Il calendario del 27 Agosto

Fonte:
CulturaCattolica.it
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Eventi

▪ 1689 - Con la firma del Trattato di Nerčinsk, Impero russo e dinastia Qing pongono fine alle questioni di confine tra i due stati

▪ 1776 - Battaglia di Long Island, nell'odierna Brooklyn (New York): le forze britanniche del Generale William Howe sconfiggono gli americani guidati dal Generale George Washington

▪ 1813 - Napoleone sconfigge austriaci, russi e prussiani nella Battaglia di Dresda

▪ 1828 - I russi sconfiggono i turchi ad Akhaltzikke

▪ 1859 - Il petrolio viene scoperto a Titusville (Pennsylvania). È il primo pozzo petrolifero redditizio del mondo

▪ 1883 - Quattro violentissime esplosioni vulcaniche distruggono l'isola di Krakatoa: muoiono 36.000 persone

▪ 1896 - Scoppia la guerra anglo-zanzibariana, il più breve conflitto della storia (45 minuti).

▪ 1900 - I britannici sconfiggono i commando boeri a Bergendal

▪ 1916 - L'Italia dichiara guerra all'Impero tedesco di Guglielmo II

▪ 1926 - New York: ticker-tape parade in onore di Gertrude Ederle, la prima donna ad attraversare la Manica a nuoto

▪ 1928 - Il Patto Kellogg-Briand, che mette fuori legge la guerra, viene firmato da sei nazioni

▪ 1939 - Primo volo di un aereo a reazione

▪ 1952 - In Lussemburgo terminano i negoziati per le riparazioni tra Germania Ovest e Israele. La Germania Ovest pagherà 3 miliardi di Marchi tedeschi

▪ 1962 - viene lanciata la sonda spaziale Mariner 2

▪ 1966-ultimo concerto dei Beatles

▪ 1979

  1. - L' IRA colpisce due volte. La mattina una bomba a Mullaghmore nell' Eire fa esplodere la barca di Lord Louis Mountbatten, cugino della Regina Elisabetta, che muore con altre tre persone. Nel pomeriggio due bombe a Warrenpoint, in Irlanda del Nord, uccidono 18 soldati britannici
  2. - Il cantautore Fabrizio De André viene rapito in Sardegna assieme alla compagna Dori Ghezzi

▪ 1991 - La Moldavia dichiara l'indipendenza dall'Unione Sovietica

▪ 2003 - Marte passa nel punto più vicino alla Terra degli ultimi 60.000 anni, passando a circa 55.758.006 chilometri dal nostro pianeta

Anniversari

* 387 - Monica (Tagaste, 331 – Ostia, 27 agosto 387) fu la madre di Agostino d'Ippona. È venerata come santa dalla Chiesa cattolica.
Di etnia berbera, nacque in una famiglia profondamente cristiana e di buone condizioni economiche. Le fu concesso di studiare e ne approfittò per leggere la Bibbia e meditarla.
Sposatasi con Patrizio, un modesto proprietario di Tagaste, non ancora battezzato, il cui carattere non era buono, e che spesso le era infedele, con il suo carattere mite e dolce ne poté vincere le asprezze. Nel 371 Patrizio si convertì al cristianesimo e si battezzò. Patrizio morirà l'anno seguente; Monica aveva 39 anni e dovette prendere in mano la direzione della casa e l'amministrazione dei beni.
Dette alla luce il figlio primogenito Agostino a 22 anni, nel 354. Ebbe un altro figlio, Naviglio, e una figlia di cui si ignora il nome. Dette a tutti e tre un'educazione cristiana. Soffrì molto per la condotta dissoluta di Agostino. Quando egli si trasferì a Roma, decise di seguirlo, ma lui con uno stratagemma la lasciò a terra a Cartagine, mentre s'imbarcavano per Roma. Monica passò la notte in lacrime sulla tomba di san Cipriano (come narra lo stesso Agostino nelle Confessioni, V,8,15).
Nel 385 poté imbarcarsi per Roma, e raggiunse il figlio a Milano, dove egli ricopriva una cattedra di retorica.
Il suo amore materno e le sue preghiere favorirono la conversione di Agostino, che ricevette le catechesi di sant'Ambrogio e fu battezzato il 25 aprile 387.
La troviamo poi accanto al figlio a Cassiciaco, presso Milano, discutendo con lui e altri familiari di filosofia e cose spirituali, e partecipando con sapienza ai discorsi, al punto che Agostino volle trascrivere nei suoi scritti le parole della madre. La cosa suonó inusuale, perché all'epoca alle donne non era permesso prendere la parola.
Con Agostino lasció Milano diretta a Roma, e poi a Ostia, dove affittarono una casa, in attesa di una nave in partenza per l'Africa. Fu un periodo carico di dialoghi spirituali, che Agostino ci riporta nelle sue Confessioni.
Lì si ammaló, forse di malaria, e in nove giorni morì, all'età di 56 anni.
Il suo corpo fu tumulato nella chiesa di Sant'Aurea di Ostia. Il 9 aprile 1430 le sue reliquie furono traslate a Roma nella chiesa di San Trifone, oggi di Sant'Agostino, e poste in un pregiato sarcofago, opera di Isaia da Pisa (XV secolo).
La Chiesa cattolica ne celebra la memoria il 27 agosto, il giorno prima di quella di Agostino, che coincidentemente morì un 28 agosto. Anteriormente si celebrava il 4 maggio. La santa viene spesso raffigurata come una vedova che regge in mano un crocifisso, vestita con un abito nero (talvolta ornato con fiorellini dorati e il capo coperto da un velo ocra).

▪ 1576 - Tiziano Vecellio (Pieve di Cadore, 1480 - 1485 – Venezia, 27 agosto 1576) è stato un celebre pittore italiano. Artista innovatore e poliedrico, maestro con Giorgione del colore tonale, Tiziano Vecellio è uno dei pochi pittori italiani titolari di una vera e propria azienda, accorto imprenditore della bottega oltre che della sua personale produzione, direttamente a contatto con i potenti dell'epoca, suoi maggiori committenti. Il rinnovamento della pittura di cui fu autore, si basò, in alternativa al michelangiolesco «primato del disegno», sull'uso personalissimo del colore.
La sua biografia e il suo itinerario creativo trovano importanti fonti documentarie negli scrittori a lui contemporanei: Pietro Aretino (Epistolario), Ludovico Dolce (Dialogo di pittura), Paolo Pino, Giorgio Vasari (la seconda edizione delle Vite) riportano molteplici dati e spunti critici che lo riguardano, oltre, naturalmente, alle lettere da lui stesso scritte ai vari committenti, in particolare alla corte spagnola. Nel secolo successivo proseguono le note biografiche e gli studi critici (Anonimo del Tizianello, Boschini, Ridolfi) che costituiscono un notevole «giacimento» di fonti contemporanee che di rado è dato ritrovare.

▪ 1635 - Lope Félix de Vega y Carpio (Madrid, 25 novembre 1562 – Madrid, 27 agosto 1635) è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo spagnolo.
Visse nel siglo de oro spagnolo. Fu incredibilmente prolifico ed è nel numero ristretto dei più famosi autori di teatro del mondo. Cervantes lo defini Monstruo de Naturaleza, Prodigio della natura, per la sua facilità nello scrivere.
In effetti il suo catalogo è quantomai cospicuo. Scrisse oltre tremila sonetti, tre romanzi, quattro racconti, nove epopee, tre poemi didattici, varie centinaia di commedie, addirittura milleottocento, secondo il catalogo di Juan Pérez de Montalbán, suo allievo e biografo.
Lo studioso Rennert y Castro porta il catalogo a settecentoventitré opere, di cui settantotto di attribuzione errata o dubbia, duecentodiciannove perdute, cosicché il repertorio drammatico di Lope si ridurrebbe oggi a quattrocentoventisei opere.
Lope de Vega coltivò ogni tipo di genere letterario, eccetto che il romanzo picaresco.
La sua vita e la sua opera furono caratterizzate del resto sempre da estrema esuberanza. Fu amico di Quevedo e di José de Valdivielso, ma anche rivale di Alarcón e Cervantes.

Le origini
Era originario di una famiglia umile, della Valle de Carriedo, nella montagna di Cantabria. Non si sa nulla di certo della madre Francisca Fernández Flórez, mentre sappiamo che il padre, Félix de Vega, era sarto e aveva deciso di recarsi a Madrid nel 1561, attratto dalle possibilità che poteva offrire la sua recente promozione a capitale, sebbene Lope affermasse che era andato in città per un'avventura amorosa da cui lo riconquistò la futura madre; lo scrittore sarebbe il frutto di questa riconciliazione.

Le precoci doti
La vita di colui che sarebbe stato chiamato, a causa della sua formidabile fecondità, "Fenice degli ingegni", fu agitata da ogni tipo di slancio amoroso. Di intelligenza sopraffina, dimostrò precocemente le sue doti straordinarie, tanto che a soli cinque anni leggeva latino ed era in grado di improvvisare versi prima di saper scrivere e a quattordici anni compose la sua prima commedia.

La formazione scolastica
Riconosciuto il suo talento, verso i cinque anni fu iscritto alla scuola di Madrid il cui direttore era il poeta e musicista Vicente Espinel, che sempre citò con venerazione nelle sue opere.

Continuò la sua formazione scolastica nella Compagnia di Gesù, che più tardi divenne il Collegio Imperiale (1574). Quindi pare che avesse studiato quattro anni (1577-1581) nell'università di Alcalá de Henares, sebbene non fosse riuscito ad ottenere nessun titolo accademico. Don Jerónimo de Manrique, che era entrato molto giovane al servizio del vescovo di Cartagena, inquisitore generale e più tardi vescovo di Ávila, fu colui che pagò gli studi a Félix Lope de Vega, conquistato dal suo talento e con la speranza che seguisse la carriera ecclesiastica. I disordini nello studio provocati dalle già manifeste effusioni amorose del ragazzo, troppo attratto dal sesso femminile per diventare un ecclesiastico, modificarono la sua vocazione.
Lasciò quindi gli studi e non conseguì il baccellierato.

Gli amori
Per guadagnarsi da vivere lavorò come segretario di molti grandi di Spagna, come scrittore di commedie e provò inoltre la carriera militare, con scarsa fortuna.
Si arruolò così nella squadra che, al comando di don Álvaro de Bazán, primo marchese di Santa Croce, salpò da Lisbona nel giugno 1583 con il proposito di sottomettere l'isola Terceira delle Azzorre, dove Antonio, Priore di Crato, aspirante al trono portoghese, si opponeva all'autorità di Filippo III. Al suo ritorno conobbe il primo dei suoi grandi amori, Elena Osorio, "Filis", figlia dell'impresario teatrale Jerónimo Velázquez, separata dal marito. Ma, nel 1587, quando seppe che un importante personaggio, Francisco Perrenot Granvela, era il suo rivale in amore, fece circolare alcuni poemi o libelli ingiuriosi nei confronti di Elena e la sua famiglia, per cui fu condannato a quattro anni di esilio dalla Corte e a due dal Regno di Castiglia, e alla morte nel caso che trasgredisse a una di queste disposizioni.

Alcuni anni più tardi, Lope ricorderà il suo amore con Elena Osorio nella novella dialogata (la denominò "azione in prosa") secondo la maniera celestinesca La Dorotea.

Ma Lope si era già innamorato di un'altra donna: il 10 maggio 1588 si sposò con Isabel de Alderete o de Urbina, "Belisa" nelle sue poesie. In questo periodo tentò di riarruolarsi nell'Invincible Armada, più in concreto nel galeone San Juan e scrisse un poema epico in ottava reale alla maniera di Ludovico Ariosto: La bellezza di Angelica; nel dicembre 1588 la grande armata fu sconfitta e dovette far ritorno con essa, dirigendosi a Valencia dopo aver infranto la condanna passando da Toledo.

Con Isabel de Urbina visse nella capitale della Turia e lì continuò a perfezionare la sua formula drammatica, assistendo alle opere di una serie di appartenenti all'Accademia dei notturni, fra cui il canonico Francisco Agustín Tárrega, il segretario del Duca di Gandía Gaspar de Aguilar, Guillén de Castro, Carlos Boil e Ricardo del Turia. Lì imparò a disobbedire all'unità dell'azione narrando due storie contemporaneamente nella stessa opera, in quello che è denominato imbroglio all'italiana. Dopo i due anni di esilio dal Regno, Lope si trasferì a Toledo è lì servì don Francisco de Ribera Barroso, che divenne più tardi il secondo marchese di Malpica, e, qualche tempo dopo, il quinto duca di Alba, don Antonio de Toledo y Beamonte, attraverso il quale divenne gentiluomo di camera alla corte ducale di Alba de Tormes, dove visse tra il 1592 e il 1595. Qui lesse le opere teatrali di Juan del Encina, da cui trasse il personaggio del grazioso, perfezionando ancor di più la sua forma drammatica.

Nell'autunno 1594 morì Isabel de Urbina mentre stava dando alla luce la figlia Teodora. Scrisse nell'occasione la novella pastorale L'Arcadia.
Nel dicembre 1595 gli fu condonata la pena e poté tornare a Madrid, dove si innamorò di Micaela de Luján, la "Celia" o "Camila Lucinda" delle sue poesie, signora fine, ma non colta e sposata, con cui mantenne una relazione fino al 1608 e da cui avrà sette figli, fra cui due dei suoi preferiti: Marcela (nata nel 1606) e Lope Félix (del 1607). Dal 1608 si perdono le tracce di Micaela de Luján, unica fra le amanti importanti di Lope la cui separazione non fu narrata nelle sue opere. Ciò nonostante, già nel 1598 aveva contratto seconde nozze, probabilmente per necessità economiche, con Juana de Guardo, figlia di un ricco fornitore di carni della Corte, volgare e poco aggraziata, per cui scrittori satirici come Luis de Góngora si burlarono di lui in poemi infamanti. Da lei ebbe un figlio molto amato, Carlos Félix, e tre figlie. Per molti anni Lope si divise fra le due donne e un numero indeterminato di amanti, fra cui molte attrici, tra le quali ricordiamo Jerónima de Burgos, succeduta a Micaela de Luján. Per mantenere le donne e i figli, legittimi e illegittimi, dovette lavorare sodo, scrivendo in particolar modo poesie liriche e commedie, molto spesso di qualità non elevata e senza correggere gli errori. Solo quando ebbe 38 anni le corresse e le pubblicò e, come primo scrittore professionale di letteratura spagnola, fece in modo di conseguire i diritti d'autore di coloro che le avevano pubblicate senza averne il diritto; riuscì almeno a correggere gli errori causati dagli editori stessi. Dal 1605 fu al servizio di Luis Fernández de Córdoba y de Aragón, duca di Sessa, relazione che lo tormentò quando prese gli ordini sacri, mentre il nobile continuava a utilizzarlo come intermediario amoroso invece che come segretario, per cui il suo confessore gli negò l'assoluzione.

La crisi esistenziale
Nel 1609 entra a far parte della confraternita degli Schiavi del Santissimo Sacramento nell'oratorio di Caballero de Gracia, a cui partecipavano quasi tutti gli scrittori importanti di Madrid, fra cui Francisco de Quevedo, che era amico personale di Lope, e Miguel de Cervantes, con cui non fraternizzò, e l'anno seguente si trasferì all'oratorio della strada Olivar. È il periodo di una profonda crisi esistenziale, probabilmente causata dalla morte dei suoi parenti prossimi, che lo portò sempre più verso il sacerdozio. A questa ispirazione rispondono le sue Rime sacre (Rimas sacras) e le numerose opere devote che inizia a comporre, così come l'ispirazione filosofica che promana dagli ultimi versi. Doña Juana de Guardo soffrì frequenti malattie e nel 1612 Carlos Félix morì di febbri. Il 13 agosto dell'anno seguente morì Juana de Guardo mentre dava alla luce Feliciana. Tante disgrazie convinsero quindi Lope a prendere i voti sacerdotali il 24 maggio 1614. L'esperienza letteraria di questa crisi e i pentimenti daranno luogo alle Rime sacre, pubblicate nel 1614, libro introspettivo nei sonetti (utilizza la tecnica degli esercizi spirituali che apprese nello studio con i gesuiti) e devoto per le poesie dedicate a diversi santi o ispirati dall'iconografia sacra, così come suggerito dalle raccomandazioni emanate dal Concilio di Trento. Fu influenzato dalla rivoluzione estetica provocata dalle Solitudini (Soledades) di Luis de Góngora e, nonostante aumentasse la tensione estetica della sua poesia e incominciassero ad apparire ripetizioni alla fine delle strofe, prese distanza dal culteranismo estremo e continuò a seguire la sua caratteristica mescolanza fra il concettismo, il culto del casticismo castigliano e l'eleganza italiana. Inoltre, ironizzò riguardo alla nuova estetica; Góngora reagì con alcune satire a questa ostilità, che il Fénix espresse sempre in maniera indiretta, approfittando di qualunque angolo delle sue commedie per attaccare, più che Góngora stesso, i suoi discepoli, un modo intelligente di affrontare la nuova estetica e correlato alla sua concezione della satira. Negli ultimi anni della sua vita tornò a innamorarsi; si tratta di un grande amore, sacrilego, in quanto già sacerdote, per la bellissima Marta de Nevares, che appare nei suoi versi con il nome di "Amarilis" o "Marcia Leonarda" e i cui occhi verdi incantavano Lope (ne cantò in varie poesie), sebbene diventassero ciechi per una malattia; la donna impazzì, per cui il Fénix dovette dedicare i suoi ultimi giorni a curarla. In quest'epoca della vita coltivò specialmente la poesia comica e filosofica, sdoppiandosi nell'eteronomo burlesco Tomé de Burguillos e meditando serenamente sulla vecchiaia e sulla sua pazza gioventù.
L'opera e la vita di Lope furono di un'esuberanza quasi anormale, ed egli coltivò tutti i generi letterari, eccetto la novella picaresca

Opere - Opere narrative
La prima novella che scrisse, L'Arcadia (La Arcadia, 1598), è una novella pastorale in cui incluse numerose eccellenti poesie; di fatto, il successo dell'opera era dovuto principalmente a questi versi.
I pastori di Betlemme (Los pastores de Belén, 1612) è un'altra opera pastorale, dedicata al tema divino, e vi incluse, di nuovo, numerosi poemi sacri.
Fra le due apparì la novella bizantina Il pellegrino nella sua patria (El peregrino en su patria, 1604), che si distingue dagli altri pezzi del genere perché è ambientata interamente in Spagna e include quattro atti sacramentali.
La Filomena e La Circe sono antologie poetiche che contengono quattro novelle corte di tipo italianizzante, dedicate a Marta de Nevares, e che sono edite solitamente sotto il titolo di Novelle a Marcia Leonarda (Novelas a Marcia Leonarda), soprannome che diede alla sua amante in molti testi.
Alla tradizione de La Celestina, la commedia umanistica in lingua volgare, si ascrive La Dorotea, "azione in prosa", in cui narra in forma dialogata il suo frustrato amore giovanile con Elena Osorio.
Inoltre, si pensa che intervenne con altri autori, in particolare con Pedro Liñán de Riaza, nell'elaborazione della Seconda parte del Don Chisciotte (Segunda parte de Don Quijote), firmata da un inesistente Alonso Fernández de Avellaneda.

Opere liriche
La sua opera poetica utilizzò tutte le forme possibili e lo attrasse anche la lirica popolare, che inserì frequentemente nelle sue commedie, e la culterana di Góngora, sebbene, in generale, difese il verso claro, poiché il suo ideale poetico consisteva in un colto casticismo che sovrapponeva la lirica canzonerile del XV secolo, la tradizione del Romancero, che sentiva naturale nella lingua spagnola, e l'eleganza e le dolcezza della metrica e dei temi italiani.
Compose, oltre a La Filomena e La Circe già citate, tre collezioni di versi lirici: le Rime (Rimas, 1604), le Rime sacre (Rimas sacras, 1614) e le Rime umane e divine di Tomé Burguillos (Rimas humanas y divinas de Tomé Burguillos, 1634). Questi libri possono ascriversi alla corrente lirica denominata Petrarchismo, per cui sono strutturate come il Canzoniere: una serie di sonetti, canzoni e poemi in altri metri e alcune ecloghe. Il primo, Rime, è manierista, e vi abbondano i procedimenti della disseminazione e della ricollezione, le correlazioni e i sonetti di tema mitologico alla maniera di Juan de Arguijo. A questo gruppo furono aggiunte anche diverse ecloghe e composizioni in altri metri. Nelle Rime sacre si testimonia la crisi spirituale dell'autore, che realizza un'analisi introspettiva mediante la tecnica degli esercizi spirituali dei gesuiti. Insieme al piccolo canzoniere spirituale vi sono una serie di poesie dedicate a diversi santi e temi sacri, come se fossero scenografie teatrali per le sue commedie dei santi. Infine, nelle sue Rime umane e divine, Lope si inventa un eteronomo, come il Belardo delle sue commedie, Tomé Burguillos, un poeta povero innamorato di una lavandaia, Juana. Si tratta di un canzoniere parodico dei temi e degli stili del canzoniere petrarchista, dimostrando che Lope de Vega era un grande umorista, molto fine e intelligente. Inoltre, sono intercalati alcuni poemi seri e alcune meditazioni che rivelano le preoccupazioni filosofiche che ponderava nella sua vecchiaia.
Oltre questi poemi lirici, che formano indubitabilmente una serie, apparirono altri componimenti: La bellezza di Angelica, con altre poesie diverse (La hermosura de Angélica, con otras diversas rimas, 1602); Quattro soliloqui (Cuatro soliloquios, 1612), con lo pseudonimo di Gabriel Padecopeo; Romanziere spirituale (Romancero espiritual, 1619), costituito da 32 romanze devote estratte in gran parte da I pastori di Betlemme e dalle Rime sacre; Trionfi divini, con altre Rime sacre (Triunfos divinos, con otras Rimas sacras, 1625); Soliloqui amorosi di un'anima a Dio (Soliloquios amorosos de un alma a Dios, 1626) e Lauro di Apollo, con altre rime (Laurel de Apolo, con otras rimas, 1630), in cui si ricapitola, come già aveva fatto Cervantes nel suo Viaggio del Parnaso (Viaje del Parnaso), il panorama poetico del suo tempo.

Poemi narrativi
Lope de Vega provò a raggiungere la gloria e la fama anche come poeta epico, attraverso vari progetti, più o meno paralleli alla serie delle Rime: La Dragontea narra, approfittando della sua esperienza biografica sulle navi con il Marchese di Santa Croce, la lotta contro il pirata inglese Francis Drake (1598) nello stile manierista del poeta tecnico che si percepisce bene anche nelle Rime. La Gerusalemme conquistata, epopea tragica (Jerusalén conquistada, epopeya trágica, 1609) narra di una crociata in terra santa, in cui l'autore si sforza di giustificare dal punto di vista storico la presenza degli spagnoli. Infine, La gattomachia (La Gatomaquia, 1634) costituisce un meraviglioso esempio di epica burlesca, che corrisponde al Lope comico e filosofico degli ultimi anni. Oltre a questi poemi di epica colta, non bisogna dimenticare piccoli poemi di ambizione più umile, in cui appare il grande amore che Lope sentiva per la campagna e le cose semplici, come L'Isidro (El Isidro, 1599), agiografia composta in onore del patrono di Madrid, San Isidro, el Labrador. D'altra parte, ne La bellezza di Angelica (La hermosura de Angélica, 1602) Lope prova a comporre un poema narrativo cavalleresco sulla falsariga di quelli di Ludovico Ariosto. Iniziato nel 1588 e pubblicato nel 1602 con la I Parte delle Rime e con un altro poema epico, la Dragontea, ne La bellezza di Angelica il giovane Lope de Vega tenta di sedurre il colto pubblico della corte, fondendo nei quasi 12.000 versi la scrittura in ottave dei romanzi rinascimentali con la lirica del romanziere moresco e le tecniche narrative della novella bizantina, per cui, senza dubbio, può essere considerato una specie di enciclopedia in cui si ricapitola tutta l'erudizione del poeta e a cui si possono ricondurre lunghi frammenti, immagini e situazioni che saranno risemantizzate in altre commedie e opere del Fénix.

Opera drammatica
Fra il 1604 e il 1647, sono pubblicati venticinque tomi di Parti (Partes) che ricapitolano le commedie di Lope, ma egli poté collaborare soltanto per le prime. Juan Pérez de Montalbán, un suo discepolo scrittore di commedie, afferma nella sua Fama postuma (Fama póstuma) che Lope scrisse circa milleottocento commedie e quattrocento atti sacri, di cui si è persa gran parte. Lo stesso autore fu più modesto e nelle sue opere stimò di averne scritti circa millecinquecento, inclusi gli atti sacri e altre opere sceniche, ma anche così sembra una cifra molto elevata. Per spiegarlo, Charles Vincent Aubrun ha supposto che il drammaturgo tracciava soltanto la trama e componeva alcune scene, mentre altri poeti e attori del suo studio completavano l'opera; senza dubbio i poeti del periodo dichiaravano di essere coautori di opere in collaborazione, così che questa tesi non può essere completamente sostenuta, sebbene la fama dell'autore consigliasse di non menzionare i suoi aiutanti per vendere meglio l'opera. Rennert e Castro conclusero che la cifra dichiarata era esagerata e che si possono attribuire a Lope sicuramente 723 titoli, di cui 78 sono di attribuzione dubbiosa o errata, mentre se ne sono persi 219, così che il repertorio drammatico reale si riduce a 426 pezzi. Invece, Morley e Bruerton, utilizzando, anche se non esclusivamente, criteri metrici che si sono rivelati molto sicuri, restrinsero ancor di più i criteri, stabilendo indubitabilmente come sue 316 commedie, come dubbie 73 e, fra quelle comunemente attribuite a Lope, ne dichiararono 87 non sue. Di tutte queste si riconoscono come opere maestre, sebbene in tutte quelle scritte da Lope ci siano scene che mostrano la sua genialità, solo una ventina: Peribáñez (1610), Fuenteovejuna (1612-1614), La dama boba (1613), Amar sin saber a quién (1620-1622), El mejor alcalde el rey (1620-1623), El caballero de Olmedo (1620-1625), La moza de cántaro, Por la puente, Juana (1624-1630), El castigo sin venganza (1631), El perro del hortelano, El villano en su rincón, El duque de Viseo, Lo fingido verdadero. Marcelino Menéndez Pelayo, uno dei primi editori del suo teatro, divise le tematiche di queste opere in cinque grandi blocchi:
▪ Commedie religiose (di storia testamentaria, vita dei santi e leggende pietose): La creación del mundo (1631-35), La hermosa Ester (1610), Barlaan y Josafat (1611) su Buddha, El divino africano (1610), sulla vita di SanťAgostino, San Isidro de Madrid (1604-06), San Diego de Alcalá (1613). Inoltre vi sono atti sacramentali come El tirano castigado, opera di cui si conserva oggi una copia manoscritta di Ignacio de Gálvez.
▪ Commedie mitologiche e di storia antica o straniera. Le prime si ispirano alle Metamorfosi di Ovidio, e sono drammi cortigiani, per l'alta aristocrazia, in cui gli stessi re o nobili sono ritratti. Sono anche chiamate "commedie di teatro, commedie di corpo, o commedie di rumore", con finali di deus ex machina: Adonis y Venus, El vellocino de oro(1620), El laberinto de Creta (1612-15). Fra quelle di storia straniera, vi sono El duque de Viseo (1608-09), Roma abrasada (1598-1600), El gran duque de Moscovia (1606), La reina Juana de Nápoles (1597-1603).
▪ Commedie di ricordi e tradizioni storiche spagnole. Si fondano sugli stereotipi culturali spagnoli. El villano en su rincón (1614-1616), sulla vita rurale di Juan Labrador. Castelvines y Monteses (1606-12), basata su una novella di Matteo Bandello, utilizzata da Shakespeare per il suo Romeo e Gulietta e in cui gli amanti finiscono per sposarsi e le famiglie si rappacificano. Fu imitato da Tirso de Molina ne Gli amanti di Teruel (Los amantes de Teruel) e da Hartzenbusch nel XIX secolo, con Los novios de Hornachuelos.
▪ Commedie di pura immaginazione: cavalleresche, pastorali, novellesche e di origine incerta. Alla fine del XVI secolo iniziarono a pubblicarsi in Spagna i romanzi popolari, che avevano origine nel Medioevo con tradizione orale e che furono compilati come Romancero general (1600). El caballero de Olmedo (1622), sul periodo di Giovanni II (1406-54). Le commedie pastorali imitano quelle del Rinascimento italiano, in particolare ispirandosi alľArcadia di Sannazaro e alle ecloghe di Juan del Encina Garcilaso de la Vega, alla Diana di Jorge de Montemayor, etc. El pastor Fido (1585).
▪ Commedie di costume (di mali costumi, urbane e palatine).
Aubrun riduce le tematiche delle commedie di Lope a tre: l'amore, l'onore e la fede. Ruiz Ramón preferisce invece parlare di drammi del potere ingiusto tra un nobile e un plebeo, o un plebeo e il re, o il re e il nobile; di drammi d'onore e di drammi d'amore.
Comunque, Lope de Vega creò il teatro classico spagnolo del Secolo d'Oro con una nuova formula drammatica in cui mescolava il tragico e il comico e rompeva le tre unità che proponeva la scuola di poetica italiana (Castelvetro, Robortello) ispirata alla Poetica e alla Retorica di Aristotele: unità di azione (presenza di un'unica trama), unità di tempo (in 24 ore o poco più) e unità di luogo (che l'azione avvenga in un solo luogo o fra siti contigui), anche se quest'ultima fu tratta per deduzione dalle altre due e non è in realtà citata nella Poetica aristotelica. Per l'azione, le commedie di Lope utilizzano ľimbroglio all'italiana (che racconta due o più storie nella stessa opera, di cui una principale e l'altra secondaria, oppure una con protagonisti dei nobili e l'altra i loro servi plebei). Per il tempo, vi sono commedie che narrano la vita intera di un individuo, sebbene si faccia coincidere il passar del tempo con gli intermezzi. Inoltre, Lope de Vega non rispetta l'unità di stile che si trova abbozzata in Aristotele, e mescola nella sua opera il tragico al comico utilizzando diversi generi di versi e strofe in funzione di ciò che si rappresenta. Utilizza il romance quando un personaggio fa relazioni o racconta fatti, l'ottava reale quando si fanno descrizioni; redondilla e quintilla quando si tratta di dialoghi, sonetti per i monologhi introspettivi o speranze o quando i personaggi devono cambiarsi l'abito, décima se si tratta di lamenti, etc... Il verso predominante è l'ottonario; vi sono quindi endecasillabi e gli altri tipi di verso. Si tratta quindi di un teatro polimetrico e poco accademico, a differenza del teatro classico francese, e in questo senso è accomunato al teatro isabelino. D'altra parte, il tema domina sopra l'azione e questa sulla caratterizzazione. I tre temi principali del teatro sono l'amore, la fede e l'onore, e vi sono intermezzi lirici, molti dei quali di origine popolare (romancero, lirica tradizionale). Si colgono preferibilmente i temi relativi all'onore ("muovono con forza tutti", scrive Lope) e si rifugge la satira appena introdotta. Tutti questi precetti sono raccomandati da Lope a coloro che desiderano seguire la sua formula drammatica nella sua Arte nuova di fare commedie (Arte nuevo de hacer comedias, 1609), scritto in versi sciolti con molti paragoni, per un'accademia letteraria.
Le opere drammatiche di Lope furono composte solo per la scena e l'autore non ne conservava alcuna copia. L'esemplare pativa dei tagli, adeguamenti, ampliamenti e ritocchi degli autori, alcuni dei quali anche scrittori di commedie.

▪ 1950 - Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950) è stato uno scrittore, poeta e traduttore italiano.
Cesare Pavese nacque il 9 settembre 1908 nel cascinale di San Sebastiano, dove la famiglia trascorreva il periodo estivo, a Santo Stefano Belbo, un piccolo paese nelle Langhe, in provincia di Cuneo.

La fanciullezza
Il padre Eugenio era cancelliere presso il Palazzo di Giustizia di Torino dove risiedeva con la moglie Consolina Mesturini, figlia di commercianti benestanti di Ticineto, e la primogenita Maria.
Malgrado l'agiatezza economica la prima fanciullezza di Pavese non fu felice: una sorellina che era nata prima di lui era morta di difterite; e altri due fratelli, in seguito, morirono ancora molto piccoli. La madre, fragile di salute, aveva dovuto affidare ad una balia il piccolo Cesare e quando andò a riprenderlo, venne allevato da Vittoria Scaglione.
Suo padre morì il 2 gennaio 1914 di un cancro al cervello, quando Cesare aveva solamente sei anni.
Come scrive Vincenzo Arnone [1] "c'erano già tutti i motivi - familiari e affettivi - per far crescere precocemente il piccolo Cesare che trattenne le lacrime, di cui sentiva istintivamente il pudore; c'erano già tutti i motivi per una preistoria umana e letteraria che avrebbe accompagnato e segnato la vita dello scrittore".
La madre si sostituì al marito nell'allevare i figli impartendo loro un'educazione molto rigorosa e contribuendo indirettamente ad accentuare il carattere già introverso e instabile di Cesare.

Gli studi
Nell'autunno dello stesso anno in cui morì il padre, la madre si ammalò di tifo e la famiglia fu costretta a rimanere a Santo Stefano dove Cesare frequentò la prima elementare; le altre quattro classi del ciclo le finì a Torino, presso l'istituto privato "Gambetta" di Via Garibaldi. Come scrive Armanda Guiducci[2] «S. Stefano fu il luogo della sua memoria e immaginazione; il luogo reale della sua vita, per quarant'anni, fu Torino».
Lungo lo stradone che porta da Santo Stefano a Canelli, nella bottega del falegname Scaglione, Cesare conobbe Pinolo, il più piccolo dei figli che descriverà in alcune sue opere, soprattutto ne La luna e i falò dove comparirà col soprannome di Nuto e al quale rimarrà sempre legato.
Nel frattempo Consolina, non riuscendo più a sostenere la gestione dei mezzadri e soprattutto le spese, prese la decisione 1916 di vendere la cascina di San Sebastiano e di andare a vivere con i figli in una piccola villa che aveva comprato in collina a Reaglie, frazione del Comune di Torino.
Dopo la scuola elementare, a Torino Cesare frequentò le scuole medie presso l'Istituto Sociale diretto dai gesuiti e in seguito si iscrisse alla scuola pubblica "Cavour" dove frequentò i due anni ginnasiali con l'indirizzo moderno, che non prevedeva lo studio della lingua greca. In quegli anni iniziò ad appassionarsi alla letteratura e i suoi primi autori di riferimento furono Guido da Verona e Gabriele D'Annunzio. Con il compagno di studi Mario Sturani, col quale strinse una solida amicizia durata tutta la vita, cominciò a frequentare la Biblioteca Civica e a scrivere i primi versi, ampliando così i suoi interessi.
Pavese si iscrisse al liceo D'Azeglio nell'ottobre del 1923 e scoprì l'opera di Alfieri. Passò gli anni di liceo tra i primi amori adolescenziali e le amicizie con un gruppo di compagni, tra i quali Tullio Pinelli, amico al quale Pavese farà leggere per primo il dattiloscritto di Paesi tuoi e invierà una lettera di addio prima del suicidio. Cesare rimase a lungo a casa da scuola a causa di una pleurite che si era preso rimanendo a lungo sotto la pioggia per aspettare una cantante ballerina di varietà in un locale frequentato dagli studenti, della quale si era innamorato. Era il 1925 e frequentava allora la seconda liceo[3].
L'anno seguente fu scosso profondamente dalla tragica morte di un suo compagno di classe, Elio Baraldi, che si era tolto la vita con un colpo di rivoltella. Ebbe la tentazione di copiare quel gesto. Testimonianza di questo sofferto periodo sono le lettere e la poesia inviata il 9 gennaio 1927[4] all'amico Sturani.
«Sono andato una sera di dicembre/ per una stradicciuola di campagna/ tutta deserta, col tumulto in cuore./ Avevo dietro me una rivoltella.»
Gobettiano fu il suo insegnante di latino e greco, l'antifascista Augusto Monti, che gli insegnò un metodo rigoroso di studio improntato all'estetica crociana frammista di alcune concezioni di De Sanctis.
Nel 1926, conseguita la maturità liceale, inviò alla rivista "Ricerca di poesia" alcune liriche, che furono però respinte.
Si iscrisse intanto alla Facoltà di lettere dell'Università di Torino e continuò a scrivere e a studiare con grande fervore l'inglese, appassionandosi alla lettura di Walt Whitman, mentre le sue amicizie si allargarono a coloro che diventeranno, in seguito, intellettuali antifascisti di spicco: Leone Ginzburg, Norberto Bobbio, Massimo Mila e Giulio Einaudi.
L'interesse per la letteratura americana divenne sempre più rilevante e così iniziò ad accumulare materiale per la sua tesi di laurea, mentre proseguivano i timidi amori permeati dalla sua visione angelicante della donna. Intanto si appassionava sempre più alla sua città, e così scriveva all'amico:
«Ora io non so se sia l'influenza di Walt Whitman, ma darei 27 campagne per una città come Torino. La campagna sarà buona per un riposo momentaneo dello spirito, buona per il paesaggio, vederlo e scappar via rapido in un treno elettrico, ma la vita, la vita vera moderna, come la sogno e la temo io è una grande città, piena di frastuono, di fabbriche, di palazzi enormi, di folle e di belle donne (ma tanto non le so avvicinare)[5].»

Leggendo Babbitt di Sinclair Lewis, Pavese volle capire a fondo lo slang. Iniziò così una fitta corrispondenza con un giovane italoamericano, conosciuto qualche anno prima a Torino, che lo aiutò ad approfondire l'americano a lui più contemporaneo.
Scrisse infatti ad Antonio Chiuminatto:
«ora io credo che lo slang non è una lingua distinta dall'inglese come per esempio il piemontese dal toscano... Lei dice: questa parola è slang e quest'altra è classica. Ma lo slang è forse altra cosa che il tronco delle nuove parole ed espressioni inglesi, continuamente formate dalla gente che vive, come lingue di tutti i tempi? Voglio dire, non c'è una linea che possa essere tracciata tra le parole inglesi e quelle dello slang come tra due lingue diverse...[6] »
Negli anni successivi, proseguì gli studi con passione, scrisse versi e lesse molto, soprattutto autori americani come Lewis, Hemingway, Lee Masters, Cummings, Lowell, Anderson e la Stein; iniziò a tradurre per l'editore Bemporad Our Mr. Wrenn di Lewis e scrisse per Arrigo Cajumi, membro del comitato direttivo della rivista "La Cultura", il suo primo saggio sull'autore di Babbitt iniziando così la serie detta "Americana".
Nel 1930 presentò la sua tesi di laurea "Sulla interpretazione della poesia di Walt Whitman" ma Federico Oliviero, il professore con il quale doveva discuterla, la rifiutò all'ultimo momento perché troppo improntata all'estetica crociana e quindi scandalosamente liberale per l'età fascista. Fortunatamente intervenne Leone Ginzburg, la tesi venne così accettata dal professore di Letteratura francese Ferdinando Neri e Pavese poté laurearsi con 108/110[7].

L'attività di traduttore e l'insegnamento
Nello stesso anno morì la madre e Pavese rimase ad abitare nella casa materna con la sorella Maria, dove visse fino al penultimo giorno della sua vita e iniziò, per guadagnare, l'attività di traduttore in modo sistematico alternandola all'insegnamento della lingua inglese.
Per un compenso di 1000 lire tradusse Moby Dick di Herman Melville, Riso nero di Anderson e scrisse un saggio sullo scrittore e, ancora per "La Cultura", un articolo sull'Antologia di Spoon River, uno su Melville e uno su O. Henry. Risale a questo stesso anno la prima poesia di Lavorare stanca. Ottenne anche alcune supplenze nelle scuole di Bra, Vercelli e Saluzzo e incominciò anche a impartire lezioni private e a insegnare nelle scuole serali.
Nel periodo che va dal settembre 1931 al febbraio 1932 Pavese compose un ciclo di racconti e poesie dal titolo Ciau Masino rimasto a lungo inedito che verrà pubblicato per la prima volta nel 1968 in edizione fuori commercio e contemporaneamente nel primo volume dei Racconti delle "Opere di Cesare Pavese".
Nel 1932, per poter insegnare nelle scuole pubbliche si arrese, pur malvolentieri, alle insistenze della sorella e di suo marito e si iscrisse al partito nazionale fascista, cosa che rimprovererà più tardi alla sorella Maria in una lettera del 29 luglio 1935 scritta dal carcere di Regina Coeli: "A seguire i vostri consigli, e l'avvenire e la carriera e la pace ecc., ho fatto una prima cosa contro la mia coscienza".
Continuava intanto l'attività di traduttore, che terminò solamente nel 1947. Nel 1933 tradusse Il 42º parallelo di John Dos Passos e The Portrait of the Artist as a Young Man di James Joyce. Ebbe inizio in questo periodo un tormentato rapporto sentimentale con Tina Pizzardo, la "donna dalla voce rauca" alla quale dedicherà i versi di Incontro nella raccolta Lavorare stanca.
«... L'ho incontrata una sera: una macchia più chiara/ sotto le stelle ambigue, nella foschia d'estate./ Era intorno il sentore di queste colline/ più profondo dell'ombra, e d'un tratto suonò/ come uscisse da queste colline, una voce più netta/ e aspra insieme, una voce di tempi perduti.[8]»

L'incarico all'Einaudi
Giulio Einaudi aveva intanto fondato la sua casa editrice. Le due riviste, "La riforma sociale" di Luigi Einaudi e "La Cultura", che era stata concepita da Cesare De Lollis e in quel momento era diretta da Cajumi, si fusero dando vita a una nuova "La Cultura" della quale doveva diventare direttore Leone Ginzburg. Ma molti partecipanti del movimento "Giustizia e Libertà", tra cui anche Ginzburg, all'inizio del 1934 vennero arrestati e la direzione della rivista passò a Sergio Solmi. Pavese, intanto, fece domanda alla casa editrice per poter sostituire Ginzburg e, dal maggio di quell'anno, visto che era tra quelli meno compromessi politicamente, incominciò la collaborazione con l'Einaudi dirigendo per un anno "La Cultura" e curando la sezione di etnologia.
Sempre nel 1934, grazie alla raccomandazione di Ginzburg, riuscì ad inviare ad Alberto Carocci, direttore a Firenze della rivista Solaria, le poesie di Lavorare stanca che vennero lette da Elio Vittorini con parere positivo tanto che Carocci ne decise la pubblicazione.

L'arresto e la condanna
Nel 1935 Pavese, intenzionato a proseguire nell'insegnamento, si dimise dall'incarico all'Einaudi e incominciò a prepararsi per affrontare il concorso di latino e greco ma, il 15 maggio, in seguito ad altri arresti di intellettuali aderenti a "Giustizia e Libertà", venne fatta una perquisizione nella casa di Pavese, sospettato di frequentare il gruppo di intellettuali a contatto con Ginzburg, e venne trovata, tra le sue carte, una lettera di Altiero Spinelli detenuto per motivi politici nel carcere romano. Accusato di antifascismo, Pavese venne arrestato e incarcerato dapprima alle Nuove di Torino, poi a Regina Coeli a Roma e, in seguito al processo, venne condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro. Pavese, in realtà, era innocente per il fatto che la lettera trovata era rivolta a Tina, la "donna dalla voce rauca" della quale era innamorato. Tina era politicamente impegnata e iscritta al Partito comunista d'Italia clandestino e continuava ad avere contatti epistolari con il precedente fidanzato, appunto lo Spinelli, e le lettere pervenivano a casa di Pavese che, per accontentarla e senza valutare le conseguenze, le aveva permesso di utilizzare il suo indirizzo.

Il confino a Brancaleone
Il 4 agosto 1935 giunse in Calabria a Brancaleone e scrisse ad Augusto Monti [9] "Qui i paesani mi hanno accolto umanamente, spiegandomi che, del resto, si tratta di una loro tradizione e che fanno così con tutti. Il giorno lo passo "dando volta", leggicchio, ristudio per la terza volta il greco, fumo la pipa, faccio venir notte; ogni volta indignandomi che, con tante invenzioni solenni, il genio italico non abbia ancora escogitato una droga che propini il letargo a volontà, nel mio caso per tre anni. Per tre anni! Studiare è una parola; non si può niente che valga in questa incertezza di vita, se non assaporare in tutte le sue qualità e quantità più luride la noia, il tedio, la seccaggine, la sgonfia, lo spleen e il mal di pancia. Esercito il più squallido dei passatempi. Acchiappo le mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il mare, giro i campi, fumo, tengo lo zibaldone, rileggo la corrispondenza dalla patria, serbo un'inutile castità.
Nell'ottobre di quell'anno aveva iniziato a tenere quello che nella lettera al Lajolo definisce lo "zibaldone", cioè un diario che diventerà in seguito Il mestiere di vivere e aveva fatto domanda di grazia, con la quale ottenne il condono di due anni.
Nel 1936, durante il suo confino, venne pubblicata la prima edizione della raccolta poetica Lavorare stanca che, malgrado la forma fortemente innovativa, passò quasi inosservata.

Il ritorno a Torino
Verso la fine del 1936, terminato l'anno di confino, Pavese fece ritorno a Torino e dovette affrontare la delusione di sapere che Tina si era sposata con un altro e che le sue poesie erano state ignorate. Per guadagnarsi da vivere riprese il lavoro di traduttore e nel 1937 tradusse Un mucchio di quattrini (The Big Money) di Dos Passos per Mondadori e Uomini e topi di Steinbeck per Bompiani. Dal 1º maggio accettò di collaborare, con un lavoro stabile e per lo stipendio di mille lire al mese, con la Einaudi, per le collane "Narratori stranieri tradotti" e "Biblioteca di cultura storica", traducendo Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders di Defoe e l'anno dopo La storia e le personali esperienze di David Copperfield di Dickens oltre all'Autobiografia di Alice Toklas della Stein.

Il passaggio alla prosa
Nel frattempo incominciò a scrivere i racconti che verranno pubblicati postumi, dapprima nella raccolta "Notte di festa" e in seguito nel volume de "I racconti" e fra il 27 novembre del 1936 e il 16 aprile del 1939 completò la stesura del suo primo romanzo breve tratto dall'esperienza del confino intitolato "Il carcere" (il primo titolo era stato "Memorie di due stagioni") che verrà pubblicato dieci anni dopo. Dal 3 giugno al 16 agosto scrisse Paesi tuoi che verrà pubblicato nel 1941 e sarà la prima opera di narrativa dello scrittore data alle stampe.
Si andava intanto intensificando, dopo il ritorno dal confino di Leone Ginzburg da Pizzoli, negli Abruzzi, l'attività del gruppo clandestino di "Giustizia e Libertà" e quella dei comunisti con a capo Ludovico Geymonat e Pavese, che era chiaramente antifascista, venne coinvolto e, al di qua di una precisa e dichiarata definizione politica, iniziò ad assistere con crescente interesse alle frequenti discussioni che avvenivano a casa degli amici. Conobbe in questo periodo Giaime Pintor che collaborava ad alcune riviste letterarie ed era inserito alla Einaudi come traduttore dal tedesco e come consulente e nacque tra loro una salda amicizia.

Il periodo della guerra
Nel 1940 l'Italia era intanto entrata in guerra e Pavese era coinvolto in una nuova avventura sentimentale con una giovane universitaria che era stata sua allieva al liceo D'Azeglio e che gli aveva presentato Norberto Bobbio. La ragazza, giovane e ricca di interessi culturali, si chiamava Fernanda Pivano e colpì lo scrittore a tal punto che il 26 luglio le propose il matrimonio; malgrado il rifiuto della giovane, l'amicizia continuò. Alla Pivano Pavese dedicò alcune poesie, tra le quali "Mattino", "Estate" e "Notturno" che inserì nella nuova edizione di Lavorare stanca. Lajolo scrive che " Per cinque anni Fernanda fu la sua confidente, ed è in lei che Pavese tornò a sperare per avere una casa ed un amore. Ma anche quella esperienza - così diversa - si concluse per lui con un fallimento. Sul frontespizio di Feria d'agosto sono segnate due date: 26 luglio 1940, 10 luglio 1945, che ricordano le due domande di matrimonio fatte a Fernanda. con le due croci che rappresentano il significato delle risposte" [10].
In quell'anno Pavese scrisse La bella estate (il primo titolo sarà "La tenda"), che verrà pubblicato nel 1949 nel volume dal titolo omonimo che comprende Il diavolo sulle colline e Tra donne sole; tra il 1940 e il 1941 scrisse La spiaggia, che vedrà una prima pubblicazione nel 1942 su "Lettere d'oggi" di Giambattista Vicari.
Nel 1941, con la pubblicazione di Paesi tuoi, e quindi l'esordio narrativo di Pavese, la critica sembrò accorgersi finalmente dell'autore. Intanto, nel 1942, Pavese venne regolarmente assunto dalla Einaudi con mansioni di impiegato di prima categoria e con il doppio dello stipendio sulla base del contratto nazionale collettivo di lavoro dell'industria. Nel 1943 Pavese venne trasferito per motivi editoriali a Roma dove gli giunse la cartolina di precetto ma, a causa della forma d'asma di origine nervosa di cui soffriva, dopo sei mesi di convalescenza all'Ospedale militare di Rivoli venne dispensato dalla leva militare e ritornò a Torino che nel frattempo aveva subito numerosi bombardamenti e che trovò deserta dai numerosi amici, mentre sulle montagne si stavano organizzando le prime bande partigiane.
Nel 1943, dopo l'8 settembre, Torino venne occupata dai tedeschi e anche la casa editrice venne occupata da un commissario della Repubblica sociale italiana. Pavese, a differenza di molti suoi amici che si preparavano alla lotta clandestina, si rifugiò a Serralunga di Crea, un piccolo paese del Monferrato, dove la sorella Maria era sfollata. A dicembre, per sfuggire ad una retata da parte dei repubblicani e dei tedeschi, chiese ospitalità presso il Collegio Convitto dei padri Somaschi dove, per sdebitarsi, dava ripetizioni agli allievi. Leggeva e scriveva apparentemente sereno mentre intorno a lui, sulle colline, altri giovani morivano per difendere la loro terra.
Il 1º marzo, mentre si trovava ancora a Serralunga, gli giunse la notizia della tragica morte di Leone Ginzburg avvenuta sotto le torture nel carcere di Regina Coeli. Il 3 marzo scriverà: "L'ho saputo il 1° marzo. Esistono gli altri per noi? Vorrei che non fosse vero per non star male. Vivo come in una nebbia, pensandoci sempre ma vagamente. Finisce che si prende l'abitudine a questo stato, in cui si rimanda sempre il dolore vero a domani, e così si dimentica e non si è sofferto" [11].

Gli anni del dopoguerra (1945-1950)
L'iscrizione al Partito comunista e l'attività a "L'Unità"
Ritornato a Torino dopo la liberazione, venne subito a sapere che tanti amici erano morti: Giaime Pintor era stato dilaniato da una mina sul fronte dell'avanzata americana; Luigi Capriolo era stato impiccato a Torino dai fascisti e Gaspare Pajetta, un suo ex allievo di soli diciotto anni, era morto combattendo nella Val di Sesia. Dapprima, colpito indubbiamente da un certo rimorso, che ben espresse in seguito nelle poesie del poemetto "La terra e la morte" e in tante pagine dei suoi romanzi, egli cercò di isolarsi dagli amici rimasti ma poco dopo decise di iscriversi al Partito comunista iniziando a collaborare al quotidiano "L'Unità"; ne darà notizia da Roma, dove era stato inviato alla fine di luglio per riorganizzare la filiale romana della Einaudi, il 10 novembre all'amico Massimo Mila: "Io ho finalmente regolato la mia posizione iscrivendomi al PCI".
Come scrive l'amico Lajolo [12] "La sua iscrizione al partito comunista oltre ad un fatto di coscienza corrispose certamente anche all'esigenza che sentiva di rendersi degno in quel modo dell'eroismo di Gaspare e degli altri suoi amici che erano caduti. Come un cercare di tacitare i rimorsi e soprattutto di impegnarsi almeno ora in un lavoro che ne riscattasse la precedente assenza e lo ponesse quotidianamente a contatto con la gente... Tentava con quel legame anche disciplinare, di rompere l'isolamento, di collegarsi, di camminare assieme agli altri. Era l'ultima risorsa alla quale si aggrappava per imparare il mestiere di vivere".
Nei mesi trascorsi presso la redazione de "L'Unità" conobbe Italo Calvino, che lo seguì alla Einaudi e ne divenne da quel momento uno dei più stimati collaboratori e Silvio Micheli che era giunto a Torino nel giugno del 1945 per parlare con Pavese della pubblicazione del suo romanzo "Pane duro".

Alla sede romana della Einaudi
Verso la fine del 1945, Pavese lasciò Torino per Roma dove ebbe appunto l'incarico di potenziare la sede cittadina dell'Einaudi. Il periodo romano, che durò fino alla seconda metà del 1946, fu considerato dallo scrittore come un tempo d'esilio perché staccarsi dall'ambiente torinese, dagli amici e soprattutto dalla nuova attività politica, lo fece ricadere nella malinconia.
Nella segreteria della sede romana lavorava una giovane donna, Bianca Garufi, e per lei Pavese provò una nuova passione, più impegnativa dell'idillio con la Pivano, che egli visse intensamente e che lo fece soffrire.
Scriverà nel suo diario, il 1º gennaio del 1946, come consuntivo dell'anno trascorso: "Anche questa è finita. Le colline, Torino, Roma. Bruciato quattro donne, stampato un libro, scritte poesie belle, scoperta una nuova forma che sintetizza molti filoni (il dialogo di Circe). Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare. Sei solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest'anno. Tutti ti ammirano, ti complimentano, ti ballano intorno. Ebbene? Non hai mai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per qualcuno? [13].
Nel febbraio del 1946 iniziò a scrivere in collaborazione con la Garufi un romanzo, a capitoli alterni, che rimarrà incompiuto e che verrà pubblicato postumo nel 1959 con il titolo, dato dall'editore, Fuoco grande.

A Torino: la "Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici"
Ritornato a Torino si mise a lavorare su quei temi delineatisi nella mente quando era a Serralunga. Incominciò a comporre i Dialoghi con Leucò e nell'autunno, mentre stava terminando l'opera, scrisse i primi capitoli de Il compagno con il quale volle testimoniare l'impegno per una precisa scelta politica.

Terminati i Dialoghi, in attesa della pubblicazione del libro che avvenne a fine novembre nella collana "Saggi", tradusse Capitano Smith di Robert Henriques.
Il 1947 fu un anno intenso per l'attività editoriale e Pavese si interessò particolarmente della "Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici" da lui ideata con la collaborazione di Ernesto De Martino, una collana che fece conoscere al mondo culturale italiano le opere di autori come Lévy-Bruhl, Malinowski, Propp, Frobenius, Jung, e che avrebbero dato avvio a nuove teorie antropologiche. Oltre a ciò, Pavese inaugurò anche la nuova collana di narrativa dei "Coralli" che era nata in quello stesso anno in sostituzione dei "Narratori contemporanei".

La febbrile attività narrativa
Tra il settembre del 1947 e il febbraio del 1948, contemporaneamente a Il compagno, scrisse La casa in collina che uscì l'anno successivo insieme a Il carcere nel volume Prima che il gallo canti il cui titolo, ripreso dalla risposta di Cristo a Pietro, si riferisce, con tono palesemente autobiografico ai suoi tradimenti politici. Seguirà, tra il giugno e l'ottobre del 1948 Il diavolo sulle colline.
Nell'estate del 1948 gli era stato intanto assegnato per Il compagno il Premio Salento ma Pavese aveva scritto all'amico Carlo Muscetta di dimissionarlo da qualsiasi premio letterario, presente o futuro.
Alla fine dell'anno uscì Prima che il gallo canti che venne subito elogiato dai critici Emilio Cecchi e Giuseppe De Robertis. Dal 27 marzo al 26 maggio del 1949 scrisse Tra donne sole e, al termine del romanzo, andò a trascorrere una settimana a Santo Stefano Belbo e, in compagnia dell'amico Pinolo Scaglione, a suo agio tra quelle campagne, iniziò ad elaborare quella che sarebbe diventata La luna e i falò, l'ultima sua opera pubblicata in vita.
Il 24 novembre 1949 verrà pubblicato il trittico La bella estate che comprendeva i già citati tre romanzi brevi composti in periodi diversi: l'eponimo del 1940, Il diavolo sulle colline del 1948 e Tra donne sole del 1949.
Sempre nel 1949, scritto nel giro di pochi mesi e pubblicato nella primavera del 1950, scrisse La luna e i falò che sarà l'opera di narrativa conclusiva della sua carriera letteraria.

A Roma: l'ultimo amore
Dopo essere stato per un brevissimo tempo a Milano, farà un viaggio a Roma dove si tratterrà dal 30 dicembre del 1949 al 6 gennaio del 1950, ma rimarrà deluso e il 1º gennaio scriverà sul suo diario [14] "Roma è un crocchio di giovanotti che attendono per farsi lustrare le scarpe. Passeggiata mattutina. Bel sole. Ma dove sono le impressioni del '45-'46? Ritrovato a fatica gli spunti, ma niente di nuovo. Roma tace. Né le pietre né le piante dicono più gran che. Quell'inverno stupendo; sotto il sereno frizzante, le bacche di Leucò. Solita storia. Anche il dolore, il suicidio, facevano vita, stupore, tensione. In fondo ai grandi periodi hai sempre sentito tentazioni suicide. Ti eri abbandonato. Ti eri spogliato dell'armatura. Eri ragazzo. L'idea del suicidio era una protesta di vita. Che morte non voler più morire".
In questo stato d'animo conosce, in casa di amici, Constance Dowling giunta a Roma con la sorella Doris che aveva recitato in Riso amaro con Vittorio Gassman e Raf Vallone e, colpito dalla sua bellezza, se ne innamora.
Ritornando a Torino cominciò a pensare che, ancora una volta, si era lasciato sfuggire l'occasione e quando Constance si recherà a Torino per un periodo di riposo, i due si rivedono e la donna, che aveva invece colto l'occasione per "flirtare" con un famoso letterato, lo convinse ad andare con lei a Cervinia dove Pavese si illuse un'altra volta. Ma Constance ripartirà presto per l'America per tentare fortuna a Hollywood lasciando lo scrittore amareggiato e infelice. A Constance, come per un addio dedica il romanzo "La luna e i falò". "For C. - Ripeness is all".

Il Premio Strega
Nella primavera - estate del 1950 uscirà la rivista "Cultura e realtà" e Pavese, che fa parte della redazione, apre il primo numero della rivista con un suo articolo sul mito nel quale afferma la sua fede poetica di carattere vichiano che non venne apprezzata dagli ambienti degli intellettuali comunisti.
Cesare viene attaccato e lui, sempre più amareggiato annoterà nel suo diario il 15 febbraio [15] "Pavese non è un buon compagno... Discorsi d'intrighi dappertutto. Losche mene, che sarebbero poi i discorsi di quelli che ti stanno più a cuore", e ancora il 20 maggio [16] "Mi sono impegnato nella responsabilità politica che mi schiaccia".
Pavese era terribilmente depresso e non servì a riscuoterlo nemmeno il Premio Strega che ricevette nel giugno del 1950 per La bella estate.

La morte
La delusione amorosa per la fine del rapporto sentimentale con l'attrice americana Constance Dowling, sommatasi alla delusione per un altro rapporto sentimentale fallito - quello con Romilda Bollati di Saint Pierre, cui dedicò gli ultimi versi di Verrà la morte e avrà i tuoi occhi - ed il disagio esistenziale, lo indussero così al suicidio il 27 agosto del 1950, in una camera dell'albergo Roma, a Torino, che aveva occupato il 26 agosto. Venne trovato morto disteso sul letto dopo aver ingerito sedici bustine di sonnifero. Il 17 agosto scrive sul diario che verrà pubblicato postumo nel 1952 con il titolo Il mestiere di vivere. Diario 1935-1950: "Questo il consuntivo dell'anno non finito, che non finirò." ed il 18 agosto chiude il diario scrivendo:
«Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più.[17]»
Sulla prima pagina dei "Dialoghi con Leucò" che si trovava sul tavolino aveva scritto:
«Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Va bene? Non fate troppi pettegolezzi.[18]»
Il suo amico scrittore Davide Lajolo bene descrisse in un libro intitolato non casualmente Il vizio assurdo il malessere esistenziale che sempre aveva avvolto la vita dell'intellettuale piemontese.

Opera e poetica
Importante fu l'opera di Pavese scrittore di romanzi, poesie e racconti, ma anche quella di traduttore e critico: oltre all'Antologia americana curata da Elio Vittorini, essa comprende la traduzione di classici della letteratura da Moby Dick di Melville, nel 1932, ad opere di Dos Passos, Faulkner, Defoe, Joyce e Dickens.
Nel 1951 uscì postumo, edito da Einaudi e con la prefazione di Italo Calvino il volume La letteratura americana e altri saggi con tutti i saggi e gli articoli che Pavese scrisse tra il 1930 e il 1950.
La sua attività di critico in particolare contribuì a creare, verso la metà degli anni trenta, il sorgere di un certo "mito dell'America". Lavorando nell'editoria (per la Einaudi) Pavese propose alla cultura italiana scritti su temi differenti, e prima d'allora raramente affrontati, come l'idealismo ed il marxismo, inclusi quelli religiosi, etnologici e psicologici.

Note
1. Vincenzo Arnone, Pavese, tra l'Assoluto e l'Assoluto, Ed. Messaggero, Padova 1998
2. Armanda Guiducci, Il mito Pavese, Vallecchi, Firenze 1967, p. 15.
3. L'episodio è citato da Francesco De Gregori nella canzone Alice: ... e Cesare perduto nella pioggia sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina.
4. Lettere, 1924-1944, a cura di Lorenzo Mondo, Einaudi, Torino 1966
5. op. cit., p. 35
6. Lettera ad Antonio Chiumatto, 12 gennaio 1939, op. cit., p. 171
7. R. Gigliucci, Cesare Pavese, Bruno Mondadori, Milano 2001, p. 10.
8. Da "Incontro" in Cesare Pavese, Poesie edite e inedite, Einaudi, Torino 1962, p. 29.
9. Lettera ad Augusto Monti, 11 settembre, pubbl. in Davide Lajolo, Il "vizio assurdo", Il Saggiatore, Milano 1967.
10. Davide Lajolo, "Il vizio assurdo", Il Saggiatore, Milano 1967, p. 259
11. Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 1952, p. 276 (3 marzo 1944).
12. Davide Lajolo, op. cit., p. 303.
13. Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, Torino 2000, p. 306.
14. op. cit., p. 384.
15. op. cit., p. 389.
16. op. cit., p. 394.
17. op. cit., p. 400.
18. Ultimo scritto prima del suicidio, annotato sulla prima pagina dei Dialoghi di Leucò che si trovava sul tavolino della camera dell'albergo.

▪ 1965 - Le Corbousier, pseudonimo di Charles-Edouard Jeanneret-Gris (La Chaux-de-Fonds, 6 ottobre 1887 – Roquebrune-Cap-Martin, 27 agosto 1965), è stato un architetto, urbanista, pittore e designer svizzero naturalizzato francese.
Viene ricordato - assieme a Ludwig Mies van der Rohe, Walter Gropius, Frank Lloyd Wright e pochi altri - come un maestro del Movimento Moderno. Pioniere nell'uso del cemento armato per l'architettura, è stato anche uno dei padri dell'urbanistica contemporanea. Membro fondatore dei Congrès Internationaux d'Architecture moderne, fuse l'architettura con i bisogni sociali dell'uomo medio, rivelandosi geniale pensatore della realtà del suo tempo.
Nato in Svizzera, il 6 ottobre 1887, da una famiglia di origine francese (per parte paterna) e belga (per parte materna), a 14 anni il giovane Charles-Edouard si iscrive alla locale scuola d'arte, dove apprende tecniche inizialmente estranee a quelle che gli serviranno per l'opera architettonica, acquisendo però capacità di pittore, scultore e cesellatore (un primo successo sarà a soli quindici anni un premio all'Esposizione di Arti Decorative di Torino del 1902 con un orologio da taschino). Il suo maestro, tuttavia, lo spinge ad orientarsi verso l'architettura e in questo senso rimangono fondamentali i suoi lunghi viaggi compiuti tra il 1906 e il 1914 in varie città d'Europa: in primo luogo in Italia (tra la Toscana e il Veneto) dove studia dal vivo le architetture rinascimentali e sei-settecentesche (per il primo viaggio a Firenze - dove si fermerà per un mese - impiegherà il danaro guadagnato dalla sua prima "commessa" per il progetto di una casa di abitazione - la "Villa Fallet" - disegnata per un insegnante della scuola, insieme ad un architetto locale - René Chapallaz - nel periodo 1906/07); poi sarà a Budapest e a Vienna, dove entra in contatto con l'ambiente della Secessione viennese. A Berlino conosce Gropius e Mies Van der Rohe, abbandonando però il loro studio a causa dell'incompatibilità con la personalità del loro maestro, Behrens.
Nel 1917 decide di stabilirsi definitivamente a Parigi, dove già aveva vissuto in periodi alterni dal 1908. Qui lavora prima nello studio di Auguste Perret, pioniere del cemento armato, e poi - grazie agli insegnamenti del maestro che lo stimolano ad approfondire i materiali piuttosto che gli elementi teorici - fonda una fabbrica di mattoni che non decolla, e nel 1922 apre al numero 35 di Rue de Sèvres un atelier di architettura insieme al cugino Pierre Jeanneret.
Un incontro molto importante per la sua formazione fu quello col pittore e disegnatore Amédée Ozenfant che iniziò Le Corbusier al Purismo, una nuova estetica delle arti figurative che rifiutava le astrazioni complicate del Cubismo e invocava il ritorno alle forme geometriche pure degli oggetti di uso comune. Nel 1918 i due scrissero e pubblicarono il manifesto del Purismo, Après le cubisme.
Nel 1920, assieme al poeta Paul Dermée, Le Corbousier e Ozenfant fondarono una battagliera rivista di avanguardia L'Esprit Nouveau. Aperta alle arti e alle scienze umane, grazie a collaboratori brillanti, nella rivista venivano divulgate le idee sull'architettura e l'urbanistica già espresse da Adolf Loos e Henry van de Velde, venivano combattuti gli "stili" del passato, le complicate decorazioni non strutturali del Cubismo, invocato il ritorno a un'arte ordinata, chiara e oggettiva in sintonia con i tempi.
È all'inizio del suo periodo parigino che, assecondando una consuetudine tipica fra gli artisti dell'epoca, il trentenne Charles-Edouard, letteralmente ri-"facendosi un nome", acquisisce lo pseudonimo che lo renderà universalmente noto, adattando il nome del nonno materno (Lecorbesier). Inizia così la definitiva stabilizzazione, che lo porterà in pochissimi anni a un enorme successo. Solo dopo la guerra, nel 1946, lascia l'atelier per New York, ormai celebre e stimato. Muore nel 1965 durante le sue canoniche vacanze in Costa azzurra per un attacco cardiaco mentre fa un bagno all'eta di 77 anni.

Opere
Nella sua lunghissima carriera, durata - dai primissimi passi della "Villa Fallet" - quasi 60 anni, Le Corbusier realizzò 75 edifici in 12 nazioni, una cinquantina di progetti urbanistici, tra cui il piano di fondazione di una nuova città, Chandigarh la capitale del Punjab in India, centinaia di progetti non realizzati, tra cui due importanti in Italia.

Scritti
Le Corbusier è certamente uno dei maggiori teorici dell'architettura del XX secolo e lascia un enorme corpus di scritti in cui articola il complesso insieme di idee. Egli pubblicò quasi 54 libri e opuscoli dedicati alle sue idee relative all'architettura, l'urbanistica, il design e l'arte. Tra questi alcuni testi rimangono delle pietre miliari della letteratura disciplinare, diffuse in tutte le maggiori lingue del mondo. Tra tutti si cita Vers une architecture del 1923, che rappresentò una sorta di bibbia per gli architetti del Movimento Moderno.
Tra il 1918 e il 1925 assieme al pittore francese Amédée Ozenfant Le Corbousier ha enunciato una serie di scritti teorici sul Purismo.
Inoltre, egli pubblicò, assieme al cugino Pierre Jeanneret, la sua opera completa (Oeuvre complete) in 9 volumi, alla cui redazione partecipò direttamente. Scrisse molteplici articoli su riviste d’architettura e giornali in francese ed in altre lingue, relazioni a convegni. Rimangono, infine, un cospicuo numero di appunti, testi di conferenze e scritti in buona parte pubblicati post mortem, e un'ampia collezione di carnets di schizzi.

Un'architettura a misura d'uomo
Il principale e immortale contributo di Le Corbusier all'architettura moderna consiste nell'aver concepito la costruzione di abitazioni ed edifici come fatti per l'uomo e costruiti a misura d'uomo: "solo l'utente ha la parola", afferma in Le Modulor, l'opera in cui espone la sua grande teorizzazione (sviluppata durante la II guerra mondiale), il modulor appunto. Il modulor è una scala di grandezze, basata sulla regola aurea nota già agli antichi Greci riguardo le proporzioni del corpo umano: queste misure devono essere usate da tutti gli architetti per costruire non solo spazi ma anche ripiani, appoggi, accessi che siano perfettamente in accordo con le misure standard del corpo umano. Albert Einstein elogiò l'intuizione di Le Corbusier affermando, a proposito dei rapporti matematici da lui teorizzati: «È una scala di proporzioni che rende il male difficile e il bene facile».
La produzione standardizzata, basata su un modulo replicabile all'infinito, è un concetto che domina tutta la produzione di Le Corbusier. Nel 1925 egli, insieme al cugino, in meno di un anno edifica il quartiere Pessac di Bordeaux voluto da un industriale che trova in Le Corbusier la sintesi del taylorismo e dell'edificio a misura dell'abitante, dell'utente. Gli edifici di Pessac vengono costruiti a tempo di record poiché la loro pianta si basa su un modulo replicabile: le abitazioni sono costruite allo stesso modo di un'auto in una catena di montaggio. Stessa cosa con le case "Citrohan", ideate fin dal 1920 ma realizzate compiutamente a Stoccarda nel 1927: s'intuisce l'assonanza con la 'Citroen', le case non sono altro che nuove realizzazioni a catena di montaggio. «Occorre creare lo spirito della produzione in serie, lo spirito di costruire case in serie, lo spirito di concepire case in serie», è l'idea di Le Corbusier, già presente nel 1910 con lo studio delle case a "Domino", basate su una struttura portante su cui può venir costruito qualsiasi edificio.
Tra il 1945 e il 1952 Le Corbusier edifica la prima delle sue "Unités d'Habitation", unità di abitazione, a Marsiglia. Più che semplici abitazioni, si tratta di veri e propri edifici-città. Su diciassette piani costruisce più di trecento appartamenti a 'tagli' diversi (singoli, coppie, famiglie da 3, 4, 5, 6 persone), al posto dei corridoi tra gli appartamenti ben sette 'strade interne' dove sono presenti negozi di ogni tipo, e il tetto (come già teorizzato in Verso un'architettura) diviene un'immensa piazza-terrazza dove viene restituito il verde tolto dal cemento e una grande piscina. È una città-edificio per il proletariato, dove i bambini possono giocare nel parco sul tetto quando il padre è a lavoro e le madri fanno la spesa nelle strade interne. «Le risorse sensazionali della nostra epoca sono messe a servizio dell’uomo», afferma orgoglioso Le Corbusier, che replica le unités anche a Berlino e in alcune città francesi. L'edificio - è l'idea di Le Corbusier - è una macchina da abitare.

I cinque punti della nuova architettura
▪ I Pilotis (piloni) sostituiscono i voluminosi setti in muratura che penetravano fin dentro il terreno, per fungere infine da fondazioni, creando invece dei sostegni molto esili, poggiati su dei plinti, su cui appoggiare poi i solai in calcestruzzo armato. L'edificio è retto così da alti piloni puntiformi, di cemento armato anch'essi, che elevano la costruzione separandola dal terreno e dall'umidità. L'area ora disponibile viene utilizzata come giardino, garage o - se in città - per far passare strade.
▪ Il Tetto-giardino (tetto a terrazza) restituisce all'uomo il verde, che non è solo sotto l'edificio ma anche e soprattutto sopra. Tra i giunti delle lastre di copertura viene messo il terreno e seminati erba e piante, che hanno una funzione coibente nei confronti dei piani inferiori e rendono lussureggiante e vivibile il tetto, dove si può realizzare anche una piscina. Il tetto giardino è un concetto realizzabile anche grazie all'uso del calcestruzzo armato: questo materiale rende infatti possibile la costruzione di solai particolarmente resistenti in quanto resiste alla cosiddetta trazione, generata dalla flessione delle strutture (gravate del peso proprio e di quanto vi viene appoggiato), molto meglio dei precedenti sistemi volti a realizzare piani orizzontali.
▪ Il Plan libre (pianta libera) è resa possibile dalla creazione di uno scheletro portante in cemento armato che elimina la funzione delle murature portanti che 'schiavizzavano' la pianta dell'edificio, permettendo all'architetto di costruire l'abitazione in tutta libertà e disponendo le pareti a piacimento.
▪ La Facciata libera è una derivazione anch'essa dello scheletro portante in calcestruzzo armato. Consiste nella libertà di creare facciate non più costituite di murature aventi funzioni strutturali, ma semplicemente da una serie di elementi orizzontali e verticali i cui vuoti possono essere tamponati a piacimento, sia con pareti isolanti che con infissi trasparenti.
▪ La Fenêtre en longueur (o finestra a nastro) è un'altra grande innovazione permessa dal calcestruzzo armato. La facciata può infatti ora essere tagliata in tutta la sua lunghezza da una finestra che ne occupa la superficie desiderata, permettendo una straordinaria illuminazione degli interni ed un contatto più diretto con l'esterno.
Questi canoni esposti da Le Corbusier verranno applicati in una delle sue più celebri realizzazioni, la Villa Savoye a Poissy, nei dintorni di Parigi.

Le utopie urbanistiche
Le ardite teorie architettoniche di Le Corbusier giungono a una loro razionale compiutezza nei suoi avveniristici progetti urbanistici. Già nel 1922, nel presentare al Salon d'Autumne il suo progetto sulla Città per Tre Milioni d'Abitanti, Le Corbusier illustrava i punti principali della sua città modello. Essa si basa essenzialmente su una attenta separazione degli spazi: gli alti grattacieli residenziali sono divisi gli uni dagli altri da ampie strade e lussureggianti giardini. Le Corbusier destina alle grandi arterie viarie il traffico automobilistico privandolo della presenza dei pedoni, garantendo così alte velocità sulle strade. Ai pedoni è restituita la città attraverso percorsi e sentieri tra i giardini e i grandi palazzi. Il grande maestro vuole non solo realizzare la casa secondo i canoni del Le Modulor, ma anche un nuovo Ambiente costruito che sia nella sua interezza a misura d'uomo.

Nel 1933 queste sue idee vengono meglio sviluppate nel capolavoro teorico del progetto della Ville Radieuse, «La città di domani, dove sarà ristabilito il rapporto uomo-natura!». Qui si fa più marcata la separazione degli spazi: a nord gli edifici governativi, università, aeroporto e stazione ferroviaria centrale; a sud la zona industriale; al centro, tra i due lati, la zona residenziale. Il centro viene decongestionato dall'odiata giungla d'asfalto e solo il 12% di superficie risulta coperta dagli edifici residenziali, che si sviluppano in altezza destinando al verde tutte le altre zone. La ferrovia circonda ad anello la città, restando in periferia, mentre le arterie viarie hanno uscite direttamente alla base dei grattacieli residenziali dove sono situati i parcheggi; le autostrade sono rialzate rispetto al livello di base dai pilotis; i trasporti urbani si sviluppano in reti metropolitane sotto la superficie.
Il grande sogno di poter realizzare la città ideale delle utopie rinascimentali e illuministe si concretizza nel 1951. Il primo ministro indiano, Nehru, chiamò Le Corbusier e suo cugino Pierre per destinare al "più grande architetto del mondo" l'edificazione della capitale del Punjab. Iniziano i lavori per Chandigarh (la "città d'argento"), probabilmente il punto d'arrivo dell'ardito e pionieristico sviluppo di Le Corbusier. La divisione degli spazi qui giunge a chiudere definitivamente il divario tra uomo e costruzione: la città segue la pianta di un corpo umano; gli edifici governativi e amministrativi nella testa, le strutture produttive ed industriali nelle viscere, alla periferia del tronco gli edifici residenziali - tutti qui molto bassi - vere e proprie isole autonome immerse nel verde. Si concretizza anche la sua grande innovazione del sistema viario, con la separazione delle strade dedicate ai pedoni e quelle dedicate al solo traffico automobilistico: ogni isolato è circondato da una strada a scorrimento veloce che sbocca nei grandi parcheggi dedicati; un'altra strada risale tutto il 'corpo' della città fino al Campidoglio ospitando ai lati gli edifici degli affari; una grande arteria pedonale ha alle sue ali negozi della tradizione indiana, con in più due strade laterali automobilistiche a scorrimento lento; una grande strada, infine, giunge fino a Delhi. La città di Chandigarh fonde tutti gli studi architettonici compiuti da Le Corbusier nei suoi viaggi giovanili per l'Europa e le sue innovazioni del cemento e della città a misura d'uomo. Simbolico il monumento centrale della città, una grande mano tesa verso il cielo, la mano dell'uomo del Modulor, «una mano aperta per ricevere e donare».

* 1970 - Bruno Ciari (Certaldo, 16 aprile 1923 – Bologna, 27 agosto 1970) è stato un pedagogista italiano.
È cresciuto a Certaldo durante il periodo fascista. Oppositore del regime, rifiutò la chiamata alle armi e si unì alla resistenza, combattendo nella Toscana meridionale insieme ad amici e compaesani.
Dopo l'armistizio, continuò la sua militanza nel Partito Comunista di cui divenne segretario presso il comune di Certaldo del quale comune fu anche vicesindaco.
Si dedicò all'insegnamento e al lavoro nella scuola e si unì all'associazione di insegnanti italiani progressisti conosciuti come Movimento di Cooperazione Educativa con sede estiva (1958) a Frontale (Apiro - Marche) in casa di Pino Tamagnini, altro valente educatore e cofondatore di MCE (1957).
Chiamato dal Comune di Bologna come coordinatore delle scuole pubbliche cittadine, morì a soli 47 anni per cancro ed è sepolto a Certaldo.
Suo figlio, Marco Ciari, batterista torinese molto conosciuto, durante i primi anni ottanta ha militato nel gruppo beat dei Blind Alley insieme a Gigi Restagno e Luca Bertoglio.

▪ 1975 - Hailé Selassié I, al secolo Tafari Makonnen (Ejersa Goro, 23 luglio 1892 – 27 agosto 1975), è stato Imperatore d'Etiopia dal 1930 al 1974.

Primi anni
Secondo la tradizione etiope Ras Tafari Makonnen, incoronato Imperatore col Nuovo Nome di Hailé Selassié I, è il duecentoventicinquesimo discendente della dinastia Salomonica, attraverso la linea di David, appartenente alla Tribù di Giuda. Come documenta l'antico testo sacro etiope Kebra Nagast, la Regina di Saba (ovvero d'Etiopia) chiamata Makeda incontrò Re Salomone (evento descritto anche nella Bibbia, 1 Re 10; 2 Cr 9), ed ebbero assieme un figlio, il primogenito, incoronato Re con il titolo di Menyelek I (o Menelik I). Da questo sovrano, attraverso 224 generazioni discenderebbe Hailé Selassié I.
Figlio di ras Makonnen e cugino di ras Menelik, Hailé Selassié cresce a corte ed amministra il governatorato di Harar all'età di 13 anni. Inizialmente è considerato come il possibile successore di suo cugino Menelik, ma il trono va al musulmano ras Iyasu V. Selassié, però, lo fa deporre durante una rivolta anti-islamica e diventa reggente durante il regno della regina Zauditu. Nel frattempo, nel 1906 aveva contratto matrimonio con Menen Asfaw.
Durante la reggenza promuove la modernizzazione del Paese e ottiene, nel 1923, l'ingresso dell'Etiopia nella Società delle Nazioni (primo Paese africano a farne parte). Nel 1924 è in visita ufficiale in Italia e in Vaticano. Viene dapprima incoronato negus nel 1928, ed, alla morte del suo predecessore, diventa imperatore il 2 novembre 1930 con il nome di Hailé Selassié I, che significa "Potenza della Trinità". Nel 1931 crea un primo senato di notabili e successivamente fonda l'Università di Addis Abeba.

Il conflitto con l'Italia
Dopo l'incidente di Ual-Ual e l'inizio della tensione diplomatica con l'Italia, si reca spesso alle conferenze della Società delle Nazioni per perorare la causa etiope: è del 2 gennaio 1935 il suo più preoccupato intervento per la salvaguardia dei confini abissini, ma il suo tentativo non otterrà nulla di concreto (se non delle generiche sanzioni economiche contro l'Italia applicata da 51 dei 54 stati della Società).
Il 2 ottobre 1935 Mussolini annuncia la "mobilitazione generale" contro l'Etiopia; il giorno seguente Hailé Selassié chiama a raccolta i suoi soldati con parole dure e toccanti mentre il 19 ottobre consiglia al comandante militare Ras Kassa di utilizzare la tattica della guerriglia e di puntare molto sulla contraerea. Dopo gli iniziali successi italiani, in dicembre prova a ribaltare la situazione lanciando l'offensiva di Natale, che però si esaurisce nel gennaio 1936 senza ottenere risultati di rilievo.
Qualche settimana dopo la sconfitta di ras Immirù, Selassié radunò la propria guardia imperiale e mosse verso nord, incontro all'esercito italiano. Le due armate si incontrarono nella conca di Maychew. Il 31 marzo, all'alba, gli abissini attaccarono gli alpini ma furono bloccati e infine respinti. La battaglia terminò con gravi perdite in entrambi gli schieramenti ma era chiaro che per Hailé Selassié si trattasse di una grave sconfitta: a conferma di ciò egli ordinò la ritirata verso Dessiè.
Al termine della conquista italiana sceglie l'esilio volontario dal suo Paese e si reca a Bath, in Gran Bretagna, dopo essere stato per qualche giorno a Gerusalemme.

Il ritorno in patria e gli ultimi anni
Fa ritorno in patria nel 1941, dopo la caduta dell'Africa Orientale Italiana (in cui è stata incorporata l'Etiopia) per mano britannica, riassumendo il titolo di imperatore. Con il sostegno dell'Occidente, Selassié continua nella sua opera di modernizzazione del Paese, sopprimendo il potere dell'aristocrazia terriera, riformando l'esercito e promulgando la prima Costituzione nel 1955.
Hailé Selassié assume particolare notorietà a livello internazionale quando l'Etiopia diventa guida dell'Organizzazione Unita Africana (OUA, oggi Unione Africana). Negli ultimi anni della sua vita diventa fortemente sospettoso dei suoi più stretti collaboratori a causa dei tradimenti che si susseguono nei suoi confronti. Nel 1974 scoppia una dura rivolta dell'esercito, guidato da una giunta militare, il Derg facente capo a Mengistu Haile Mariam, che costringe Hailé Selassié ad operare numerose concessioni in favore delle forze armate. Una volta al potere, Mengistu Haile Mariam scatenerà una violenta persecuzione contro i rivali del Derg conosciuta come Terrore Rosso (Mengistu ed il Derg sono di ideologia comunista). Hailé Selassié I scomparirà il 27 agosto 1975 in circostanze non chiarite.
Hailé Selassié è considerato il "difensore della fede" per il Rastafarianesimo: l'imperatore è un modello, un simbolo religioso, identificato con il Messia nero, Cristo stesso ritornato in gloria per regnare con un Nome Nuovo, l'incarnazione di Jah, il Dio supremo, venuto sulla terra per liberare le nazioni dal male nazifascista ed in primis la popolazione nera, come profetizzato da Marcus Garvey. Il nome del movimento Rastafari deriva dal nome di battesimo dell'Imperatore Ras Tafari, che in amarico significa "Capo da temere".
Selassié diede delle terre (le terre di Shashamane) per il rimpatrio dei giamaicani Rastafari. Considerato il Messia dalla religione Rastafari, Selassié rimase sempre devoto alla Chiesa ortodossa etiopica, chiesa antichissima nella quale si identificarono diversi etiopisti e rastafariani poiché videro che la Chiesa stessa considerava il Re dei re Hailé Selassié I come il Leone di Giuda dell'Apocalisse (l'Etiopia fu una tra le prime monarchie ad adottare il Cristianesimo, monofisita e autocefala dal 1959, anno in cui il patriarca Basilio la sottrasse all'autorità del Patriarca copto di Alessandria d'Egitto).

▪ 1979 - Louis Francis Albert Victor Nicholas Mountbatten, 1° conte Mountbatten di Burma (Frogmore House, 25 giugno 1900 – Sligo Bay, 27 agosto 1979), fu un ammiraglio della flotta britannica nonché un importante statista; fu anche lo zio del principe Filippo, duca di Edimburgo. Fu l'ultimo viceré dell'impero britannico in India ed il primo governatore generale dell'India indipendente.
Dal 1954 fino al 1959 egli fu First Sea Lord (traducibile come Primo Lord del Mare, grado di comando della Royal Navy), posizione che era stata detenuta dal padre, principe Luigi di Battenberg, circa quarant'anni prima. Lord Mountbatten venne assassinato dalla Provisional Irish Republican Army (IRA), che mise una bomba sulla sua barca a Mullaghmore (contea di Sligo) nella Repubblica d'Irlanda.

▪ 1982 - Sri Anandamayi Ma, (Kheora, 30 aprile 1896 – Kishanpur, 27 agosto 1982), tra le più note figure spirituali dell'India contemporanea è da molti considerata un'incarnazione della Dea Kali, in particolar modo nel Bengala, dove ha avuto un gran numero di devoti e discepoli e dove era nota con numerosi appellativi, tra cui Manush Kali (Kali vivente) e Devi Narmada (Dea del Narmada).
Anandamayi Ma nacque nel villaggio di Kheora in Tipperah (Bangladesh) il 30 aprile 1896 con il nome di Nirmala Sundari Devi. I suoi genitori appartenevano alla corrente Vaishnava (veneratori di Vishnu) della religione induista, pur vivendo in una località in cui la maggioranza delle famiglie era di fede islamica.
All'età di tredici anni fu data in sposa al bramino Sri Ramani Mohan Chakravarty, che sarà in seguito noto come Bolanath, (uno dei nomi del Dio Shiva) appellativo donatogli dalla stessa Nirmala. La convivenza effettiva iniziò soltanto nel 1914, tuttavia il matrimonio tra i due non fu mai consumato fisicamente; Bolanath non soltanto accettò la scelta di castità della giovane moglie ma fu anche il primo a diventare suo discepolo. Nirmala Sundari infatti non ebbe alcun maestro ed iniziò a manifestare già da giovanissima la sua particolare natura e le sue attitudini: era solita recitare numerosi mantra in sanscrito e praticare complicate asana yogiche per ore intere; in molti hanno affermato che la ragazza cadeva spesso in stati di trance e che in sua presenza si sarebbero verificati diversi fenomeni scientificamente inspiegabili, cosa che contribuì notevolmente a diffondere molto presto la sua fama. Nel 1918 si trasferì con il consorte a Bajitpur.
Il 1922 è noto ai devoti di Anandamayi Ma come l'anno della sua auto-iniziazione avvenuta durante la notte del 3 agosto quando cominciò anche il suo lungo voto di silenzio (che durerà per più di tre anni); quattro mesi più tardi Nirmala iniziò anche il marito, mediante un rito tradizionale. Nel 1924, sempre con il marito, si trasferì a Dhaka e la sua prima apparizione pubblica fu nel 1925 in occasione del Kali-puja, una festa religiosa in onore alla Dea nera del Bengala, che Nirmala fu invitata a condurre. Nel corso della celebrazione, secondo la testimonianza dei presenti, i tratti della giovane religiosa si sarebbero trasformati fino ad assumere per un lasso di tempo le sembianze del volto di Kali. Un simile evento si racconta sia accaduto anche durante una festa di Krishna l'anno successivo. Una volta cessato il voto di silenzio, Nirmala iniziò i suoi lunghi digiuni, intanto cresceva sempre di più il numero dei fedeli e dei pellegrini che si recavano a farle visita e a renderle omaggio (tra i quali anche la sorella Didi ed il fratello Bhaiji) ed intorno a lei si formò una folta comunità spirituale, all'interno della quale, secondo diverse testimonianze, si verificarono numerosi casi di guarigione di malati.
Nel 1926, a Nirmala Sundari Devi fu donato dal fratello e discepolo Bhaiji l'appellativo di Anandamayi Ma, che significa Madre permeata di Gioia, ella sarà dunque nota anche come Mataji e Sri Ma. Il 1927 fu invece l'anno in cui iniziarono i numerosi viaggi per le varie località del nord assieme al consorte ed ai fratelli, visitando tra gli altri luoghi anche Vrindavana, Rishikesh, Hardwar,l'Himalaya e la città santa di Benares mentre nel 1930 iniziarono i viaggi nell'India del sud. Intanto i devoti si diffondevano sempre di più per tutte le regioni della nazione. Nel 1936 ci fu l'incontro con Paramahansa Yogananda, che la ricorderà anche nel suo testo Autobiografia di uno Yogi.
Il 1937 ed il 1938 furono rispettivamente gli anni della morte del fratello Bhaiji e del marito Bolanath, tuttavia i viaggi proseguirono per tutta l'India assieme ad altri discepoli. Nel 1942 Anandamayi Ma incontrò il Mahatma Gandhi, il cui stretto collaboratore, Sri Jamnalal Bajaj, divenne un fedele devoto. Nel 1944 vi fu un incontro con Sri Prabhu Dattaji Maharaj, un importante guru che la presentò ai capi di diverse congregazioni monastiche che affermarono esplicitamente di riconoscere nelle parole della donna bengalese la quintessenza delle sacre scritture. Nel 1950 erano ormai tantissimi i devoti di Anandamayi Ma in varie parti del mondo, ed intorno a lei si formarono oltre 20 Ashram che fuorono luoghi di pellegrinaggio anche da parte di numerose guide spirituali. Nel 1952 ella diede vita all'annuale Samyan Vrata, ossia una particolare settimana dedicata al ritiro spirituale sotto la sua guida diretta.
Continuò ad insegnare costantemente ai suoi discepoli e a chiunque si recasse a visitarla, l'importanza della meditazione ed il valore dell'Amore divino fino al 27 agosto 1982, data della sua morte.

▪ 1999 - Hélder Pessoa Câmara (noto come Dom Hélder; Fortaleza, 7 febbraio 1909 – Recife, 27 agosto 1999) è stato un arcivescovo cattolico e teologo brasiliano.

«Quando io do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista.»(Dom Hélder Câmara)

Hélder Pessoa Câmara (noto come Dom Hélder; Fortaleza, 7 febbraio 1909 – Recife, 27 agosto 1999) è stato un arcivescovo cattolico e teologo brasiliano.
Mons. Hélder Câmara è nato in una famiglia modestissima a Fortaleza Brasile, il 7 febbraio 1909, undicesimo di tredici figli, ("... no domingo de Carnaval ... (nella domenica di Carnevale). Il padre, João Eduardo Torres Câmara Filho, libraio, decise di battezzarlo con questo nome scoprendo che si trattava di un piccolo porto nel Nord dell'Olanda, Den Helder, appunto. La madre, Adelaide Pessoa Câmara, era insegnate di scuola elementare. Il piccolo Hélder perse cinque fratelli in tenera età a causa di un'epidemia di difterite.
Ordinato sacerdote il 15 agosto 1931 a Rio de Janeiro, dove viene nominato vescovo ausiliare il 3 marzo 1952 ricevendo l'ordinazione episcopale il 20 aprile 1952 dal cardinale Jaime de Barros Câmara, coconsacranti l'arcivescovo Rosalvo Costa Rêgo e il vescovo Jorge Marcos de Oliveira. Qui fonda la Banca della Provvidenza di San Sebastiano, che assisteva i poveri e gli emarginati. Sempre a Rio, organizzò il 36° Congresso Eucaristico Internazionale e la Conferenza Nazionale dei Vescovi Brasiliani (CNBB), della quale fu attivissimo segretario. Partecipò al Concilio Vaticano II offrendo notevoli contributi di devozione disiteressata, assieme ad altri vescovi provenienti dai Paesi del Sud del mondo. Fu anche dei fautori di quella che sarebbe stata chiamata "opzione preferenziale per i poveri".
Il 12 marzo 1964 viene nominato da Paolo VI arcivescovo di Olinda e Recife.
Spinto dai suoi superiori ha lavorato per risolvere la miseria nelle favelas e per questo fu anche nominato "il vescovo delle favelas". Si è occupato sia dell'incontro delle grandi religioni in pace sia della campagna "Un 2000 senza miseria".
È stato considerato uno dei maggiori precursori della teologia della liberazione latinoamericana, e, comunque, un credente che ha sempre integrato dimensione politica e dimensione spirituale della fede cristiana.
Ha lasciato la diocesi il 2 aprile 1985, per raggiunti limiti di età (secondo le disposizioni del Diritto canonico), vivendo sempre nell'appartamento popolare in cui si era trasferito all'inizio del suo ministero episcopale, a Recife, fino alla morte, avvenuta il 27 agosto 1999.
«La solitudine
per noi, non esiste!!!» (Dom Hélder Càmara)


▪ 2005 - Aldo Aniasi (Palmanova, 31 maggio 1921 – Milano, 27 agosto 2005) è stato un partigiano e politico italiano.

La guerra partigiana
Partecipò alla lotta di liberazione nelle file delle Brigate Garibaldi organizzate dal Partito Comunista Italiano, prendendo il nome di battaglia di Iso Danali (anagramma imperfetto del suo vero nome, più noto come Comandante Iso.). Da partigiano, combatté in Valsesia e successivamente in Ossola, diventando comandante della divisione partigiana "Redi", al termine della Guerra era a capo della piazzaforte di Milano come componente del C.L.N.I., in tale veste celebrò un matrimonio che, al termine del conflito, fu ritenuto valido e trascritto all'anagrafe, in quanto allora egli costituiva senza dubbio la massima carica civile i Milano.
Negli anni successivi alla guerra, è succeduto a Ferruccio Parri nel ruolo di presidente della Federazione Italiana Associazioni Partigiane, incarico che ha conservato fino alla morte improvvisa, avvenuta dop un'operazione non particolarmente rischiosa.
Di carattere burbero, forte ma dalle immense doti umane.

L'esperienza politica
Dopo la seconda guerra mondiale entrò in politica. Abbandonate le posizioni del PCI, militò prima nella corrente riformista del PSI, poi nel PSDI e successivamente nuovamente nel PSI. Ebbe una brillante carriera politica: consigliere comunale di Milano dal 1951, fu quindi assessore e, a partire dal 1967, sindaco del capoluogo lombardo. In tale occasione suscitò molte critiche quando, negli anni di terrorismo ad opera delle BR, sostenne la necessità di disarmare le forze di polizia. Fu lo stesso Aniasi a dare l'appoggio ai "comitati per una Polizia democratica" (il primo nucleo del sindacalismo in Polizia) che portavano dall'interno del corpo, l'istanza di smilitarizzazione (culminata con la legge 1 aprile 1981, numero 121)
Guidò la città fino al 1976, quando venne eletto alla Camera dei deputati, dove rimase per cinque legislature, fino al 1994, e diventandone per 9 anni vicepresidente. All'inizio degli anni Ottanta fu per due volte ministro della Sanità, nei governi presieduti da Francesco Cossiga e Arnaldo Forlani; si deve a lui l'istituzione del servizio sanitario nazionale gratuito ed uguale per tutti. Fu quindi ministro per gli Affari regionali nei due governi Spadolini.
Dopo la crisi e lo scioglimento del Partito Socialista aderì al progetto dei Democratici di Sinistra, entrando nella direzione del partito.