopo, il 31 ottobre, a soli 28 anni morì.

Caratteristiche tecnico-artistiche
L'attenzione artistica di Egon Schiele è concentrata essenzialmente sulla figura umana, in particolare su quella femminile, che rappresenta con una vasta e varia gamma espressiva:
▪ nudi asciutti e taglienti;
▪ donne intense, altere, sicure di sè;
▪ ritratti ed autoritratti di un profondo spessore psicologico;
▪ coppie avvinte in erotici abbracci senza amore.
Una dolce, inquietante ossessione s'insinua tra corpo e mente scuotendo con energica virulenza tutta la breve vita di Egon Schiele. Una contaminazione artistica, questa, che vuole evidenziare il tratto forte e sensuale di uno degli artisti più rappresentativi dell'Espressionismo: il suo interesse per il corpo. Schiele viene influenzato dal linguaggio prezioso e raffinato di Gustav Klimt, ma la sua pittura è un viaggio nell'introspezione psicologica. In rossi sanguinei, bruni tenebrosi, pallidi gialli e lugubri neri egli tenta di dipingere il pathos direttamente in paesaggi malinconici, con alberi avvizziti, così come in disperate immagini di madri e figli addolorati. I suoi sono segni che mettono a nudo l'inconscio, assumendo una profondità dai contorni emozionali molto più marcati. Sono segni che, caratterizzati da una linea nervosa, quasi nevrastenica, prendono corpo sulla tela in una dissonanza armonica che nega l'estetica e rompe gli schemi tradizionali. L'Io dell'artista emerge, contorce la materia e si ferma nello sguardo allucinato e nelle mani contorte. Mani dove le linee sembrano denunciare il dolore, la sofferenza, la malinconia di un'anima alla deriva. Schiele descrive i meandri della sua mente, il cupo tormento e il trauma angosciante per la perdita prematura del padre, morto di sifilide. Un evento, questo, che segna in modo indelebile anche il suo rapporto con le donne e con l'erotismo. Compaiono sulle tele corpi femminili terribilmente provocanti, in pose, spesso assurde, verticali per confondere la spazialità.
L'artista introduce una tensione erotica esistenziale e psicologica per diffondere un messaggio di critica sociale contro la falsità borghese. Più che una liberazione dal sè, quest'arte attesta un conflitto all'interno del soggetto individuale nei confronti delle sue discusse autorità, l' accademia e lo stato. Su una superficie ruvida e scabra, Schiele mostra senza falsi pudori, un erotismo scevro di moralismi e senza gioia, dove protagoniste sono fanciulle dal volto infantile e dall'atteggiamento deliberatamente impudico, donne dominate da una sessualità disinibita e urlata nel silenzio della loro anima. Guardandosi intorno, Schiele non può che rimanere affascinato da Van Gogh e con il suo personalissimo carisma cromatico, pesante e deciso, gli rende omaggio con La Stanza in Neulengbach, che si ispira alla Stanza gialla. Reinterpreta anche i Girasoli, in una versione dai colori bruni, spenti dove i petali perdono consistenza e acquistano la decadente tragica forza del vero.
Egon Schiele rivendica l'importanza della esperienza interiore e delle sue manifestazioni più o meno violente. Scava nei propri personaggi per metterne a nudo la loro anima (spesso Egon Schiele proietta le sue inquietudini nelle figure). Egon Schiele è un abile disegnatore, dal tratto nitido, rapido e secco, senza ripensamenti; non concede spazio al decorativismo o al compiacimento estetico delle sue opere. Le opere di Egon Schiele hanno tutte un impatto forte e violento sull'osservatore, che assume quasi una posizione di interprete psicoanalitico; esse trasudano di voglia di ribellione e provocazione, cosiccome di angoscia esistenziale. Schiele sonda, nelle figure angosciate prive di riferimento storico e contesto sociale, le "pulsioni represse"; egli indaga il voyeurismo e l' esibizionismo, una coppia freudiana di piaceri perversi. Spesso, nelle sue opere, fissa così intensamente -lo specchio, noi- che la differenza tra il suo sguardo e il nostro minaccia di dissolversi ed egli sembra diventare l'unico osservatore, il solitario voyeur della propria esibizione. Ma per lo più non sembra tanto provocatoriamente orgoglioso della propria immagine, quanto piuttosto pateticamente esposto nel suo stato rovinoso. Ormai esaurita la sua funzione di ideale classico (il nudo accademico) e di tipo sociale (il ritratto di genere), la figura diventa quasi una cifra di disturbo psicosessuale.
Nella fase finale della sua vita il tratto si fa più nervoso raggiunge la massima libertà espressiva realizzando molti paesaggi soprattutto delle cittadine di Krumau e Neulengbach. Lavori in cui e sempre presente un costante senso drammatico e una visione della realtà sofferta e meditata nell'interiorità. L'arte di Schiele ci consente, quindi, di perderci nell'infinito esistenziale e ritrovarci a tu per tu con il senso della vita, che sfugge a ogni ordine e si ferma nel magma emozionale di una macchia di colore.

▪ 1967 - Camillo Sbarbaro (Santa Margherita Ligure, 12 gennaio 1888 – Savona, 31 ottobre 1967) è stato un poeta e scrittore italiano.

«Padre, se anche tu non fossi il mio
padre, se anche fossi a me estraneo,
per te stesso egualmente t'amerei.
Ché mi ricordo d'un mattin d'inverno
che la prima viola sull'opposto
muro scopristi dalla tua finestra
e ce ne desti la novella allegra.» (Camillo Sbarbaro, Pianissimo)


Camillo Sbarbaro nasce a Santa Margherita Ligure il 12 gennaio 1888. Il padre Carlo era ingegnere e architetto, figura molto amata dal poeta al quale dedicherà due note poesie nella sua seconda raccolta di versi "Pianissimo".
La madre, Angiolina Bacigalupo, che era ammalata di tubercolosi, muore molto presto, nel 1893, e il piccolo Camillo e la sorellina Clelia verranno allevati dalla zia Maria detta Benedetta, tanto adorata dal poeta che le dedicherà le poesie di Rimanenze.
Nel 1894 la famiglia si trasferisce nella cittadina ligure di Varazze dove Camillo inizierà le scuole elementari e in seguito il Ginnasio presso l' Istituto dei Salesiani. Nel 1904 avviene il trasferimento a Savona dove il giovane si iscrive al Liceo Gabriello Chiabrera e intanto conosce lo scrittore Remigio Zena, che, letti alcuni versi del giovinetto, ne incoraggia il proseguimento. Al Chiabrera avrà come insegnante di filosofia Adelchi Baratono che lo arricchirà intellettualmente e spiritualmente.
Nel 1908 consegue il diploma di licenza e nel 1910 trova lavoro presso l'industria siderurgica di Savona. Il suo esordio di poeta avviene nel 1911 con la raccolta Resine. Nello stesso anno si trasferisce a Genova. Nel 1914 pubblica "Pianissimo".
In occasione della pubblicazione di Pianissimo si reca a Firenze dove ha modo di conoscere Ardengo Soffici, Giovanni Papini, Dino Campana, Ottone Rosai e altri artisti e letterati che facevano riferimento alla rivista La Voce. La raccolta pubblicata ottiene grande consenso e verrà prontamente apprezzata da critici come Boine ed Cecchi.
Quando scoppia la grande guerra, Sbarbaro lascia l'impiego e si arruola come volontario nella Croce Rossa Italiana e nel febbraio del 1917 viene richiamato alle armi. A luglio parte per il fronte. Scrive in questo periodo le prose di Trucioli che verranno pubblicate nel 1920 a Firenze da Vallecchi.
Nel 1919 la rivista Riviera Ligure gli dedica interamente il suo ultimo fascicolo. Durante l'estate rientra a Genova, frequenta con assiduità Pierangelo Baratono e il gruppo di intellettuali che fanno riferimento al poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi.
Lasciato il lavoro si guadagna da vivere con le ripetizioni di greco e di latino appassionandosi sempre di più alla botanica e dedicandosi alla raccolta e allo studio dei licheni, sua vera passione.
Conosce intanto Eugenio Montale, che per primo aveva recensito le prose di Trucioli, e frequenta i pittori Adriano Grande, Fausto e Oscar Saccorotti, Paolo Rodocanachi e lo scultore Francesco Messina. Nel 1921 inizia a collaborare alla "Gazzetta di Genova" con articoli sulla Liguria.
Nel 1927 accetta l'incarico di insegnamento per greco e latino presso l' Istituto Arecco di Genova dei padri Gesuiti, ma è costretto ad abbandonare la cattedra perché non accetta di essere tesserato al Fascio. Esce intanto nel 1928 il volume Liquidazione che contiene alcune tra le prose scritte negli anni del dopoguerra.
Continua lo studio e la raccolta appassionata sui licheni e in quello stesso anno vende a Stoccolma il suo primo erbario di muscinee.
Gli anni tra il '28 e il '33 Sbarbaro li trascorre compiendo numerosi viaggi all'estero e quando è in patria frequenta assiduamente un gruppo di amici letterati e artisti che si riuniscono nella casa di Paolo e Lucia Rodocanachi ad Arenzano o nella casa degli amici Elena De Bosis e Leone Vivante a Solaia, nella campagna senese.
Nel '33 Sbarbaro inizia la collaborazione alla Gazzetta del Popolo di Torino. Scrive intanto il nuovo libro Calcomanie che, a causa della censura, non potrà vedere la luce se non nel 1940 in una ventina di copie dattiloscritte da distribuire agli amici.
Quando il 9 febbraio del 1941 Genova viene colpita da bombardamento navale, il poeta si trasferisce a Spotorno con la zia e la sorella e vi rimane fino al 1945 dando inizio ad una intensa attività di traduttore di autori classici greci e francesi.
Nel 1945 ritorna a Genova ma nel 1951 si trasferisce definitivamente a Spotorno. È di questi anni l'intensa collaborazione a numerose riviste come "Officina", "Letteratura", "Itinerari", "Ausonia", "La Fiera Letteraria", "Il Mondo" Nel 1949 vince il premio letterario Saint-Vincent e nel 1955 il premio Etna-Taormina. Sempre in questo anno pubblica l'opera Rimanenze che raccoglie le sue ultime poesie.
Gli ultimi anni di attività letteraria saranno dedicati, dopo il volume dei Fuochi fatui (1956), ad esili raccolte di prose: Gocce (1963), Il "Nostro" e nuove Gocce (1964), Contagocce 1965), Bolle di sapone (1966), Vedute di Genova (1966), Quisquilie (1967).
Conosce nel 1961 Arrigo Bugiani e inizia la collaborazione ai Libretti di Mal'aria.
Aggravatosi il suo stato di salute viene ricoverato all' Ospedale S. Paolo di Savona dove muore il 31 ottobre 1967.

Poetica
La poetica di Sbarbaro, leopardiana nei toni crepuscolari, viene assimilata a quella di altri poeti liguri come Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Mario Novaro, Giovanni Boine ma, soprattutto, al Montale di Ossi di seppia (che a Sbarbaro dedicò una sezione di questa raccolta).
Ugualmente Sbarbaro fu in grado di descrivere con leggere pennellate poetiche il paesaggio della sua terra, quella Liguria tanto amata dalla quale non volle mai staccarsi. Scrittore di controllatissima misura, scevro da ogni retorica ma capace di una essenzialità e di una visionarietà poetica scarna quanto profondamente suggestiva, Sbarbaro fu anche traduttore di importanti classici, da Eschilo a Sofocle, da Euripide ad Erodoto e Pitagora, ma anche di Molière, Stendhal, Balzac, Maupassant, Flaubert, Zola, Joris-Karl Huysmans.

La passione per la botanica
Appassionato di licheni, pubblicò inoltre vari Contributi lichenologici. La sua importante collezione di licheni è stata da lui stesso donata al Museo di Storia Naturale di Genova. Molti campioni da lui raccolti e catalogati sono custoditi presso musei botanici e dipartimenti universitari europei ed americani. Molto importante il suo contributo alla collezione del Field Museum di Chicago, negli USA. Delle 127 nuove specie descritte da Sbarbaro, una ventina porta il suo nome.

Estratti
"Ora che sei venuta,
che con passo di danza sei entrata
nella mia vita
quasi folata in una stanza chiusa -
a festeggiarti, bene tanto atteso,
le parole mi mancano e la voce
e tacerti vicino già mi basta"
C. Sbarbaro, da "Ora che sei venuta" ("Rimanenze", 1955)


"Capisco, adesso, perché questa passione
ha attecchito in me così durevolmente:
rispondeva a ciò che ho di più vivo,
il senso della provvisorietà.
Sicché, per buona parte della vita, avrei raccolto,
dato nome, amorosamente messo in serbo....
neppure delle nuvole o delle bolle di sapone
- che per un poeta sarebbe già bello;
ma qualcosa di più inconsistente ancora:
delle effervescenze, appunto."
C. Sbarbaro. "Licheni"














▪ 1984
- Eduardo De Filippo, noto semplicemente come Eduardo (Napoli, 24 maggio 1900 – Roma, 31 ottobre 1984), è stato un attore teatrale, commediografo, regista teatrale e cinematografico italiano, fra i massimi esponenti della cultura italiana del Novecento. Senatore a vita della Repubblica e cavaliere di gran croce.

«Quando sono in palcoscenico a provare, quando ero in palcoscenico a recitare... è stata tutta una vita di sacrifici. E di gelo. Così si fa il teatro. Così ho fatto!» (Dall'ultimo discorso pubblico al Teatro di Taormina, 1984)

Figlio d'arte
Figlio naturale dell' attore e commediografo Eduardo Scarpetta e della sarta teatrale Luisa De Filippo, Eduardo e i suoi fratelli furono riconosciuti come figli dalla madre di cui assunsero il cognome De Filippo. Eduardo Scarpetta, sposato il 16 marzo 1876 con Rosa De Filippo, da cui ebbe tre figli: Domenico, Maria e Vincenzo, ebbe una relazione extra-coniugale con Luisa De Filippo (figlia di Luca, fratello di Rosa De Filippo) da cui nacquero Titina, Peppino e Eduardo.
Eduardo nasce a Napoli nel quartiere Chiaia, (secondo alcuni in via dell'Ascensione n. 3, per altri in via Giovanni Bausan n. 15). A soli quattro anni è condotto per la prima volta su un palcoscenico, portato in braccio da un attore della compagnia di Scarpetta, Gennaro Della Rossa, in occasione di una rappresentazione dell'operetta La Geisha, al Teatro Valle di Roma.
Cresce nell'ambiente teatrale napoletano insieme ai fratelli Titina, la maggiore, che aveva già agli inizi degli anni '10 un suo posto nella compagnia di Vincenzo Scarpetta (uno dei figli legittimi di Scarpetta) e Peppino, il più piccolo che assieme ad Eduardo di tanto in tanto viene convocato per qualche apparizione in palcoscenico.
Nel 1912 i De Filippo vanno ad abitare in via dei Mille, e sia Eduardo che Peppino vengono mandati a studiare al Collegio Chierchia, a Foria; qui, tra tentativi di fughe ed insofferenze varie, il piccolo Eduardo inizia a dilettarsi nella scrittura, producendo la sua prima poesia, con versi scherzosi dedicati alla moglie del direttore del collegio. Rientrato a casa, parte per Roma in cerca di indipendenza economica, ospite di una zia ed in cerca di qualche lavoretto nell'ambiente cinematografico, ma senza successo. Tornato a Napoli si cimenta nelle sue prime prove d'attore: prima recita nella rivista di Rocco Galdieri, poi nella compagnia di Enrico Altieri, quindi in altre compagnie come la Urciuoli-De Crescenzo e la Compagnia Italiana. Ed è così che, tra un teatro e l'altro (San Ferdinando, Orfeo, Trianon) conosce Totò, che sarebbe diventato un suo grande amico.

Nella compagnia di Vincenzo Scarpetta
Nel 1914 Eduardo entra stabilmente nella compagnia del fratellastro Vincenzo Scarpetta, raggiungendo così la sorella Titina; tre anni dopo, con l'ingresso nella compagnia di Peppino, i tre fratelli si ritrovano a recitare insieme. Alla fine della guerra, Eduardo presta servizio di leva nei Bersaglieri (II Reggimento, di stanza a Trastevere) ed è incaricato dal comando di organizzare piccole recite per i soldati, di cui è anche autore oltre che attore e direttore di compagnia. Durante questo periodo matura sempre di più la voglia e la capacità di essere anche autore e regista oltre che attore, giungendo a scrivere nel 1920 la sua «prima commedia vera e propria», Farmacia di turno, atto unico dal finale amaro rappresentato l'anno successivo dalla compagnia di Vincenzo Scarpetta.
Dal fratellastro, Eduardo eredita, tra l'altro, anche quella severità e quel rigore che lo caratterizzeranno per tutta la vita sul lavoro e nei rapporti con gli altri, caratteristiche sovente enfatizzate da una sorta di leggenda ma che hanno senza dubbio un fondo di verità. Vincenzo Scarpetta propone in quell'epoca un repertorio essenzialmente basato sulle commedie del celebre padre oltre a ad altre commedie, a spettacoli di rivista e a sparute incursioni nel cinema, riscuotendo un buon successo di critica e di pubblico.
Nel 1922 scrive Ho fatto il guaio? Riparerò! che va in scena al Teatro Fiorentini quattro anni dopo e che prende in seguito il titolo definitivo di Uomo e galantuomo; in questa commedia, tra le più comiche del repertorio eduardiano, l'autore introduce del temi che saranno una costante in numerose opere successive, come la pazzia (vera o presunta) e il tradimento, con un vago sentore pirandelliano che riporta al Ciampa de Il berretto a sonagli, seppur seguendo nella struttura del testo, il modello scarpettiano della farsa tradizionale. Curiosa la citazione che Eduardo inserisce nella commedia, quasi a mo' di rivalsa, del lavoro di Libero Bovio Mala nova e che il drammaturgo e poeta napoletano non gradì.
Il rilievo che Eduardo acquisisce nella compagnia di Scarpetta è già notevole, nonostante la giovane età; ciò lo porta anche a maturare, specie nelle stagioni teatrali estive, esperienze diverse come le recite con i cosiddetti "seratanti" nel 1921 o come la messa in scena di Surriento gentile, idillio musicale di Enzo Lucio Murolo opera per la quale Eduardo cura, per la prima volta nella sua lunga carriera, la regia (16 settembre 1922).
Dopo la morte di Eduardo Scarpetta (29 novembre 1925), Eduardo va a convivere con una giovane di nome Ninì, per la quale compone alcune poesie d'amore (tra cui E mmargarite, la più antica tra quelle in seguito pubblicate); viene raggiunto quindi dal fratello Peppino, che nel frattempo ha recitato senza alcun positivo riscontro economico, con la Compagnia Urciuoli, e che forse spera di poter anch'egli essere scritturato da Scarpetta. Ma Eduardo decide di tentare l'avventura del teatro in lingua e si fa scritturare nella compagnia di Luigi Carini come attore "brillante" convincendo l'impresario a prendere anche Peppino. Ma Peppino ci ripensa per entrare nella Compagnia Vincenzo Scarpetta come sostituto del fratello. La parentesi dura poco ed Eduardo rientra nei ranghi, scrivendo nel 1926 Requie a l'anema soja (poi diventata I morti non fanno paura) in cui recita vestito da "vecchio"; così dirà, molti anni dopo in un'intervista: «Non vedevo l'ora di diventare vecchio: così, pensavo, non avrò più bisogno di truccarmi. E poi, se faccio il vecchio da adesso, lo posso portare avanti. Se invece mi metto a fare il giovane, presto diranno: "È invecchiato!"». Il tema della pazzia, stavolta vera e non presunta, torna prepotentemente nella commedia successiva, dal titolo emblematico di Ditegli sempre di sì che la compagnia di Scarpetta rappresenterà per la prima volta nel 1927.

Le prime esperienze in proprio
Al termine della stagione teatrale del 1927, Eduardo tenta un esperimento "in proprio", mettendo su una sorta di cooperativa d'attori senza produttore nè finanziatore diretti, e per la quale chiama i fratelli Peppino e Titina a recitare in un sodalizio artistico con Michele Galdieri (amico di Eduardo e figlio del poeta Rocco); nasce così la Compagnia Galdieri-De Filippo, di cui Eduardo è il direttore, che debutta con successo al Fiorentini di Napoli il 27 luglio con lo spettacolo dal titolo scaramantico La rivista ...che non piacerà.
In quel periodo Eduardo conosce Dorothy Pennington ("Dodò"), un'americana di Philadelphia di cui si innamora, nonostante l'avversione della famiglia di lei, e che sposa a Roma con il rito evangelico il 12 dicembre 1928. Intanto proseguono i tentativi di mettersi in proprio assieme ai fratelli e ancora come attore, autore e capocomico lavora nella De Filippo - Comica Compagnia Napoletana d'Arte Moderna. Sempre nel 1928 scrive l'atto unico Filosoficamente, che propone una sorta di ritratto della rassegnazione di un piccolo borghese; il testo però è il solo dell'autore napoletano a non essere mai stato portato sulla scena.
Nel 1929, usando degli pseudonimi (R. Maffei, G. Renzi e H. Retti), Eduardo e Peppino mettono in scena lo spettacolo comico Prova generale. Tre modi di far ridere, lavoro in tre atti con prologo ed epilogo di Galdieri, rappresentato al Fiorentini. Numerose saranno negli anni a venire, le volte in cui Eduardo si firmerà, come autore teatrale con vari pseudonimi (tra i più noti, Tricot, Molise, C. Consul); ciò al fine di superare le difficoltà che aveva in quegli anni a farsi riconoscere dagli impresari i suoi diritti d'autore.

"La Ribalta Gaia"
Ma ben presto, Eduardo, Peppino e Titina vengono chiamati dall'impresario della Compagnia Molinari, appena privatasi dell'apporto di Totò che vi aveva recitato, a costituire una ditta autonoma all'interno della compagnia stessa, la Ribalta Gaia, assieme a Pietro Carloni, Carlo Pisacane, Agostino Salvietti, Tina Pica e Giovanni Bernardi. I tre ottennero un buon successo nella rivista Pulcinella principe in sogno.... Ed è all'interno dello spettacolo che viene inserita, come sketch, Sik-Sik, l'artefice magico, tra le commedie più riuscite del periodo giovanile eduardiano, rappresentata al Teatro Nuovo nel 1929 (secondo alcuni nel 1930). Lo spettacolo, che narra con ilarità malinconica i risvolti amari della vita di un artista tormentato, povero e anche un po' filosofo, ottiene a Napoli un clamoroso successo di critica e di pubblico che viene in parte a mancare nella successiva rappresentazione estiva a Palermo, dove Titina, inadatta al ruolo per lei non consono di soubrette, viene fischiata.
Eduardo è lanciato verso il successo e collabora anche agli altri copioni della Compagnia Molinari, come autore (con Mario Mangini in Follia dei brillanti e La terra non gira, con Carlo Mauro in La signora al balcone, con Mangini e Mauro in C'era una volta Napoli, Le follie della città, E' arrivato 'o trentuno, S'è 'nfuocato o sole!, Cento di questi giorni e Vezzi e riso).

Il Teatro Umoristico "I De Filippo"
Dal 1931 finalmente il sogno dei tre fratelli d'arte di recitare assieme in una compagnia tutta loro diventa realtà. Eduardo fonda, raccogliendo l'adesione dei fratelli, la compagnia del Teatro Umoristico "I De Filippo", che debutta con successo a Roma. Dopo alcune recite a Milano, la compagnia è a Napoli al Teatro Kursaal (poi Filangieri) dove rappresentano O chiavino di Carlo Mauro, Sik-Sik e per la prima volta la commedia scritta da Peppino Don Rafele 'o trumbone. Vanno quindi in scena l'adattamento L'ultimo Bottone (di Munos Seca e Garcia Alvarez) e una nuova commedia scritta da Eduardo dal titolo Quei figuri di trent'anni fa (titolo originario mutato per la censura, La bisca). Gli ultimi giorni dell'estate i De Filippo sono a Montecatini dove presentano alcuni sketch assieme alla soubrette emergente Ellen Meis, senza riscuotere particolare successo, prima di tornare a recitare per l'ultima volta con la Molinari. Il 1931 è anche l'anno in cui Eduardo presenta, sotto lo pseudonimo di Tricot, Ogni anno punto e da capo, in occasione di una serata della festa di Piedigrotta dedicata alla canzone al Teatro Reale, la cui prima rappresentazione avviene al Teatro Nuovo, all'interno dello spettacolo di rivista Cento di questi giorni, in occasione di una serata in onore del fratello Peppino. La scatenata verve comica dei tre fratelli risaliva alle forme farsesche dell'antica commedia dell'Arte, che Eduardo conosceva bene avendola studiata e non condividendone la visione che gli studiosi avevano di essa: si dimostrò, infatti, critico verso l'agiografia degli attori che ne veniva fatta.

Natale in casa Cupiello
La commedia forse più nota di Eduardo, Natale in casa Cupiello, portata in scena per la prima volta al Teatro Kursaal di Napoli, il 25 dicembre 1931, segna di fatto l'avvio vero e proprio della felice esperienza della Compagnia del "Teatro Umoristico I De Filippo", composta dai tre fratelli e da attori già famosi o giovani alle prime armi che lo diventeranno (Agostino Salvietti, Pietro Carloni, Tina Pica, Dolores Palumbo, Luigi De Martino, Alfredo Crispo, Gennaro Pisano). A giugno Eduardo aveva firmato un contratto con l'impresario teatrale che lo impegnava per soli nove giorni di recite per presentare il suo nuovo atto unico subito dopo la proiezione di un film. Il successo della commedia fu tale che la durata del contratto fu prolungata sino al 21 maggio 1932. Nata come atto unico (l'odierno 2°), Eduardo aggiunse alla commedia altri due atti, quello di apertura (nel 1932 o 1933) e quello conclusivo, dalla cronologia piuttosto controversa (per alcuni fu scritto nel 1934, secondo altri addirittura nel 1943, secondo un'ipotesi più probabile ed avallata più tardi anche dallo stesso autore che però definirà anche più tardi la commedia come «parto trigemino con una gravidanza durata quattro anni»). Nel Natale eduardiano tutto ruota attorno ad un pranzo natalizio che viene scosso da un dramma della gelosia. Sullo sfondo, il ritratto tragicomico del protagonista, Luca Cupiello, figura ingenua di un vecchio con comportamenti fanciulleschi ed immerso nelle sue fantasie e nel suo amore per il presepe, cui si dedica con passione, apparentemente incurante delle tragiche vicende familiari che gli ruotano attorno. Aspetti autobiografici sono rilevabili nella commedia, sebbene mai confermati dall'autore: i nomi dei protagonisti, Luca e Concetta, sono i medesimi infatti dei nonni di Eduardo.

L'avanspettacolo
Il prolungamento del contratto al Kursaal costringe la compagnia ad un superlavoro, dovendo cambiare spettacolo in cartellone praticamente ogni settimana, come consuetudine in quegli anni di avanspettacolo, dove si recitava subito dopo la proiezione di un film. Numerosi sono i lavori portati in scena: oltre a Natale in casa Cupiello, la compagnia proponeva sovente Sik-Sik, Quei figuri di trent'anni fa oppure commedie in collaborazione con Maria Scarpetta, sorellastra di Eduardo, come Parlate al portiere, Una bella trovata, Noi siamo navigatori, Il thè delle cinque, Cuoco della mala cucina. Curioso è l'episodio della parodia di Cavalleria rusticana che la compagnia portava in scena e che turbò Pietro Mascagni al punto da farne bloccare le repliche. Nell'estate del 1932, la compagnia si trasferisce al cinema-teatro Reale mietendo un buon successo di pubblico e di critica; i tre fratelli vengono ormai chiamati semplicemente con il loro nome di battesimo, Eduardo, Peppino e Titina.

Al Sannazaro
Proprio quando i piccoli cinema-teatri dell'avanspettacolo iniziano a stare stretti alla compagnia "I De Filippo", e nello stesso tempo in cui Eduardo e Peppino sono impegnati con Tito Schipa nella lavorazione nel film Tre uomini in frac di Mario Bonnard, l'impresario del Teatro Sannazaro li scrittura per la stagione del celebre teatro napoletano. Il nuovo sodalizio, che perde Salvietti ma mantiene tra gli altri, Carloni e Pisano, vede una maggiore presenza di Titina come prima attrice della compagnia; il debutto è datato 8 ottobre 1932 con Chi è cchiu' felice 'e me! (due atti di Eduardo, scritta nel 1929) e Amori e balestre (atto unico di Peppino). Si inizia così a formare un primo "repertorio eduardiano" che la compagnia "I De Filippo" porta sulle scene, alternandolo con lavori scritti da Peppino e Titina stessi o da Maria Scarpetta, Ernesto Murolo e Gino Rocca.

La conquista dell'Italia
Eduardo inizia a sentire il bisogno di abbandonare il "provincialismo" napoletano della compagnia e, anche spinto da benevoli spunti della critica decide che è giunto il momento per la sua compagnia di operare il decisivo salto di qualità per iniziare a calcare i più prestigiosi teatri italiani. Fu decisivo in tal senso l'incontro casuale con Luigi Pirandello, che ebbe come conseguenze una grande interpretazione dell'opera Berretto a sonagli nei panni di Ciampa (1936), la messa in scena di Liolà e la scrittura della commedia L'abito nuovo.

Il 20 dicembre 1944 recitò per l'ultima volta, al teatro Diana di Napoli, accanto a Peppino, con il quale esplose il diverbio finale: quindi fondò la nuova compagnia teatrale che si chiamò semplicemente "Il Teatro di Eduardo".

La ricostruzione del Teatro San Ferdinando
Nel 1948 egli acquistò il semidistrutto Teatro San Ferdinando di Napoli, investendo tutti i suoi guadagni nella ricostruzione di un antico teatro ricco di storia, mentre Napoli viveva una triste stagione all'insegna della più assurda speculazione edilizia. Il San Ferdinando fu inaugurato il 22 gennaio 1954 con l'opera Palummella zompa e vola. Eduardo cercò di salvaguardare la facciata settecentesca dello stabile realizzando all'interno un teatro tecnicamente all'avanguardia per farne una "casa" per l'attore e per il pubblico. Al San Ferdinando interpretò le sue opere, ma mise in scena anche testi di autori napoletani per recuperare la tradizione e farne un "trampolino" per un nuovo Teatro.
Adottò il parlato popolare, conferendo in questo modo al dialetto napoletano la dignità di lingua ufficiale, ma elaborò una lingua teatrale che travalicò napoletano ed italiano per diventare una lingua universale. Non vi è dubbio che l'azione e l'opera di Eduardo De Filippo siano state decisive affinché il "teatro dialettale", precedentemente giudicato di second'ordine dai critici, fosse finalmente considerato un "teatro d'arte".
Tra le opere più significative di questo periodo meritano una citazione particolare Napoli milionaria! (1945), Questi fantasmi! e Filumena Marturano (entrambi del 1946), Mia famiglia (1953), Bene mio e core mio (1956), De Pretore Vincenzo (1957), Sabato, domenica e lunedì (1959) scritto apposta per l'attrice Pupella Maggio nei panni della protagonista.

L'impegno politico
Eduardo non abbandonò mai il suo impegno politico e sociale che lo vide in prima linea anche ad ottant'anni quando, nominato senatore a vita lottò in Senato e sul palcoscenico per i minori rinchiusi negli istituti di pena. Nel 1962 partì per una lunga tournée in Unione Sovietica, Polonia ed Ungheria dove poté toccare con mano la grande ammirazione che pubblico ed intellettuali avevano per lui.
Tradotto e rappresentato in tutto il mondo, combatté negli anni sessanta per la creazione a Napoli di un teatro stabile. Continuò ad avere successo e nel 1963 gli venne conferito il "Premio Feltrinelli" per la rappresentazione Il sindaco del rione Sanità (da cui nel 1997 sarà tratto un film interpretato da Anthony Quinn).
Del 1973 è Gli esami non finiscono mai, allestito con successo per la prima volta a Roma: tale commedia gli permise di vincere il "premio Pirandello" per il teatro l'anno successivo. Dopo aver ricevuto due lauree honoris causa (prima a Birmingham nel 1977 e poi a Roma nel 1980) nel 1981 fu nominato senatore a vita e aderì al gruppo della Sinistra Indipendente.
Quando morì, la camera ardente venne allestita al Senato e dopo le solenni esequie trasmesse in diretta televisiva e il commosso saluto di oltre trentamila persone fu sepolto al cimitero del Verano.
Nel teatro italiano, la lezione di Eduardo resta imprescindibile non solo per quanto concerne la contemporanea drammaturgia napoletana (Annibale Ruccello ed Enzo Moscato) e tutta quella fascia di "spettacolarità" tra cinema-teatro-televisione che ha riconosciuto in Massimo Troisi il proprio campione; ma tracce dell'influenza di Eduardo si riconoscono anche in Dario Fo ed in tutta una serie di giovani "attautori" come Ascanio Celestini (soprattutto in merito al linguaggio) o di personalità sconosciute al grande pubblico che lavorano nell'ambito della "ricerca" (si ricordi ad esempio Gaetano Ventriglia).

Il cinema
Dal 1932 Eduardo De Filippo entrò prepotentemente anche nel mondo del grande schermo, sia come attore che come regista (ed occasionalmente anche come sceneggiatore): il suo esordio sul set avvenne con Tre uomini in frac di Mario Bonnard (1932). Eduardo venne scritturato assieme al fratello Peppino da Giuseppe Amato che li aveva visti recitare al Teatro Kursaal di Napoli. Il film aveva come protagonista il celebre cantante Tito Schipa al quale i due fratelli fanno da spalla. La prima regia di Eduardo fu nel film, di cui fu anche interprete, In campagna è caduta una stella del 1940.
Amico e collaboratore di Vittorio De Sica, per Vittorio egli inventò alcuni personaggi divertenti in alcune pellicole (Tempi nostri e L'oro di Napoli) e curò la sceneggiatura di Matrimonio all'italiana (1964), remake di Filumena Marturano, film diretto da Eduardo nel 1951 con lui e la sorella Titina protagonisti. Nel 1950 diresse e interpretò con Totò Napoli milionaria!.
Dopo la regia di Spara forte, più forte... non capisco! del 1966 Eduardo abbandonò il cinema per dedicarsi alla TV, per la quale ripropose le sue commedie per tutto il decennio successivo e, nel 1984, l'anno della sua morte, interpretò il suo ultimo ruolo: il vecchio maestro nello sceneggiato Cuore, diretto da Luigi Comencini e tratto dal libro di Edmondo De Amicis.
Eduardo avrebbe dovuto partecipare al film Porno-Teo-Kolossal di Pier Paolo Pasolini, rimasto incompiuto per la morte prematura dell'intellettuale bolognese.

Vita privata
La vita privata di Eduardo, frenetica e confusa nel periodo pre-bellico, trovò invece pace e serenità negli anni della vecchiaia.
Tre sono state le donne importanti e straordinarie nella sua vita: Dorothy Pennington (una giovane e colta americana che sposò nel 1928; il matrimonio fu annullato nel 1952 con sentenza del tribunale della Repubblica di San Marino, poi convalidata anche da quello di Napoli nel 1955), Thea Prandi (madre dei suoi figli Luisa e Luca, sposata il 2 gennaio 1956) e, infine, Isabella Quarantotti, scrittrice e sceneggiatrice che sposò nel 1977.
Nel corso di pochi anni sopportò gravi lutti familiari: prima la morte della figlia Luisella, nel 1960, poi quella della moglie (da cui si era peraltro separato l'anno prima), nel 1961, ed infine l'addio alle scene (1953) e la morte (1963) di Titina, la sorella da sempre "ago della bilancia" tra le forti personalità di Eduardo e di Peppino. Il 4 marzo 1974, in seguito a un malore durante una rappresentazione scenica, gli fu applicato un pacemaker; tuttavia il 27 marzo era di nuovo sul palcoscenico.

L'incerta riconciliazione
Nonostante le voci di riconciliazione con il fratello Peppino in occasione della malattia di questi nel 1980, ripetute anche di recente dal figlio Luigi:
«Anni e anni dopo, quando mio padre si ammalò, avvisai Eduardo. Un po' si fece pregare, ma poi riuscii ad accompagnarlo in clinica; li lasciai da soli. Avevano tante cose da dirsi e poco tempo. Devo ammettere che come famiglia siamo stati molto uniti in scena, ma una volta chiuso il sipario, ognuno faceva la sua vita. Ho continuato a vedere Eduardo anche dopo il litigio.»
secondo alcuni scrittori di argomenti teatrali i due fratelli in realtà non riuscirono a ricomporre i propri dissidi. "I giornali scrissero quello che il pubblico voleva leggere".
Anche in occasione della morte di Titina nel 1963, Eduardo e Peppino avevano litigato accesamente, davanti alla sorella defunta e agli attoniti familiari di lei, a proposito del luogo di sepoltura.
Si è scritto che alla notizia del peggioramento delle condizioni di Peppino, Eduardo andò sì a fargli visita ma una volta morto il fratello non partecipò alle esequie e la sera, rivolto al pubblico del teatro Duse di Bologna disse: "Adesso mi manca. Come compagno, come amico, ma non come fratello".

- Indira Priyadarshini Gandhi (Allahabad, 19 novembre 1917 – Nuova Delhi, 31 ottobre 1984) è stata una politica indiana.
Fu l'unica figlia di Kamla e Jawaharlal Nehru, il Primo Ministro dell'India. Prese il nome dal marito Feroze Gandhi, il quale non era in alcun modo imparentato con il Mahatma Gandhi.
Fu nominata Primo Ministro dell'India il 19 gennaio 1966. Nel 1967, per la prima volta, il Partito del Congresso subì un forte calo di consensi dovuto alla forte presenza di correnti di estrema sinistra in alcuni governi regionali. Il partito si divise in due tronconi, uno conservatore e l'altro progressista. In questa situazione di incertezza Indira Gandhi agì in maniera apparentemente non coerente: dapprima usò la forza per abbattere i governi di sinistra dell'Uttar Pradesh e del Bengala Occidentale; successivamente, dopo la vittoria della destra nelle consultazioni elettorali del 1968-69, sembrò assumere posizioni più vicine alle sinistre poiché, nel giro di pochi giorni, procedette alla nazionalizzazione di una decina di banche d'affari al fine di assicurarsi il consenso di socialisti e comunisti in vista delle elezioni presidenziali che si sarebbero tenute nel 1969.
Nel 1975, un tribunale la ritenne colpevole di brogli elettorali e la condannò all'interdizione dai pubblici uffici per sei anni. Nello stesso anno il paese fu attraversato da spinte secessioniste, che portarono la Gandhi a proclamare lo stato d'emergenza nazionale e a prendere misure severe contro le opposizioni.
Quando il paese tornò alle urne nel 1977, il suo partito venne sconfitto e Indira, un anno dopo, fu addirittura incarcerata per alcuni giorni.
Ma si riorganizzò e in pochi mesi fondò un nuovo partito, il Congresso nazionale indiano (Indian National Congress), che vinse le elezioni del gennaio 1980 e le consentì di ritornare alla guida del governo. Il suo secondo mandato iniziò il 14 gennaio di quell'anno.
All'inizio degli anni '80 si sviluppa in India un movimento estremista sikh che vuole l'indipendenza del Punjab indiano. Durante la sommossa, gli irriducibili del gruppo estremista si rifugiano nel Tempio d'oro d'Amritsar. Indira Gandhi decide d'intervenire con l'esercito, ed espugna il Tempio sacro dei sikh con un bombardamento e una sanguinosa occupazione.

L'assassinio
Indira Gandhi morì in un attentato nel 1984 da parte di due delle sue guardie del corpo di etnia sikh.
La sera del 30 ottobre, la Gandhi era tornata solo da qualche ora da uno stancante giro elettorale nell'Orissa. In quell'occasione aveva concluso il discorso con queste parole:
«Non ho l'ambizione di vivere a lungo, ma sono fiera di mettere la mia vita al servizio della nazione. Se dovessi morire oggi, ogni goccia del mio sangue fortificherebbe l'India.»

La mattina del 31 ottobre del 1984, alle 9.08, Indira scese i tre gradini della residenza per raggiungere il giardino. Vestita di un sari arancione (uno dei colori della bandiera nazionale dell'India) si avviò verso due guardie sentinella responsabili della sua sicurezza, e fece loro un cenno di saluto. I due uomini con la barba, indossavano il tipico turbante sikh. La Gandhi conosceva bene uno dei due, quello più vecchio, Beant Singh, di circa quarant'anni. L'altro era il ventunenne Satwant Singh, in servizio da pochi mesi.
Solo qualche settimana prima, un generale, Ashwini Kumar, che aveva ricoperto un ruolo importante nella polizia, le disse:
«Signora, escluda i sikh dal suo servizio di sicurezza»
Le ricordò inoltre come la comunità sikh giurò vendetta per la repressione subita al Tempio d'oro. Ma Indira Gandhi si sentiva molto sicura dei suoi uomini, specie di Beant Singh, e rispose:
«Finché avrò la fortuna di avere accanto a me sikh come lui, non avrò niente da temere.»
All'insistere del generale, la Gandhi rispose:
«Come possiamo pretendere di fare dell'India uno Stato laico, se scegliamo le persone in base alla loro comunità?»
Non appena ebbe salutato le due guardie, il più vecchio, Beant Singh, impugnando una P38 esplose tre colpi in direzione del primo ministro dell'India. Immediatamente, anche Satwant Singh esplose tutte le trenta pallottole del suo mitra Sten. Non meno di sette proiettili la colpirono all'addome, una decina il petto, alcuni perforarono il cuore. Indira Gandhi non ebbe neanche il tempo di gridare, morì sul colpo.
I giorni seguenti per l'India e il popolo indiano, furono giorni di lutto, di tragedia, di disperazione, di disorientamento: l'India era rimasta orfana. La celebrazione del funerale fu un evento tragico ma di una portata gigantesca.

▪ 1993 - Federico Fellini (Rimini, 20 gennaio 1920 – Roma, 31 ottobre 1993) è stato un celebre regista e sceneggiatore italiano.

«Il visionario è l'unico realista.» (Federico Fellini)

È considerato universalmente come uno dei maggiori protagonisti della storia del cinema mondiale. Già vincitore di quattro premi Oscar per il miglior film straniero, per la sua attività da cineasta gli è stato conferito nel 1993 l'Oscar alla carriera.
Nell'arco di quasi quarant'anni - da Lo sceicco bianco del 1952 a La voce della luna del 1990 - Fellini ha "ritratto" in decine di lungometraggi una piccola folla di personaggi memorabili. Definiva se stesso "un artigiano che non ha niente da dire, ma sa come dirlo". Ha lasciato opere indimenticabili, graffianti, ricche di satira ma anche velate di una sottile malinconia. I titoli di tre dei suoi più celebri film, La strada, La dolce vita, e Amarcord - sono diventati dei topoi citati, in lingua originale, in tutto il mondo.

Infanzia e giovinezza
Federico Fellini nasce a Rimini da una famiglia borghese. La madre, Ida Barbiani, romana del rione Esquilino, era casalinga e il padre, Urbano, era un rappresentante di liquori, dolciumi e generi alimentari di Gambettola, cittadina situata a poco più di 20 km ad ovest di Rimini. Federico segue studi regolari, frequentando il Liceo Classico «Gambalunga» e rivela già il proprio talento nel disegno, che manifesta sotto forma di vignette e caricature di compagni e professori. Il suo disegnatore preferito era l'americano Winsor McCay, inventore del personaggio «Little Nemo». Ispirandosi al celebre personaggio, nella sua camera da letto aveva costruito con l'immaginazione un mondo inventato, in cui immaginava le storie che voleva vivere e vedere al cinema. Ai quattro montanti del suo letto aveva dato i nomi dei quattro cinema di Rimini: di lì, prima di addormentarsi, prendevano forma le sue storie immaginifiche.
Già prima di terminare la scuola, nel corso del 1938, Fellini prova delle collaborazioni con giornali e riviste. La Domenica del Corriere gli pubblica alcune vignette nella rubrica Cartoline dal pubblico, ma la collaborazione più duratura è quella che riesce a instaurare con il periodico edito da Nerbini Il 420, per cui pubblica numerose vignette e rubrichette umoristiche, sino alla fine del 1939. Agli inizi del 1939 si trasferisce a Roma con la scusa di frequentare l'Università, in realtà per seguire l'aspirazione di dedicarsi alla professione di giornalista.

Gli esordi
Fellini giunge nella capitale seguito dalla madre Ida (che nella città ha i suoi parenti) e dai due fratelli Riccardo e Maddalena (allora piccolissima); prende alloggio in via Albalonga, fuori porta San Giovanni (nel quartiere Appio Latino). Si iscrive alla Facoltà di Giurisprudenza.
Le prime esperienze del giovane Fellini rivelano che il suo obiettivo professionale non era tanto diventare avvocato (non sosterrà mai un esame) quanto intraprendere il lavoro di giornalista. Federico Fellini esordisce infatti, pochi mesi dopo il suo arrivo a Roma, nell'aprile del 1939, sul Marc'Aurelio [1], la principale rivista umoristica italiana, nata nel 1931 e diretta da Vito De Bellis. Collabora come disegnatore satirico, ideatore di numerose rubriche (tra cui È permesso…?), vignettista, e autore delle celebri "Storielle di Federico", divenendo ben presto una firma di punta del quindicinale.
Il successo al Marc'Aurelio si traduce in buoni guadagni e inaspettate offerte di lavoro. Fellini fa conoscenza con personaggi a quel tempo già noti. Inizia a scrivere copioni e gag di sua mano. Collabora ad alcuni film di Erminio Macario: Imputato, alzatevi! e Lo vedi come sei... lo vedi come sei? del 1939; Non me lo dire! e Il pirata sono io del 1940 [2]; scrive le battute per gli spettacoli dal vivo di Aldo Fabrizi.
Nel 1941 Fellini viene chiamato a collaborare con l'EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche). Fellini scrive per la radio una novantina di copioni, fra presentazioni di programmi musicali, riviste radiofoniche e brevi scenette [3].
Nel 1942 Fellini incontra negli studi dell'EIAR Giulietta Masina [4]. Già nel luglio 1943 la coppia si presenta ai genitori di lei. Dopo l'8 settembre 1943 la loro unione conosce un'accelerazione: Fellini, invece di rispondere alla chiamata alla leva, convola a nozze con Giulietta il 30 ottobre. Nei primi mesi vivono insieme nella casa della zia della moglie, Giulia, in via Lutezia. La zia di Giulietta era benestante (la sua famiglia possedeva a Milano il calzaturificio «Di Varese» ed era vedova di Eugenio Pasqualin, preside del Liceo Tasso della capitale).
Intanto il sodalizio artistico era già avviato: dal 1942 la giovane studentessa di Lettere nonché attrice interpreta il personaggio di Pallina, prima fidanzata e poi moglie bambina di Cico. Le disavventure della giovane coppia vengono trasmesse all'interno della rivista radiofonica Terziglio per riprendere nel dopoguerra in una serie autonoma intitolata Le avventure di Cico e Pallina, chiusa dopo quattordici puntate nel febbraio del 1947. La Masina e Fellini ebbero un figlio, Pier Federico detto Federichino, nato il 22 marzo 1945 e morto appena dodici giorni dopo la nascita, il 2 aprile.
Agli inizi degli anni quaranta (1941-1942) conosce Tullio Pinelli, scrittore per il teatro. In breve nasce un sodalizio professionale: Fellini elabora idee e schemi, Pinelli li dispone dentro una struttura testuale. In quegli anni Fellini e Pinelli firmano come sceneggiatori i primi grandi successi di Aldo Fabrizi, fra cui nel 1942 Avanti c'è posto... e Campo de' fiori di Mario Bonnard. Nel 1944, in tempo di guerra, Fellini dipinge caricature ai soldati alleati in un locale in una traversa di via del Corso, via Margutta, insieme al giornalista Guglielmo Guasta ed ai pittori Carlo Ludovico Bompiani e Fernando Della Rocca.
Nel 1945 avviene il decisivo incontro con Roberto Rossellini. Fellini collabora alle sceneggiature di Roma città aperta e Paisà, considerate le prime pellicole del Neorealismo italiano. In Paisà Fellini ricopre anche il ruolo di assistente sul set. Sembra provato che, in assenza di Rossellini, giri alcune scene di raccordo (di certo dirige una lunga inquadratura della sequenza ambientata sul Po [5]). Fu il suo battesimo dietro la macchina da presa.
Successivamente Fellini continua a realizzare nuove sceneggiature. Nel 1948 un soggetto realizzato con Pinelli viene messo in scena: "Il miracolo", uno dei due episodi de "L'amore", film diretto da Roberto Rossellini. Nell'episodio Fellini è anche attore. Seguono altri copioni, quali In nome della legge, Il cammino della speranza, La città si difende di Pietro Germi. Ancora, con Alberto Lattuada, scrive la sceneggiatura di Il delitto di Giovanni Episcopo, Senza pietà e Il mulino del Po.

Prime esperienze di regia: Luci del varietà
«Un film che diventerà famoso » (Slogan pubblicitario del film[6])
Nel 1950, Fellini, debutta per la prima volta alla regia firmando a quattro mani Luci del varietà, che dirige in coabitazione con Alberto Lattuada. Oltre alla regia, i due cineasti si cimentano anche come produttori grazie ad un accordo basato su una formula di cooperativa[6]. Il soggetto della pellicola riguarda il mondo dell'avanspettacolo, tema caro a Fellini, e alla sua decadenza. Sul set si respira aria ilare e distesa con Lattuada che dirige principalmente i lavori ma con un Fellini sempre presente e determinante in molte scelte[7]. Una collaborazione alla pari che ha pochi uguali nella storia del cinema.
Il film, nonostante che riceva giudizi positivi da parte della critica, non riscuote gli sperati successi commerciali, piazzandosi al sessantacinquesimo film italiani per incasso durante la stagione 1950-51.
Il pessimo esito finanziario del film lascia un segno pesante sui patrimoni personali di Fellini e Lattuada e ciò contribuirà a raffreddare definitivamente i rapporti tra i due.

Il debutto assoluto come regista: Lo sceicco bianco
« ... Si erano imbarcati tutti in un barcone che era a un chilometro di distanza su un mare immenso. Mi parevano lontanissimi, irraggiungibili. Mentre un motoscafo mi portava verso di loro, il barbaglio del sole mi confondeva gli occhi. Non solo erano irraggiungibili, non li vedevo più. Mi domandavo ‘E ora cosa faccio?...’ Non ricordavo la trama del film, non ricordavo nulla, desideravo tagliare la corda e basta. Dimenticare. Poi, però, di colpo tutti i dubbi mi svanirono quando posai il piede sulla scala di corda. Mi issai sul barcone. Mi intrufolai tra la troupe. Ero curioso di vedere come sarebbe andata a finire » (Federico Fellini a proposito del primo giorno di lavorazione del film[8])

La collaborazione con Nino Rota
In occasione della scelta delle musiche per Lo sceicco bianco, nasce tra Fellini e il compositore Nino Rota un rapporto di collaborazione che coinvolgerà vita e arte di entrambi. Sull'incontro tra i due è nato un aneddoto che racconta che Fellini vide il maestro uscendo dalla Lux mentre questi era alla fermata dei mezzi pubblici e gli chiese quale autobus stesse aspettando. Rota nominò un numero che non passava di là e mentre il regista cercava di spiegarglielo l'autobus si presentò. Questo racconto, per quanto inverosimile, riassume gli ingredienti che caratterizzeranno il rapporto artistico tra i due, fatto di magia, empatia e irrazionalità[9]. Tra i due si instaura immediatamente un’intesa formidabile che li porterà a collaborare per ben diciassette film senza che si registrino discussioni o litigi. Fellini non si dimostrerà mai un amante della musica ma questo non creò difficoltà a Rota che per i film del regista riminese si ben adattò a scrivere marcette dai ritmi marcati e vistosi[9]. L'apice della collaborazione si raggiungerà con la marcetta della scena della passerella finale di 8 1/2; basata su l'entrata dei gladiatori, diventerà l'"inno" del fellinismo[10].

Due anni dopo de Le luci del varietà, Fellini giunge al debutto assoluto come regista, con Lo sceicco bianco, scritto con Tullio Pinelli. Da questo momento in poi l'attività di regista prende il sopravvento su quella di sceneggiatore. La gestione delle riprese da parte di Fellini si realizza in una continua rivisitazione della sceneggiatura con l'arricchimento di situazioni e la dilatazione dei tempi. Questo suo modo di operare lo porterà ad alcuni contrasti con il direttore di produzione Enzo Provenzale[11]. Non si deve pensare a Fellini come un regista improvvisatore e mal organizzato, in realtà dimostra di avere le idee ben chiare sul risultato che vuole ottenere ma risulta essere anche ben disposto ad usare una certa flessibilità se gli vengono nuove idee.
Con questo film, Fellini inaugura - grazie anche alla collaborazione con Ennio Flaiano - uno stile nuovo, estroso, umoristico, una sorta di realismo magico, onirico, che però non viene subito apprezzato[12]. Gli incassi al botteghino si rivelano infatti un completo insuccesso e contribuì al fallimento della casa di produzione di Luigi Rovere.
Anche se non mancarono alcuni giudizi positivi, Callisto Cosulich lo definì "il primo film anarchico italiano", la maggioranza della critica lo stroncò tanto da definirlo "...un film talmente scadente per grossolanità di gusto, per deficienze narrative e per convenzionalità di costruzione da rendere legittimo il dubbio se tale prova di Fellini regista debba considerarsi senza appello"[13].

I vitelloni
«Noi abbiamo passato la seconda metà della vita a cancellare i guasti che l'educazione aveva fatto nella prima » (Federico Fellini[14])

Gli anni cinquanta sono caratterizzati da profondi cambiamenti nella società e in particolare nell'Italia che si avvia verso l'industrializzazione. I film di Fellini girati in questo periodo nascono proprio da questo contesto[15]. Dopo Luci del varietà il regista gira I vitelloni, che racconta la vita di provincia di un gruppo di amici a Rimini. Questa volta, il film, ha un'accoglienza entusiastica. Alla Mostra del cinema di Venezia, dove viene presentato il 26 agosto 1953, l'opera conquista il Leone d'Argento. La fama di Fellini si espande per la prima volta all'estero, il film è infatti campione di incassi in Argentina e riscuote un buon successo anche in Francia, Stati Uniti e Inghilterra[14].
È il 1953 e il regista riminese, poco più che trentenne, fa ricorso - ed è appena al suo secondo film - a episodi e ricordi dell'adolescenza, ricchi di personaggi destinati a restare nella memoria. L'articolazione della trama del film in grandi blocchi episodici, qui per la prima volta sperimentata, sarà una consuetudine di molti suoi film successivi.
Il periodo di preparazione e lavorazione del film è particolarmente piacevole e tutto si svolge senza particolari intoppi, nonostante il budget preventivato dalla produzione sia alquanto modesto[16]. Nonostante molte parti della sceneggiatura hanno un carattere autobiografico descrivendo situazioni e personaggi della sua infanzia, il regista riminese, preferisce distaccarsi dalla realtà inventando una cittadina fittizia mischiando ricordi e fantasia, come farà vent'anni più tardi con la Rimini di Amarcord.
Allo stesso anno risale la collaborazione di Fellini al film a episodi progettato da Cesare Zavattini, Riccardo Ghione e Marco Ferreri L'amore in città: l'episodio diretto dal regista riminese - Agenzia matrimoniale - è, secondo molti critici, il più riuscito. Durante la lavorazione di questo cortometraggio, Fellini, si avvalerà per la prima volta della collaborazione di Gianni Di Venanzo come direttore della fotografia, che poi vorrà avere per 8½ e Giulietta degli spiriti.

Il grande successo: La strada
Il grande successo, anche a livello internazionale, arriva per Felini grazie al film La strada, girato nel 1954. L'idea del film, che porta alla scoperta da parte del regista della sua vocazione cinematografica, si ha intorno al 1952 quando Fellini è alle prese con il montaggio de Lo sceicco bianco[17]. Per motivi strettamente legati alla produzione è però costretto a ritardare il progetto e a girare prima I vitelloni e l'episodio Agenzia matrimoniale ma in testa ha già chiaramente l'idea che lo porterà alla realizzazione del successivo capolavoro.
La scrittura de La strada avviene a partire da delle discussioni con Tullio Pinelli riguardo le avventure di un cavaliere errante per poi focalizzarsi sull'ambiente del circo e degli zingari. Pinelli a tal proposito ricorda:
«Ogni anno, da Roma, andavo in macchina a Torino per rivedere i posti, la famiglia , i genitori. Allora l'Autostrada del Sole non c'era, si passava fra le montagne. E su uno dei passi montani ho visto Zampanò e Gelsomina, cioè un omone che tirava la carretta con un tendone su cui era dipinta una sirena e dietro c'era una donnina che spingeva il tutto. .... Così quando sono tornato a Roma ho detto a Federico: "Ho avuto un'idea per un film". E lui: "Ne ho avuta una anch'io". Stranamente erano idee molto simili, anche lui aveva pensato ai vagabondi, ma la sua era centrata soprattutto sui piccoli circhi di allora... Abbiamo unito le due idee e ne abbiamo ricavato un film » (tullio Pinelli[18])

Il film, ricco di poesia, racconta il tenero ma anche turbolento rapporto fra Gelsomina, interpretata da Giulietta Masina, e Zampanò, interpretato da Anthony Quinn), due strampalati artisti di strada che percorrono l'Italia dell'immediato dopoguerra.
La composizione del cast, a cui si aggiunge Richard Basehart nei panni del Matto, fu oggetto di svariate discussioni ed in particolare i produttori non erano convinti della partecipazione della Masina, ma si dovettero arrendere alla caparbietà del maestro. Tra i vari provini per i ruoli di protagonisti c'è da annoverare quello di Alberto Sordi che però non viene ritenuto idoneo per la parte. L'esito negativo del provino congelerà i rapporti tra i due artisti per molti anni[19].
La realizzazione del film fu lunga e difficoltosa. Il budget a disposizione della troupe era assai limitato tanto da costringere Anthony Quinn, abituato ai fasti delle produzioni hollywoodiane ad adattarsi ad un trattamento più "di fortuna". L'attore, comunque, realizzò fin subito lo spessore artistico della pellicola tanto che in una lettera del 1990 scriverà a Federico e Giulietta: "Per me tutti e due rimanete il punto più alto della mia vita". Tra i vari imprevisti e incidenti che rallentano la realizzazione del film[20] si aggiunge il manifestarsi in Fellini dei primi sintomi della depressione che lo porterà ad avere un malumore incontrollabile[21].
La prima de La strada avviene il 6 settembre 1954 a Venezia. I primi giudizi del film si inseriscono in un contesto di scontro culturale con i neorealisti sostenitori del regista Luchino Visconti che presenta nello stesso periodo il film Senso[22]. Ben altra accoglienza ha il film all'estero e nel 1957 arriva il primo Premio Oscar come Miglior Film Straniero, istituito per la prima volta in quell'edizione, per La strada.
Molti critici hanno provato ad analizzare il film per cercare elementi autobiografici di Fellini, indentificandolo principalmente con Zampanò e vedendo nel suo rapporto con Gelsomina una metafora del matrimonio nell'epoca prefemminista[23]. Una diversa chiave di lettura ce la da la stessa Masina che identifica il marito in tutti e tre protagonisti: Gelsomina è il Federico da bambino che contempla la natura e parla con i fanciulli, il vagabondaggio di Zampanò rappresenta alcune delle sue più peculiari caratteristiche mentre il Matto è il Fellini regista che dichiara "vorrei sempre far ridere"[24].

Il bidone e Le notti di Cabiria
Dopo il successo de La strada sono molti i produttori che si contendono il prossimo film del regista, ma dopo aver letto il soggetto de Il bidone molti si tirano indietro. L'unico che accetta di produrlo è Goffredo Lombardo della Titanus.
L'idea per questa sceneggiatura viene a Fellini dai racconti di un gabbamondo incontrato in una trattoria di Ovindoli durante la lavorazione de La strada. Dopo averne discusso con i collaboratori Pinelli e Flaiano, si cerca l'attore protagonista. Dopo aver scartato molti nomi viene scelto Broderick Crawford, che verrà affiancato da Richard Basehart (il "Matto" de La strada), Franco Fabrizi e Giulietta Masina.
Durante la lavorazione, Fellini appare però distaccato dal film, non sente più ne il divertimento de I vitelloni ne il sapore della sfida de La strada. Il risultato finale appare alla critica e al pubblico modesto. La "prima" avviene il 9 settembre 1955 a Venezia dopo essere stati costretti ad un lavoro di montaggio a tempi di record. La gelida accoglienza avuta alla mostra di Venezia porterà il regista a decidere di non mandare più al Lido nessuno dei suoi lavori, fino a quando presenterà, fuori concorso, Fellini Satyricon nel 1969. Gli incassi sono piuttosto deludenti e anche la distribuzione all'estero non porta i risultati sperati. Alcune delle critiche più ostili parlano di "Un passo falso"[25] o "Non funziona, ma non è trascurabile".
Il successo torna però con il film successivo, Le notti di Cabiria, a cui fa seguito anche il secondo Oscar. Anche in questo caso, protagonista è Giulietta Masina, sempre molto presente nei primi film del regista riminese. Il film conclude il trittico ambientato nel mondo degli umili e degli emarginati.

Collaborazione con Angelo Rizzoli, gli anni de La dolce vita
Negli anni Sessanta la vena creativa di Fellini si esprime con tutte le sue energie, rivoluzionando i canoni estetici del cinema. Appaiono in questo decennio i film più sconvolgenti del regista.
Nel 1960 esce La dolce vita: definita dallo stesso Fellini un film «picassiano» ("comporre una statua per romperla a martellate", aveva dichiarato [26]), la pellicola - che abbandonava gli schemi narrativi tradizionali - destò scalpore e polemiche perché, oltre a illustrare situazioni fortemente erotiche, descriveva con piglio graffiante una certa decadenza morale che strideva con il benessere economico ormai acquisito dalla società italiana [27].
Il produttore iniziale de La dolce vita fu Dino De Laurentiis, che aveva anticipato 70 milioni di lire.[28] Tra il produttore e Fellini avvenne però una rottura e il regista dovette cercare un altro produttore che ripagasse anche l'anticipo di De Laurentiis.[28] Dopo varie trattative con diversi produttori, il duo Angelo Rizzoli e Giuseppe Amato divennero i nuovi produttori della pellicola.[29]
Il rapporto tra Fellini e Rizzoli è tranquillo e gli incontri fra i due sono cordiali.[30] Il budget viene sforato, anche se di poco: Kezich riporta che secondo fonti ufficiali il film non costò più di 540 milioni, che non era una cifra esagerata per una produzione impegnativa come quella de La dolce vita.[30]
Interprete del film, insieme a Marcello Mastroianni, un'"attrice venuta dal freddo", la svedese Anita Ekberg, che sarebbe rimasta - con la scena del bagno nella Fontana di Trevi - nella memoria collettiva: la Ekberg sarà ancora con Fellini nel 1962 in un episodio di Boccaccio '70, «Le tentazioni del dottor Antonio», assieme ad un esilarante Peppino De Filippo. Il film fu premiato con la Palma d'oro al Festival di Cannes.

La consacrazione: 8½
«Mi sento un ferroviere che ha venduto i biglietti, messo in fila i viaggiatori, sistemato le valige nel bagagliaio: ma dove sono le rotaie?» (Federico Fellini durante la preparazione di 8½[31])


Terminati i lavori per le tentazioni del dott. Antonio, Fellini vive un periodo di scarsa ispirazione. In realtà nella sua testa comincia già a girare l'idea di un nuovo film, ma non con un'idea precisa, piuttosto un accumulo di idee vaghe che tentano di mescolarsi tra di loro
Dopo aver trascorso un periodo di riposo presso Chianciano Terme, fa ritorno a Roma con uno spunto per una sceneggiatura: un uomo di mezza età interrompe la sua vita per una cura termale e qui, immerso in un limbo, affronta visite e ricordi. La scelta del protagonista cade quasi subito[32] sull'amico Marcello Mastroianni. Tra i due l'amicizia è reale e intensa tanto che Fellini finirà per identificare nell'attore il suo alter ego cinematografico.
Trovato così il protagonista tutto sembra pronto per iniziare ma sorge un problema di cui Fellini non ha parlato a nessuno: il film non c'è più, l'idea che aveva in testa è sparita. In seguito racconterà che più passavano i giorni più gli sembrava di dimenticarsi il film che voleva fare[33]. Quando è ormai deciso a scrivere una lettera per comunicare la disfatta al produttore Angelo Rizzoli, Fellini viene interrotto da un capo macchina di Cinecittà che lo chiama per festeggiare il compleanno di un macchinista. Tra i festeggiamenti gli arrivano gli auguri per il nuovo film, che ormai non c'è più, ma una volta seduto su una panchina arriva il lampo di genio: il film parlerà proprio di questo, di un regista che voleva fare un film ma non si ricorda più quale, cosicché il protagonista, Guido Anselmi, diventa la proiezione di Fellini stesso[34].
Il film, girato nel 1963, prende il titolo di 8½,poiché questa pellicola viene dopo sette suoi film più un "mezzo" (cioè l'episodio Le tentazioni del dottor Antonio), e in seguito si rivelerà uno dei capolavori, forse il più importante di tutti, del regista. Premiato con un premio Oscar (assieme a quello di Piero Gherardi per i costumi), il film viene ancor oggi considerato uno dei più grandi della storia del cinema, tanto da essere stato inserito dalla prestigiosa rivista inglese Sight & Sound al 9º posto nella graduatoria delle più belle pellicole mai realizzate e al 3º nella classifica stilata dai registi.

Il passaggio definitivo al colore
In Giulietta degli spiriti, ancora con la Masina (1965), Fellini adotta per la prima volta il colore, in funzione espressionistica (il suo primo lavoro a colori rimane comunque Le tentazioni del dottor Antonio).
Il periodo di lavorazione del film è caratterizzato anche da un aumento di interesse, da parte di Fellini, sul soprannaturale. Frequenta molti maghi e veggenti ed in particolare Gustavo Adolfo Rol pittore, dirigente bancario e sensitivo di grande fama[35]. Di questo periodo anche l'esperimento con l'LSD, a scopo terapeutico come proposto dal suo psicoanalista Emilio Servadio[36].
L'accoglienza della critica di Giulietta degli spiriti fu piuttosto tiepida e non nascose una certa delusione. Le critiche più negative si espressero con i termini di velleitario, fasullo, ipertrofico, inadeguato.... Ma non mancarono alcuni elogi e qualcuno, seppur in un piccola minoranza, parlò anche di capolavoro[37]. Il giudizio più spietato proviene dal Centro Cattolico Cinematografico che lo accusa di uno "sgradevole impasto che si fa del sacro e del profano". L'insoddisfazione per i risultati non certo simili alle aspettative andrà anche a creare una incrinatura del rapporto tra il regista e Ennio Flaiano.
Il film successivo, Il Viaggio di G. Mastorna, già in cantiere, non viene realizzato. Fellini, quarantacinquenne, deve pagare pesanti penali. Si riprende prontamente alla fine del decennio. La fine degli anni sessanta e l'inizio dei settanta sono anni di intenso lavoro creativo.
Tornato sul set, dopo aver rinnovato completamente la squadra tecnica e artistica intorno a sé, gira nel 1968 un episodio del film Tre passi nel delirio, l'anno seguente realizza un documentario per la televisione (Block-notes di un regista), cui segue il film Fellini Satyricon (1969). È di nuovo grande successo, i problemi degli anni precedenti sono definitivamente alle spalle.

Amarcord ed altri successi
«Mi sembra che i personaggi di Amarcord, i personaggi di questo piccolo borgo, proprio perché sono così, limitati a quel borgo, e quel borgo è un borgo che io ho conosciuto molto bene, e quei personaggi, inventati o conosciuti, in ogni caso li ho conosicuti o inventati molto bene, diventano improvvisamente non più tuoi, ma anche degli altri » (Federico Fellini a proposito del successo di Amarcord)


La produzione successiva di Fellini segue ancora un ritmo ternario: I clowns (girato per la TV, 1970), Roma (1972) e Amarcord (1973) tutti incentrati sul tema della memoria. L'autore cerca le origini della propria poetica esplorando le tre città dell'anima: il Circo, la Capitale e Rimini [38]. Il film conclusivo della terna, Amarcord («mi ricordo» in dialetto romagnolo) vince l'Oscar, il quarto per il regista riminese. La notizia della vittoria gli arriva nelle prime ore del 9 aprile 1975, mente è impegnato su set de Il Casanova. Fellini decide di non andare a ritirare il riconoscimento che verrà consegnato al produttore.
In particole in Amarcord si trovano molti spunti autobiografici: infatti possiamo riconoscere in Moraldo, il giovane che alla fine del film abbandona il paese natale per andare a vivere in una grande città, il giovane Fellini, che abbandona Rimini verso Roma. Nonostante ciò, il regista, rifiuta di riconoscere nella pellicola qualsiasi riferimento alla propria vita e infanzia asserendo che tuto è frutto della sua immaginazione. Come già nei Vitelloni non c'è una sola scena che sia girata nei pressi della cittadina adriatica[39].

Gli ultimi lavori
«Arrivato sulla soglia della terza età, Fellini come regista è (per sua fortuna e nostra) entrato in quella splendida maturità in cui un mostro sacro riesce a profondere i suoi tesori di bravura per il solo piacere di farlo. Ti lasci portare dalla cavalcata delle invenzioni, e riesci ancora a stupirti (come un ragazzino che ha scoperto da poco il cinema), a ogni sequenza, a ogni inquadratura. Se nella Città delle donne latita la suspense per la storia, o per gli ingredienti (non te ne importa niente di come andranno a finire Snàporaz o Katzone..» (Giorgio Carbone su La Notte a proposito di "La città delle donne")
Dopo Casanova del 1976, considerato da molti come il momento più alto del talento visionario di Fellini regista, sarà il turno di Prova d'orchestra (1979), considerato il suo film più "politico" e maturato durante i cosiddetti anni di piombo e La città delle donne (del 1980). Quest'ultimo viene accolto dalla critica con rispetto, lo si descrive come "tipicamente felliniano", "catalogo di evoluzioni registiche", "gioco con alcuni vuoti"[40]. Presentato fuori concorso al XXXIII Festival di Cannes, riceve invece una critica alquanto negativa.
L'ultimo decennio di attività di Fellini sarà arricchito dagli ultimi capolavori: E la nave va (1983), Ginger e Fred (1985), Intervista (1987), e il lavoro dell'addio al cinema: La voce della luna (1990), da Il poema dei lunatici di Ermanno Cavazzoni. Quest'ultimo film gli darà la possibilità di avere come protagonisti Paolo Villaggio e Roberto Benigni.
Nel 1992, dopo un periodo di inattività, ritorna dietro alla cinempresa per dirigere 3 brevi spot pubblicitari, intitolati Il sogno, per conto della Banca di Roma. In quest'occasione tornerà a lavorare con Paolo Villaggio.

La morte
Nel 1993 ricevette dall'Accademia delle arti e scienze cinematografiche americana il suo ultimo Oscar, il più importante, quello alla carriera. Fellini morì il 31 ottobre dello stesso anno presso il Policlinico Umberto I di Roma, dove era ricoverato per un nuovo ictus dopo quello che lo aveva già colpito nell'Agosto precedente mentre era convalescente nella sua Rimini. Tali complicanze trombo-ischemiche si verificarono dopo l'intervento subito dal grande regista in Svizzera nel mese di Giugno per ridurre un aneurisma della aorta addominale. Il pomeriggio del 18 Ottobre, a causa della possibile disfagia indottagli dai pregressi ictus, un frammento di cibo (mozzarella, per l'esattezza) gli ostruì la trachea causandogli danni irreparabili al cervello per via della conseguente ipossia [41]. Il 30 ottobre avrebbe dovuto celebrare le sue nozze d'oro con la moglie Giulietta Masina.
Furono celebrati i funerali di stato dal cardinale Achille Silvestrini nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri a Roma in Piazza della Repubblica. Alla domanda di Giulietta Masina, il trombettista Mauro Maur esegui l'"Improvviso dell'Angelo" di Nino Rota [42]. Commovente l'ultimo saluto che gli diede la moglie; un "arrivederci a presto" che li avrebbe riuniti pochi mesi dopo (la Masina infatti morì cinque mesi dopo il marito).
Le sue spoglie riposano accanto alla moglie e a quelle del figlio Federichino, morto poco dopo la nascita, nel cimitero di Rimini: sovrasta il luogo dell'inumazione una scultura di Arnaldo Pomodoro dal titolo Le Vele, ispirata al film E la nave va.
A Fellini è intitolato l'Aeroporto Internazionale di Rimini. Il logo dell'aerostazione riporta la caricatura del Maestro, di profilo, con cappello nero e sciarpa rossa. È stato disegnato da Ettore Scola ed è oggi il logo della "Fondazione Fellini", con sede a Rimini.
Dopo la sua morte, tutte le strade che sboccano sul lungomare riminese sono state ribattezzate con i nomi dei suoi film e "ornate" da cartelli con le relative locandine e descrizioni.

Immaginati o sognati
Sono numerosi i soggetti che Fellini pensò di trasformare in film ma che rimasero sulla carta o, addirittura, solo nella sua immaginazione.
Il più famoso di questi è Il viaggio di G. Mastorna, una compiuta sceneggiatura felliniana, cui collaborò anche Dino Buzzati. Nel 1966 iniziarono le riprese nella campagna attigua a Cinecittà, vennero girate alcune scene ma per tormentate vicende il film non giunse mai più alla sua conclusione. Rimane celebre la definizione che diede Vincenzo Mollica de Il viaggio di G. Mastorna: «il film non realizzato più famoso del mondo».
Viaggio a Tulun è un soggetto/sceneggiatura di Federico Fellini e Tullio Pinelli che non divenne un film bensì un fumetto. Sul finire del 1985 Federico Fellini compie un viaggio in Messico per visitare i luoghi raccontati negli scritti dello scrittore-antropologo-sciamano Carlos Castaneda. Accompagna il regista in questo viaggio lo scrittore Andrea De Carlo. L'esperienza risulta per entrambi inquietante ma creativamente produttiva. Lo scrittore infatti ne ricaverà un romanzo breve, Yucatan, Fellini lo spunto per un film che non farà mai. Le versioni dei due autori confermano un viaggio carico di presagi e di inspiegabili episodi fra il grottesco e il sovrannaturale. Il regista si libererà del peso di quelle sensazioni in un soggetto-sceneggiatura scritto con la collaborazione di Tullio Pinelli cui darà il nome di Viaggio a Tulun, storpiando, come sua abitudine, il vero nome del sito maya: Tulum. Il lavoro viene pubblicato in sei puntate sul Corriere della Sera, nel mese di maggio del 1986[43].
Fellini e il fumetto
Federico Fellini fu lui stesso un disegnatore professionista e sino al 1948 accompagnò la sua attività di sceneggiatore a quella di vignettista. Da regista, disegnava abitualmente le scene dei suoi film. Collaboravano allo sviluppo dello storyboard, così come all'ideazione dei tipi e delle situazioni, l'artista surrealista Roland Topor e il pittore australiano Albert Ceen, uno degli animatori della "dolce vita".
Quando la sua attività di regista si fece più rada ideò, per i disegni di Milo Manara, anche a due fumetti: Viaggio a Tulum e Il viaggio di G. Mastorna, detto Fernet. Viaggio a Tulum nasce da una sceneggiatura quasi omonima, Viaggio a Tulun, scritta da Fellini a seguito di un inquietante viaggio in Messico. Il fumetto sarà pubblicato, a partire dal 1989, sulla rivista a fumetti Corto Maltese. Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet nasce da una compiuta sceneggiatura felliniana e vede la luce nel 1992 sulle pagine della rivista Il Grifo.

Filmografia http://it.wikipedia.org/wiki/Filmografia_di_Federico_Fellini

Programmi radiofonici
EIAR
19. Comici italiani al microfono: Nino Taranto di Federico Fellini e Piero Tellini regia Nino Meloni 22 ottobre 1942, programma "A".
20. Terziglio variazioni sul tema Il primo amore di Luciano Folgore Mario Brancacci Federico Fellini, regia Nino Meloni 20 ottobre 1942, programma "B"
«Il Terziglio di questa settimana trova al tavolo Brancacci, Folgore e Fellini, che discutono su di un tema popolare e poetico: Il primo amore. Ma fin d'ora vi possiamo dire che i tre autori non sappiamo, se per pudore, per fini umoristici o per altra causa non hanno svolto il tema. Federico Fellini porta al microfono i suoi due personaggi preferiti Cico e Pallina: i fidanzatini. Di che cosa parlano i fidanzati, almeno quelli buoni che sanno ancora sognare? È facile indovinare , delle nozze, della futura casetta, dei bambini. Ecco dei bambini, Cico e Pallina mentre stanno discutendo odono un lamento di un bambino sperduto. Questo spunto serve a Fellini per dipingere uno dei suoi quadretti crepuscolari, delicati, fatti più di intenzioni che di parole, più di sentimento che di passione..." » (Dal Radiocorriere)
▪ Terziglio variazioni sul tema Sale d'aspetto di Federico Fellini, Marcello Marchesi e Angelo Migneco, con Lina Acconci, Miranda Bonansea, Giulietta Masina, Mario Riva, Rocco D'Assunta, Nunzio Filogamo, regia di Claudio Fino, trasmessa venerdì 29 gennaio 1943, programma "B".
▪ Terziglio variazioni sul tema Il primo impiego di Fellini, Marchesi e Migneco, con Lina Acconci, Miranda Bonansea, Giulietta Masina, Maria Paoli, Alda Zanchi, Nunzio Filogamo, Mario Riva, regia di Claudio Fino, trasmessa sabato 20 febbraio 1943, programma "B".

RAI
▪ Nel bazar della rivista di Federico Fellini, Ruggero Maccari orchestra diretta da Gino Campese lunedì 26 dicembre 1945, primo programma ore 21,35

Note
1. ^ Suo principale referente fu il cartellonista e caricaturista Enrico De Seta.
2. ^ Secondo Tullio Kezich, l'ultima pellicola citata è da ritenersi il suo vero e proprio esordio.
3. ^ L'affascinante e tutt'altro che minore produzione radiofonica del cineasta riminese è attualmente ancora in fase di studio e catalogazione.
4. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film,
5. ^ Gianfranco Angelucci, Federico Fellini in Sguardi sulla Romagna, , 2009. pag. 358
6. ^ a b Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.114
7. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.116
8. ^ Federico Fellini, Fare un film, Torino, Einaudi, 1980. pp. 51-52
9. ^ a b Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.125
10. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.239
11. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.124
12. ^ Gianfranco Angelucci, Federico Fellini in Sguardi sulla Romagna, , 2009. pag. 359
13. ^ Critica apparsa sull'autorevole rivista "Il bianco e il nero"
14. ^ a b Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.136
15. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.130
16. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.132
17. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.143
18. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.144
19. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.147
20. ^ La Masina è vittima di una slogatura alla caviglia durante le riprese per le scene del convento e di una lesione agli occhi, che la costringe a rimanere bendata per alcuni giorni, a causa delle forti luci volute per ottenere un tono grigio
21. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.149
22. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, pp.151-153
23. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.155
24. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.156
25. ^ Bosley Crowther sul "The New York Times"
26. ^ Gianfranco Angelucci, Federico Fellini in Sguardi sulla Romagna, , 2009. pag. 362
27. ^ Da parte cattolica il film fu accolto molto negativamente. Uno dei pochi che lo difesero, e presagirono l'enorme impatto estetico e sociale del film, fu padre Angelo Arpa, gesuita e filosofo amico di Fellini per tutta la vita. Arpa pagò personalmente le conseguenze per le sue idee, essendo estromesso per un anno dal poter parlare di cinema in pubblico e, successivamente, dal partecipare ad attività culturali.
28. ^ a b Tullio Kezich, op. cit., pagg.14
29. ^ Tullio Kezich, op. cit., pagg.16-17
30. ^ a b Tullio Kezich, op. cit., pag.113
31. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.238
32. ^ Dopo aver abbandonato l'ipotesi di Laurence Olivier
33. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.233
34. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.233-234
35. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.248
36. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.249
37. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.255
38. ^ Gianfranco Angelucci, Federico Fellini in Sguardi sulla Romagna, , 2009. pag. 365
39. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.302
40. ^ Tullio Kezich, Federico. Fellini, la vita e i film, p.332
41. ^ L'informazione, riportata di recente dall'amico e giornalista Sergio Zavoli sulle pagine www.felliniallaradio.it. URL consultato il 24-03-2009. , era già apparsa all'epoca della morte su alcuni quotidiani. Si veda, per esempio, archiviostorico.corriere.it
42. ^ I Funerali di Federico Fellini
43. ^ F. Fellini, T. Pinelli, Viaggio a Tulun, «Corriere della Sera», 18, 19, 20, 21, 22, 23 maggio 1986.
44. ^ Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana Sig. Federico Fellini

▪ 2009 - Diana Blefari Melazzi (Roma, 4 aprile 1969 – Roma, 31 ottobre 2009) è stata una terrorista italiana componente del movimento Nuove Brigate Rosse - Nuclei Comunisti Combattenti.
Discendente da una nobile famiglia del Cosentino, era legata agli ambienti antagonisti frequentati da altri imputati del processo sull'omicidio di Marco Biagi. Risultò essere intestataria di una cantina in via Montecuccoli nella quale, il 20 dicembre 2003, vennero rinvenuti una grande quantità di esplosivo e materiale d'archivio delle Nuove Brigate Rosse, tra cui lo scritto con cui si rivendicava l'omicidio del giuslavorista Marco Biagi. Nel suo appartamento, inoltre, fu ritrovato un documento riguardante la "ritirata strategica" delle BR dopo l'arresto di Nadia Desdemona Lioce e la morte di Mario Galesi.
Due giorni dopo venne arrestata sul litorale romano in seguito alla segnalazione dei proprietari della villetta in cui alloggiava. Era stata riconosciuta grazie ad un filmato che la ritraeva con Marco Mezzasalma mentre traslocavano il "covo" dalla sede della Easy Box alla cantina di via Montecuccoli.
Il 27 ottobre 2009 è stata condannata all'ergastolo in via definitiva dalla Corte di Cassazione per l'omicidio di Marco Biagi.
Sottoposta al regime di carcere duro del "41 bis", le sue condizioni psico-fisiche sono precipitate sino al suicidio, avvenuto a Rebibbia il 31 ottobre 2009 con delle lenzuola annodate.