Il calendario del 28 Aprile

Fonte:
CulturaCattolica.it
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Eventi

▪ 1738 - Roma, Papa Clemente XII condanna la massoneria, tramite la bolla papale In eminenti apostolatus specula

▪ 1789 - Ammutinamento del Bounty: una parte degli ufficiali si solleva contro il capitano William Bligh

▪ 1794 - Sardegna, insurrezione contro il Viceré Balbiano, passata alla storia come i Vespri Sardi

▪ 1896 - Grecia: durante degli scavi fra i resti di una casa, viene scoperta la parte inferiore della statua di bronzo conosciuta come l'auriga di Delfo. La statua verrà portata completamente alla luce il 9 maggio dello stesso anno.

▪ 1917 - Prima guerra mondiale/Verona: salta in aria una polveriera, causando ingenti danni e alcuni feriti

▪ 1919 - Francia, nasce la società delle nazioni a Versailles

▪ 1920 - L'Azerbaijan è annesso all'Unione Sovietica

▪ 1932 - Viene annunciata la scoperta di un vaccino contro la febbre gialla

▪ 1937

  1. - Roma, inaugurazione di Cinecittà
  2. - Apre il Museum of Costume Arts di New York

▪ 1939 - Adolf Hitler rompe il patto di non aggressione con la Polonia

▪ 1940 - Roma: Papa Pio XII manda un messaggio a Benito Mussolini, chiedendogli di non entrare in guerra. Galeazzo Ciano scriverà sui suoi diari: l'accoglienza del Duce è fredda, scettica, sarcastica

▪ 1945 - Seconda guerra mondiale: Benito Mussolini e la sua compagna Clara Petacci, catturati a Dongo mentre tentavano di espatriare in Svizzera, vengono fucilati da membri della Resistenza italiana a Giulino di Mezzegra

▪ 1947 - L'etnologo ed esploratore Thor Heyerdahl parte dal Perù a bordo del Kon-Tiki: intende dimostrare che i nativi peruviani potrebbero in passato aver raggiunto le isole della Polinesia

▪ 1952
  1. - USA: Dwight D. Eisenhower rassegna le dimissioni da comandante supremo della NATO per candidarsi alla carica di presidente degli Stati Uniti
  2. - Dopoguerra: Gli Stati Uniti pongono termine all'occupazione militare del Giappone

▪ 1963 - Italia: si svolgono le elezioni politiche.

▪ 1965 - Forze militari USA invadono la Repubblica Dominicana per contrastare l'instaurarsi di un regime dittatoriale ed evacuare cittadini americani

▪ 1967
  1. - Guerra del Vietnam: il generale Westmoreland chiede ulteriori uomini e mezzi al Congresso, profilando una situazione drammatica
  2. - USA: boxe, il campione del mondo dei pesi massimi Cassius Clay si dichiara obiettore di coscienza per evitare l'arruolamento; per questo fatto la World Boxing Association gli toglie il titolo

▪ 1969 - Charles de Gaulle si dimette da presidente della Francia

▪ 1977 - Germania: Termina il processo contro i membri della Fazione rossa armata (più conosciuta come Banda Baader-Meinhoff: Andreas Baader, Gudrun Ensslin e Jan-Carl Raspe sono riconosciuti colpevoli di quattro omicidi ed oltre trenta tentativi di omicidio

▪ 1978 - Il presidente dell'Afghanistan Mohammed Daoud Khan viene deposto ed assassinato in un colpo di stato guidato da ribelli filocomunisti

▪ 1980 - Milano: l'ex brigatista Corrado Alunni e il criminale Renato Vallanzasca guidano altri 14 detenuti in un'evasione dal carcere San Vittore: armi in pugno, prendono in ostaggio un brigadiere e si fanno aprire le porte, ma pochissimi riescono ad uscire, e vengono poi subito catturati.

▪ 1989 - A quattro anni dalla strage dell'Heysel, arriva la sentenza di primo grado per 25 imputati: 14 sono condannati a 3 anni con la condizionale, assolti gli altri 11, l'UEFA e le autorità di Bruxelles.

▪ 1990 - New York: dopo oltre 6.200 recite si chiude per l'ultima volta il sipario sul musical A Chorus Line

▪ 1992 - Italia, il presidente della Repubblica in carica Francesco Cossiga rassegna le dimissioni

▪ 1994 - Rwanda, centinaia di migliaia di profughi abbandonano il paese per i massacri tra gruppi etnici avversari

▪ 1996 - Il presidente USA Bill Clinton testimonia nel Caso Whitewater

▪ 1997 - Entra in vigore, con le ultime adesioni di Russia, Iraq e Corea del Nord il trattato sulle armi chimiche firmato a Parigi nel gennaio 1993

▪ 1999 - Fondata la Fondazione Cinese per il Controllo dei Narcotici

▪ 2003 - USA: lo iTunes Music Store della Apple Computer vende nella prima settimana mille esemplari

▪ 2004 - USA: la rete TV CBS mostra le immagini di prigionieri iracheni maltrattati e umiliati da soldati americani nel carcere di Abu Ghraib

▪ 2005 - Italia: un'assemblea di sindacalisti della CGIL dà vita a un'aggregazione della sinistra interna al sindacato, chiamata appunto Rete 28 aprile

▪ 2006 - Italia: Inizio della XV Legislatura

▪ 2008 - Italia: Termine della XV Legislatura

Anniversari

▪ 1109 - Ugo di Cluny, detto anche Ugo di Semur o sant'Ugo il Grande (Semur, diocesi di Autun, 13 maggio 1024 – Cluny, 28 aprile 1109), è stato un abate francese venerato come santo dalla Chiesa cattolica. Fu una delle personalità più carismatiche tra i rappresentanti degli ordini religiosi della primo Medioevo.
Primogenito del conte Dalmazio di Semur, non assecondò i desideri del padre che voleva farne un cavaliere, ma si indirizzò verso gli studi, entrando nel convento di San Marcello di Chalon nel 1037. A 15 anni entrò come novizio nell'abbazia di Cluny dove nel 1044 fu ordinato sacerdote e a soli 24 anni divenne priore della celebre abbazia: rimase in questa carica per oltre 60 anni, durante i quali fece numerosi viaggi in Europa nelle varie Case dell’Ordine cluniacense; prese parte al Concilio di Reims del 1049; partecipò a Roma al Sinodo del 1050, al Concilio Lateranense del 1059 e al Sinodo del 1063; partecipò nel 1072 è alla Dieta di Worms.
Negli anni successivi fece da mediatore a Canossa tra il papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV, di cui era stato padrino di battesimo, episodio per il quale è largamente ricordato.
Durante il suo abbaziato Cluny raggiunse il suo massimo splendore. A lui si deve anche la terza e più imponente fase di costruzione dell'abbazia. La campagna di costruzione fu finanziata dall'annuale census stabilito da Ferdinando I di León, reggente della Castiglia e León in un periodo fra il 1053 ed il 1065. Tale finanziamento fu poi riconfermato da Alfonso VI nel 1077 e, di nuovo, nel 1090. La somma fu fissata a 1.000 aurei da Ferdinando, e raddoppiata da Alfonso VI nel 1090. Per Cluny, la somma equivaleva semplicemente alla più grande annualità che l'ordine avesse mai ricevuto da un re o un laico, e non venne mai superata. Il census alfonsino permise all'abate Ugo di affrontare nel 1088 la costruzione della terza e imponente chiesa abbaziale (chiesa di San Pietro e Paolo o Cluny III): lunga 187 metri, era dotata di nartece ed aveva ben cinque navate, un coro allungato con deambulatorio e cappelle radiali, un doppio transetto e cinque torri. Era il più grande edificio religioso d'Europa prima della ricostruzione della Basilica di San Pietro a Roma nel XVI secolo.
Ugo morì a 85 anni, il 29 aprile 1109, a Cluny. Le sue reliquie furono deposte nel 1220 in una cassa per la venerazione dei fedeli, ma nel 1562 gli Ugonotti saccheggiarono l’abbazia di Cluny e il corpo del santo fu bruciato e disperso al vento.

▪ 1716 - Luigi Maria (Louis-Marie) Grignion de Montfort (Montfort-la-Cane, 31 gennaio 1673 – Saint-Laurent-sur-Sèvre, 28 aprile 1716) è stato un sacerdote francese, fondatore della Compagnia di Maria e delle Figlie della Sapienza.
Nominato missionario apostolico da papa Clemente XI esercitò il suo ministero nelle regioni nord-occidentali della Francia: nel Poitou (soprattutto in Vandea) e in Bretagna. Trascorse i primi anni di sacerdozio, occupandosi degli ospedali e dei poveri, mentre dopo l'incontro con il pontefice si dedicò quasi esclusivamente alla predicazione delle missioni.
L'attività missionaria lo rese molto popolare e amato dagli abitanti di quelle regioni, nelle quali, con il suo apostolato, diffuse ulteriormente il cattolicesimo ricevendo però aspre critiche dai protestanti e dai giansenisti, con i quali si scontrò più frequentemente.
Fu autore di diversi testi nei quali presenta la sua dottrina spirituale che predicava nelle missioni. La sua opera principale è il Trattato della vera devozione alla Santa Vergine nel quale espone la sua dottrina mariana: Luigi Maria infatti promosse il culto mariano, nella forma che chiamava "la vera devozione", e la pratica del Rosario.
Fu proclamato santo da papa Pio XII nel 1947 e nel 2000, sotto il pontificato di papa Giovanni Paolo II, fu aperta una causa, tuttora in corso, per proclamarlo dottore della Chiesa.
Il "Padre di Montfort" era morto in fama di santità, la gente iniziò ad andare in pellegrinaggio alla sua tomba a Saint-Laurent-sur-Sèvre, che fu soprannominata per questo motivo "la città santa della Vandea". Gli furono attribuiti miracoli di guarigione, i devoti lo pregavano per ottenere grazie, ma soprattutto continuavano a partecipare alle missioni dettate con frequenza dai pochi missionari della Compagnia di Maria, secondo il metodo del loro fondatore. A differenza del ramo maschile, le Figlie della Sapienza ebbero subito un grande sviluppo e venivano richieste dagli ospedali e dalle scuole.
I provvedimenti repressivi nei confronti di istituti e ordini religiosi attuati durante la Rivoluzione francese, coinvolsero anche i monfortani, inoltre nella zona dove operavano - la Francia nordoccidentale - scoppiarono le guerre di Vandea, che Pio XII attribuiva all'apostolato di san Luigi Maria: «La Vandea del 1793 era opera delle sue mani», che misero in ginocchio l'intera regione per più di 20 anni. I monfortani dovettero quindi aspettare il ritorno della monarchia e solo verso il 1820 i due istituti riuscirono a riorganizzarsi.
Per introdurre la causa di beatificazione si andarono a riprendere tutti gli scritti che Luigi Maria aveva tenuto per sé, cominciando dal "Trattato della vera devozione alla Santa Vergine" che verrà pubblicato per la prima volta nel 1842. La causa intanto andava avanti e dopo la fase diocesana in Francia, che lo fece diventare servo di Dio, giunse a Roma dove papa Gregorio XVI lo proclamò venerabile il 7 settembre 1838.
Venne poi beatificato il 22 gennaio 1888 da papa Leone XIII, che apprezzò particolarmente la sua dottrina spirituale. Dopo la beatificazione la dottrina di Luigi Maria divenne oggetto di studio e di ispirazione per la Chiesa e soprattutto per le molte congregazioni missionarie che nacquero tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento. Ad esempio, papa Pio IX il 27 dicembre 1908 scrisse una dedica su una copia del "Trattato di vera devozione" con la quale concesse la benedizione apostolica ai lettori:
«Raccomandiamo vivamente il Trattato di vera devozione a Maria, scritto in modo così meraviglioso dal Beato di Montfort, e di grande cuore accordiamo la Benedizione Apostolica a tutti quelli che leggeranno questo Trattato».
Fu canonizzato il 20 luglio 1947 da papa Pio XII, divenuto molto devoto a san Luigi Maria tanto che volle un reliquiario nella sua cappella privata e spesso nei suoi discorsi appariva questa ammirazione nei confronti del Santo.
Papa Giovanni Paolo II era particolarmente devoto a san Luigi Maria e al "Trattato di vera devozione": è stato il pontefice che maggiormente ha promosso la spiritualità monfortana che è molto presente nel suo magistero.
Come suo motto scelse le parole: «Totus tuus» che derivano proprio dal "Trattato" come spiega lo stesso pontefice:
«Ecco spiegata la provenienza del Totus Tuus. L'espressione deriva da san Luigi Maria Grignion de Montfort. È l'abbreviazione della forma più completa dell'affidamento alla Madre di Dio, che suona così: Totus Tuus ego sum et omnia mea Tua sunt. Accipio Te in mea omnia. Praebe mihi cor Tuum, Maria.»
Ricorda san Luigi Maria anche nell'enciclica Redemptoris Mater:
« [...] mi è caro ricordare, tra i tanti testimoni e maestri di tale spiritualità, la figura di san Luigi Maria Grignion de Montfort, il quale proponeva ai cristiani la consacrazione a Cristo per le mani di Maria, come mezzo efficace per vivere fedelmente gli impegni battesimali.»
Giovanni Paolo II il 20 luglio 1996 inserì san Luigi Maria nel calendario dei Santi e il 19 settembre dello stesso anno si recò in pellegrinaggio sulla sua tomba a Saint-Laurent-sur-Sèvre. Il 9 febbraio 2000 venne aperta una causa per la proclamazione di San Luigi Maria a dottore della Chiesa, su richiesta del vescovo di Luçon François Charles Garnier e dei superiori generali delle tre congregazioni monfortane, le due congregazione interessate: la Congregazione per le cause dei santi e la Congregazione per la Dottrina della Fede aprirono la causa (che è ancora in corso) nominando come postulatore padre Battista Cortinovis, S.M.M.
La basilica di san Luigi Maria a Saint-Laurent-sur-Sèvre è visitata ogni anno da circa 25.000 pellegrini.

▪ 1841 - San Pietro (Pierre-Louis-Marie) Chanel (Couet, 12 luglio 1803 – Futuna, 28 aprile 1841) è stato un presbitero e missionario francese della Società di Maria (Maristi). Ucciso dagli indigeni dell'isola di Futuna, è stato proclamato santo nel 1954 da papa Pio XII ed è venerato come protomartire e patrono dell'Oceania.
Di origini umili, fu un prete zelante, M. Trompier, ad occuparsi della sua istruzione. Ordinato sacerdote nel 1827, andò a fare il curato ad Ambérieux e più tardi il parroco a Crozet.
Il suo desiderio di servire nelle missioni straniere lo portò, nel 1831, ad entrare nella neo-fondata Società di Maria cui venne affidata, a seguito del suo riconoscimento formale il 29 aprile 1836, l’evangelizzazione dell’Oceania Occidentale: dopo aver preso i tre voti religiosi per mano del sacerdote Colin, fondatore e padre superiore dei Maristi, Chanel si imbarcò quello stesso anno per la sua lontana missione sotto la guida del vescovo Bataillon e fu mandato sull’isola di Horn, che i geografi chiamano Allofatu ed i nativi Futuna.
Le guerre tribali e la pratica del cannibalismo avevano ridotto la popolazione a qualche migliaio di persone quando Chanel approdò alle sue coste.
Chanel si impegnò fedelmente tra grandi difficoltà, imparando la lingua dei nativi, occupandosi dei malati, battezzando i morenti e conquistandosi l'appellativo di uomo dal cuore gentile.
Niuliki, regnante all’epoca, inizialmente ebbe un atteggiamento amichevole verso il missionario, chiamandolo persino tabù, ovvero sacro e inviolabile; ma quando vide che i suoi sudditi venivano allontanati dai loro idoli verso la religione dell’uomo bianco, fece un editto contro di lui per scongiurare il movimento verso il Cristianesimo. In quello stesso periodo suo figlio Meitala si convertì al cattolicesimo.
In seguito Musumusu, primo ministro di Niuliki e nemico implacabile della cristianità, ideò una congiura insieme ai piccoli capitribù contro i cristiani, che fu portata a termine con grande crudeltà.

Il martirio
All’alba del 28 aprile 1841 i cospiratori si ritrovarono insieme e, dopo aver ferito molti neofiti sorpresi nel sonno, proseguirono verso la capanna di Chanel. Uno di loro gli fece a pezzi un braccio e lo ferì alla tempia sinistra con un randello. Un altro lo buttò a terra con una baionetta. Un terzo lo picchiò pesantemente con una mazza.
Mentre il missionario pronunciava parole di gentile rassegnazione "Malie fuai" (vale a dire: bene per me) Musumusu stesso, adirato per la morte tardiva, spaccò il cranio del martire con un’ascia.
I resti del missionario seppelliti frettolosamente, furono in seguito reclamati da M. Lavaux, comandante francese della stazione navale di Tahiti, e riportati in Francia con un mezzo di trasporto del governo, nel 1842.
Protomartire dell'Oceania è il titolo ufficiale attribuito al Pietro Chanel dalla Congregazione dei Riti nel decreto che dichiara: tuto procedi posse ad solemnem Ven. servi Dei P. M. Chanel beatificationem.
Il processo di beatificazione di Chanel, iniziato nel 1857, si concluse il 16 novembre del 1889 col Rito Abbreviato Quemadmodum. Il rito solenne, presieduto da papa Leone XIII, ebbe luogo il giorno successivo a Roma, nella basilica di San Pietro.
Fu canonizzato il 13 giugno 1954 da papa Pio XII.

Gavrilo Princip (Obljaj, 25 luglio 1894 – Terezín, 28 aprile 1918) è stato un rivoluzionario bosniaco.
Il 28 giugno 1914 alle 11:00 del mattino, Princip assassinò a Sarajevo l'arciduca Francesco Ferdinando - erede al trono dell'Impero austro-ungarico - e sua moglie, la contessa Sophie. L'attentato viene convenzionalmente considerato la scintilla che fece scoppiare la prima guerra mondiale.

Dall'omicidio dell'arciduca alla morte
Durante il soggiorno a Belgrado nel 1912, Princip diventò membro del gruppo serbo "Giovane Bosnia" (Mlada Bosna) che propugnava l'annessione della Bosnia (dal 1878, col Congresso di Berlino, parte dell'Impero austro-ungarico) alla Serbia.
L'attentato vide la partecipazione, oltre che di Princip, anche di altri suoi cinque compagni. Il gruppo era armato con pistole e bombe fornite dalla società segreta Mano Nera (Crna Ruka), che aveva sostenitori sia tra gli ufficiali serbi sia tra i funzionari del governo. L'obiettivo della "Mano Nera" era quello di creare uno stato indipendente slavo che guidato dalla Serbia riunisse anche i territori della Bosnia-Erzegovina, assorbiti nella sfera austriaca a seguito del Congresso di Berlino nel giugno del 1878 (dopo la Pace di Santo Stefano - marzo 1878), e quelli croati, assoggettati da tempo. Il progetto dell'organizzazione terroristica panslavista vedeva un ostacolo nel disegno "trialistico" di cui l'arciduca Francesco Ferdinando era il più autorevole sostenitore, che prevedeva la creazione all'interno dell'impero asburgico di un terzo polo nazionale slavo accanto a quelli tedesco e magiaro.
Quello del 28 giugno 1914 a Sarajevo fu senza dubbio un attentato fuori dal comune. All’inizio sembrava destinato al fallimento, ma poi le cose andarono diversamente. Le due illustri vittime, l’Arciduca Francesco Ferdinando d’Este, principe ereditario al trono dell’Impero d’Austria-Ungheria, e la moglie, la contessa Sophie Chotek, furono veramente sfortunati nell’occasione. A Sarajevo, verso le ore 09,50, il commando di attentatori si era recato all’angolo del corso Voivoda, attendendo il passaggio della macchina dell’Arciduca per portare a termine la propria missione di morte.
Alle ore 10,00 in punto, lo studente Gavril Princip uscì da una locanda unendosi alla folla e posizionandosi in prima fila; con la mano che teneva in tasca, stringeva la pistola con la quale avrebbe dovuto sparare all’Arciduca, quando la sua macchina fosse passata davanti a lui. Improvvisamente, in fondo al corso si udì un’esplosione e poco dopo la macchina con a bordo la coppia reale passò a tutta velocità davanti al luogo dove si trovava appostato Princip, dirigendosi verso il municipio. Il primo attentatore aveva infatti sbagliato il lancio di una bomba a mano, riuscendo solo a ferire l’aiutante di campo di Francesco Ferdinando. A questo punto la missione di Princip sembrava fallita, ed egli si incamminò verso Via Re Pietro. Nel frattempo, la macchina dell’Arciduca, raggiunto il municipio, si fermò lì solo il tempo necessario a Francesco Ferdinando per redarguire il sindaco di Sarajevo per l’accoglienza ricevuta.
Quindi ripercorse a ritroso la strada fatta in precedenza per andare a recuperare l’aiutante dell’erede al trono, che nel frattempo era stato medicato per le leggere ferite riportate in precedenza. La macchina percorse l’itinerario a passo d’uomo, a causa della massa di gente che, sfollando, aveva invaso la sede stradale. Princip, che deluso stava ritornando alla taverna, si trovò proprio di fronte alla coppia reale ed esplose due colpi di pistola all’indirizzo delle sue vittime, questa volta colpendole a morte. Princip venne immediatamente tratto in arresto dalle guardie presenti.
L'arma utilizzata da Princip fu una pistola semi-automatica Browning M 1910 calibro 7.65x17mm (.32 ACP). I proiettili sparati da Princip colpirono l'arciduca Francesco Ferdinando al collo e la moglie allo stomaco. I due morirono in breve tempo.
Dei sei attentatori, solo Gavrilo Princip e l'amico Nedeljko Čabrinović furono arrestati dalla polizia. Gli altri quattro, a causa dell'enorme folla di persone, non ebbero l'opportunità di entrare in azione e riuscirono a dileguarsi.
Una volta arrestato, Princip cercò di suicidarsi, prima ingerendo del cianuro e poi sparandosi con la sua pistola. Nessuno dei due tentativi andò a buon fine: nel primo caso Princip vomitò il veleno (cosa che era successa anche a Čabrinović e che fece pensare alla polizia che ai due era stato fornito un veleno molto debole, probabilmente si trattava di cianuro vecchio al punto da non poter più provocare una morte istantanea), mentre la pistola fu allontanata dalle sue mani prima che potesse sparare un altro colpo. Visto che all'epoca dell'attentato Princip era ancora troppo giovane per subire la condanna a morte (aveva diciannove anni), fu condannato a venti anni di prigione. Ne trascorse solo quattro in pessime condizioni nell’infermeria della prigione di Terezín, fino a morire di tubercolosi ma anche a causa dei maltrattamenti subiti da parte dei suoi carcerieri il 28 aprile 1918 a soli 23 anni.

Ruolo storico
Le opinioni storiche su Princip sono state a lungo controverse. Nella storia serba, egli viene spesso considerato un eroe nazionale per aver cercato la libertà del proprio popolo dalla dominazione austro-ungarica, ed è ancor oggi ricordata una sua frase detta durante il processo: "Noi amavamo il nostro popolo". Al contrario, in Austria la sua figura viene equiparata a quella di un terrorista.
La valutazione maggiormente diffusa che viene correntemente accettata è che fosse un mero esecutore, una pedina, più che il vero ideatore dell'attentato all'arciduca austro-ungarico. L'omicidio da lui compiuto è considerato storicamente come l'elemento scatenante della prima guerra mondiale: la goccia che fece traboccare il vaso già ricolmo delle forti tensioni europee.
Ad un direttore del carcere che lo voleva trasferire in un'altra località disse: "Non c'è bisogno di trasferirmi in un'altra prigione. La mia vita sta già scivolando via. Suggerisco di inchiodarmi ad una croce e bruciarmi vivo. Il mio corpo fiammeggiante sarà una torcia per illuminare il mio popolo sulla strada per la libertà."

▪ 1945

- Benito Amilcare Andrea Mussolini (Predappio, 29 luglio 1883 – Giulino di Mezzegra, 28 aprile 1945) è stato un politico, giornalista e dittatore italiano.
Fondatore del fascismo, fu capo del Governo del Regno d'Italia - prima come Presidente del Consiglio dei Ministri, poi come Capo del Governo Primo Ministro Segretario di Stato - dal 31 ottobre 1922 (con poteri dittatoriali dal gennaio 1925) al 25 luglio 1943.
Divenne Primo Maresciallo dell'Impero il 30 marzo 1938, e fu capo (Duce) della Repubblica Sociale Italiana dal settembre 1943 al 27 aprile 1945.
Fu esponente di spicco del Partito Socialista Italiano, e direttore del quotidiano socialista Avanti! dal 1912. Convinto anti-interventista negli anni della guerra di Libia e in quelli precedenti la prima guerra mondiale, nel 1914 cambiò radicalmente opinione, dichiarandosi a favore dell'intervento in guerra. Trovatosi in netto contrasto con la linea del partito, si dimise dalla direzione dell'Avanti! e fondò Il Popolo d'Italia, schierato su posizioni interventiste, venendo quindi espulso dal PSI. Nell'immediato dopoguerra, cavalcando lo scontento per la «vittoria mutilata», fondò i Fasci Italiani di Combattimento (1919), poi divenuti Partito Nazionale Fascista nel 1921, e si presentò al Paese con un programma politico nazionalista, autoritario e radicale, che gli valse l'appoggio della piccola borghesia e dei ceti industriali e agrari.
Nel contesto di forte instabilità politica e sociale successivo alla Grande Guerra, puntò alla presa del potere. Forzando la mano delle istituzioni, con l'aiuto di atti di squadrismo e d'intimidazione politica che culminarono il 28 ottobre del 1922 con la Marcia su Roma, Mussolini ottenne l'incarico di costituire il Governo (30 ottobre). Dopo il contestato successo alle elezioni politiche del 1924, instaurò nel gennaio del 1925 la dittatura, risolvendo con forza la delicata situazione venutasi a creare dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti. Negli anni successivi consolidò il regime, affermando la supremazia del potere esecutivo, trasformando il sistema amministrativo e inquadrando le masse nelle organizzazioni di partito.
Nel 1935, Mussolini decise di occupare l'Etiopia provocando l'isolamento internazionale dell'Italia. Appoggiò i franchisti nella Guerra civile spagnola e si avvicinò alla Germania Nazista di Hitler, con il quale stabilì un legame che culminò con il Patto d'Acciaio nel 1939. È in questo periodo che furono approvate in Italia le leggi razziali.
Nel 1940, confidando in una veloce vittoria delle Forze dell'Asse, entrò in guerra al fianco della Germania. In seguito alle disfatte subite dalle Forze Armate italiane e alla messa in minoranza durante il Gran Consiglio del Fascismo (ordine del giorno Grandi del 24 luglio 1943), fu arrestato per ordine del Re (25 luglio) e successivamente tradotto a Campo Imperatore. Liberato dai tedeschi, e ormai in balia delle decisioni di Hitler, instaurò nell'Italia settentrionale la Repubblica Sociale Italiana. In seguito alla completa disfatta delle forze italotedesche nell'Italia settentrionale, abbandonò Milano la sera del 25 aprile 1945 dopo aver invano cercato di trattare la resa. Il tentativo di fuga si concluse il 27 aprile con la cattura da parte dei partigiani a Dongo, sul Lago di Como. Fu fucilato il giorno seguente insieme alla sua amante Claretta Petacci.

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La caduta e l'arresto
L'Italia è stata da poco invasa dalle truppe alleate e Mussolini decide di scrivere a Hitler per manifestare all'alleato l'impossibilità per l'Italia di continuare il conflitto. Ma il Fuhrer lo prende in contropiede annunciandogli la sua venuta in Italia per incontrarlo di persona. Il vertice è previsto dal 19 luglio al 21 luglio 1943 nei pressi di Feltre (BL), nella villa del senatore Achille Gaggia. L'intenzione di Mussolini è dire a Hitler che l'Italia è «costretta a cercare una via d'uscita dall'alleanza e dalla guerra». Tuttavia, di fronte al Fuhrer, che mette chiaramente le carte in tavola e lo inchioda alle sue responsabilità, rimane in silenzio. Il vertice, che doveva durare tre giorni, si risolve in tre ore e mezzo.
Mussolini spiega così il suo stato d'animo dopo il fallimento del vertice di Villa Gaggia, replicando alle voci che lo sollecitavano a portare l'Italia fuori dal conflitto:
«Credete forse che questo problema io non lo senta agitarsi da tempo nel mio spirito travagliato? Ammetto l'ipotesi di sganciarsi dalla Germania: la cosa è semplice, si lancia un [messaggio via] radio al nemico. Quali saranno le conseguenze? Eppoi, si fa presto a dire sganciarsi dalla Germania. Credete forse che Hitler ci lascerebbe libertà d'azione?»
Di ritorno dall'incontro con Hitler, è sconvolto dal bombardamento su Roma, avvenuto proprio durante l'incontro e di cui è stato informato immediatamente assieme ad Hitler. La capitale è stata attaccata da una flotta di circa 200 aeroplani, che ha colpito soprattutto la zona di San Lorenzo.
Il 21 luglio Mussolini concede la convocazione del Gran Consiglio per sabato 24, e ordina di non divulgare la notizia agli organi di stampa. Il 22 (giovedì) si reca in mattinata dal Re per il consueto colloquio, durante il quale gli riferisce dell'incontro con Hitler e della convocazione del G.C. Si esaminano i pro e i contro di un eventuale mutamento di alleanze. Viene paventata l'ipotesi che la Germania voglia annettersi i territori conquistati dall'Italia in seguito alla prima guerra mondiale (Alto Adige, Istria, Fiume e Dalmazia).
I due convergono sulla decisione di trarre l'Italia fuori dal conflitto, lasciando l'Asse alla sua sorte, ma il presupposto indispensabile è che il Duce lasci il potere. Il Re ricorda infatti a Mussolini che dopo la conferenza di Casablanca la sua presenza al governo è considerata un ostacolo a qualsiasi trattativa con gli anglo-americani.
Nel primo pomeriggio dello stesso giorno riceve e prende in esame l'ordine del giorno (corredato dalle firme dei gerarchi che lo sostengono) che Dino Grandi intende presentare alla seduta del Gran Consiglio. Lo definisce "inammissibile e vile".
Poi riceve in udienza Grandi in persona. I due discutono gli ultimi avvenimenti politici, poi l'ordine del giorno. Grandi esorta Mussolini a rassegnare volontariamente le dimissioni. Il Duce lo ascolta senza lasciar trasparire nessuna emozione.
Nel pomeriggio di sabato 24 luglio, in segreto, si apre una lunga seduta del Gran Consiglio che si concluderà alle prime ore del giorno successivo (25 luglio), con l'approvazione dell'ordine del giorno presentato da Dino Grandi.
Viene di fatto approvata l'esautorazione di Mussolini dai suoi incarichi di governo. La votazione, seppur significativa (in quanto votata dai massimi rappresentanti del Partito), non aveva de iure alcun valore, poiché per legge il Capo del Governo era responsabile del proprio operato solo dinanzi al Sovrano, il quale era l'unico a poterlo destituire.
La mattina di domenica 25 luglio, dopo essersi recato regolarmente nel suo studio di Palazzo Venezia per occuparsi degli affari correnti, Mussolini chiede al sovrano di poter anticipare l'abituale colloquio del lunedì, e accetta di presentarsi da questi, giungendo insieme al suo segretario Nicola De Cesare alle ore 17 a Villa Savoia (oggi Villa Ada). Vittorio Emanuele III comunica a Mussolini la sua sostituzione con Pietro Badoglio, garantendogli l'incolumità. Mussolini non era però al corrente delle reali intenzioni del monarca, che aveva posto sotto scorta il Capo del Governo e aveva fatto circondare l'edificio da duecento carabinieri.
Il tenente colonnello Giovanni Frignani, che coordinava l'operazione, espone telefonicamente ai capitani Paolo Vigneri e Raffaele Aversa gli ordini del re. I carabinieri fanno salire Mussolini e De Cesare in un'autoambulanza della Croce Rossa, senza specificargli la destinazione ma rassicurandolo sulla necessità di tutelare la sua incolumità (pomeriggio del 25 luglio). In realtà, Vittorio Emanuele III aveva ordinato di arrestare Mussolini.
L'armistizio fra l'Italia e gli Alleati firmato il 3 settembre e reso noto la sera dell'8 senza delle precise istruzioni per le truppe italiane, lascia nella confusione più totale un Paese già allo sbando. L'Italia si spacca, in quella che è stata poi definita una guerra civile, tra coloro che si schierano con gli Alleati (che controllano parte del Meridione e la Sicilia), e coloro che invece accettano di proseguire il conflitto a fianco dei tedeschi (che hanno intanto occupato gran parte della penisola, incontrando una debole resistenza da parte delle truppe italiane dislocate alle frontiere e nei pressi di Roma e di altre località).
Frattanto il re, con parte della famiglia, Badoglio ed i suoi principali collaboratori, fugge in Puglia, ponendosi sotto la protezione degli ex nemici: lì costituisce un governo sotto supervisione alleata, che dichiarerà guerra alla Germania il 13 ottobre.
Mussolini subito dopo il suo arresto è dapprima trattenuto in una caserma dei carabinieri a Roma, in seguito viene trasferito nell'isola di Ponza (dal 27 luglio). Ma i tedeschi sono sulle sue tracce. Per depistarli, viene portato sull'isola della Maddalena (7 agosto - 27 agosto 1943) ed infine a Campo Imperatore sul Gran Sasso, in un luogo ritenuto inattaccabile dall'esterno. Ma il 12 settembre venne liberato da un commando di paracadutisti tedeschi (Fallschirmjäger-Lehrbataillon) guidati dal capitano delle SS Otto Skorzeny.
Mussolini venne tradotto in Germania, dove il 14 settembre incontra Hitler a Rastenburg. Questi lo invita a formare una repubblica protetta dai tedeschi. Il 18 settembre, da Monaco Mussolini pronuncia alla radio il suo primo discorso dopo l'arresto del 25 luglio:
« … Dopo un lungo silenzio ecco che nuovamente vi giunge la mia voce, e sono certo che la riconoscerete… »
Dopo aver fatto un'ampia esposizione su ciò che stava avvenendo in Italia, addossa la responsabilità della sua destituzione al Re, ai generali e ai gerarchi fascisti, che accusò di alto tradimento. Alla fine del discorso annuncia la ricostituzione dello Stato, delle sue Forze armate e del partito fascista, con la nuova denominazione di Partito Fascista Repubblicano ("PFR").
Mussolini ritorna in Italia il 23 settembre e costituisce un nuovo governo, che si riunisce per la prima volta il 27 settembre alla Rocca delle Caminate (residenza di Mussolini a Predappio, dal 1927).

La Repubblica Sociale Italiana
Di fatto la neonata Repubblica Sociale Italiana è uno stato controllato soprattutto dai tedeschi e a Mussolini viene concessa poca libertà di azione. Solo sull'ambito economico e sull'organizzazione militare dei soldati italiani aderenti alla RSI, Mussolini e i suoi gerarchi hanno una certa autonomia. Hitler intanto aveva posto sotto il diretto controllo del Reich l'intera area nord-orientale dello stato italiano (ovvero le province di Trento, Bolzano, Belluno, Udine, Gorizia, Trieste, Fiume, Lubiana[159] e Zara) nonché i territori precedentemente italiani o sotto il controllo italiano al di fuori della penisola (le truppe tedesche occuparono l'Albania, che essendo unita all'Italia tramite la corona dei Savoia fu dichiarata "indipendente" e gli ustascia si annessero d'arbitrio la Dalmazia, esclusa Zara) zone nei giorni immediatamente successivi all'armistizio del 8 settembre).
Tra il 23 ed il 27 settembre 1943 Mussolini si insedia a Gargnano, sul Lago di Garda (tuttavia la maggior parte degli uffici governativi è distribuita in località limitrofe, fino a Brescia). L'agenzia di stampa ufficiale si installa a Salò, da cui il nome non ufficiale di "Repubblica di Salò", a causa dell'intestazione dei comunicati radiostampa.
Il 14 novembre si tiene a Verona la prima assemblea nazionale del Partito Fascista Repubblicano, durante la quale viene redatto il Manifesto di Verona, ovvero il programma di governo del PFR.
Mussolini (che ricopre la carica di "duce, capo del governo" della repubblica de facto, essendo tale carica prevista nel manifesto ma non essendo stata da lui assunta in forza di elezioni) annuncia che verrà rimandata al termine del conflitto la convocazione di un'assemblea costituzionale per la redazione della costituzione della RSI, della quale si era prefigurata la convocazione il 13 ottobre.
L'8 dicembre viene costituita con decreto la Guardia Nazionale Repubblicana ("GNR"), posta al comando di Renato Ricci. In essa confluiscono parte degli effettivi dei Reali Carabinieri (corpo che viene disciolto), della Polizia dell'Africa Italiana e della MSVN (mai ufficialmente disciolta sino a tale data). Inoltre alcune migliaia di reclute italiane sono inviate in Germania per essere addestrate e formare quattro divisioni (Divisione Alpina Monterosa, San Marco, Littorio e Italia).
Tra l'8 e il 10 gennaio 1944 si tiene il Processo di Verona, nel quale vengono giudicati i gerarchi "traditori" che si erano schierati contro Mussolini il 25 luglio 1943: tra questi, viene condannato a morte il genero del duce, Galeazzo Ciano. Non è noto se Mussolini non avesse voluto salvare la vita al marito di sua figlia (nonché dei suoi ex collaboratori) oppure se non avesse effettivamente potuto influire sui verdetti del tribunale giudicante, data la pesante ingerenza tedesca.
È invece quasi certo che le istanze di grazia presentate dai condannati non furono inoltrate direttamente a Mussolini per volontà di Alessandro Pavolini, il quale da un lato voleva impedire un eventuale "cedimento sentimentale" del duce e il conseguente placet alla grazia, e dall'altro intendeva risparmiare al duce l'angoscia della scelta, per lui "obbligata".
Il 21 aprile il duce si incontra con Hitler a Klessheim, e il 15 luglio si reca in Germania per ispezionare le quattro divisioni italiane che gli ufficiali tedeschi stanno addestrando.
Il 20, giorno dell'attentato di von Stauffenberg rivede Hitler per l'ultima volta.
Il 16 dicembre, al Teatro Lirico di Milano, pronuncia il suo primo ed ultimo discorso pubblico dalla costituzione della RSI. Parla delle "armi segrete" tedesche, di cui Hitler gli avrebbe dato prova, e della possibilità di mantenere "la valle del Po" con le unghie e coi denti. Inoltre afferma la volontà della RSI di procedere alla socializzazione dell'Italia.
Nell'aprile, sempre più isolato e impotente, dopo che il fronte della Linea Verde ha ceduto e le forze tedesche in Italia sono ormai in rotta, Mussolini si trasferisce a Milano.
Il 25 aprile, ottiene un incontro con il cardinale Ildefonso Schuster, che sta tentando di mediare con il CLNAI (Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia) la resa delle forze fasciste, nella speranza di evitare ulteriori spargimenti di sangue.
Tuttavia l'indecisione di Mussolini e l'intransigenza delle parti rendono impossibile qualsiasi accordo. I comandi delle SS tedesche (generale Wolff), poco prima dell'arrivo del duce, fanno sapere al cardinale di non aver più bisogno di lui, avendo essi nel frattempo stretto un patto separato con gli Alleati (all'oscuro da Hitler, ovviamente) e con uomini vicini al CLN.
Appresa da Schuster la notizia, Mussolini si sente tradito e definitivamente abbandonato anche dai tedeschi, interrompe la discussione e lascia precipitosamente l'arcivescovado.
Nonostante il parere contrario di parte del suo seguito, Mussolini decide quindi di lasciare Milano. I motivi della decisione non sono del tutto chiari (nei giorni precedenti si era parlato di un'ultima resistenza in un possibile "ridotto della Valtellina").
Vi è chi ritiene che fosse stato concordato un incontro segreto con emissari alleati provenienti dalla Svizzera, ai quali Mussolini si sarebbe dovuto consegnare portando con sé importanti documenti.[senza fonte] Alcuni sostengono che se l'intento fosse stato solo quello della fuga, Mussolini avrebbe potuto utilizzare il trimotore SM79 pronto all'aeroporto di Bresso, con il quale alcuni personaggi minori della RSI e parte della famiglia Petacci ripararono in Spagna il 26 aprile. Si è anche supposto che Mussolini, nell'improbabilità di uscirne indenne, volesse a tutti i costi evitare di cadere nelle mani degli Alleati, pur nella consapevolezza che se fosse finito in mano ai partigiani sarebbe stato certamente giustiziato.
Nel tardo pomeriggio del 25 aprile, la colonna di Mussolini parte dalla Prefettura alla volta di Como, per poi proseguire quasi subito verso Menaggio, lungo la sponda occidentale del lago (anziché verso la più sicura sponda orientale, come proposto dal capo del Partito Fascista Repubblicano Alessandro Pavolini). Mussolini trascorre l'ultima notte da uomo libero pernottando in un albergo del piccolo comune di Grandola, a pochi chilometri dal confine svizzero. Il giorno dopo Mussolini, insieme a pochi fedeli e a Claretta Petacci, che lo aveva frattanto raggiunto, ridiscende verso il lago.
Sulla statale Regina si unisce ad una colonna della contraerea tedesca in ritirata e alla colonna di Pavolini, che arrivato a Como in mattinata aveva subito proseguito lungo il lago.
La colonna è fermata una prima volta a Musso, dove Mussolini è convinto dal tenente SS Birzer, incaricato di custodirlo dal suo comando poco prima della partenza da Gargnano, a nascondersi su un camion della colonna tedesca indossando un cappotto da sottufficiale. Dopo pochi chilometri la colonna viene fermata nuovamente a Dongo da un piccolo gruppo di partigiani della 52a Brigata Garibaldi al comando del conte fiorentino Pier Luigi Bellini delle Stelle. Durante la perquisizione Mussolini è riconosciuto dal partigiano "Bill" (Urbano Lazzaro) e arrestato. Viene quindi trattenuto prima a Domaso, nella caserma della Guardia di Finanza, per poi essere trasferito nella notte fra il 27 e il 28 aprile in un casolare di Bonzanigo.

La morte di Mussolini
« Qui Radio Milano liberata! »
(Comunicato di Radio Milano, che in seguito annuncerà la cattura e la successiva esecuzione di Benito Mussolini, Claretta Petacci e altri gerarchi fascisti.)


Pochi giorni prima era stato emesso un comunicato del CLN nel quale si esprimeva la necessità di una rinascita sociale e politica dell'Italia, attuabile solo attraverso l'uccisione di Mussolini e la distruzione di ogni simbolo del partito fascista. Il documento era a firma di tutti i componenti del CLN (Partito comunista, il Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria, Democrazia del Lavoro, il Partito d'azione, la Democrazia cristiana, il Partito liberale italiano).
La decisione di dar corso pratico al comunicato fu presa da coloro che detenevano Mussolini nell'arco di poche ore, in un contesto in cui era molto difficile mettersi in contatto con Roma e far riunire il Comitato di Liberazione Nazionale. I partigiani che lo avevano catturato riuscirono a informare con mezzi di fortuna (i telefoni di una società idroelettrica) il comando di Milano, che mandò subito un reparto di partigiani appena arrivati dall'Oltrepò Pavese e alcuni emissari politici (Aldo Lampredi, Pietro Vergani e Walter Audisio). Il ruolo del CLN di Milano nell'esecuzione di Mussolini non è in ogni modo del tutto chiaro, e pare che alcuni membri dello stesso siano stati informati a cose fatte.
Secondo la versione di Raffaele Cadorna, nell'impossibilità di contattare il CLN occorreva prendere la decisione che fosse nel miglior interesse dell'Italia. Cadorna sosteneva che se Mussolini fosse stato consegnato agli Alleati ne sarebbe scaturito un processo a un intero ventennio di politica italiana, nel quale sarebbe stato difficile separare le responsabilità di un popolo da quelle del suo condottiero. Nel conseguente discredito, l'eventuale sopravvivenza di Mussolini non avrebbe avuto nessuna utilità.
La mattina del 28 aprile Leo Valiani portò a Cadorna un ordine di esecuzione a firma del CLNAI, riferendogli che si trattava della decisione raggiunta da Valiani medesimo insieme con Luigi Longo, Emilio Sereni e Sandro Pertini la sera precedente: uccidere Mussolini senza processo, data l'urgenza.
L'esecuzione avvenne il 28 aprile 1945; secondo la versione ufficiale (contestata da più parti, soprattutto per quanto riguarda gli autori e le modalità) Mussolini fu fucilato assieme a Claretta Petacci a Giulino di Mezzegra, in via XXV Maggio (di fronte a Villa Belmonte), a 21 km da Dongo.
I tempi e i modi dell'esecuzione furono dettati anche dalla volontà di evitare interferenze da parte degli alleati, che avrebbero preferito catturare Mussolini e processarlo davanti ad una corte internazionale.
Nel frattempo a Dongo, un altro gruppo del reparto di partigiani delle Brigate Garibaldi sopraggiunti dall'Oltrepò Pavese giustiziava i gerarchi del seguito di Mussolini, tra i quali il filologo Goffredo Coppola (allora rettore dell'università di Bologna), Alessandro Pavolini (segretario del PFR), Nicola Bombacci (che era stato uno dei fondatori del Partito Comunista d'Italia e aveva successivamente aderito alla RSI), il Ministro dell'economia Paolo Zerbino, il Ministro della cultura popolare Ferdinando Mezzasoma, e Marcello Petacci (fratello di Claretta) che si era unito alla colonna a Como.
I corpi di Mussolini e degli altri giustiziati furono poi trasportati a Milano e scaricati in piazzale Loreto, nello stesso luogo dove l'anno precedente erano stati fucilati e lasciati esposti al pubblico quindici partigiani (come rappresaglia per un attentato non rivendicato).
La gente accorsa in piazza prese ad insultare i cadaveri, infierendo su di loro con sputi, calci ed altri oltraggi, accanendosi in particolare sul corpo di Mussolini.
Il servizio d'ordine, composto di pochi partigiani e vigili del fuoco, decise quindi di appendere i corpi a testa in giù alla pensilina di un distributore di benzina. Ai cadaveri si aggiunse poco dopo quello di Achille Starace (già segretario del PNF ma caduto in disgrazia e privo di cariche nella RSI) fermato per le strade di Milano mentre faceva jogging e fucilato alla schiena dopo un processo sommario.
Passate alcune ore, su pressione delle autorità militari alleate preoccupate per la tutela dell'ordine pubblico, i corpi furono trasportati all'obitorio, e sottoposti ad autopsia.
Sulla morte di Mussolini si sono prodotte nel tempo varie congetture e teorie che hanno messo in dubbio molti punti della versione dei fatti fornita dal Colonnello Valerio (Walter Audisio) - il comandante partigiano che ebbe l'incarico di eseguire la decisione del CLN - considerata da alcuni un resoconto inattendibile.
Secondo una di queste ipotesi alternative, l'incarico sarebbe stato attuato dal partigiano Bruno Giovanni Lonati, insieme ad un agente segreto britannico che desiderava impossessarsi del misterioso carteggio che il duce aveva avuto con Churchill, compromettente per quest'ultimo. Si spiegherebbe così la presenza di Churchill sul lago di Como subito dopo la guerra. Secondo altre versioni, l'esecuzione avvenne ad opera di importanti dirigenti politici del CLN ai quali Walter Audisio avrebbe fornito la necessaria copertura.
L'uccisione di Mussolini e della Petacci, e la decisione di esporre i corpi al pubblico ludibrio, ricevettero successivamente numerose critiche anche da parte di esponenti della Resistenza antifascista.
Lo stesso Ferruccio Parri, capo del CLN, definì la vicenda "uno spettacolo da macelleria messicana" e Pertini dichiarò: «a Piazzale Loreto l'insurrezione si è disonorata». Ancora oggi alcuni interrogativi restano aperti, sulla legittimità dell'accaduto e sulle motivazioni che vi condussero. Non è possibile tuttavia esprimere una valutazione univoca e oggettiva, che non tenga conto delle circostanze e del contesto storico. Il solo dato di fatto che si può osservare è che in Italia non fu celebrato un processo giudiziario nei confronti dei gerarchi fascisti paragonabile a quello tenutosi a Norimberga contro il Nazismo. Un simile processo, pur con tutti i suoi limiti, sarebbe comunque potuto risultare espressione di un giudizio al di sopra delle parti.
Nell'aprile del 1946 la salma di Mussolini fu trafugata dal Cimitero di Musocco da un gruppo di fedeli definitisi "SAM-Squadre d'Azione Mussolini", capitanati da Domenico Leccisi. Il corpo fu portato a Madesimo e successivamente alla Certosa di Pavia. Dopo la restituzione alla famiglia, nel 1956, la salma fu traslata nella cappella di Predappio.
La caduta di Mussolini e il timore del risorgere nell'immediato dopoguerra di tendenze neofasciste determinò l'introduzione del reato di Apologia del fascismo.
Pensiero politico
«La libertà senza ordine e disciplina significa dissoluzione e catastrofe.» (Da un discorso pronunciato nell'atrio del municipio di Torino da Mussolini, 24 ottobre 1923)
Nel 1932, presumibilmente insieme a Giovanni Gentile (o comunque sotto la sua influenza), Mussolini scrisse la voce fascismo per l'enciclopedia Treccani, in cui precisava la dottrina del suo partito.
Mussolini ammise che non vi fu un principio ispiratore preciso che portò alla nascita del movimento, che originò da un bisogno d'azione e fu azione. Proprio per questo motivo, durante tutto il ventennio, il Fascismo si caratterizzò per la coesistenza al suo interno d'istanze e correnti di pensiero minoritarie fortemente differenti e apparentemente poco conciliabili tra loro.
Emblematico, da questo punto di vista, è il programma di San Sepolcro, col quale il movimento dei Fasci di Combattimento si presentò alle elezioni del 1919. In esso erano espresse proposte fortemente progressiste, molte delle quali furono poi man mano abbandonate dal movimento entro l'ottobre 1922 (tra queste l'originale carattere antimonarchico e anticlericale del fascismo, che avrebbe pregiudicato ogni compromesso con la monarchia italiana e col clero), per essere poi riaffermate, anche se prevalentemente solo a livello propagandistico, dal Partito Fascista Repubblicano. Il fascismo sansepolcrista chiese la concessione del suffragio universale, una riforma elettorale in senso proporzionale, la riduzione dell'età di voto a 18 anni e dell'orario di lavoro a otto ore giornaliere, i salari minimi garantiti, la gestione statale (o meglio da parte di cooperative di lavoratori) dei servizi pubblici, la progressività della tassazione, la nazionalizzazione delle fabbriche d'armi, l'eliminazione della nomina regia del Senato e la convocazione di un'assemblea che permettesse ai cittadini di scegliere se l'Italia dovesse essere una monarchia o una repubblica.
Riprendendo quanto accennato sopra, la nota dominante del pensiero mussoliniano fu l'attivismo (questo fu uno dei principali motivi per i quali il fascismo esaltò l'intraprendenza e la vitalità della gioventù - facendo di "Giovinezza" il proprio inno - e l'idea di un uomo agonisticamente attivo e preparato): non conta ciò che si è fatto, ma ciò che vi è ancora da fare.
A tal proposito, le principali ambizioni del fascismo furono:

▪ la rifondazione dell'Impero romano, attraverso una politica aggressiva di potenza (la guerra è «positiva» perché «imprime un sigillo di nobiltà al popolo che l'affronta»), per mezzo della quale l'Italia avrebbe dovuto assurgere al ruolo di guida e modello per le altre nazioni a livello politico, economico e spirituale. A tale scopo si insistette sulla necessità di un esercito forte e ben strutturato (pur non riuscendo a raggiungere in tal senso un risultato concreto). Emblematica, sotto questo punto di vista, è la volontà mussoliniana, ampiamente propagandata;

▪ la creazione di un «italiano nuovo», eroico, dotato di senso di appartenenza alla nazione, in grado con la propria azione di forgiare la storia, inserito in uno Stato che ne riassume le aspirazioni. Ciò si sarebbe dovuto realizzare attraverso il completo superamento dell'individualismo e della connessa concezione individualista della libertà: l'individuo deve esplicare la propria libertà non in modo egoistico, in una prospettiva concorrenziale cogli altri soggetti, ma in modo ordinato e disciplinato, concependosi come parte di una collettività (la nazione italiana incarnata dallo stato fascista) indirizzata verso un fine comune e non divisa dall'odio classista (fu abbandonato il concetto socialista di «lotta di classe»). A tal fine, si affermò la necessità di rinsaldare il sentimento di appartenenza nazionale attraverso l'esaltazione dello spirito patriottico italiano e della storia italiana. In tale contesto ideologico, lo Stato venne hegelianamente concepito come etico, ovvero fu inteso come fine e non come mezzo. Dunque, l'interesse dello stato prevale su quello dei singoli in nome del raggiungimento del bene comune ed esso ha una propria missione e consapevolezza: esaltare l'essenza nazionale. Il fascismo si doveva esaurire non nello Stato fascista, ma nello Stato di tutti gli italiani. Hegel comunque contribuì solo in parte alla sua formazione. L'unico filosofo che Mussolini studiò veramente fu Nietzsche, dal quale in gioventù fu ammaliato e dalla cui dottrina del superuomo egli trasse il senso da dare alla rivoluzione fascista;

▪ l'unificazione di tutte le terre considerate "italiane" in un'unica nazione italiana, proponendo il movimento fascista come soluzione della questione dell'Irredentismo e della Vittoria mutilata (mediante l'annessione anche violenta delle terre irredente) e conseguentemente (essendo l'obiettivo originario del Risorgimento l'unificazione dei territori italiani in un unico stato) come il "coronamento del risorgimento".

Emerge quindi come il fascismo si sia caratterizzato, nella sua concreta realizzazione storica, come un movimento autoritario, nazionalista e antidemocratico. Nel 1931 Mussolini esplicitò il proprio rifiuto della democrazia, definendo la disuguaglianza come «feconda e benefica» e in "Dottrina del Fascismo" scrisse che «regimi democratici possono essere definiti quelli nei quali, di tanto in tanto, si dà al popolo l'illusione di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre forze talora irresponsabili e segrete».
Da ultimo, è importante sottolineare come il fascismo fu sempre considerato dai suoi aderenti un movimento rivoluzionario, trasgressivo e ribelle (emblematico in tal senso il motto «me ne frego») in radicale contrasto col liberalismo dell'Italia pre-fascista. Pur avendo all'inizio tutelato gli interessi della borghesia industriale, Mussolini respinse ogni ipotesi di collusione con essa.

Un solo "Duce", molti miti.
Lo svilupparsi, il consolidarsi e la successiva e definitiva decadenza del mito di Mussolini - o, meglio, dei diversi tipi di mito mussoliniano - sono stati analizzati dallo storico Emilio Gentile nel suo saggio Fascismo. Storia e interpretazione.

Nel capitolo intitolato Mussolini: i volti di un mito, l'autore passa in rassegna ed esamina con l'ausilio di diverse testimonianze ampiamente documentate, i diversi momenti di colui che fu - appunto come mito - una componente fondamentale del fascismo e sicuramente uno dei miti più popolari nell'epoca fra le due guerre mondiali.
A essere tracciati sono quindi i profili dei diversi Mussolini: quello socialista, capo rivoluzionario e astro nascente del quadro politico nazionale al congresso di Reggio Emilia del 1912, il quale, in virtù anche della giovane età e della indubbia capacità oratoria, si proponeva come mito di una società che voleva essere moderna in maniera oltre e comunque differente rispetto alle spinte che venivano dalla corrente riformista del partito, in aperto antagonismo con la denunciata abulìa della politica giolittiana dell'epoca; quello nazionalradicale ed interventista, mentre era alle porte la prima guerra mondiale; quello del Capo e Duce che seppe coagulare attorno al movimento da lui creato, dopo la sua uscita dall'orbita del socialismo, una vera e propria fabbrica del consenso (il Mussolini della gente comune e giustiziere [per conto] del popolo); per giungere infine a quello della catastrofe e della caduta (della fiducia popolare, ma non solo) che, sfumata l'onda della macchina propagandistica e raccolti gli insuccessi in campo politico, diplomatico e militare, non poté che confidare nella visione degli irriducibili che da mitica non poteva che trasformarsi - inevitabilmente, si direbbe - in mistica. Scrive Gentile:
«Come altri miti politici del nostro tempo, anche questo [di Mussolini] è stato il prodotto di una situazione storica, cioè di condizioni sociali e psicologiche, culturali e politiche; ma, a sua volta, il mito ha operato nella realtà, ha influito sullo svolgimento della situazione storica condizionando l'atteggiamento di molte persone verso di essa. Nella moderna politica di massa, il mito ha un ruolo e un'attività che non possono essere trascurati nell'analisi dei movimenti collettivi senza compiere una sensibile mutilazione nella loro realtà storica. E questo vale soprattutto per il fascismo, che è stato il primo movimento politico di massa che ha portato il mito al potere.» Emilio Gentile, Fascismo. Storia e interpretazione, Editori Laterza, 2005, ISBN 88-420-7544-2. pp. 113-114.

- Alessandro Pavolini (Firenze, 27 settembre 1903 – Dongo, 28 aprile 1945) è stato un giornalista, politico e scrittore italiano, ministro della Cultura popolare e segretario del Partito fascista repubblicano.

Ambito familiare e formazione
Figlio di Paolo Emilio, poeta e filologo (studioso di lingue nord orientali europee e professore di sanscrito), livornese originario dell'isola d'Elba, nacque nell'aristocratica ed antica residenza fiorentina occupata dalla famiglia in via San Gallo 57.
Secondo i biografi, il giovane Alessandro avrebbe mostrato una precocissima attitudine al giornalismo, redigendo nel 1911, a soli otto anni, con l'aiuto del fratello Corrado, un foglio ciclostilato dal titolo "La guerra" in appoggio alla campagna di Libia. Qualche anno più tardi sarebbe stata la volta di un'analoga iniziativa volta a esaltare l'intervento italiano nella prima guerra mondiale, su un foglio dal titolo "Il Buzzegolo", così detto da un soprannome familiare del giovane Alessandro. Dal 1916 al 1920 frequentò il ginnasio ed il liceo classico presso l'istituto "Michelangelo". Si iscrisse quindi alla facoltà di Legge dell'Università di Firenze ed a quella di Scienze Sociali di Roma, mentre iniziava le prime esperienze letterarie ed alternava all'impegno culturale quello politico.
Già nel 1920 aderì al Fascio di Firenze e partecipò a varie azioni squadriste al seguito del conte Dino Perrone Compagni. Fu allo stesso tempo amico di Carlo e Nello Rosselli. Due anni dopo, mentre si stava svolgendo la marcia su Roma, si trovò nella Capitale per sostenere un esame universitario e colse l'occasione per unirsi al gruppo di fascisti proveniente da Firenze, ed essere così considerato come partecipante all'evento (questo gli permise di assumere il titolo di squadrista, un requisito importante per fare carriera nel ventennio).
Tra il 1923 e il 1924 svolse il servizio militare come sottotenente dei Bersaglieri e al congedo ottenne il grado di centurione della MVSN.
Nel 1927, durante le vacanze estive passate a Castiglioncello, durante le quali si dedicava spesso e con discreto successo al tennis, conobbe la futura moglie, Teresa Franzi, nipote di un senatore e figlia di un affermato ingegnere milanese. La sposò nel 1929 e la coppia ebbe tre figli, Ferruccio (1930), Maria Vittoria (1931) e Vanni (1938).

L'attività politica, culturale e giornalistica
Si laureò in legge a Firenze ed in scienze sociali a Roma nel 1924. Nello stesso anno fu a capo di una sollevazione per l'espulsione di Gaetano Salvemini, docente antifascista, dall'università di Firenze. Allo scontro assistette l'azionista Piero Calamandrei che in seguito ricordò: «Soprattutto mi restarono impressi, nei cento volti di quella canea urlante, gli occhi di Alessandro Pavolini, allora studente di legge, che capeggiava quell'impresa: egli mi guardava senza parlare con occhi così pieni di accuminato odio che quasi ne rimasi affascinato come se fossero occhi di un rettile: c'era già in quegli occhi la spietata crudeltà di colui al quale vent'anni dopo, alla vigilia della liberazione della sua città, doveva essere riservata la gloria di organizzare i franchi tiratori, incaricati di prendere a fucilate dai tetti le donne che uscivano durante l'emergenza a far provvista d'acqua. » (Piero Calamandrei)
Successivamente ricoprì vari incarichi negli istituti di cultura e negli organismi giovanili fascisti (fu ad esempio addetto stampa della Legione Ferrucci). Collaborò a Battaglie fasciste, Rivoluzione fascista e a Critica fascista. Pubblicò il romanzo Giro d'Italia e compose poesie di tema crepuscolare.
Nel maggio del 1927 fu nominato vice Federale di Firenze. Nel 1929 successe, appena ventiseienne, al marchese Luigi Ridolfi alla carica di segretario della federazione provinciale del PNF di Firenze. In questo ruolo promosse la realizzazione dell'autostrada Firenze-Mare e della centrale Stazione di Santa Maria Novella, ed istituì il Maggio Musicale Fiorentino.
Sempre nel 1929 fondò la rivista Il Bargello, organo della federazione e rivista letteraria. Tra il 1926 e il 1932 fece sporadici interventi su Solaria e collaborò saltuariamente a riviste letterarie.
Eletto deputato nel 1934, collaborò con Giuseppe Bottai all'ideazione dei Littoriali della cultura e dell'arte. Dal 1934 al 1942 fu stabilmente al Corriere della sera come inviato speciale. Dal 29 ottobre 1934 al 23 novembre 1939 fu presidente della Confederazione fascista dei professionisti e artisti e membro del consiglio nazionale delle Corporazioni.
Strinse amicizia con Galeazzo Ciano, con il quale condivideva un'idea del fascismo alquanto distante da quella propugnata da Starace, ed il piacere della bella vita. Ciano lo protesse e lo difese a più riprese, più di quanto non avesse mai fatto per qualsiasi altro, una prima volta nel 1935 quando a Mussolini giunse una segnalazione nella quale, dopo essere stato ridicolizzato come combattente, veniva accusato di cumulare incarichi e prebende sino a mettere assieme stipendi da favola ed in almeno un'altra occasione, nel novembre 1937, quando Mussolini espresse a Ciano dubbi sul "lealismo politico" di Pavolini.
Almeno sino al 1939 Pavolini si mantenne - almeno apertamente - vicino al noto sentire di antitedesco di Ciano, tanto che in occasione dell'occupazione della Boemia, esclamò:
«Ecco l'occasione buona per mettere a posto per sempre la Germania.» e l'eco di tale dichiarazione giunse sino a Berlino.

Ministro del Minculpop
Nel 1938 Pavolini fu tra i firmatari del Manifesto della razza in appoggio alle leggi razziali fasciste.
Dal 31 ottobre 1939 fu ministro della Cultura Popolare, il Minculpop, in sostituzione di Alfieri, inviato a Berlino come ambasciatore. Per Montanelli, con la sua nomina "salì sul firmamento fascista una stella che avrebbe brillato di luce sanguigna durante il periodo repubblichino".
Ad ispirare la nomina di Pavolini fu il suo amico Galeazzo Ciano che già la sera del 19 ottobre 1939 aveva annotato nel suo Diario: «...Il Duce si accinge a fare ministri tutti i miei amici, Muti, Pavolini, Riccardi, Ricci...». Tutti, come lo stesso Ciano, erano originari della Toscana. Tale fu l'influenza del genero del duce percepita nel rimpasto ordinato da Mussolini (mentre la guerra europea divampava ormai da due mesi), che presso alcuni circoli il nuovo governo venne definito, seppure a mezza bocca, "il primo gabinetto Ciano".
Ancora, sempre durante la guerra, Pavolini, allo scopo di stigmatizzare la rivista fascista "Il Primato", che aveva pubblicato in copertina un'illustrazione raffigurante alcuni soldati seduti in un bivacco, emise un messaggio che recitava:
«In Italia i soldati devono stare sempre in piedi.»
Nel gennaio del 1941 fu inviato sul fronte greco, col grado di capitano, sempre al seguito di Ciano. La polizia politica registrò un'azione riservata di attacco compiuta con ardore ma senza fortuna dai due gerarchi: la "vittima" era un'attricetta di passaggio a Bari, che ne uscì indenne.
Pavolini perse l'incarico di ministro a seguito di un rimpasto governativo voluto da Mussolini l'8 febbraio 1943, nel tentativo di controllare il fronte interno mentre la guerra appariva ormai perduta: i pesanti bombardamenti alleati sulle città italiane e il diluvio di feriti e di caduti che né la propaganda di Pavolini, né la censura militare riuscivano più ad occultare, avevano ormai reso chiaro a tutti ciò che da tempo era chiaro anche ad alcuni membri della Casa reale.
Forse consapevole del fallimento di una propaganda à la Starace, Mussolini secondo una interpretazione dei fatti tentò di risalire la china con un cambio di ministri nell'ambito del quale la testa più illustre a cadere fu proprio quella del ministro della Cultura popolare. Pavolini fu così privato del ministero (sostituito da Polverelli) e nominato direttore del quotidiano romano Il Messaggero. Secondo altre interpretazioni[senza fonte], invece, il rimpasto era però dovuto al conflitto sotterraneo sulle più alte cariche dello Stato che andava aprendosi tra Casa reale e Capo del governo, e Mussolini intendeva togliere gli uomini sospetti di maggiore fedeltà alla monarchia che al fascismo dalle poltrone più delicate [21], dovendo poi a catena propagare gli avvicendamenti.
In ogni caso, quello impostogli da Mussolini costituì obiettivamente un arretramento - seppure destinato a restare momentaneo, conservò comunque la carica di consigliere nazionale del PNF - nel prestigio di Pavolini e come un allontanamento (ancora, temporaneo) dalle alte sfere della politica attiva, sebbene a Pavolini fosse stata comunque offerta una tribuna, quella di direttore di un importante quotidiano, che gli consentiva, se non altro, di tornare a coltivare la sua vecchia passione per il giornalismo.
Continuò l'attività letteraria con la pubblicazione di memorie come Disperata (1937) e racconti o romanzi come Scomparsa d'Angela (1940).

Segretario del Partito Fascista Repubblicano
«Il fanatismo divenne violenza e crudeltà anche in uomini che, come Alessandro Pavolini, avevano sensibilità e cultura » (Indro Montanelli)
In seguito al 25 luglio 1943 e alla destituzione e all'arresto di Mussolini, Pavolini fece perdere le proprie tracce, beffando sia la folla che all'annuncio della caduta di Mussolini occupò la sede de Il Messaggero chiedendone la testa, sia la polizia di Pietro Badoglio, che invano perquisì la sua villa sulla via Flaminia, trovandola vuota (essendo moglie e figli altrove a passare le ferie estive). Pavolini si nascondeva in città, presso un amico, dopo aver appreso l'esito della seduta del Gran Consiglio nella nottata del 25 luglio direttamente dal ministro Zenone Benini, che riferì di averlo udito gridare "Mitra! Mitra! Alla macchia!" mentre si allontanava.
Cinque minuti prima della mezzanotte del 27 luglio un'auto nera con le tendine abbassate fu vista varcare il cancello di Villa Wolkonsky, all'epoca sede dell'ambasciata tedesca a Roma. A bordo c'era Pavolini, venuto a cercarvi rifugio. L'indomani mattina ne uscì su un'auto diplomatica diretta allo scalo aereo di Ciampino, da dove partì su un aereo militare raggiungendo Vittorio Mussolini a Koenigsberg.

La ricostituzione del partito fascista
Tra i gerarchi che si erano rifugiati in Germania a seguito del tracollo del regime, Pavolini colse l'occasione per risalire repentinamente la china e presentarsi ai nazisti come il più fedele dei fedeli al duce, intransigente continuatore degli ideali e della violenza del primo squadrismo. Ancor prima dell'armistizio dell'8 settembre, insieme a Vittorio Mussolini, sviluppò i piani politici per la restaurazione del fascismo e pronunciò comunicati radio destinati all'Italia che preannunciavano il ritorno del duce al governo: quando questi fu liberato dalla prigionia sul Gran Sasso e condotto in Germania, Pavolini fu a Monaco in prima fila tra coloro che sostennero la necessità di dare all'Italia del centro-nord un "governo provvisorio nazionale" dopo la fuga da Roma del Re e di Badoglio; un tale governo, insistette con l'esitante Mussolini, attendeva "la ratifica del suo capo naturale", ovvero Mussolini stesso.

La Repubblica Sociale
Costituita la Repubblica Sociale Italiana, fu nominato segretario provvisorio del nuovo Partito Fascista Repubblicano, ed il 17 settembre era già a Roma insieme a Guido Buffarini Guidi per riaprire la sede del Partito, a palazzo Wedekind, e reclutare, soprattutto fra i gerarchi, aderenti ed appoggi per il nuovo organismo.
Il 23 settembre, dopo un burrascoso colloquio con il maresciallo Rodolfo Graziani e convintolo all'adesione al rinascente partito, Pavolini convocò gli ufficiali del Presidio Militare di Roma e, annunciato loro che il "il partito che io guido... sarà un partito totalitario", ordinò alla Divisione Piave di deporre le armi, consegnarle ai tedeschi e di mettersi in marcia verso il nord, in attesa di ulteriori ordini.
L'aspirazione di Pavolini ad essere non solo capo politico, ma anche militare, lo portò a frequenti scontri con altri gerarchi, dai quali spesso finì per uscire vincitore: con Graziani che desiderava che il nascente esercito della neonata repubblica fascista fosse apolitico, e con l'amico Ricci, contro la cui creatura, la Guardia Nazionale Repubblicana, l'ex ministro della propaganda condusse una dura e continua lotta, sino a riuscire a contrapporgli le "sue" Brigate Nere.
In poche settimane raccolse circa 250.000 richieste di iscrizione, giungendo a chiudere la campagna di tesseramento per il sospetto che potessero essere richieste strumentali da parte di "avventurieri ed opportunisti".
Questo dato portò al congresso costituente di Verona (nel successivo novembre) raccontando: «ci siamo impadroniti dei ministeri mandando un camerata accompagnato da due, massimo da quattro giovani fascisti armati di mitra».
In realtà i due gerarchi erano nella capitale, seguendo un progetto discusso a Monaco con Mussolini, per riunire la Camera dei fasci ed il Senato per far loro dichiarare decaduta la monarchia, ma si avvidero che era eccessivamente rischioso, avendo le Camere già votato in modo apertamente antifascista.

L'assise di Verona
Partecipò in modo decisivo alla stesura del Manifesto di Verona, nel congresso del PFR del 14 e 15 novembre 1943; commentò a posteriori l'assise sostenendo che vi si era espresso «un ardore di fede disordinata» (ciò che Mussolini descrisse in modo più diretto come una «bolgia vera e propria» «con molte chiacchiere confuse e poche idee chiare»).
Pavolini aveva aperto la riunione paventando il pericolo costituito dai partigiani e questo s'era - o almeno così apparve - materializzato con persino eccessiva puntualità: mentre il congresso ero in corso, giunse a Verona la notizia dell'uccisione di Igino Ghisellini, pluridecorato reggente la Federale di Ferrara. Ghisellini dopo l'armistizio aveva aperto trattative con gli antifascisti e che, forse per questo, era in urto con Pavolini e Farinacci.
Pavolini assecondò le richieste di rappresaglia dell'assemblea congressuale che, inferocita dalla notizia, avrebbe preteso un concentramento di forze straordinario, pur disponendo infine l'invio solo degli squadristi ferraresi e di Verona e Padova, ma promettendo che quanto da farsi «lo faremo con il nostro stile spietato e inesorabile».
Settantacinque antifascisti innocenti furono prelevati dalle loro abitazioni e dalle locali carceri, undici dei quali sommariamente fucilati la notte stessa del 15 novembre (la "lunga notte del '43" rievocata nel film di Florestano Vancini), mentre alcuni altri morirono successivamente in carcere (sotto i bombardamenti alleati o -come nel caso della maestra socialista Alda Costa - di morte naturale). Le circostanze dell'omicidio furono chiarite solo nel dopoguerra, quando un processo celebrato nel 1948 concluse che Ghisellini fu ucciso dai suoi stessi camerati per contrasti intestini.
La rappresaglia di Ferrara fu criticata da Mussolini per la sua ferocia e per la sua inopportunità politica: in quel momento egli cercava di riunire quel che restava del Paese sotto la RSI, non precipitarlo ulteriormente in una guerra fratricida. Tuttavia, da quel momento il dado fu definitivamente tratto.
Roberto Farinacci commentò così l'episodio su "Il Regime Fascista":
«La parola d'ordine è stata: occhio per occhio, dente per dente. Si è creduto forse che noi non avessimo la forza e il coraggio di reagire. I fatti ora hanno parlato».
Da quel momento la stampa di Salò prese ad impiegare largamente il neologismo "ferrarizzare" quale sinonimo di analoghe operazioni di liquidazione del nemico interno reputate "esemplari".
D'altra parte, la guerra civile non fu una scelta casuale, né essa ebbe un solo padre o fu imposta dai partigiani che, all'epoca dell'assise di Verona, erano ancora assai meno numerosi dei fascisti di Salò in armi, per non parlare di quelli iscritti al PFR, circa 250mila come abbiamo visto, molti dei quali erano fascisti della prima e primissima ora, in gran numero marginalizzati se non epurati durante il regime.
Il fascismo risorto dalle sue ceneri sotto la segreteria di Pavolini era in effetti un vulcano in ebollizione pieno di contraddizioni e di rivalità intestine sviluppate dalle diverse personalità che lo animavano, da Guido Buffarini Guidi a Renato Ricci, da Rodolfo Graziani a Roberto Farinacci, Giovanni Preziosi o Pavolini e che non si risparmiavano nell'ordire intrighi e colpire i rivali e nel fomentare contrapposizioni anche feroci.

Il processo di Verona
L'incitamento all'odio ed alla liquidazione dei "traditori" fu consapevolmente scelto e portato avanti con coerenza sino all'ultimo dal segretario del partito come forse l'unico strumento davvero efficace e praticabile per ricompattarne dietro un fronte comune le diverse anime ed i differenti capi del fascismo repubblicano. E fu allo stesso concetto - quello dell'ineluttabilità della vendetta contro i traditori (tra essi il genero di Mussolini e suo amico personale Galeazzo Ciano) - che Pavolini si richiamò nell'ispirare e nel condurre tragicamente a termine con spietata coerenza l'esemplare processo e punizione con la morte dei responsabili del "suicidio del fascismo", i membri del Gran Consiglio che il 25 luglio 1943 avevano votato contro Mussolini e sui quali i fascisti di Salò ed i tedeschi erano riusciti a mettere le mani.
Fu in questo contesto che Pavolini si guadagnò la definizione di "irriducibile" e a tal proposito lo si ricorda come "il Superfascista".
Secondo Mack Smith, la sua prima fama sarebbe stata quella di un uomo "intelligente e sensibile", ma oramai "il fascismo ne aveva fatto un fanatico privo di scrupoli, un uomo spietato e vendicativo che credeva nella politica del terrore".
A Mezzasoma, suo "successore" al controllo della stampa, ordinò che i giornali evitassero appelli "per la pacificazione delle menti e la concordia degli spiriti, per la fraternizzazione degli italiani".
Coetaneo, sodale e più volte beneficiato di Ciano, fu tra i più intransigenti nel chiederne la pena capitale in occasione del processo di Verona. Carolina Ciano, madre dell'ucciso, attribuì in un suo scritto la responsabilità della sua fucilazione a Pavolini insieme con Buffarini, Cosmin e donna Rachele, la moglie di Mussolini.

Le Brigate Nere, la milizia di Pavolini
Il 30 giugno 1944 completò la militarizzazione del PFR, con la costituzione delle 39 Brigate Nere (BN), che dichiaravano una forza di 110.000 unità; fu, secondo Montanelli, un "esercito personale" del segretario del PFR. Per Ricciotti Lazzero non si ebbero mai reparti di più basso livello morale e tecnico-militare.
Nell'agosto del 1944 era a Firenze, a capo dei fascisti fiorentini; fece abbondante ricorso alla tattica del cecchinaggio e riuscì a resistere in armi per diversi giorni dopo l'arrivo degli Alleati, seminando per altro il terrore in città.
La costituzione delle BN era stata un disegno lungamente inseguito da Pavolini, sin da quando a Roma, nei primi giorni del suo lavoro di ricostituzione del partito fascista, aveva inteso farne un'organizzazione intransigente e totalitaria, esclusivista e combattente nel senso proprio della parola. L'opposizione di vari gerarchi, tra i quali Graziani e Ricci, e la riluttanza di un Mussolini che sembrava sempre più l'ombra di sé stesso, rallentarono la concretizzazione del disegno di militarizzazione del PFR di Pavolini, che riuscì infine nel suo intento solo rivolgendosi astutamente ai tedeschi (in particolare a Wolff e a Rahn) quando ormai gli Alleati premevano verso la linea Gotica ancora in costruzione, facendo loro balenare la possibilità di creare, usando le strutture e gli uomini del partito, un nuovo corpo armato più efficiente, agile e deciso della GNR e dell'esercito, in grado davvero di "distruggere la piaga del ribellismo" e di assicurare la tranquillità delle retrovie germaniche, già significativamente poste sotto pressione dai Partigiani.
La nascita delle BN fu annunciata dallo stesso Pavolini nel primo anniversario del "tradimento" (la caduta di Mussolini l'anno precedente), il 25 luglio 1944 con queste significative parole:
«..Forza della riscossa in cui fiammeggia, in una seconda primavera, il vecchio fuoco dello squadrismo...» (Alessandro Pavolini)
Nel contesto dello stesso annuncio, Pavolini rese noto che i brigatisti già "saldamente inquadrati" erano ventimila, una cifra destinata a crescere rapidamente in numero, ma non in efficienza, sia per la mancanza di materiali e di addestramento, sia per il fatto che i quadri del partito, spesso privi di qualsiasi concreta istruzione ed esperienza militare che andasse di là della partecipazione per vent'anni alle parate del "sabato fascista", vennero automaticamente trasformati dall'oggi al domani in comandanti di formazioni equivalenti alla compagnia, al battaglione o alla divisione, con risultati tecnico-militari tanto ovvi quanto catastrofici, visto che nell'armata pavoliniana furono inquadrati ed armati, senza andare tanto per il sottile, non solo funzionari ed attivisti di partito privi di qualsiasi educazione e disciplina militare, ma anche autentici avanzi di galera, criminali e delinquenti comuni.
L'armata doveva essere impiegata, secondo le parole pronunciate in giugno da Mussolini e riprese da Pavolini, per dare corpo alla "marcia della Repubblica Sociale contro la Vandea": nel caso in questione si trattava del Piemonte, dove i Partigiani erano particolarmente attivi sin dal settembre 1943 e, guidati da comandanti esperti (tra i quali ufficiali del Regio Esercito che avevano preso la via dei monti all'indomani dell'8 settembre), erano riusciti a strappare larghe porzioni di territorio al controllo nazifascista anche per estesi periodi di tempo.
Fu proprio durante le prime operazioni svolte dalle BN in Piemonte che Pavolini ebbe a sperimentare sulla propria pelle la difficoltà del compito di "ripulire radicalmente le province" e la scarsa efficienza bellica del partito fascista repubblicano in armi: durante una battaglia che infuriò tra il 10 e il 12 agosto 1944 nella valle dell'Orco, presso Ceresole Reale, i partigiani della 77a "Garibaldi" attaccarono una colonna delle Brigate Nere guidata dal segretario del PFR in persona, che rimase ferito dai proiettili sparati dal partigiano Gino Seren Rosso. Pavolini fu ricoverato all'ospedale di Cuorgné, ove rimase ricoverato un mese prima di poter far ritorno, ancora aiutandosi con un bastone, a Maderno dove risiedeva. A seguito del ferimento, e su proposta di Wolff, Pavolini fu insignito da Hitler della Croce di Ferro per i suoi "meriti nella guerra antiribellistica".
Il 16 dicembre accompagnò Mussolini nell'auto scoperta che fece il giro di Milano prima dei discorsi del teatro lirico, di piazza San Sepolcro e del castello Sforzesco, prima ed ultima uscita pubblica del duce dopo il 25 luglio del 1943.

Le ultime giornate di Salò
«Un'Idea vive nella sua pienezza e si collauda nella sua profondità quando il morire battendosi per essa non è metaforico giuramento ma pratica quotidiana.» (Alessandro Pavolini)
Fu uno dei protagonisti delle ultime convulse e tragiche giornate del fascismo di Salò. Nella vicenda della fuga e della cattura di Mussolini si innesta a latere quella di Pavolini che, in cerca della "bella morte", tranne che per l'estetica, fu accontentato.
Fu sostenitore o forse proprio ideatore della proposta del Ridotto alpino repubblicano (RAR) che prevedeva di ritirare in Valtellina tutte le truppe ancora teoricamente disponibili (in particolare: le sue Brigate nere) onde poter opporre un'estrema resistenza contro gli Alleati. Sicuramente ne fu il principale organizzatore tant'è che alcuni mesi prima della fine fu costituita su iniziativa di Mussolini una commissione di cordinamento dei lavori del RAR e Pavolini ne fu nominato presidente: ne aveva scelto il comandante (generale Onorio Onori), vi aveva destinato ed accasermato le truppe (squadristi toscani con rispettive famiglie) e programmava un concentramento di circa 50.000 uomini. Queste notizie diede a Mussolini durante la riunione del 14 aprile 1945 alla Villa Feltrinelli di Gargnano, alla presenza dei massimi esponenti della RSI, insieme a programmi come l'escavazione di caverne (bunker) e la traslazione nel ridotto delle ceneri di Dante.
Fra le altre idee di Pavolini, la costruzione di una stazione radio di propaganda e di una tipografia per la stampa di un giornale che avrebbe dovuto essere distribuito lanciandone le copie da un aereo in volo. Essendo tutti i convenuti, Pavolini compreso, già convinti dell'imminente fine, concluse gridando che "in Valtellina si consumeranno le Termopili del fascismo". La proposta, tuttavia, non ebbe concreto seguito.
Per i fascisti che avevano seguito il loro Duce, Pavolini dispose però premi in denaro e la possibilità di optare fra il rifugiarsi in Germania oppure la "mimetizzazione", fruendo di documenti falsi e di tessere annonarie; con Mezzasoma, ministro del Minculpop, preordinò la distribuzione di fondi segreti fra quei fascisti che avessero voluto proseguire in clandestinità la lotta nell'Italia liberata e la disseminazione di "talpe" in organismi cruciali. Con una nota riservata, suggerì a Mussolini di organizzare in Svizzera una centrale fascista di una trentina di elementi fidati, costituendo in quello stato un fondo monetario speciale in valuta straniera per le occorrenze future.
Dopo il fallimento delle trattative di resa con il CLN, Mussolini, dopo una riunione al palazzo della Prefettura, decise di accettare la proposta di Pavolini ed impartì l'ordine di dirigersi verso il RAR, ordine mascherato nella formula "Precampo a Como", ma tuttavia ben chiaro. Pavolini ordinò alle Brigate Nere della Liguria e del Piemonte di muovere verso il RAR e stimò in circa 25.000 le unità in movimento. Prima di partire ebbe un violento scontro con Graziani, che lo accusò di mentire e di illudere il Duce[, e poi con Junio Valerio Borghese il quale gli disse che la Xª Flottiglia MAS non sarebbe andata in Valtellina, ma che si sarebbero arresi, anche se "a modo nostro".
Alla partenza di Mussolini, Pavolini schiaffeggiò Carlo Borsani, cieco di guerra pluridecorato e Medaglia d'oro al valor militare, che aveva "osato" supplicare il Duce di trattare con i partigiani. Mussolini partì la sera del 25 aprile; il giorno dopo Pavolini insieme a Idreno Utimpergher, si mise alla testa di una colonna di 178 veicoli che giunse a Como, ma non trovò Mussolini, il quale aveva proseguito sino a Menaggio, evidentemente non intenzionato a rifugiarsi nel Ridotto. Il 27 aprile da Menaggio proseguì verso Dongo, in direzione dell'Alto Adige.
Pavolini si unì quindi all'autocolonna di Mussolini, che a propria volta si unì ad un'autocolonna della FlaK (contraerei) tedesca in ritirata verso la Germania; Pavolini portava sul suo autoblindo, in testa al corteo, sia quello che diverrà noto come l'oro di Dongo che gli archivi documentari, forse contenenti anche il presunto carteggio Churchill-Mussolini.
Dopo circa un'ora di viaggio, Pavolini fermò la colonna, chiedendo a Mussolini (della cui sicurezza si autoproclamò responsabile) di scendere dalla sua auto per viaggiare sul suo autoblindo.
Poco più avanti incapparono nel posto di blocco improvvisato dalla 52° Brigata Garibaldi agli ordini del conte Pier Luigi Bellini delle Stelle. I partigiani, consultato il loro comando di zona, accettarono qualche ora dopo di far passare i tedeschi, a Mussolini furono fatti indossare un pastrano ed un elmetto da sottufficiale tedesco, nel tentativo di farlo in tal modo passare inosservato e consentirgli di superare il blocco partigiano. Pavolini lo scongiurò drammaticamente di non partire, di non abbandonare i suoi fedeli seguaci, ma Mussolini, lo spintonò, chiedendogli conto delle divisioni di Brigate Nere che gli aveva millantato, "Voi e le vostre fantomatiche Brigate Nere, dove sono finiti tutti gli uomini che mi avevate promesso?" Poi salì sull'autocarro tedesco lasciandosi dietro un Pavolini piangente. Questi, incitato da un giovane legionario della Ettore Muti, studiò la possibilità di attaccare i partigiani, ma Birzer, che della vita di Mussolini rispondeva direttamente a Hitler, riuscì a farlo desistere.
Raggiunto un accordo col conte Bellini, gli autocarri tedeschi, incluso quello sul quale era nascosto Mussolini, partirono e poterono proseguire (superando anche un'ispezione dello stesso Bellini). Gli italiani, dopo la partenza dei tedeschi, avrebbero dovuto invece tornare indietro; fu la volta dell'autocarro di Pavolini, che partì bruscamente e che per superare una cunetta avrebbe fatto una manovra scomposta, una repentina accelerata equivocata come un tentativo di forzare il blocco. Ne nacque una sparatoria. Mentre Barracu proponeva di arrendersi, Pavolini gridava "Dobbiamo morire da fascisti, non da vigliacchi": preso il mitra si lanciò quindi verso il lago, correndo e sparando. Inseguito dai partigiani e ferito, si nascose nella fitta vegetazione sulle rive del lago. A seguito di un'ampia battuta di ricerca fu catturato ch'era ormai notte, indebolito da una ferita da pallini da caccia e tutto bagnato. Fu quindi portato a Dongo, nella Sala d'Oro del palazzo comunale, dove poi fu condotto, brevemente, anche Mussolini anch'egli nel frattempo catturato. Insieme a Paolo Porta e Paolo Zerbino Pavolini fu processato per collaborazionismo con il nemico, passibile quindi di fucilazione immediata.
Furono fucilati anche gli altri 12 arrestati che erano con loro. Pavolini ebbe per ultimo vanto quello di guidare la fila indiana dei condannati che dall'edificio del comune si avviò verso il lungolago, ad una ringhiera del quale, dopo diversi incidenti procedurali, furono schierati di schiena per l'esecuzione.
Il cadavere di Pavolini fu esposto il giorno dopo a Milano, a Piazzale Loreto, appeso con quello di Mussolini.

- Clara Petacci detta Claretta; vero nome Clarice (Roma, 28 febbraio 1912 – Bonzanigo di Tremezzina, ora di Mezzegra, 28 aprile 1945) è nota per essere stata amante di Benito Mussolini, da lei idolatrato fin dall'infanzia. Era sorella dell'attrice Miria di San Servolo, conosciuta anche come Miriam Day o Myriam Petacci, il cui vero nome era Maria Petacci.
Travolta dagli eventi della seconda guerra mondiale, Clara Petacci fu arrestata il 25 luglio 1943, alla caduta del regime, per essere poi liberata l'8 settembre, quando venne annunciata la firma dell'armistizio di Cassibile.
Tutta la famiglia abbandonò Roma e si trasferì nel nord Italia controllato dalle forze tedesche, ove poi sorse la Repubblica di Salò. Clara si trasferì in una villa a Gardone, non lontano dalla residenza di Mussolini e dalla sede del governo repubblicano a Salò. Trasferitisi a Milano a seguito dell'abbandono della riviera gardesana da parte del duce poco dopo metà aprile del 1945, il 23 aprile i Petacci - salvo Clara e il fratello Marcello, che rimasero nella capitale lombarda - si posero in salvo in aereo, giungendo a Barcellona dopo un avventuroso volo durato quattro ore. Il 25 aprile, sia Clara sia Marcello si allontanarono da Milano assieme alla lunga colonna di gerarchi fascisti in fuga verso Como, Marcello tentando di riparare in Svizzera con false credenziali da diplomatico spagnolo. Il 27 aprile 1945, durante l'estremo tentativo di Mussolini di sottrarsi alla cattura, Clara fu bloccata a Dongo da una formazione della 51° Brigata partigiana, che intercettò la colonna di automezzi tedeschi con i quali il duce viaggiava. Taluni affermano che le sia stata offerta una via di scampo, da lei ricusata decisamente.
[…..]
Il giorno seguente, 28 aprile, dopo il trasferimento a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como, Mussolini e Clara furono entrambi fucilati, sebbene su Clara non pendesse alcuna condanna. La versione ufficiale della morte di Mussolini è stata tuttavia contestata ed esistono diverse versioni sull'andamento dei fatti.
Nella stessa giornata anche il fratello di Clara, Marcello Petacci, fu catturato e giustiziato a Dongo dai partigiani, insieme ad altre quindici persone che accompagnavano la fuga di Mussolini.
Il giorno successivo, il 29 aprile, a piazzale Loreto (Milano), i corpi di Benito Mussolini e Claretta Petacci furono esposti (assieme a quelli delle persone fucilate a Dongo il giorno prima e Starace, che venne giustiziato in Piazzale Loreto poco prima), appesi per i piedi alla pensilina del distributore di carburanti ESSO, dopo essere stati oltraggiati dalla folla. Il luogo venne scelto per vendicare simbolicamente la strage di quindici partigiani e antifascisti, messi a morte per rappresaglia in quello stesso luogo il 10 agosto 1944.
Non appena comprese che c'era l'intenzione di appendere per i piedi anche il cadavere della Petacci alla pensilina, don Pollarolo, cappellano dei partigiani, prese l'iniziativa di chiedere ad una donna presente tra la folla una spilla da balia per fissare la gonna indossata dal corpo di Clara. Tale soluzione si rivelò però inefficace e così intervennero i pompieri, sopraggiunti con gli idranti a sedare l'ira della folla, a provvedere a mantenere ferma la gonna con una corda.

Ipotesi controverse sulla morte della Petacci e di Mussolini
L'ex senatore del MSI Giorgio Pisanò, nell'inchiesta contenuta nel suo libro sulla morte di Mussolini, sostiene che la Petacci sarebbe stata vittima di stupro di gruppo ad opera dei partigiani e che (come Mussolini) non sarebbe morta a causa della fucilazione, ma a causa delle sevizie subite, ovvero in seguito a gravi emorragie dovute all'intromissione violenta di un bastone, od oggetto similare, negli orifizi ano-vaginali.
Tale ipotesi è stata espressa in seguito ad un'intervista radiofonica con un sedicente medico che affermava d'aver assistito all'esame autoptico della donna, rilevando le tracce di liquido seminale e le lesioni interne.
Vengono inoltre citati strani ed apparentemente insensati episodi come l'ordine del CNL (inviato dal prof. Pietro Bucalossi, il «partigiano Guido») di non effettuare l'autopsia sulla Petacci e lo scontro tra formazioni partigiane avvenuto prima dell'esposizione di Piazzale Loreto.
Il furgone che trasportava il corpo della Petacci e degli altri fucilati venne fermato, in via Fabio Filzi, ad un posto di blocco partigiano operato da una formazione delle Brigate Garibaldi. I partigiani a bordo del furgone si rifiutarono di mostrare i corpi trasportati. Le due formazioni armate si fronteggiarono sino all'intervento del comando generale.
Tali ipotesi, per lo più speculative e non verificabili, appaiono minoritarie e non sono riprese, in quanto tali, dagli storici che si sono occupati della vicenda.
Una dettagliata analisi post mortem è comunque stata tentata con dovizia di particolari e disegni medici già nel 1956.

Claretta nel cinema
▪ Claudia Cardinale ha interpretato nel 1984 il ruolo di Clara Petacci nel film Claretta, diretto da Pasquale Squitieri, che ne ha curato la sceneggiatura in collaborazione con Arrigo Petacco. Nel film l'attore Giuliano Gemma interpreta il ruolo di Marcello, fratello di Clara.
▪ Mussolini ultimo atto (1974) di Carlo Lizzani con Rod Steiger
▪ Io e il Duce (1985) di Alberto Negrin - Mussolini è interpretato da Bob Hoskins
▪ Mussolini: The Untold Story (1985) di William A. Graham - Claretta è interpretata da Virginia Madsen
▪ Caesar and Claretta (1975) (TV) di Claude Whatham - Claretta è interpretata da Helen Mirren

Claretta nel teatro
▪ 1973: Il Picnic di Claretta, autore René Kalisky, trasmesso da France Culture.
▪ 2007 - 2008: Seguo il mio destino, regìa di Bruno Spadaccini.

Claretta nella musica
Scott Walker musicista americano all'interno del suo album The Drift del 2006 ha pubblicato la canzone Clara (Benito's Dream) che narra dell'amore fra Claretta e il duce.

- Francesco Maria Barracu (Santu Lussurgiu, 1º novembre 1895 – Dongo, 28 aprile 1945) è stato un politico italiano.
Nella prima guerra mondiale prestò servizio in Libia come ufficiale di fanteria. Smobilitato il 31 agosto del 1921, si iscrisse al Partito Nazionale Fascista e ottenne diversi incarichi all'interno del PNF, tra cui quella di presidente del Fascio della Sardegna. Partecipò alle operazioni militari in Africa Orientale, durante la guerra d'Etiopia, come comandante del III battaglione Dubat perdendo un occhio a seguito delle ferite ricevute il 3 marzo 1937 durante un'azione di raestrellamento. Tornato in patria fu insignito di medaglia d'oro al valore. Si dedicò poi al giornalismo soprattutto su questioni coloniali.
Dopo l'8 settembre del 1943 rimase fedele a Benito Mussolini e partecipò alla fondazione della Repubblica Sociale Italiana (RSI), contribuendo a convincere il maresciallo Rodolfo Graziani ad assumere il ministero della Difesa Nazionale. Nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri della RSI, ebbe notevole ruolo sul trasferimento al nord dei funzionari dei ministeri e nell'organizzazione dell'amministrazione repubblicana. Tentò, ma senza successo, sia di annettere la Sardegna al governo di Salò sia di formare una legione di fascisti sull'isola.
Durante la prima riunione del neonato Partito Fascista Repubblicano attaccò duramente il segretario Alessandro Pavolini ed il ministro Guido Buffarini-Guidi, chiedendo invano al duce di prenderne il posto. Il 25 aprile del 1945 seguì Mussolini nella sua fuga verso il lago di Como, ma fu catturato insieme ad altri gerarchi a Dongo dai partigiani che il 28 aprile lo fucilarono ed esposero la sua salma a Milano in piazzale Loreto.

- Nicola (Nicolò) Bombacci (Civitella di Romagna, 24 ottobre 1879 – Dongo, 28 aprile 1945) è stato un politico italiano.
Nicola Bombacci fu un politico italiano della prima metà del Novecento. Noto dirigente socialista durante la Prima Guerra Mondiale e il primo dopoguerra, fu uno dei fondatori del Partito Comunista d'Italia nel 1921. Dopo l'instaurazione della dittatura fascista rimase in Italia e negli anni Trenta si avvicinò al fascismo, dirigendo la rivista La Verità. Partecipò alla Repubblica Sociale Italiana (RSI) e fu fucilato con Mussolini nell'aprile del 1945.

Gli anni socialisti (1879-1920)
Nicola Bombacci nacque a Civitella di Romagna, in provincia di Forlì, il 24 ottobre 1879.[1] Dopo una breve esperienza in seminario, divenne insegnante elementare. Fin da inizio secolo fu attivo nel mondo sindacale operando tra Crema, Piacenza e Cesena e venendo eletto nel 1911 membro del Consiglio Nazionale della Confederazione Generale del Lavoro (CGdL).
A Modena, durante il primo conflitto mondiale, ebbe il suo trampolino di lancio, divenendo il leader indiscusso del socialismo locale, tanto che lo stesso Mussolini (che lo conosceva fin dal 1906, quando entrambi erano maestri di scuola) lo definì "il Kaiser di Modena". Tra le guerre balcaniche e la rivoluzione russa fu contemporaneamente segretario della Camera del Lavoro, segretario della Federazione socialista provinciale modenese e direttore del periodico socialista "Il Domani".

Nel luglio 1917, Bombacci venne nominato membro della Direzione del Partito Socialista Italiano (PSI), affiancando il segretario Costantino Lazzari nella redazione della famose circolari dirette alle sezioni del partito e il direttore del periodico socialista Giacinto Menotti Serrati nell'opera di conquista del movimento operaio da parte della corrente socialista massimalista. Nel 1918, con gli arresti di Lazzari nel gennaio e di Serrati nel maggio, rimase praticamente solo alla guida del Partito.
Fautore di una politica fortemente antiriformista, centralizzò e verticalizzò tutto il socialismo italiano: le federazioni provinciali del partito e il Gruppo Parlamentare Socialista (GPS) diventarono dipendenti direttamente dalla Direzione del PSI, alla quale si collegavano anche le organizzazioni sindacali e cooperativistiche rosse.
Nel 1919 redasse con Serrati, Gennari e Salvadori il programma della frazione massimalista, vincente al XVI Congresso Nazionale del Partito Socialista Italiano (Bologna, 5-8 ottobre 1919): eletto segretario del Partito (11 ottobre 1919) e, il mese seguente, nelle prime elezioni politiche generali del dopoguerra (16 novembre 1919) deputato nella circoscrizione di Bologna con oltre centomila voti fu una delle figure più potenti e visibili del socialismo massimalista nel biennio rosso.
Nel gennaio 1920 presentò un progetto di costituzione dei Soviet in Italia, che ottenne pochi consensi e molte critiche, contribuendo però ad aprire un acceso dibattito teorico sulla stampa di partito. In aprile, fu il primo socialista italiano ad incontrare dei rappresentanti bolscevichi a Copenaghen, mentre in estate fu uno dei membri della delegazione italiana che andò nella Russia sovietica, partecipando anche al II Congresso dell'Internazionale Comunista. Fondatore nell'autunno della Frazione comunista insieme ad Antonio Gramsci, Amadeo Bordiga, Egidio Gennari e Antonio Graziadei, oltre che direttore del periodico "Il Comunista", al XVII Congresso Nazionale del PSI (Livorno, 15-21 gennaio 1921) optò decisamente per la scissione, non esitando ad entrare nel Partito Comunista d'Italia, Sezione Italiana della III Internazionale (PCd'I), nel quale divenne membro del Comitato Centrale.

Gli anni comunisti (1921-1927)
Rieletto deputato nelle elezioni politiche generali della primavera del 1921 nella circoscrizione di Trieste, Bombacci, non avendo una sua corrente nel nuovo partito, si trovò piuttosto isolato rispetto al gruppo ordinovista di Gramsci, Togliatti, Terracini e Tasca e agli astensionisti di Bordiga. Si situò nell'ala destra del PCd'I con Francesco Misiano, propenso ad un riavvicinamento coi massimalisti e contrario al partito settario e ideologizzato voluto dal Bordiga.
Fu presto estromesso dai centri direttivi comunisti, cominciando dal Comitato Centrale del Partito. La polemica arrivò fino alle alte sfere sovietiche nel novembre 1923, quando il Comitato Esecutivo del PCd'I ne decise unilateralmente l'espulsione senza consultare l'Internazionale Comunista. Si accusava Bombacci, allora segretario del Gruppo Parlamentare Comunista, di aver fatto riferimento ad una possibile unione delle due rivoluzioni - quella bolscevica e quella fascista - in un intervento alla Camera dei deputati il 30 novembre 1923. Semplicemente, su indicazione dell'ambasciatore russo in Italia, Jordanskij, aveva prospettato un trattato economico italo-russo, fortemente voluto dal Cremlino. Nel gennaio del 1924, Bombacci fu dunque richiamato a Mosca, dove rappresentò la delegazione italiana ai funerali di Lenin: Grigorij Zinov'ev ne decise il reintegro nel PCd'I, in quei mesi decimato dalla campagna di arresti decretata dal governo fascista di Mussolini.
Al suo ritorno in Italia, però, Bombacci iniziò a lavorare all'Ambasciata russa a Roma, al servizio del commercio e della diplomazia sovietica. Nel 1925 fondò la rivista "L'Italo-Russa", poi una omonima società di import-export, che ebbero entrambe vita breve. Il suo distacco dal Partito era ormai palese: nel 1927 i dirigenti comunisti in esilio ne decretarono l'espulsione definitiva.

Gli anni dell'inattività politica e dell'avvicinamento al fascismo (1927-1945)
Negli "anni del silenzio", Bombacci continuò a vivere a Roma con la famiglia. La collaborazione con l'Ambasciata sovietica sembra che non si prolungò più in là del 1930. Le necessità economiche e le gravi condizioni di salute del figlio Wladimiro, che abbisognava di costose cure, lo indussero a chiedere aiuto a gerarchi del regime, che conosceva da tempo - Leandro Arpinati, Dino Grandi, Edmondo Rossoni -, e poi allo stesso Benito Mussolini, con il quale aveva avuto rapporti politici nel periodo giolittiano. Il Duce gli concesse alcune sovvenzioni in denaro per le cure del figlio e gli trovò un impiego all'Istituto di Cinematografia Educativa della Società delle Nazioni a Roma.
Dal 1933 Bombacci si avvicinò poco a poco sempre più chiaramente al fascismo, tanto che con il 1935 si può parlare di una vera e propria adesione. Mussolini, all'inizio del 1936, gli concesse di fondare La Verità, una rivista politica allineata sulle posizioni del regime, che, a parte alcune interruzioni dovute all'opposizione del fascismo intransigente dei Farinacci e degli Starace, durò fino al luglio del 1943. Al progetto collaborarono svariati altri ex-socialisti come Alberto e Mario Malatesta, Ezio Riboldi, Arturo Labriola, Walter Mocchi, Giovanni e Renato Bitelli ed Angelo Scucchia.
Bombacci non ebbe mai la tessera del Partito Nazionale Fascista (PNF), per quanto la richiese ripetutamente al capo del fascismo, al quale scriveva sovente. Dopo la caduta del regime fascista il 25 luglio 1943 e, in settembre, la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso e la creazione della Repubblica Sociale Italiana (RSI), Bombacci decise volontariamente di andare a Salò, dove divenne una specie di consigliere di Mussolini.
Da allora l'ex-fondatore del Partito Comunista d'Italia ebbe più spazio e visibilità. La sua innata capacità oratoria e la sua vicinanza alle classi lavoratrici potevano risultare utili alla propaganda fascista: pubblicò alcuni opuscoli sui pericoli del bolscevismo e la degenerazione staliniana dei principi comunisti, e partecipò al Congresso di Verona. Proprio a Bombacci si attribuisce il progetto di "socializzazione", notevolmente propagandato dal fascismo repubblicano ed approvato dal consiglio dei ministri della RSI nel febbraio del 1944.
Negli ultimi mesi di guerra (settembre 1944 - marzo 1945) non smise di propagandare la causa del fascismo come unica vera rivoluzione e realizzazione del trionfo del lavoro, dando conferenze e facendo comizi tra gli operai nelle piazze del Nord della penisola.
Bombacci rimase al fianco di Mussolini fino all'ultimo momento: i partigiani lo catturarono, in fuga per la Svizzera, nella stessa vettura del duce, lo fucilarono sulle rive del lago di Como il 28 aprile del 1945. La mattina del 29 aprile lo appesero per i piedi al distributore di benzina nel Piazzale Loreto, a Milano, insieme all'ex dittatore, Claretta Petacci ed alcuni gerarchi fascisti, sotto la scritta "Supertraditore".

- Francesco Colombo (1898 – Lenno, 28 aprile 1945) è stato un poliziotto e criminale italiano che aderì alla Repubblica Sociale Italiana e fu comandante della Legione autonoma mobile Ettore Muti.
Durante la Prima Guerra Mondiale servì come aviere. Fu Squadrista della prima ora. Dopo la conquista del potere da parte del fascismo fu espulso dal PNF a causa di diverse disavventure giudiziarie (dal coinvolgimento in un omicidio colposo ed in malversazioni, alla bancarotta fraudolenta, alla violazione degli obblighi di assistenza famigliare) per poi esserne riammesso dopo lo 8 settembre 1943.
Secondo un rapporto della Questura milanese del 10 aprile 1944 il comandante Colombo era un «fallito, bancarottiere, mandante in omicidio, espulso dall’aprile 1927 al settembre 1943 dal Partito, è ritenuto in tutti gli ambienti di Milano per individuo bieco e ridicolo, la cui personalità oscilla tra quella del "miles gloriosus" prepotente e fanfarone e l’altra di uomo capace di assoldare sicari per sopprimere chiunque lo ostacoli nel compimento dei suoi loschi ed inconfessabili fini».
Nel periodo 1943-1945 fu spesso in contrasto con vari capi fascisti, e talvolta in contrasto con i comandi tedeschi; tuttavia Mussolini lo lasciò sempre al comando della "Muti".

- Gaetano Colotti (Palermo, 1920 – Treviso, 28 aprile 1945) è stato un poliziotto italiano, comandante della cosiddetta "Banda Collotti".
Poliziotto, a ventidue anni è un vice commissario in servizio all'Ispettorato di Pubblica Sicurezza di Trieste con un organico di circa 180 uomini. Nell'ufficio di investigazione speciale destinato alla lotta contro l'estremismo politico in opposizione al regime fascista, si contraddistingue nell'aprile del 1943 quando viene coinvolto in una sparatoria contro i partigiani sloveni, uccidendone uno, ferendone un altro e catturandone un terzo.
Diversamente da altri suoi colleghi che dopo l'8 settembre, passeranno nelle file dei partigiani, aderisce alla Repubblica Sociale Italiana.
All'interno dell'Ispettorato che ha sede a Trieste, in via Bellosguardo n. 8, nella cosiddetta "Villa Triste" e che ha come comandante Giuseppe Gueli, crea la cosiddetta "Banda Collotti".

Il tentativo di fuga
Verso la fine della guerra, tenta la fuga, ma è catturato ad un posto di blocco con un carico d'oro a Olmi di San Biagio di Callalta (TV) assieme ad alcuni suoi agenti e all'amante in attesa di un figlio. Tutti furono portati alla Cartiera di Mignagola. I partigiani li eliminarono, compresa la donna, e l'oro scomparve, diviso tra partigiani democristiani e comunisti.

- Roberto Farinacci (Isernia, 16 ottobre 1892 – Vimercate, 28 aprile 1945) è stato un politico e giornalista italiano. È stato segretario del Partito Nazionale Fascista.
Figlio di un commissario di pubblica sicurezza, a otto anni seguì la famiglia al nord, a Tortona in Piemonte prima, quindi a Cremona. Lasciò presto la scuola per cercarsi un lavoro, che trovò all'età di 17 anni nelle ferrovie di Cremona; sarebbe restato ferroviere per 12 anni.
Si avvicinò giovanissimo alla politica e si occupò della riorganizzazione del sindacato contadino socialista. Nel frattempo iniziò a collaborare con Il Popolo d'Italia di Benito Mussolini come corrispondente da Cremona. Subito dopo la prima guerra mondiale, alla quale partecipò come volontario, abbandonò il gruppo socialista di Bissolati figura di politico che ancora anni dopo Farinacci definirà "anima nobile di apostolo, non di politico. In seguito si avvicinò al movimento fascista. Nello stesso anno (1919) fondò con Mussolini e altri fedelissimi i Fasci di Combattimento.
In seguito riuscì a conseguire in breve tempo la licenza liceale e, grazie all'aiuto del prof. Alessandro Groppali, ricevette la laurea in Giurisprudenza con una tesi "Le obbligazioni naturali dal punto di vista della filosofia del diritto e del diritto civile" che era stata comprata da un altro studente che aveva discusso la medesima tesi pochi anni prima.
Il 5 settembre 1920, dopo il congresso regionale fascista tenutosi a Cremona, vi fu una manifestazione pro-Russia con tremila socialisti ed una contromanifestazione con 800 fascisti. Il 6 settembre, in piazza Roma, si verificò uno scontro armato dove si registrarono due morti, un fascista ed un passante, e cinque feriti. I funerali furono sfruttati dal fascio per ottenere consenso: 10.000 i partecipanti. Farinacci scrisse: “Dell'Italia ufficiale oggi sentiamo profondamente schifo. Armiamoci”.
Farinacci affascinava i giovani, i grezzi, gli umili, per le sue umili origini, il suo cipiglio aggressivo, la sua baldanza moschettiera, la sua eloquenza imperfetta (i fogli satirici lo chiamavano l'antigrammatico). Si affermò nelle elezioni del maggio 1921, avendo la maggioranza in 16 comuni. Furono mesi di scontri continui (2 morti, 20 feriti, 181 arresti), che proseguirono sino alla tregua agraria dell'estate.

La crescita nel partito
Nel 1921 fu eletto alla Camera dei deputati ed operò, insieme ad Achille Starace per una massiccia campagna di propaganda nel Trentino-Alto Adige. Nel 1922 fondò il giornale Cremona Nuova in seguito chiamato, nel 1929, Il Regime Fascista.
Farinacci, conosciuto a questo punto anche come il ras di Cremona, organizzò il partito nelle zone rurali della bassa padana, e divenne esponente di spicco della linea estremista e brutale collegata agli agrari del nord Italia, incoraggiando la violenza dello squadrismo al punto da essere più volte ripreso dallo stesso Mussolini, al quale pesavano non poco, sotto il profilo dell'immagine, gli eccessi che gli squadristi compivano in momenti spesso politicamente inopportuni.

Manganello ed olio di ricino, ma non solo
Parallelamente, e con molte analogie, cresceva in Romagna la figura di Dino Grandi, che dello squadrismo di quelle aree era già indiscusso leader: i due si sarebbero presto trovati in contrasto per la supremazia sulle frange violente del movimento prima e del partito poi. Ma mentre Grandi aveva già intrapreso su di sé un lavoro di sgrossatura che ne avrebbe presto fatto un fine diplomatico ed in pratica il gestore della politica estera italiana, Farinacci preferì dedicarsi alla leadership ed alla gestione di questa vasta componente; taluni hanno peraltro ipotizzato che il cambio di rotta di Grandi possa essere stato effetto di un accordo fra i due, eventualmente con la benedizione del Duce (con cui Grandi si era da poco definitivamente accordato riconoscendogli il comando in capo del movimento).
Lo squadrismo, del resto, ben si addiceva al carattere sanguigno di Farinacci, che pur essendo indubbiamente più che portato per la politica, la interpretava comunque con riferimenti di fisicità che sollecitavano il lato violento del regime. Fu in questa caratteristica che la sua figura venne distinguendosi sempre più visibile nel partito, venendo identificato, tanto dai fascisti quanto dagli oppositori, come il principale fornitore dei manganelli e dell'olio di ricino che segnarono il riflesso pratico della dialettica politica di quei frangenti.
La violenza squadrista che Farinacci praticamente promuoveva ormai scopertamente, legò inoltre il nome di questo gerarca all'omicidio Matteotti nel 1924.

I vantaggi del delitto Matteotti
Se da un lato non mancano congetture circa un suo diretto coinvolgimento diretto ed operativo nel sequestro e nella successiva eliminazione del parlamentare socialista (fu peraltro il difensore di Amerigo Dumini, uno degli imputati del relativo processo), le conseguenze politiche dell'accaduto lo riguardarono anche più da vicino. Dopo averlo incontrato, Mussolini, come noto, rivendicò a sé la responsabilità politica dell'omicidio, esplicitando nel famoso discorso alla Camera il riconoscimento dello squadrismo, ammettendo pertanto apertamente che il fascismo considerava (e non più smentiva) i suoi violenti militanti come una delle componenti del partito, legittimando con questo il loro capo alla piena rilevanza politica.
Fu strumentale, molti convengono, tale riconoscimento dello squadrismo all'instaurazione della dittatura, e dunque la situazione di crisi apertasi con il delitto veniva risolta con un ingente vantaggio per il partito. Di tale vantaggio, che non è agevole dire quanto davvero espressamente cercato in questa forma, Farinacci sarebbe stato remunerato con la segreteria del Partito Nazionale Fascista, ufficio che resse dal 1925 al 1926, e con l'ammissione di fatto al gruppo dei politici più importanti. In particolare, il 30 agosto 1925, accompagnato da Italo Balbo, si recò a Forlì per compiere un gesto di grande importanza propagandistica: la fondazione di Predappio Nuova, allo scopo di celebrare il luogo natale di Benito Mussolini.
Tutto questo non sanava una contrapposizione che sempre avrebbe diviso Farinacci dal suo Duce, che egli riconosceva come capo, stimava ed amava, ma cui rimproverava (anche pubblicamente, e non solo per propaganda) di essere eccessivamente liberale e morbido, costantemente ponendoglisi in controscena nel produrre proposte "più decise" ogni volta che Mussolini gli pareva poco incisivo.

Molti nemici, molti guai
Dopo le dimissioni da segretario, rinuncia assai gradita a Mussolini, i rapporti con gli altri gerarchi si deteriorarono, in particolare con l'influentissimo Federzoni, ma ebbe screzi anche con Italo Balbo e Giuseppe Bottai, pregiudicandosi la possibilità di raccogliere supporto da terzi nelle sempre più difficili relazioni col vertice.
I modi, certamente, non erano il suo punto forte, se nelle sue lettere arrivava ad offendere e addirittura minacciare velatamente il Duce forse oltre le sue stesse intenzioni (v.) (il Duce, comunque, per non rischiare, rispose per le rime). Ed i suoi modi riuscirono anche a provocare uno stallo di diversi mesi nel lavoro diplomatico che il regime andava intessendo con la Chiesa cattolica per l'elaborazione del noto trattato che avrebbero sottoscritto nel 1929.
In ogni caso, dovendosi consolidare il regime e per questo scopo ampliare il consenso, si ebbe poco tempo dopo una sorta di epurazione interna delle componenti squadristiche, riducendo al contempo, anzi decimando, il potere rappresentativo di Farinacci. Questi tentò di ostacolare la manovra, ed anzi contestò la creazione della Milizia, nella quale sarebbero dovuti confluire i "suoi" squadristi, cercando di indurre alle dimissioni alcuni dei suoi neo-nominati dirigenti; Mussolini gli inviò allora il quadrumviro Emilio De Bono che, con in mano un mandato di cattura a lui intestato, seppe essere molto persuasivo.
Il "ras" si rituffò perciò - o forse si dedicò sul serio - alla professione forense, costruendo sulla sua figura l'immagine di uno dei Grandi del fascismo dedicatosi, Cincinnato padano, ai suoi campicelli della politica di provincia. In questa veste si volse ad assicurare al partito consenso e popolarità, raggiungendo risultati che Roma considerava molto positivamente; si consideri che il suo giornale, ora chiamato "Il Regime Fascista", a diffusione limitata all'Italia settentrionale, arrivò a vendere più copie del "Popolo d'Italia".
Ma non tutti i suoi entusiasmi erano condivisi a Palazzo Venezia: il giornale seguiva una linea in un certo senso indipendente, sempre protesa verso soluzioni drastiche ed energiche là dove Mussolini si muoveva con diplomazia e prudenza, costituendo il foglio d'opinione di una sorta di vera e propria opposizione interna al partito unico.

Il fascista non allineato
La posizione contestataria era talmente smaccata che anche la polizia, in occasione dell'attentato a Mussolini a Bologna, volle verificare che non vi fossero coinvolgimenti dei fascisti di Farinacci e quando qualche interrogato ne fece il nome, solo il personale intervento di Mussolini lo salvò da misure di sicurezza preventive.
Meno ancora piacque al regime l'evocazione giornalistica dello "scandalo Belloni" (1928): Ernesto Belloni, podestà di Milano, fu indicato come il principale attore di una sorta di Tangentopoli ambrosiana nella quale i vizi privati si mescolavano alle pubbliche malversazioni. Insieme al notissimo federale Mario Giampaoli, la cui vita di lussi e spese folli era ulteriormente impreziosita dalla passione per il gioco d'azzardo, il Belloni aveva costruito una rete fittissima di rapporti "privilegiati" con industriali ed affaristi sino al punto di essersi garantito una maxi-tangente ritagliata da un colossale prestito erogato al comune di Milano (circa 30 milioni di dollari degli anni '20).
Lo scandalo esplose intorno ad un memoriale scritto da Carlo Maria Maggi, precedente federale di Milano e protetto di Farinacci, che fu pubblicato sul giornale cremonese. La vicenda suscitò immediatamente un certo nervosismo da parte di Mussolini, che la seguiva attentamente, conscio della potenziale grave lesione all'immagine del nuovo stato fascista. Il Duce, è stato sostenuto, avrebbe premuto per tacitare la vicenda, ma le pubblicazioni continuarono, in aperta polemica con i vertici romani.
Giampaoli, invece, avrebbe per tutta risposta commissionato l'omicidio di Farinacci, per un soldo di 2.000 lire; non tardò Farinacci a trovare documenti che provavano la manovra e con questi si presentò personalmente al Duce. La pubblicazione, però, aveva destato l'attenzione della magistratura che, probabilmente perché non era più possibile diversamente, aprì nel settembre 1930 un pubblico processo (che avrebbe confermato le accuse). Mussolini aveva destituito Giampaoli prima del processo, ma anche Maggi fu allontanato.
A Farinacci si chiusero le porte della politica "importante" per molti anni ed il suo giornale fu successivamente di tanto in tanto oggetto di "dispettose" censure, sequestri, ammonimenti. E forse - è stato detto - ebbe anche fortuna non avendo patito altre conseguenze (oltre all'emarginazione) quando attaccò Arnaldo Mussolini, fratello del Duce, del quale insinuò senza prove che avesse ottenuto finanziamenti occulti per "il Popolo d'Italia".

La riammissione alla politica
Con la guerra d'Etiopia, "il selvaggio Farinacci" (com'era affettuosamente chiamato dai suoi fedelissimi) partì volontario della Milizia con i bombardieri di Galeazzo Ciano, nuovamente insieme a Starace (per il quale aveva nel frattempo maturato un disprezzo assoluto). Raggiunse il grado di generale; perse la mano destra per un incidente occorsogli mentre pescava con le bombe a mano in un laghetto africano, ma fu passata per ferita bellica e ne ottenne un vitalizio (devoluto però in opere di beneficenza). Con un'incisività che il suo carattere non rendeva ingiustificata, fu in seguito velenosamente chiamato "la mano destra di Mussolini", mentre da Ettore Muti fu soprannominato "martin pescatore".
L'esperienza africana gli valse comunque una rivalutazione intanto sotto il profilo militare. Inviato come osservatore militare in Spagna durante la guerra civile spagnola, le sue relazioni furono tecnicamente assai lucide, delineando un quadro prospettico che gli eventi successivi avrebbero confermato.
Anche in politica, la sua voce riguadagnò un certo ascolto e quando i tedeschi cominciarono a trasudare desideri bellici, Farinacci giocò un ruolo certamente influente, ma che ha prodotto interpretazioni talvolta divergenti fra gli osservatori.
Strinse amicizia con alcuni gerarchi del nazismo, come Goebbels, avvicinandosi ad alcune posizioni della dittatura tedesca che nella sua visione si era mantenuta più "pura", senza scadimenti borghesi. Poco dopo avrebbe incontrato Hitler, al quale avrebbe espresso questi suoi dubbi. Secondo alcuni, Mussolini avrebbe deciso di sfruttare queste aperture di Farinacci per affidargli punitivamente (ma con gradimento dell'interessato) i ruoli insostenibili e del tutto impopolari dell'introduzione delle leggi razziali fasciste nel 1938, che seguivano di poco la sottoscrizione del patto d'acciaio. Secondo altri, Farinacci, che era stato tra i firmatari del Manifesto della razza, avrebbe premuto per potersene occupare, convinto della loro opportunità politica.

La guerra
«Io ho la sensazione che la Germania in brevissimo tempo metterà in ginocchio la Polonia e procederà contro la linea Maginot che, sotto l'urto di mezzi ultrapotenti, cederà, lasciando ai tedeschi di arrivare in brevissimo tempo a Parigi. La Germania deve vincere in pochissimi mesi, altrimenti, se la guerra dovesse durare qualche anno, la vittoria arriderebbe sicuramente, sebbene dopo sacrifici enormi, all'Inghilterra e alla Francia, a cui gli Stati Uniti non negheranno in seguito il loro appoggio » (Roberto Farinacci allo scoppio della seconda guerra mondiale).
Farinacci fu di fatto un convinto sostenitore della necessità di entrare in guerra e quando nel 1939 l'Italia traccheggiava, rinviando le decisioni, assunse posizioni talmente accese che le si dovette spegnere con sequestri del suo giornale, controlli di polizia (fu in pratica seguito come un sovversivo) e faticosissimi richiami all'ordine di scuderia. Quando poi la guerra fu dichiarata, Farinacci si diede al minuzioso controllo dei potenziali traditori, alla caccia dei doppiogiochisti e delle spie, inoltrando decine di rapporti su decine di (da lui) sospettati.
Nel 1941 fu inviato in Albania, dove alcune relazioni sul personale e sull'organizzazione dell'esercito, ingenuamente ma fedelmente indicanti imbarazzanti e pericolose magagne, dovettero essere intercettate e censurate prima che potessero cagionare danno. Su Pietro Badoglio, e soprattutto sui suoi difetti, invece aveva inviato relazioni di grande esattezza, che furono forse la causa principale delle sue dimissioni.
In qualche modo informato con circa un mese di anticipo della fronda che andava preparando il noto ordine del giorno del 25 luglio 1943, volle metterne al corrente Mussolini, che non diede peso alla segnalazione; cercò allora di far pervenire la notizia a Hitler, ma non fu creduto. Alla seduta del Gran Consiglio votò contrariamente, dopo aver criticato la mozione, ma avendo subito dopo replicato sostenendo in pratica le medesime cose sostenute da Grandi: poteri al Re. La stessa sera fu rifugiato nell'ambasciata tedesca ed il giorno successivo sarebbe stato trasferito a Monaco.

La Repubblica Sociale
Si è detto che i tedeschi, prima di insediare Mussolini a Salò avessero pensato a Farinacci come capo della Repubblica Sociale Italiana.
La candidatura, di cui molti storici hanno parlato, ma con esiguità di riscontri, sarebbe caduta sia per la mancanza di carisma di Farinacci, sia per la sua radicalità, che lo avrebbe reso di difficile controllo per tutti quegli aspetti diplomatici che la carica avrebbe comportato. Si sapeva inoltre che Farinacci era in fondo un oppositore del Duce, e che la sua posizione era tanto distinta da quella di Mussolini da poter connotare il nuovo organismo come cosa diversa dal fascismo che gli italiani conoscevano. Non si riscontra affatto, invece, la tesi avanzata di recente per la quale Farinacci avrebbe egli stesso declinato l'offerta perché - si sostiene - deluso dalla volontà germanica di controllare completamente la nuova repubblica senza rappresentatività italiana.
Rientrato in Italia, si vide "scippare" il controllo del suo giornale, trasformato in un foglio di propaganda tedesca, e visse a margine della RSI, scampando il processo di Verona per la personale intercessione di Mussolini che, malgrado Farinacci avesse presentato una mozione in tutto simile a quella di Grandi, non gliene fece colpa. Come molti fascisti nascose nella sua tipografia due ebrei: Emanuele Tornagli e la signora Iole Foà.

La fucilazione
Farinacci lasciò Cremona il 27 aprile diretto in Valtellina, giunti nei pressi di Bergamo decise di staccarsi dalla colonna per recarsi a Oreno. Il cambio di percorso fu fatale poiché a Beverate la macchina fu fermata da una pattuglia partigiana e Farinacci fu catturato. Il giorno dopo, il 28 aprile, Farinacci fu sommariamente processato nell'aula del Comune di Vimercate. Farinacci si difese acutamente e la condanna a morte voluta dai rappresentanti del Partito Comunista Italiano e del Partito Socialista Italiano gli fu inflitta tra molte perplessità. Rifiutò di farsi bendare e pretese di essere fucilato al petto, ma ciò gli fu rifiutato. Ciononostante Farinacci riuscì a divincolarsi e a girarsi così i partigiani spararono in aria, alla seconda scarica riuscì nuovamente a girarsi venendo colpito al petto. Prima di morire le sue ultime parole furono "viva l'Italia".
Roberto Farinacci fu sepolto inizialmente a Vimercate e solo nel 1956 la famiglia ottenne di farne trasferire le spoglie nella tomba di famiglia a Cremona nel Cimitero Civico.

- Ugo Gobbato (Volpago del Montello, 16 luglio 1888 – Milano, 28 aprile 1945) è stato un ingegnere e dirigente d'azienda italiano. Fu tra i principali fautori dell'industrializzazione automobilistica nazionale tra le due guerre.
Nato da una famiglia di modesti proprietari terrieri trevigiani, appena ottenuta la licenza tecnica iniziò a lavorare come operaio presso la Officina Idroelettrica di Treviso, contemporaneamente continuando gli studi fino a conseguire il diploma di perito elettromeccanico e filotessitore.

Gli studi in Germania
Allo scopo di specializzarsi, emigrò in Germania dove fece esperienza come progettista di impianti per piccole aziende e si laureò in ingegneria meccanica presso il prestigioso politecnico di Zwickau, in Sassonia. Dopo aver conseguito la seconda laurea in ingegneria elettronica, sul finire del 1909, rientrò in patria per assolvere all'obbligo militare e, successivamente, lavorò in varie aziende del milanese, fino ad assumere, nel 1912, la direzione del reparto produttivo piccoli motori industriali, presso la Ercole Marelli di Milano.
Richiamato alle armi nel 1915, nel corpo del genio minatori, fu inviato nelle trincee del Carso, dove si guadagnò una croce di guerra. Alla costituzione della "Brigata Specialisti", sezione tecnica della neonata Aeronautica Militare, venne chiamato a farne parte, con il compito di provvedere alla manutenzione degli aerei in dotazione alla squadriglia della quale faceva parte Francesco Baracca.

La FIAT
Fresco di congedo, Gobbato venne assunto alla FIAT con l'incarico di organizzare la riconversione degli impianti dalla produzione bellica a quella civile. Nel 1918 fu destinato allo stabilimento FIAT di Firenze, dove nacque il primogenito Pierugo, anch'egli destinato a diventare un'importante personalità dell'industria automobilistica italiana.
Tra i giovani ingegneri che il Senatore Agnelli inviò in America a studiare i sistemi di produzione della Ford, fu lui il prescelto per progettare, costruire e dirigere il Lingotto, la prima fabbrica italiana basta sul sistema della catena di montaggio.
Dal 1929 al 1931, seguirà la costruzione degli stabilimenti Fiat in Germania e Spagna e sempre nel 1931, per incarico diretto del senatore Agnelli, gli fu affidata la costruzione della fabbrica di cuscinetti a sfera ed a rulli RIV a Mosca, città dove vivrà per ben due anni.

L'Alfa Romeo
Rientrato in Italia nel 1933, il governo e l'I.R.I. gli conferiscono l'incarico di riorganizzare l'Alfa Romeo che versava in stato di fallimento con un pesante deficit finaziario e con le strutture produttive a terra.
Nel giro di un quinquennio l'Alfa si risolleverà completamente convertendo in parte la produzione di auto e camion a quella avio costruendo motori per aereo ed eliche e l'apertura nel 1938 della fabbrica di motori avio di Pomigliano d'Arco, in provincia di Napoli, da lui fortemente voluta, dimostrerà la straordinaria capacità e la forte tenacia di questo eccezionale dirigente industriale. A Ugo Gobbato è intitolato lo Stadio Comunale di Pomigliano d'Arco.
Il rilancio dell'Alfa può dirsi riuscito se nel corso di una conversazione con lo stesso Gobbato, nel 1939, Henry Ford pronunciò la celebre frase «Quando vedo un’Alfa Romeo mi tolgo il cappello».
I tragici giorni dopo l'8 settembre 1943 videro Gobbato al suo posto di direttore generale nonostante la possibilità di rifugarsi nella vicina Svizzera ed attendere la fine della bufera: forse il suo attaccamento al lavoro venne scambiato per collaborazionismo con l'invasore tedesco e con il fascismo repubblichino anche se tante testimonianze ricordano proprio Gobbato adoperarsi per impedire che materiali, macchinari e soprattutto uomini prendessero la triste via della Germania.

I processi
Dopo la Liberazione di Milano, avvenuta il 25 Aprile 1945, il CLN esautorò Gobbato da ogni incarico e lo sottopose a processo davanti ad un Tribunale del Popolo allestito nell'azienda. Il giorno dopo, 27 aprile, fu nuovamente processato da un Tribunale Politico esterno all'Alfa Romeo, formato dal gruppo di Giuseppe Marozin, comandante partigiano delle Brigate Matteotti. Molte furono le voci di operai che si levarono in difesa di Gobbato e le accuse degli unici due testi a carico si dimostrarono infondate. In entrambi i processi venne assolto.

L'assassinio
La mattina del 28 aprile 1945, mentre tornava in bicicletta dal proprio ufficio, dove si era recato a ritirare degli incartamenti personali, Gobbato venne raggiunto da una vettura con tre uomini armati a bordo, nei pressi di via Domodossola, in zona Fiera. Scesi dall'auto fecero fuoco sul dirigente dell'Alfa Romeo, uccidendolo.
L'inchiesta avviata dal magistrato milanese Mauro Gresti, stabilì che il primo a sparare e l'unico responsabile identificato fu uno dei due operai che avevano deposto al processo del giorno precedente, evidentemente insoddisfatto per l'assoluzione di Gobbato e deciso a regolare i conti, sfruttando il caos di quei giorni. Purtuttavia, l'istruttoria venne chiusa ed archiviata il 23 giugno 1960, infatti, trattandosi di un delitto determinato da motivi politici, il reato doveva essere dichiarato estinto per effetto dell’amnistia concessa dal DPR n.460 dell’11 luglio

- Augusto Liverani detto Agostino (Senigallia, 1895 – Dongo, 28 aprile 1945) è stato un politico italiano.
Ministro delle comunicazioni della Repubblica Sociale Italiana, scappò col Duce, ma venne catturato dai partigiani e ucciso. Il suo corpo venne appeso a piazzale Loreto a Milano.

- Ferdinando Mezzasoma (Roma, 3 agosto 1907 – Dongo, 28 aprile 1945) è stato un politico e giornalista italiano.
Nacque in una famiglia piccolo borghese: il padre è un impiegato della Banca d'Italia a Perugia, città dove lui e la sua famiglia saranno costretti ad emigrare nel 1920. Al fine di aiutare finanziariamente la sua famiglia fece dei piccoli lavori manuali, che gli anche servirono a pagarsi gli studi che gli consentiranno prima di diplomarsi in ragioneria e poi di laurearsi in Economia e Commercio.
Segretario dell'avvocato Amedeo Fani, quando egli viene nominato sottosegretario agli Esteri nel 1929 Mezzasoma lo segue. Nel 1931 aderisce al Partito Nazionale Fascista e poco dopo viene nominato segretario del Gruppo Universitario Fascista (GUF) e membro del direttorio federale di Perugia (1932-1935). Apprezzato giornalista, inizia a collaborare con alcune testate di regime (Dottrina fascista e Roma fascista ad esempio) in cui si firma con lo pseudonimo di Diogene. Direttore dell' Assalto nel 1934 e condirettore di Libro e Moschetto, l'organo ufficiale dei GUF, nel 1937 pubblica il volume Essenza dei GUF, distribuito capillarmente a tutte le organizzazioni giovanili inquadrate dal regime.
Insegnò alla Scuola di Mistica Fascista
Promosso alla carica di vicesegretario generale dei GUF nel 1935, due anni dopo entra come membro di diritto nel direttorio nazionale del PNF (gennaio 1937), fino a quando il 23 febbraio 1939 viene nominato vicesegretario del partito, carica che ricopre per oltre tre anni. Contrario all' "ordine del giorno Grandi" del 25 luglio 1943, sosterrà Benito Mussolini anche nella Repubblica Sociale Italiana, di cui sarà Ministro della Cultura Popolare.
Dopo alcuni dissidi con Junio Valerio Borghese (contrario alla soppressione del suo foglio personale Orizzonte), il 19 aprile del 1945 si trasferirà a Milano prendendo commiato dai suoi collaboratori, tra cui Giorgio Almirante allora capogabinetto del MinCulPop. In quei giorni concitati Mezzasoma avrebbe avuto la possibilità di salvarsi scappando ma egli rifiutò tale ipotesi affermando in pubblico "sono un ministro di Mussolini, vado a morire con Mussolini": catturato infatti dai partigiani dopo un fallito tentativo di organizzare una resistenza in Valtellina assieme a Pavolini, fu giustiziato a Dongo insieme ad altri 16 gerarchi fascisti, portati poi in Piazzale Loreto ed esposti al ludibrio.

- Ruggero Romano (Acireale, 9 marzo 1895 – Dongo, 28 aprile 1945) è stato un politico italiano. È stato Ministro dei Lavori Pubblici nella Repubblica sociale italiana.
Prende parte alla Prima guerra mondiale e nel 1922, poco dopo essersi laureato in giurisprudenza, aderisce al Partito nazionale fascista.
Durante il regime fascista continua a svolgere la professione di avvocato pur ricevendo numerosi incarichi politici: è deputato dal 1929 al 1939, segretario del P.N.F. della sua città natale e Podestà della città di Noto.
Nel 1943 aderisce alla Repubblica sociale italiana e viene nominato Ministro dei Lavori Pubblici. Nell'aprile del 1945 segue Benito Mussolini nel suo tentativo di giungere in Valtellina, ma è arrestato dai partigiani e condivide la sorte degli altri gerarchi che, catturati a Dongo, vengono fucilati il 28 aprile sulla riva del lago di Como

- Enzo Savorgnan, conte di Montaspro (Cormons, 10 ottobre 1910 – Varese, 28 aprile 1945), è stato un prefetto, militare e politico italiano. È stato prefetto di Reggio Emilia e di Varese, medaglia d'argento al Valor Militare .
Discendente da nobile famiglia, si laurea in Giurisprudenza e in Scienze politiche. Orientato verso la carriera diplomatica, ne viene distolto dall'attività politica e dai fatti bellici.
Nel 1935 si arruola volontario per la guerra d'Etiopia, nel corso della quale combatte con la Divisione "23 marzo". Nel 1938 - 1939, ancora volontario, combatte durante la Guerra di Spagna e, nel 1940, allo scoppio della Seconda guerra mondiale è sul fronte greco - albanese con il grado di capitano nei Granatieri di Sardegna. Nel corso della carriera militare vengono conferite a Savorgnan una Medaglia d'argento, due di bronzo e tre Croci di guerra.

Adesione alla Repubblica di Salò
Già vice segretario federale del P.N.F. ad Aosta, poi segretario federale di Trapani dal marzo 1940 al giugno 1943, è infine, dal 2 al 25 luglio 1943, segretario federale di Verona. Dopo l'armistizio dell'8 settembre, aderisce alla Repubblica sociale italiana e viene nominato prima Prefetto di Reggio Emilia (ottobre 1943 - settembre 1944), poi di Varese (ottobre 1944 - aprile 1945).
A Reggio Emilia Savorgnan è responsabile della fucilazione dei sette fratelli Cervi e di altri antifascisti tra i quali Don Pasquino Borghi e Quarto Camurri.
Dopo la liberazione è arrestato a Varese e, dopo un sommario processo, viene giustiziato il 28 aprile 1945.
Il 26 settembre 1959 la salma, esumata dal cimitero di Belforte, vicino Varese, è traslata nella tomba di famiglia a Cormons

- Idreno Utimpergher (italianizzato in "Utimperghe") (Empoli, 7 febbraio 1905 – Dongo, 28 aprile 1945) è stato un politico italiano, uno dei gerarchi del fascismo fucilati dagli antifascisti nei giorni della Liberazione.
Giovanissimo partecipò alla marcia su Roma ed il fascismo lo affascinò definitivamente. Trasferitosi a Trieste per lavoro, all'annuncio della liberazione di Benito Mussolini dal Gran Sasso, nel 1943, riaprì la federazione fascista triestina. Nella RSI divenne federale di Lucca, ed, in seguito alla militarizzazione del partito voluta da Mussolini, divenne generale della 36° Brigata Nera "Piagentini". Con l'arretrare del fronte, la brigata fu spostata in Piemonte per combattere i partigiani.
Negli ultimi giorni della RSI, la Brigata Piagentini fu una delle poche formazioni che riuscirono ad arrivare a Milano, seguendo l'ordine di Alessandro Pavolini per il concentramento finale delle forze. Utimpergher e Pavolini si aggregarono poi al duce che tentava di raggiungere la Valtellina. Fermati dai partigiani, Utimpergher ed altri quindici gerarchi vennero fucilati alla schiena sul lungolago di Dongo il 28 aprile 1945, e portati a Piazzale Loreto a Milano.

- Paolo Zerbino (Carpeneto, 21 giugno 1905 – Dongo, 28 aprile 1945) è stato un politico italiano. Ministro dell'Interno della Repubblica sociale italiana.
Aderì giovanissimo al movimento fascista. Ricoprì gli incarichi di segretario federale sia a Vercelli, sia ad Alessandria. Nel 1938 è tra i firmatari del Manifesto della razza in appoggio alle leggi razziali fasciste. Nel 1941 fu nominato prefetto della nuova provincia di Spalato.

Repubblica Sociale Italiana
Nel settembre del 1943 aderisce al Partito fascista repubblicano di cui è commissario speciale presso la Federazione di Roma. Dopo l'occupazione della capitale da parte delle truppe angloamericane, il 7 maggio 1944 viene nominato sottosegretario agli Interni della Repubblica sociale italiana. Il 21 settembre 1944 fu inoltre nominato commissario straordinario per il Piemonte. Lasciò l'incarico di sottosegretario il 12 febbraio 1945, quando assunse la carica di Ministro dell'Interno al posto di Guido Buffarini Guidi. Nell'aprile del 1945 i partigiani lo arrestarono a Dongo. Insieme ad altri gerarchi e membri del governo fascista venne fucilato il 28 aprile del 1945.

- Cristoforo Bendazzi (Alfonsine, 1924 – fiume Brenta, 28 aprile 1945) è stato un partigiano italiano.
Studente, sin dai giorni successivi all'8 settembre 1944 entrò nella Resistenza con il nome di battaglia di Rino, prima come partigiano del Gruppo Libero e quindi della Brigata Garibaldi Romagnola operante nel forlivese, infine come comandante della 6ª Compagnia della 28ª Brigata GAP "Mario Gordini" operante nel ravennate.
Tre giorni dopo la proclamazione della Liberazione, la sua Compagnia - aggregata con altre unità partigiane al Gruppo di Combattimento "Cremona" - ancora combatteva nel Veneto, avanguardia delle forze avanzanti verso la liberazione di Venezia.
"Rino" – come ricorda la motivazione della decorazione alla memoria - «…trascinava con ardimento e perizia non comuni il proprio reparto oltre l’Adige, travolgendo ogni resistenza nemica. Attraversando successivamente il Brenta, nel generoso tentativo di soccorrere un soldato inglese ferito, urtava contro un nucleo avversario col quale, nonostante la schiacciante inferiorità, non esitava a impegnare combattimento. Ferito, rifiutava di arrendersi e, per sottrarsi alla cattura, si gettava a nuoto nel fiume. Venutegli a mancare le forze, veniva travolto dalla corrente e periva nelle acque del Brenta.»
Così descrive l'episodio Arrigo Boldrini nel suo "Diario di Bulow":
«Una squadra, nella notte cerca di attraversare il Brenta e di intimare ai tedeschi di arrendersi, ma questi reagiscono: cade Rino Bendazzi il nostro ottimo comandante della 6ª compagnia. È una perdita dolorosa, proprio alla fine della guerra quando la città è ormai circondata e quindi i nemici devono arrendersi.
Verso le 22 il comando tedesco, tramite i patrioti del luogo, offre la resa che viene concordata da alcuni ufficiali del comando della 2ª brigata britannica che opera in questo settore affiancata alla 28ª. Via mare arrivano altre unità alleate. Si stabilisce che le operazioni per il disarmo e la presa in consegna dei prigionieri avvengano il 29 aprile. Il presidio tedesco è composto di circa 1.000 soldati.»

La capitolazione delle forze nazifasciste sul territorio italiano avverrà ufficialmente il 29 aprile, il giorno dopo la sua morte.

- Giacomo Chilesotti, nome di battaglia "Loris" o "Nettuno" (Thiene, 1912 – Sandrigo, 28 aprile 1945), è stato un partigiano, antifascista e ingegnere italiano, medaglia d'oro al valor militare.
Partecipa alla seconda guerra mondiale come sottotenente del genio alpini.
Dopo l'Armistizio di Cassibile partecipa alla resistenza organizzando delle bande partigiane che diventeranno la Divisione Alpina Monte Ortigara, delle Brigate Fiamme Verdi, cattolico convinto tanto da mettere la base nella canonica di Povolaro, dall'amico don Luigi Pascoli, dove tra l'altro nascerà la Divisione Alpina Monte Ortigara.
A Sandrigo in uno scontro con le forze nemiche, perdono la vita Giovanni Carli commissario politico e Sergio Andreatta, mentre lui viene catturato e successivamente fucilato. In questo modo la Divisione, resta senza comandante e senza commissario politico.

- Marcello Paglia (Genova, 16 settembre 1927 – 28 aprile 1945) è stato un partigiano italiano.
Il suo nome di battaglia era Joan e trovò la morte in circostante drammatiche colpito dai proiettili di un cecchino subito dopo la Liberazione, nel tentativo di riparare suo zio - Cesare Paglia, (gia' commissario politico GAP della Brigata Attilio Firpo, antecedentemente chiamata Pinetti).
Joan aveva combattuto, durante la lotta partigiana, nella Brigata Jori (Carlo Jori, fu tra gli organizzatori della Resistenza in Piemonte e Genova gli ha intitolato una strada), che faceva parte della divisione Cichero.
A Joan è stata intitolata una strada nel quartiere di Marassi e una lapide gli è stata dedicata e fatta collocare a Genova in piazza Romagnosi per interessamento del compagno partigiano Lorenzo Bezeredy Tigre (o Castagnetta), nome molto conosciuto nell'ambiente della Resistenza genovese.

* 1946 - Adolfo Omodeo (Palermo, 23 agosto 1889 – Napoli, 28 aprile 1946) è stato uno storico italiano.
Si laureò all'Università di Palermo nel 1912 sotto Giovanni Gentile con la tesi Gesù e le origine del cristianesimo, pubblicata nel 1913. Nel 1914 si sposò con Eva Zona, sua compagna di studi e nel 1915 si arruolò volontario alla prima guerra mondiale.
Insegnante di Storia antica nell'Università di Catania, nel 1923 passò all'Università di Napoli, dove tenne la cattedra di Storia del cristianesimo. Risultato del suo insegnamento sono i volumi dedicati agli Atti degli apostoli e alla figura di San Paolo - che insieme alla sua tesi su Gesù costituiscono la Storia delle origini cristiane (1925) - e La mistica giovannea, pubblicata nel 1930: come storico del cristianesimo l'Omodeo si rifà alla critica razionalistica tedesca e al Loisy
Altre opere incentrate alla storia del cattolicesimo nel secolo XIX sono Un reazionario: il conte Joseph de Maistre, 1939 e Aspetti del cattolicesimo della Restaurazione, pubblicato postumo nel 1946.
Si dedicò anche alla storia del Risorgimento difendendo le tesi del liberalismo cavouriano contro le alterazioni critiche del Risorgimento operate degli storici monarchici e fascisti, e sviluppando la concezione crociana della storia in cui si realizza l'idea della libertà: L'età del risorgimento italiano del 1931, La leggenda di Carlo Alberto, (1940), V. Gioberti e la sua evoluzione politica, e principalmente L'opera politica del conte di Cavour del 1942. Postumi uscirono G. Calvino e la Riforma in Ginevra, Il senso della storia e Difesa del Risorgimento.
Altri suoi scritti notevoli per l'impostazione critica crociana sono le raccolte di saggi Tradizioni morali e disciplina storica (1929), Figure e passioni del Risorgimento italiano (1932), e la raccolta di testimonianze storiche Momenti della vita di guerra (1934).
Durante il regime fascista fu intralciato per le sue idee. Pur dissentendo dal suo maestro Benedetto Croce, s'iscrisse al Partito d'Azione e fu ministro dell'Istruzione nel secondo governo Badoglio. Fu rettore dell'Università di Napoli, socio dell'Accademia dei Lincei e condirettore, con Luigi Russo, della rivista «Belfagor»

▪ 1962 - Gianna Beretta Molla (Magenta, 4 ottobre 1922 – Ponte Nuovo, 28 aprile 1962) è stata un medico italiano, proclamata santa nel 2004 da papa Giovanni Paolo II perché, incinta, con un tumore all'utero, preferì morire anziché accettare cure che arrecassero danno al feto.
Gianna Beretta nacque a Magenta (diocesi e provincia di Milano) il 4 ottobre 1922, decima dei 13 figli dei coniugi Alberto Beretta e Maria De Micheli.
Già dalla fanciullezza accoglie con piena adesione il dono della fede e l'educazione limpidamente cristiana, che riceve dagli ottimi genitori e che la portano a considerare la vita come un dono meraviglioso di Dio, ad avere fiducia nella Provvidenza, ad essere certa della necessità e dell'efficacia della preghiera.
La Prima Comunione, all'età di cinque anni e mezzo, segna in Gianna un momento importante, dando inizio ad un'assidua frequenza all'Eucaristia, che diviene sostegno e luce della sua fanciullezza, adolescenza e giovinezza.
In quegli anni non mancano difficoltà e sofferenze: cambiamento di scuole, salute cagionevole, trasferimenti della famiglia, malattia e morte dei genitori. Tutto questo però non produce traumi o squilibri in Gianna, data la ricchezza e profondità della sua vita spirituale, anzi ne affina la sensibilità e ne potenzia la virtù.
Negli anni del liceo e dell'università è giovane dolce, volitiva, e riservata, e mentre si dedica con diligenza agli studi, traduce la sua fede in un impegno generoso di apostolato tra le giovani di Azione Cattolica e di carità verso gli anziani e i bisognosi nelle Conferenze di San Vincenzo. Laureata in Medicina e Chirurgia nel 1949 all'Università di Pavia, apre nel 1950 un ambulatorio medico a Mesero (un comune del Magentino); si specializza in Pediatria nell'Università di Milano nel 1952 e predilige, tra i suoi assistiti, mamme, bambini, anziani e poveri.
Mentre compie la sua opera di medico, che sente e pratica come una «missione», accresce il suo impegno generoso nell'Azione Cattolica, prodigandosi per le «giovanissime» e, al tempo stesso, esprime con gli sci e l'alpinismo la sua grande gioia di vivere e di godersi l'incanto del creato. Si interroga, pregando e facendo pregare, sulla sua vocazione che considera anch'essa un dono di Dio. Scelta la vocazione al matrimonio, l'abbraccia con tutto l'entusiasmo e s'impegna a donarsi totalmente «per formare una famiglia veramente cristiana».
Si fidanza con l'ing. Pietro Molla e vive il periodo del fidanzamento, nella gioia e nell'amore. Ringrazia e prega il Signore. Si sposa il 24 settembre 1955 nella basilica di San Martino in Magenta ed è moglie felice. Nel novembre 1956 è mamma più che felice di Pierluigi; nel dicembre 1957, di Mariolina; nel luglio 1959, di Laura. Sa armonizzare, con semplicità ed equilibrio, i doveri di madre, di moglie, di medico, e la gran gioia di vivere.
Nel settembre 1961, verso il termine del secondo mese di gravidanza, è raggiunta dalla sofferenza e dal mistero del dolore; insorge un fibroma all'utero. Prima del necessario intervento operatorio, pur sapendo il rischio che avrebbe comportato il continuare la gravidanza, supplica il chirurgo di salvare la vita che porta in grembo e si affida alla preghiera e alla Provvidenza. La vita è salva, ringrazia il Signore e trascorre i sette mesi che la separano dal parto con impareggiabile forza d'animo e con immutato impegno di madre e di medico. Trepida, teme che la creatura in seno possa nascere sofferente e chiede a Dio che ciò non avvenga.
Alcuni giorni prima del parto, pur confidando sempre nella Provvidenza, è pronta a donare la sua vita per salvare quella della sua creatura: «Se dovete decidere fra me e il bimbo, nessuna esitazione: scegliete - e lo esigo - il bimbo. Salvate lui». Il mattino del 21 aprile 1962, dà alla luce Gianna Emanuela e il mattino del 28 aprile, nonostante tutti gli sforzi e le cure per salvare entrambe le vite, tra indicibili dolori, dopo aver ripetuto la preghiera «Gesù ti amo, Gesù ti amo», muore santamente.
Aveva 39 anni. I suoi funerali furono una grande manifestazione unanime di commozione profonda, di fede e di preghiera.
Fu sepolta nel cimitero di Mesero, mentre rapidamente si diffondeva la fama di santità per la sua vita e per il gesto di amore e di martirio che l'aveva coronata.
«Meditata immolazione», così Paolo VI ha definito il gesto della beata Gianna ricordando, all'Angelus domenicale del 23 settembre 1973, «Una giovane madre della diocesi di Milano che, per dare la vita alla sua bambina sacrificava, con meditata immolazione, la propria». È evidente, nelle parole del Santo Padre, il riferimento cristologico al Calvario e all'Eucaristia.
Fu beatificata da Giovanni Paolo II il 24 aprile 1994, nell'Anno Internazionale della Famiglia, con le seguenti parole:
“Dell’amore divino Gianna Beretta Molla fu semplice, ma quanto mai significativa messaggera. Pochi giorni prima del matrimonio, in una lettera al futuro marito, ebbe a scrivere: "L’amore è il sentimento più bello che il Signore ha posto nell’animo degli uomini".
Sull’esempio di Cristo, che "avendo amato i suoi… li amò sino alla fine" (Gv 13,1), questa santa madre di famiglia si mantenne eroicamente fedele all’impegno assunto il giorno del matrimonio. Il sacrificio estremo che suggellò la sua vita testimonia come solo chi ha il coraggio di donarsi totalmente a Dio e ai fratelli realizzi se stesso.
Possa la nostra epoca riscoprire, attraverso l’esempio di Gianna Beretta Molla, la bellezza pura, casta e feconda dell’amore coniugale, vissuto come risposta alla chiamata divina!.


▪ 1964 - Aleksandr Vladimirović Kojré (Taganrog, 29 agosto 1892 – Parigi, 28 aprile 1964) fu uno storico della scienza e filosofo francese di origine russa, noto con il nome francesizzato di Alexandre Koyré. Contribuì allo sviluppo della storia della scienza in Francia e alla sua diffusione negli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale.
Nacque come Aleksandr Vladimirović Kojre a Taganrog, nell'impero russo, da famiglia di origini ebraiche.
Della sua vita in Russia non si sa molto: secondo alcune testimonianze studiò a Tbilisi, Rostov-sul-Don e Odessa. Dopo la rivoluzione del 1905 fu arrestato e passò circa un anno in prigione, dove lesse le Ricerche logiche di Edmund Husserl; durante la sua prigionia portò anche a termine i suoi studi liceali. Nel 1908 lasciò la Russia e si trasferì prima a Parigi e poi a Gottinga.
L'interesse di Koyré per Husserl e la sua attiva partecipazione nel Circolo fenomenologico di Gottinga indurrebbe a parlare di Koyré come un fenomenologo. Tuttavia molti ricercatori arrivano alla condivisa opinione che Koyré fosse stato influenzato più da Adolf Reinach che da Husserl. In generale, già Herbert Spiegelberg, nel suo libro Il movimento fenomenologico, ha notato che tutto il gruppo degli studenti a Gottinga seguiva piuttosto Reinach che Husserl.
Alla fine del primo semetre dell'anno accademico 1911-12, Koyré presentò a Husserl il suo progetto di dottorato che riguardava i paradossi logici. Husserl rifiutò questo progetto e ciò, probabilmente, spinse il suo studente a lasciare l'università tedesca e a cominciare un nuovo percorso di studi a Parigi, all'Ecole Pratique des Hautes Etudes. A Parigi Koyré conseguì il diploma in filosofia, nel 1913, e iniziò a preparare la tesi su Anselmo, ma all'inizio della Prima Guerra mondiale Koyré, che aveva 22 anni, si arruolò come volontario nell'esercito francese. Dopo alcuni mesi venne inviato in Russia e combatté prima sui campi della guerra e poi su quelli della rivoluzione russa del 1917.
Dopo la guerra Koyré tornò a Parigi, si iscrisse di nuovo all'EPHE e dal gennaio 1921 divenne allievo titolare della scuola. Alla fine dello stesso anno presentò la tesi intitolata Trattato sull'idea di Dio e le prove della sua esistenza in Cartesio con la quale conseguì il diploma della scuola. Nell'anno successivo, il 1923, Koyré si laureò dottorato ès lettres all'Università di Parigi dopo aver presentato la tesi L'idea di Dio nella filosofia di sant'Anselmo.
Negli anni '30 Koyré iniziò la ricerca che fece di lui uno dei più eminenti storici del pensiero scientifico del ventesimo secolo, la prima fase della quale finì prima della Seconda Guerra Mondiale con la pubblicazione dei tre volumi degli Studi galileani. Notevole la sua interpretazione della matematica galileina non come strumento per conoscere la realtà ma bensì come matematicismo ontologico. Questa teoria neopitagorica afferma che ogni cosa sia riducibile a numero poiché il reale è in ogni sua parte matematicamente descrivibile. Le ricerche su Galileo avvicinarono Koyré agli altri studiosi interessati alla storia della scienza, soprattutto ai gruppi riuniti attorno alla sezione della storia della scienza del Centre de Synthèse di Henri Berr e all'Institut d'Histoire des Sciences et Techniques di Abel Rey. Questi erano i centri di consolidamento di questa nuova disciplina, la storia generale delle scienze, che pretendeva di studiare la storia del pensiero scientifico in quanto tale e nel suo insieme, non limitandosi solo allo studio sempre parziale della nascita e dello sviluppo delle scienze particolari. Tra gli studiosi del campo erano Émile Meyerson e Abel Rey, Léon Brunschvicg e Émile Boutroux, Hélène Metzger e Lucien Febvre, Aldo Mieli e Gaston Bachelard. Insieme con loro Koyré diventa uno dei protagonisti dell'epistemologia storica francese.

* 1966 - Gilberto Govi, nome d'arte di Amerigo Armando Gilberto Govi (Genova, 22 ottobre 1885 – Genova, 28 aprile 1966), è stato un attore italiano. Fondatore del teatro dialettale genovese, è considerato uno dei simboli della città della Lanterna.
Tra i suoi maggiori successi figurano classici di questo genere teatrale, diventati suoi cavalli di battaglia come I manezzi pe majâ na figgia, Pignasecca e Pignaverde, Colpi di timone. Inoltre, si devono ricordare anche Quello buonanima, Gildo Peragallo, ingegnere, I Guastavino ed i Passalacqua e Sotto a chi tocca.

La maschera, il volto
Govi dotato di grande talento artistico, Govi, forte degli studi compiuti all'Accademia di Belle Arti, usava disegnare grottesche autocaricature che delineavano compiutamente ogni ruga e riproducevano su carta il suo viso in ogni sua parte; poté sviluppare in tal modo un sistema originale per creare personaggi nuovi per le sue interpretazioni.
Il trucco di scena era il risultato di grande abilità e di un lungo e paziente studio. Le sue ispirazioni venivano da una grande collezione di fotografie di personaggi più o meno noti, dai quali carpiva ora una barba o un pizzetto, oppure una ruga, una pettinatura o un'espressione che tornasse utile per creare un nuovo personaggio. Formidabile caratterista, era una miniera di fantasia.
All'apice della carriera era considerato in tutto il mondo un grande interprete: sapeva far muovere i suoi personaggi con una semplicità e una facilità solo apparenti; in realtà aveva la capacità e la spontaneità, un vero e proprio talento naturale, per far scaturire il riso anche con una sola espressione o un semplice ammiccamento.
Nelle sue interpretazioni Govi faceva rivivere la vita di tutti i giorni con una grande facilità. A chi lo accusava di non essersi mai esibito in un repertorio teatrale impegnato o di non avere affrontato argomenti più colti, lui replicava affermando che i teatri erano già pieni di attori impegnati che si atteggiavano in scena ma che non rappresentavano la vita di tutti i giorni; lui preferiva raccontare la storia della gente umile, dall'operaio al falegname, e raccontarla con semplicità, facendo divertire (ma anche riflettere) il pubblico fino a farlo ridere di cuore.
Nato nel popolare quartiere di Oregina-Lagaccio, in via Sant’Ugo 13 non lontano dalla stazione di Genova Piazza Principe, da Anselmo, funzionario delle ferrovie di origine modenese, e dalla bolognese Francesca Gardini, detta Fanny, gli venne dato il nome di Gilberto in onore di uno zio paterno, lo scienziato Gilberto di Mantova cui è tuttora dedicata una via nella città di Parma.
Frequentò le scuole insieme al fratello Amleto, ma fu durante una vacanza a Bologna presso lo zio materno Torquato, attore dilettante, che iniziò a entusiasmarsi per il teatro e a divertirsi nel vederlo recitare. Nonostante il padre desiderasse per lui una carriera di funzionario delle ferrovie, si appassionò sempre più per il teatro iniziando a frequentare una compagnia teatrale: a dodici anni, nel 1897, recitava già in una filodrammatica.
La predisposizione al disegno lo portò ad iscriversi all'Accademia di Belle Arti dell'Accademia Ligustica: questo studio gli risulterà utilissimo nella sua carriera di attore. A sedici anni completò il corso all'Accademia e venne assunto presso le Officine Elettriche Genovesi come disegnatore; nello stesso tempo entrò in una nuova compagnia teatrale dilettante facente parte dell'Accademia Filodrammatica Italiana con sede al Teatro Nazionale di Genova, struttura nella quale erano consentite solo recite in perfetto italiano.

L'incontro con Rina Gaioni
Nel 1911 incontrò per la prima volta, in filodrammatica, Caterina Franchi, in arte Rina Gaioni, cognome del patrigno, divenuta poi sua moglie con una cerimonia intima e riservata il 26 settembre 1917 e che gli restò sino alla fine accanto, sia nella vita che come partner nella carriera teatrale.
Intanto formò una piccola compagnia di attori dilettanti, recitando in dialetto genovese e interpretando commedie scritte da Niccolò Bacigalupo; la sua massima aspirazione era quella di entrare a far parte della compagnia del celeberrimo Virgilio Talli, e quando questi ebbe modo di assistere ad una sua rappresentazione fu talmente entusiasta della sua figura e dei suoi personaggi che lo stimolò a proseguire la carriera suggerendogli di fondare un vero e proprio teatro dialettale genovese, che a quei tempi non aveva una tradizione consolidata.
Con Alessandro Varaldo e Achille Chiarella, intorno al 1913 fondò la compagnia "La dialettale", recitando a Genova ed in provincia con sempre crescente successo: si divideva tra il ruolo di capocomico, direttore artistico e animatore. Un po' accentratore (qualcuno dice anche stretto di borsa), di fatto instancabile. La compagnia continuò ininterrottamente a recitare anche durante la Prima guerra mondiale.

La rottura con l'Accademia
Dopo l'invito esplicito dell'Accademia filodrammatica a non recitare più in dialetto, nel 1916 decise di continuare per la sua strada (venne poi riammesso come socio onorario una quindicina di anni dopo, nel 1931). Fondò così una nuova compagnia, la Compagnia dialettale genovese, esibendosi nei maggiori teatri cittadini sempre con grande successo.
Nel 1923 rappresentò al Teatro Filodrammatici di Milano la commedia I manezzi pe majâ na figgia (Gli artifici per maritare una figlia, di Niccolò Bacigalupo): fu l'inizio del successo, a livello nazionale e successivamente internazionale.
A questo punto decise con grande coraggio di lasciare il posto fisso, sicuro, di disegnatore alle Officine Elettriche Genovesi per dedicarsi solo al teatro. Gli inizi non furono semplici, soprattutto per la scelta del repertorio da rappresentare, ma in breve tempo sopperì a questa necessità uno stuolo di autori pronti a mettersi a disposizione di un astro nascente teatrale, come Niccolò Bacigalupo, Emanuele Canesi, Carlo Bocca, Luigi Orengo, Aldo Aquarone, Emerico Valentinetti, Enzo La Rosa, Sabatino Lopez, e tanti altri.
Tutti i testi che venivano scritti erano poi rielaborati dallo stesso Govi, tanto che gli autori lo contattavano con largo anticipo per concordare eventuali modifiche ai copioni in funzione delle sue preferenze. Redatti in italiano, i testi venivano poi tradotti dall'attore rigorosamente in dialetto genovese.
Intanto Govi non smetteva di disegnare le sue maschere da cui nascevano i personaggi da portare in scena. Il suo volto, tracciato con mano ferma in tutte le posizioni, di fronte come di profilo, ed in ogni ruga ed espressione, campeggiava nei foyer dei teatri come una galleria di quadri che entusiasmava ulteriormente gli spettatori gratificandoli di un valore aggiunto.

Lunga tournée in Sudamerica
Nel 1926 Govi lasciò per la prima volta l'Italia per la sua prima tournée in America Latina, una vera e propria spedizione in piroscafo, durata mesi, che lo portò a rappresentare in giro per il mondo ben settantotto commedie, direttamente nei luoghi dove vivevano numerosi italiani, che da pochi anni avevano ripreso un intenso movimento migratorio, specie verso l'Argentina e l'Uruguay.
La compagnia goviana ripeté la tournée negli anni successivi e ad una di queste prese parte l'attrice Jole Fano che poi rimase in Sudamerica fondando una propria compagnia teatrale e diventando famosa come dirigente di un'emittente radiofonica - la Radio Caupolicàn - di Santiago del Cile.

La guerra
Fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale la sua carriera fu sempre in ascesa, con ripetute tournée teatrali sia in Italia che all'estero. Il conflitto mondiale non risparmiò tuttavia neppure la sua abitazione genovese, colpita dai pesanti bombardamenti portati dal mare e dal cielo, e assieme ad essa l'attore avrebbe voluto ricostruire anche il proprio repertorio, che sentiva forse ormai superato da nuove istanze; in quel periodo era dubbioso, non avendo la certezza che il pubblico lo gradisse ancora, nonostante le sue commedie riscuotessero il consueto successo e la gente accorresse sempre numerosa ai suoi spettacoli in ogni città.

Attore cinematografico
Nel periodo bellico e post bellico si cimentò come attore cinematografico in quattro film dall'esito piuttosto insoddisfacente: i titoli che si ricordano - due dei quali tratti da suoi lavori teatrali - sono Colpi di timone (1942), diretto da Gennaro Righelli, Che tempi! (1947), diretto da Giorgio Bianchi, Il diavolo in convento (1950), diretto da Nunzio Malasomma ed infine Lui, lei ed il nonno (1961), girato a Napoli da Anton Giulio Majano e prodotto dall'armatore Achille Lauro, il suo unico film a colori[1].
Ma i ritmi del cinema, con le ripetute pause, e la tecnica recitativa differente rispetto a quella del palcoscenico non lo entusiasmavano. Ebbe però l'occasione di lanciare brillanti comici, che apparentemente lo lasciavano un po' in soggezione sul set, i giovanissimi Walter Chiari ed Alberto Sordi.

La grande popolarità televisiva
Non fece realmente neppure a tempo ad avere un rapporto approfondito con il mezzo televisivo, nato da pochi anni quando Govi stava ormai avviandosi verso la parte finale della carriera; il piccolo schermo, tuttavia, gli consentì, grazie alla registrazione dal vivo di alcuni spettacoli, di farsi conoscere dal grande pubblico e dalle generazioni successive.
Fortunatamente oggi possiamo ancora vedere sei commedie rappresentate in televisione, salvate dalla distruzione in maniera rocambolesca negli anni settanta da un impiegato collezionista appassionato di teatro e proposte da Vito Molinari e Mauro Manciotti nel 1979 in una trasmissione di Rai Tre a lui dedicata.
Si tratta di sei delle quattordici (o quindici, a seconda delle fonti) commedie registrate dalla RAI. Di un'altra di esse, Impresa trasporti, si è salvato in video soltanto il terzo atto, ed il primo ed il secondo si possono ascoltare in solo audio. Di altre cinque commedie (Articolo quinto, I Guastavino e i Passalacqua, Parodi & C., Il porto di casa mia, Tanto per la regola) si è salvato integralmente soltanto l'audio. Le dodici commedie sono state pubblicate in dvd nel 2004 (ma tali versioni presentano alcuni minuti di tagli rispetto alle corrispondenti versioni in VHS), insieme ai documentari sull'attore, alle partecipazioni televisive ed alle partecipazioni radiofoniche, per cui è ora disponibile al pubblico l'intera produzione residua, eccezion fatta per i frammenti, alcuni dei quali sono comunque visibili nell'ambito dei documentari.

L'ultima rappresentazione
Quella del 1960 fu la sua ultima stagione teatrale, quando portò in scena la commedia Il porto di casa mia scritta dal poeta Enrico Bassano; a settantacinque anni di età capì che era giunto il momento di lasciare il palcoscenico e dedicarsi ad un meritato riposo: sosteneva infatti che il teatro è come una bella donna: bisogna lasciarla prima che sia lei a lasciare te.

A Carosello, come "Bàccere Baciccia"
Apparve ancora sugli schermi televisivi in qualche rara intervista e in diversi Caroselli del 1961, per una marca di tè, dove interpretava il simpatico personaggio di Bàccere Baciccia, portiere di un caseggiato genovese, conosciuto da tutti per l'estrema tirchieria ma adorato dai bambini, ai quali ripeteva una frase rimasta celebre: Da quell'orecchio, non ci sento; da quell'altro, così così....
Va ricordato che la macchietta era ripresa direttamente da una antica maschera genovese: quella, appunto, del Baciccia.
Nel 1962 si ammalò; morì a Genova il 28 aprile 1966, a 81 anni. Ai funerali, celebrati nella centrale Chiesa di Santa Zita, affollata all'inverosimile, partecipò tutta la città. Tra i presenti alla cerimonia, anche Erminio Macario, visibilmente commosso. È stato sepolto al cimitero di Staglieno a Genova.

Pochi riconoscimenti sotto la Lanterna
Sebbene fosse molto amato dai suoi concittadini, non ebbe dalla città natale molti riconoscimenti: basti pensare che fino a poco tempo fa le uniche opere pubbliche intitolate a lui all'ombra della Lanterna sono i Giardini Gilberto Govi, edificati negli anni ottanta nella zona di Punta Vagno, alla Foce, sopra il principale depuratore cittadino.
Tuttavia la voglia di alcuni genovesi di rendere omaggio al grande attore è ancora viva, ed infatti il Teatro Verdi di Genova Bolzaneto, dopo una lunga ristrutturazione, ha riaperto i battenti con il nome di Teatro Rina e Gilberto Govi.
Esiste inoltre una compagnia dialettale a lui intitolata che continua a proporre le sue vecchie commedie, oltre a testi contemporanei in lingua genovese.

▪ 2005 - Antimo Negri (Mercato San Severino, 25 febbraio 1923 – Roma, 28 aprile 2005) è stato un filosofo italiano.
Allievo di Antonio Aliotta, con il quale si è laureato a Napoli prima in Lettere e poi in Filosofia, ha sempre considerato come suo maestro Giovanni Gentile, di cui tuttavia non è stato direttamente un discepolo. L'intensità con cui Antimo Negri ha approfondito il pensiero gentiliano si è concretizzato in testi quali: Giovanni Gentile (1975), L'estetica di Giovanni Gentile (1994) e Giovanni Gentile educatore (1996). Innumerevoli, poi, gli scritti dedicati all'idealismo hegeliano, tra cui i saggi La presenza di Hegel. Ricerche e meditazioni hegeliane (1961) e Hegel nel Novecento (1987), e le traduzioni di opere hegeliane come La vita di Gesù e Le orbite dei pianeti. A queste traduzioni si aggiungono anche quelle di grandi classici del pensiero filosofico, economico e sociologico.
Ad Antimo Negri si deve anche la valorizzazione di alcune grandi personalità della cultura italiana, come quelle di Andrea Emo, Carlo Michelstaedter e Julius Evola. La sua carriera universitaria lo ha visto professore ordinario di Storia della filosofia in alcune delle più importanti università italiane: Bari, Perugia e Roma, dove ha lavorato presso l'Università degli studi di Roma Tor Vergata fino alla fine del suo incarico universitario, nel 1997.
Nel corso della sua esperienza intellettuale è stato impegnato in un'intensa attività saggistica e pubblicistica, scrivendo sulle più importanti riviste culturali italiane e straniere, tra le quali: il «Giornale Critico della Filosofia Italiana», il «Giornale di Metafisica», «I Problemi della Pedagogia», «Rinascita della Scuola», «Dix~Huitième Siècle», «L'Enseifnement Philosophique», «Studia Estetyczne», «Idealistic Studies». Ha collaborato con molti dei maggiori quotidiani nazionali: «Il giornale d'Italia», l'«Avanti», «Il Messaggero», «Il Sole 24 Ore», «Il Tempo» e «il Giornale».
Inoltre, ha diretto varie collane di testi filosofici per la Marzorati («Ricerche filosofiche», «Testi e interpretazioni»), la Seam («Filosofi italiani del '900», «Sentieri del giorno e della notte») e la Antonio Pellicani Editore («La storia e le Idee») e riviste come gli «Studi di storia dell'Educazione» della Armando Editore.
Il 28 aprile 2001 gli è stato assegnato, a Palermo, dall'Associazione internazionale di studi e ricerche Friedrich Nietzsche fondata da Alfredo Fallica, il «Premio Nietzsche».
Saggista sempre molto prolifico, negli ultimi anni ha continuato a pubblicare opere originali non solo nella scelta degli argomenti ma anche dei contenuti: il Discorso sopra lo stato presente degli italiani (2000), il De persona. L'indomabilità dell'individuo (2004) e Problema Europa. Unità politiche e molteplicità culturali (2005).

* 2007 - Carl Friedrich Freiherr von Weizsäcker (Kiel, 28 giugno 1912 – Söcking, 28 aprile 2007) è stato un fisico e filosofo tedesco.
È stato il più longevo membro del team di ricerca che fece ricerche nucleari nella Germania nazista durante la Seconda Guerra Mondiale, sotto il comando di Werner Heisenberg. Ci si chiede tuttora se lui, e gli altri membri del team, stessero veramente lavorando allo sviluppo di una bomba nucleare in quel periodo.
Weizsäcker era figlio del diplomatico Ernst von Weizsäcker, fratello maggiore del ex presidente tedesco Richard von Weizsäcker, padre del fisico e ricercatore ambientale Ernst Ulrich von Weizsäcker e suocero dell' ex segretario generale del Consiglio Ecumenico delle Chiese Konrad Raiser.
Nato a Kiel, Weizsäcker trascorse l'infanzia a Stoccarda e a Copenhagen. Dal 1929 al 1933, studiò fisica, matematica e astronomia a Berlino, Gottinga e Lipsia. Il supervisore delle sue tesi di dottorato fu Friedrich Hund.
I suoi maggiori interessi come giovane ricercatore erano l'energia di legame degli atomi e i processi nucleari nelle stelle. Assieme a Hans Bethe trovò un formula riguardante questi ultimi, chiamata formula Bethe-Weizsäcker, e il processio ciclico della fusione nelle stelle.
Nel 1944 ripropose l'ipotesi nebulare per la formazione del sistema solare, introducendo perfezionamenti che lo sviluppo del sapere aveva reso possibili dall'epoca di Laplace. Tale ipotesi è ora ritenuta la più probabile.
Nel 1989 gli fu assegnato il Premio Templeton per i suoi contributi scientifici. Gli è stato dedicato un asteroide, 13531 Weizsacker.