Il calendario del 22 Luglio
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:
- Email:
Eventi
▪ 776 a.C. - Olimpia (Grecia): alcuni storici ritengono siano iniziati in questo giorno i primi giochi olimpici
▪ 1209 - Crociata albigese: i crociati conquistano la città francese di Béziers e massacrano ventimila persone, sia i catari che i cattolici che si erano rifiutati di consegnarli.
▪ 1739 - Nella battaglia di Grocka l'esercito ottomano sconfigge le forze austriache guidate dal feldmaresciallo George Olivier Wallis
▪ 1793 - Alexander Mackenzie raggiunge l'Oceano Pacifico, diventando il primo europeo a compiere un attraversamento transcontinentale a nord del Messico
▪ 1812 - Guerra d'indipendenza spagnola: forze britanniche guidate da sir Arthur Wellesley (futuro Duca di Wellington) sconfiggono le truppe francesi nei pressi di Salamanca in Spagna
▪ 1864 - Guerra di secessione americana: Battaglia di Atlanta - A Bald Hill, fuori Atlanta (Georgia), il generale confederato John Bell Hood guida un fallimentare attacco alle truppe unioniste del generale William T. Sherman
▪ 1898 - Lenin sposa Nadežda Krupskaja
▪ 1908 - Albert Fisher fonda la Fisher Body Company, per fabbricare carrozze e carrozzerie automobilistiche
▪ 1916 - A San Francisco, (California), una bomba esplode a Market Street, durante la parata del Preparedness Day, uccidendo 10 persone e ferendone 40
▪ 1933 - Mussolini assume personalmente il ministero della guerra
▪ 1933 - Wiley Post diventa la prima persona a volare in solitaria attorno al globo, percorrendo 25.000 km in 7 giorni, 18 ore e 45 minuti
▪ 1934 - All'esterno del Biograph Theatre di Chicago, il "nemico pubblico n°1" John Dillinger viene ferito mortalmente da agenti dell'FBI
▪ 1937 - New Deal: Il senato statunitense rigetta la proposta del Presidente Franklin D. Roosevelt, di aggiungere altri giudici alla Corte Suprema degli Stati Uniti
▪ 1940 - Londra, il Ministro degli esteri lord Halifax risponde al discorso di Adolf Hitler: "Non smetteremo di combattere finché non avremo garantito la libertà per noi e per gli altri"
▪ 1942 - Olocausto: Inizia la deportazione sistematica degli Ebrei dal ghetto di Varsavia
▪ 1944 - Nella Strage del Duomo di San Miniato muoiono 55 civili.
▪ 1946 - Attentato del King David Hotel: L'Irgun fa esplodere una bomba nel King David Hotel di Gerusalemme, quartier generale dell'amministrazione civile e militare britannica, uccidendo 90 persone
▪ 1962 - Programma Mariner: La navetta spaziale Mariner 1 vola senza controllo a pochi minuti dal lancio e deve essere distrutta
▪ 1970 - Un attentato orchestrato dalla 'Ndrangheta per conto dei neofascisti di Reggio Calabria fa deragliare la Freccia del Sud presso Gioia Tauro causando 6 morti e 50 feriti. L'attentato si inserisce nel quadro della strategia della tensione
▪ 1974 - Italia: con il primo Congresso, nasce il Partito di Unità Proletaria (PDUP)
▪ 1975 - Italia: L'Edilnord Sas, di proprietà di Silvio Berlusconi, aumenta nuovamente il capitale sociale, passando da 600 milioni a 2 miliardi di lire, equivalenti a 7 milioni di euro del 2005
▪ 1977 - Il leader cinese Deng Xiaoping ritorna al potere
▪ 1981 - Condanna all'ergastolo per Mehmet Ali Agca, l'attentatore di papa Giovanni Paolo II
▪ 1992 - Nei pressi di Medellín (Colombia), Pablo Escobar, il signore della droga, fugge dalla sua prigione di lusso, temendo l'estradizione negli Stati Uniti
▪ 2003
-
- Dopoguerra iracheno: membri della 101a divisione aviotrasportata statunitense, aiutati dalle Forze Speciali, attaccano un complesso di edifici in Iraq, uccidendo i figli di Saddam Hussein: Uday e Qusay, oltre a Mustapha Hussein, il figlio quattordicenne di Qusay, e una guardia del corpo.
- - Parigi, in fiamme la cima della Torre Eiffel per un corto circuito, migliaia i turisti allontanati
▪ 2004 - Pubblicato dalla Commissione Indipendente d'Indagine USA il rapporto sull'11 settembre 2001, che assolve i presidenti Bill Clinton e George W. Bush ma elenca una serie di falle nell'Intelligence sfruttate dai terroristi
▪ 2005 - Londra: la russa Yelena Isinbayeva è la prima donna della storia a valicare i 5 metri nel salto con l'asta
Anniversari
▪ 1329 - Can Francesco della Scala detto Cangrande I (Verona, 9 marzo 1291 – Treviso, 22 luglio 1329) è stato un condottiero italiano. Cangrande fu il terzo figlio di Alberto I della Scala, ed è il componente più conosciuto e celebrato della famiglia scaligera, di cui consolidò il potere. È noto anche perché fu amico e protettore del grande poeta Dante Alighieri, ma fu soprattutto un grande condottiero e politico. Egli governò Verona dal 1308 al 1311 insieme al fratello maggiore Alboino e da solo dal 1311 sino alla sua morte. Grazie alle sue conquiste divenne guida della fazione ghibellina dell'alta Italia, ma non fu solo un abile conquistatore, ma anche uno scaltro politico, un accorto amministratore e un generoso mecenate.
▪ 1932 - Errico Malatesta (Villa Santa Maria Maggiore (fraz. di Capua), 14 dicembre 1853 – Roma, 22 luglio 1932) è stato un anarchico italiano.
Fu fermamente convinto, così come l'amico Pëtr Kropotkin, dell'imminente avvento di una rivoluzione anarchica.
Passò più di dieci anni della sua vita in carcere e buona parte in esilio. Collaborò per un gran numero di testate rivoluzionarie ed è nota la sua amicizia con Michail Bakunin.
Il pensiero
Errico Malatesta tenta una sintesi della concezione anarchica, senza però imprigionarla in un sistema. A questo scopo distingue l'anarchia dall'anarchismo. La prima è il fine, ha un valore meta-storico ed universale: rappresenta il voler essere, e come tale non è deducibile da alcuna situazione storica. L'anarchismo è la traduzione di questo fine nella concretezza di una situazione storica. La divisione corrisponde a quella tra giudizi di valore e giudizi di fatto.
I valori fondamentali dell'anarchia –libertà, uguaglianza, solidarietà- sono espressioni a-razionali di una aspirazione universale, e come tali non si legano a nessuna dottrina. Malatesta rifiuta tanto il giusnaturalismo quanto il positivismo. Il primo, perché considera l'idea di una società naturale come il risultato della pigrizia di chi sogna che le aspirazioni umane si realizzino spontaneamente, senza lotta; il secondo, perché l'esaltazione della scienza porta ad un nuovo dogmatismo, come accade in Pëtr Kropotkin.
La rivoluzione, un atto di volontà
La volontà è l'elemento decisivo per la trasformazione sociale. La società libertaria dipende unicamente dalla volontà degli uomini. La storia sfugge ad ogni filosofia e ad ogni tentativo di previsione. Per questo non è possibile sapere quando i tempi sono maturi per la rivoluzione, ed occorre approfittare di tutte le occasioni. La rivoluzione non è un fatto economico e sociale, ma un atto di volontà. La rivoluzione deve coinvolgere le masse, ma le masse non diventeranno anarchiche prima che la rivoluzione sia iniziata; gli anarchici devono allora accostarsi alle masse e prenderle come sono, senza progetti pedagogici inevitabilmente autoritari, e adattando piuttosto l'ideologia al loro sentire. L'azione rivoluzionaria ha due momenti: la distruzione violenta degli ostacoli alla libertà, e la diffusione graduale della pratica della libertà, priva di ogni coercizione.
La violenza, triste ma necessaria
La violenza di per sé è nemica della libertà. Essa è una triste necessità dell'anarchismo, ma solo nella fase negativa della distruzione delle forme oppressive. Malatesta è contrario ad ogni terrore rivoluzionario, che conduce necessariamente alla dittatura, così come respinge l'idea comunista della dittatura del proletariato e giudica molto severamente i risultati della rivoluzione bolscevica, che ha fermato l'esperimento dei soviet ed ha instaurato uno stato autoritario.
L'interesse, sempre conservatore
«Il pericolo più grande che minaccia il movimento operaio è la tendenza dei leader a considerare la propaganda e l'organizzazione come un mestiere. (citato in L'espresso, 3 agosto 2006, p. 118)»
Per Malatesta non è possibile compiere la rivoluzione perseguendo interessi economici, poiché l'interesse è sempre conservatore: solo l'ideale è rivoluzionario. Di qui la supremazia del politico –che persegue l'ideale universale– sull'economico, che persegue sempre fini riformisti e conservatori. Per questo anche i sindacati sono considerati riformisti, mai realmente rivoluzionari (anche per il loro carattere inevitabilmente corporativo).
L'organizzazione sociale preferibile è quella comunistica, ma deve trattarsi di un comunismo non imposto, ma liberamente scelto e voluto. Il comunismo di Malatesta non è tanto una concezione economica, quanto un principio di giustizia sociale, una tensione meta-economica. I problemi economici vanno affrontati in modo empirico, scegliendo di volta in volta l'organizzazione economica in grado di adeguare gli ideali politici anarchici.
La democrazia come male inaccettabile
Poiché l'anarchia è fondata sull'etica (e su un'etica della convinzione, in termini weberiani), essa non può accettare la democrazia come male minore. Di qui la sottovalutazione del fascismo da parte di Malatesta. Il sistema democratico ricorre all'autorità della maggioranza, quello anarchico alla intesa volontaria (benché in certi casi sia inevitabile ricorrere al voto). La volontà della maggioranza non può pretendere il possesso della verità assoluta, poiché tale verità non esiste. Il principio di libertà impedisce di riconoscere una sola verità: ognuno ha la propria verità, ed anche la propria anarchia. In società, tuttavia, la libertà non può essere assoluta, ma deve essere limitata dal principio della solidarietà e dell'amore verso gli altri.
▪ 1934 - Paolo Ubaldi (Parma, 30 agosto 1872 – Milano, 22 luglio 1934) è stato un sacerdote italiano della Società Salesiana di San Giovanni Bosco e uno dei più importanti studiosi italiani di filologia in particolare per ciò che riguarda la Letteratura Cristiana Antica, che grazie alla sua opera ebbe un notevole sviluppo accademico.
Si laureò in Lettere presso la Regia Università di Torino il 10 dicembre 1897, dove fu allievo di Giuseppe Fraccaroli. Conseguì, inoltre, la Laurea in Teologia presso la Pontificia Facoltà teologica e giuridica di Torino nel 1898 e in Filosofia presso la Regia Università di Torino nel 1898. Fu libero docente di Letteratura greca presso la R. Università di Torino e, sempre a Torino, tenne dei corsi liberi di Letteratura greca negli anni accademici 1909-1910, 1910-1911, 1911-1912, 1912-1913. Nel 1919 ebbe l'incarico di grammatica greca e latina presso la Regia Università di Catania, dove nel 1920 e 1921 fu professore incaricato per la Letteratura greca. Dal 1922 al 1924 fu a Catania come professore straordinario di Letteratura greca. Nel 1924 fu trasferito alla Università Cattolica con l'incarico per la cattedra di Letteratura cristiana greco-latina. Nel 1932 assunse l'insegnamento di Letteratura patristica nel Seminario Arcivescovile di Milano di Venegono. Tra i suoi allievi ci fu il latinista Emanuele Rapisarda, il futuro cardinale Michele Pellegrino, Arcivescovo di Torino, e Giuseppe Lazzati, Costituente e Magnifico Rettore dell'Università Cattolica dal 1968 al 1983; il grecista Quintino Cataudella.
* 1937 - Giuseppe Frua (Milano, 17 settembre 1855 – Milano, 22 luglio 1937) è stato un imprenditore italiano dell'industria tessile.
Figlio di Carlo Frua, stimato medico, dopo aver intrapreso studi commerciali cominciò a lavorare in Germania a 17 anni per un’industria tessile. Nel 1875 viene assunto da Eugenio Cantoni nello stabilimento di Ponte d’Albiate. Subito dopo passa alla stamperia di Ernesto De Angeli a Milano. Nel 1879 diventa direttore commerciale al Cotonificio Cantoni di Castellanza.
Nel 1883 sposò Anna De Angeli (sorella di Ernesto) e accettò la carica di procuratore generale della società. Nel 1890 si associò alla tessitura F.lli Banfi di Legnano costituendo l’Anonima Frua & Banfi.
Nel 1896 divenne il capo degli stabilimenti De Angeli-Frua, società nata dall’unione delle fabbriche (cotonifici e stamperie) di Ernesto De Angeli e Giuseppe Frua.
Giuseppe Frua fondò anche casse di assistenza per gli operai, colonie per i bambini e scuole professionali per la formazione di manodopera specializzata.bFiglio di Carlo Frua, stimato medico, dopo aver intrapreso studi commerciali cominciò a lavorare in Germania a 17 anni per un’industria tessile. Nel 1875 viene assunto da Eugenio Cantoni nello stabilimento di Ponte d’Albiate. Subito dopo passa alla stamperia di Ernesto De Angeli a Milano. Nel 1879 diventa direttore commerciale al Cotonificio Cantoni di Castellanza.
Nel 1883 sposò Anna De Angeli (sorella di Ernesto) e accettò la carica di procuratore generale della società. Nel 1890 si associò alla tessitura F.lli Banfi di Legnano costituendo l’Anonima Frua & Banfi.
Nel 1896 divenne il capo degli stabilimenti De Angeli-Frua, società nata dall’unione delle fabbriche (cotonifici e stamperie) di Ernesto De Angeli e Giuseppe Frua.
Giuseppe Frua fondò anche casse di assistenza per gli operai, colonie per i bambini e scuole professionali per la formazione di manodopera specializzata.
▪ 1944
- Giuseppe Bravin, partigiano italiano (n. 1922)
- Dante Castellucci, partigiano italiano (n. 1920)
- Francesco Valentino, partigiano italiano (n. 1925)
- Ignazio Vian, militare e partigiano italiano (n. 1917)
▪ 1957 - Antonio Banfi (Vimercate, 30 settembre 1886 – Milano, 22 luglio 1957) è stato un filosofo italiano.
Fu sostenitore di un razionalismo aperto e antidogmatico in grado di attraversare i vari settori dell'animo umano.
Antonio Banfi nacque a Vimercate, in provincia di Milano, in un ambiente familiare formatosi su principi cattolici e liberali della borghesia colta lombarda, nella quale da generazioni combaciavano una moderna e positiva idea del cattolicesimo e un razionale illuminismo tecnico-scientifico. La ricca e vasta biblioteca in possesso della famiglia diventò per il giovane grande stimolo di conoscenza nei suoi studi, dove frequentava il 'Liceo Virgilio presso Mantova.
Nel 1904 iniziò a frequentare i corsi universitari alla facoltà di lettere della Regia Accademia scientifico-letteraria di Milano e ottiene, dopo quattro anni, la laurea con lode, discutendo (con il relatore Francesco Novati) una monografia su Francesco da Barberino.
Iniziò ad insegnare all'Istituto Cavalli-Conti di Milano e contemporaneamente proseguì con grande determinazione gli studi di filosofia (con Giuseppe Zuccante per la storia della filosofia e Piero Martinetti per la teoretica); nel 1909 prese la seconda laurea in filosofia, discutendo con Martinetti tre monografie sul pensiero di Boutroux, Renouvier e Bergson.
Con la borsa di studio attribuita dall'Istituto Franchetti di Mantova ai laureati meritevoli, Banfi decise di andare in Germania e iscriversi con il suo amico Crotti alla facoltà di filosofia della Friedrich Wilhelms Universität di Berlino. Nella primavera del 1911 ritornò in Italia e partecipa a vari concorsi, ottenendo una supplenza di Filosofia prima a Lanciano, in seguito ad Urbino; per molti anni assunse diversi incarichi in varie sedi scolastiche.
Banfi conobbe una ragazza, Daria Malaguzzi, con la quale dopo poco tempo, il 4 marzo 1916, si unì in matrimonio civile nel municipio di Bologna. Durante la guerra, già riformato al servizio di leva, si dedicò con senso di servizio e scrupolosa diligenza all'insegnamento e, per la penuria di insegnanti richiamati al fronte, oltre alla sua cattedra fu costretto a ricoprire più di un incarico; solo agli inizi dell'ultimo anno venne aggregato come soldato semplice all'ufficio annonario della Prefettura di Alessandria.
Nei primi anni del dopoguerra Banfi, pur non militando nel movimento socialista, assunse in modo molto deciso posizioni di sinistra e partecipò, come iscritto alla Camera del Lavoro, all'organizzazione della cultura popolare, diventando in poco tempo una delle personalità più in vista del mondo culturale democratico alessandrino; venne nominato anche direttore della biblioteca di Alessandria, da cui fu in seguito allontanato dal nascente squadrismo fascista. Nel 1925 fu tra i firmatari del Manifesto degli intellettuali antifascisti, redatto da Benedetto Croce.
▪ 1968 - Giovannino Oliviero Giuseppe Guareschi (Fontanelle di Roccabianca, 1º maggio 1908 – Cervia, 22 luglio 1968) è stato uno scrittore e giornalista italiano, oltre che caricaturista e umorista. È uno degli scrittori italiani più venduti nel mondo: oltre 20 milioni di copie[1].
«Arrivato sul finire del 1963, tiro le somme e mi accorgo che, mentre io continuo ad avere soltanto due anni in meno di mia moglie, mio figlio e mia figlia sono arrivati ad avere rispettivamente 32 e 35 anni meno di me. Cosa che, anche solo dieci anni fa, era profondamente diversa.» (Giovannino Guareschi)
La sua creazione più famosa è Don Camillo, il robusto parroco che parla col Cristo dell'altare maggiore. Il suo antagonista è il sindaco comunista del paese (nella trasposizione cinematografica Brescello, nella Bassa reggiana), l'agguerrito Peppone, diviso tra il lavoro nella sua officina e gli impegni della politica.
Giovannino Oliviero Giuseppe Guareschi (Guareschi scherzava sempre sul fatto che un omone come lui fosse stato battezzato come "Giovannino") nacque a Fontanelle, frazione di Roccabianca, il 1° maggio 1908, in una famiglia della classe media. Il padre, Primo Augusto Guareschi, era commerciante, mentre la madre, Lina Maghenzani, era la maestra elementare del paese.
Finite le scuole superiori, si iscrisse all'Università di Parma. Riuscì ad entrare nel Convitto «Maria Luigia» di Parma, un'istituzione che offriva vitto e alloggio agli studenti universitari in difficoltà economiche. Qui conobbe, nel 1922, Cesare Zavattini. L'incontro fu decisivo per lo sviluppo della sua tecnica e della sua arte.
Nel 1925 l'attività del padre fallì e Guareschi non poté più continuare gli studi. Dopo aver provato alcuni lavori saltuari, entrò alla Gazzetta di Parma, come correttore di bozze, chiamato da Zavattini, caporedattore del quotidiano.
Nel 1931 iniziò come aiuto-cronista al quotidiano Corriere Emiliano, con un contratto di collaborazione fissa. Alla fine dell'anno andò a vivere da solo, in Borgo del Gesso. Aveva ventitré anni. In poco tempo diventò cronista, poi capo-cronista; scriveva articoli, novelle, rubriche e disegni (anche politici).
Nel 1934 partì per il servizio militare a Potenza, dove frequentò il corso allievi ufficiali. L'anno dopo i proprietari del Corriere lo licenziarono per esubero di personale.
Finito il corso, nel 1936 venne trasferito a Modena, dove in maggio fu promosso sottotenente di complemento. Poi ricevette un'altra proposta da Cesare Zavattini, che nel frattempo si era trasferito a Milano: quella di entrare in un giornale umoristico che stava per nascere.
Il «Bertoldo» (1936-1943)
Finito il servizio militare, Guareschi si trasferì a Milano, andando a vivere con la fidanzata Ennia Pallini in un monolocale in via Gustavo Modena. Nel 1938 la coppia trovò un appartamento più grande in via Ciro Menotti.
Dal 1936 al 1943 Guareschi fu redattore capo di una rivista satirica destinata a un'ampia notorietà, il quindicinale Bertoldo, rivista satirica edita da Rizzoli e diretta da Cesare Zavattini. Il primo numero apparve nelle edicole il 14 luglio 1936, giorno dedicato a san Camillo de Lellis. Guareschi vi collaborò inizialmente in qualità di illustratore.
Si trattava di una nuova rivista, pungente (pur nell'ambito del regime) e diretta a strati sociali medio-alti, in concorrenza con il popolarissimo bisettimanale Marc'Aurelio. Vi collaborarono importanti giornalisti ed illustratori del tempo. Dopo la partenza di Cesare Zavattini, a causa di forti contrasti interni, la direzione venne affidata a Giovanni Mosca, con Giovannino Guareschi capo redattore (febbraio 1937).
In capo a tre anni la rivista divenne settimanale, con tirature di 500-600 mila copie, e primo tra tutti i giornali umoristici.[2]
Fedele al suo carattere di bastian contrario, Guareschi, contrapponendosi alla dilagante moda del momento che voleva, anche sul Bertoldo, ubiquitarie illustrazioni di eleganti figure femminili, iniziò a disegnare la serie delle vedovone, grasse e per nulla sensuali donne d'Italia.
Nel 1938, come molti altri intellettuali e politici italiani,[3][4] (tra cui Giorgio Almirante, Piero Bargellini, Giorgio Bocca, Amintore Fanfani, Mario Missiroli, Ardengo Soffici), vide il suo nome[5] pubblicato su alcuni giornali dell'epoca come sostenitore delle Leggi razziali fasciste. È generalmente ritenuto che la lista sia stata compilata dal governo fascista e che Guareschi, come gli altri, non abbia dato il suo consenso; tuttavia la pubblicazione del suo nome sui giornali fascisti ha dato origine a una polemica politica che non si è ancora conclusa.[6][7]
Il protrarsi della seconda guerra mondiale portò alla chiusura del Bertoldo nel settembre 1943, dopo un bombardamento anglo-americano che coinvolse la sede della Rizzoli.
Durante la guerra Guareschi - penna pungente e pronta ad attaccare senza paura o riverenza i bersagli che più gli sembravano meritevoli di critica - insultò sotto l'effetto di una sbornia Benito Mussolini e venne arrestato.[8] Nel 1943 venne arruolato nell'esercito, il che apparentemente lo aiutò ad evitare problemi con le autorità fasciste. Finì come ufficiale di artiglieria.
Quando l'Italia firmò l'armistizio con le truppe Alleate egli si trovava in caserma ad Alessandria. Rifiutò come molti altri di disconoscere l'autorità del Re e fu quindi arrestato e inviato nei campi di prigionia di Częstochowa e Benjaminovo in Polonia e poi in Germania a Wietzendorf e Sandbostel per due anni, assieme ad altri soldati italiani: gli IMI (Internati Militari Italiani). Qui compose La Favola di Natale, racconto musicato di un sogno di libertà nel suo Natale da prigioniero. In seguito descrisse questo periodo in Diario Clandestino.
«Candido» (1945-1957)
Dopo la guerra Guareschi fece ritorno in Italia e fondò una rivista indipendente con simpatie monarchiche, il Candido, settimanale del sabato.
Nella rivista, insieme ad altre famose penne della satira italiana, curava numerose rubriche tra cui quella a firma "Il Forbiciastro" che spigolava nella cronaca spicciola italiana.
Dopo il referendum istituzionale del 2 giugno 1946, iniziò ad appoggiare la Democrazia Cristiana per la sua profonda fede cattolica e per il suo fervente anticomunismo.
I "trinariciuti"
Guareschi criticò e rese oggetto di satira i comunisti nella sua rivista: famosissime le sue vignette intitolate "Obbedienza cieca, pronta e assoluta", dove sbeffeggiava i militanti comunisti che lui definiva trinariciuti (la terza narice aveva un duplice scopo: serviva a far defluire la materia cerebrale e a far entrare direttamente le direttive del partito), i quali prendevano alla lettera le direttive che arrivavano dall'alto, nonostante i chiari errori di stampa.
Per la celebre prima vignetta del compagno con tre narici, Togliatti lo insultò con l'appellativo di "tre volte idiota moltiplicato tre" durante un comizio.
Per tutta risposta Guareschi scrisse su Candido: "Ambito riconoscimento"[9]
Le elezioni del 1948 e il contributo di Guareschi
Nelle elezioni politiche del 1948 Guareschi s'impegnò moltissimo affinché fosse sconfitto il Fronte Democratico Popolare (alleanza PCI-PSI).
Molti slogan, come "Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no", e il manifesto con lo scheletro di un soldato dietro i reticolati russi, che dice "100.000 soldati italiani non sono tornati dalla Russia. Mamma, votagli contro anche per me", uscirono dalla sua mente fervida[10].
Anche dopo la vittoria della DC e dei suoi alleati, Guareschi non abbassò certo la sua penna: anzi criticò anche la Democrazia Cristiana, che a suo parere non seguiva i principi cui si era ispirata. In particolare prese una radicale posizione di contrarietà verso i governi di centrosinistra, ovvero verso quell'alleanza tra DC e PSI che, a partire dalla metà degli anni sessanta, doveva improntare per oltre un decennio la politica italiana.
Le vicende Einaudi e De Gasperi
Nel 1950 fu condannato con la condizionale ad otto mesi di carcere nel processo per vilipendio al Capo dello Stato, Luigi Einaudi, che era stato preso in giro in quanto permetteva che sulle etichette dei vini di sua produzione venisse messa in evidenza la sua carica pubblica di "presidente". Guareschi non era l'autore materiale della vignetta (l'autore fu Carletto Manzoni), ma fu condannato in quanto direttore responsabile di Candido.
Nel 1954 Guareschi venne nuovamente accusato di diffamazione per avere pubblicato sul Candido due lettere di Alcide De Gasperi risalenti al 1944, in una delle quali De Gasperi (che sarebbe divenuto Presidente del Consiglio nel dopoguerra) avrebbe chiesto agli Alleati anglo-americani di bombardare la periferia di Roma allo scopo di demoralizzare i collaborazionisti dei tedeschi.
Guareschi si era mosso con grande cautela. Prima di pubblicarle, aveva sottoposto le lettere addirittura ad una perizia calligrafica del Tribunale di Milano. Durante il dibattimento, l'avvocato difensore chiese ai giudici di sottoporre le lettere ad una ulteriore perizia, ma il Collegio giudicante respinse l'istanza motivandola così: «le richieste perizie chimiche e grafiche si appalesano del tutto inutili, essendo la causa sufficientemente istruita ai fini del decidere» [11].
In pratica, le uniche prove accettate furono le parole di De Gasperi, che dichiarò che quelle lettere erano assolutamente false.[12] Non accolse neppure numerose prove testimoniali prodotte dalla difesa di Guareschi tra cui persone vicine allo stesso De Gasperi, come Giulio Andreotti[11].
Guareschi fu condannato in primo grado a dodici mesi di carcere. Non presentò ricorso in appello poiché ritenne di avere subito un'ingiustizia:
«No, niente Appello. Qui non si tratta di riformare una sentenza, ma un costume. (...) Accetto la condanna come accetterei un pugno in faccia: non mi interessa dimostrare che mi è stato dato ingiustamente.[11]»
Divenuta esecutiva la sentenza, alla pena fu accumulata anche la precedente condanna ricevuta nel 1950 per vilipendio al Capo dello Stato.
Guareschi venne recluso nel carcere di San Francesco del Prato a Parma, dove rimase per 409 giorni, più altri sei mesi di libertà vigilata ottenuta per buona condotta. Sempre per coerenza, rifiutò in ogni momento di chiedere la grazia. Guareschi è stato il primo giornalista della Repubblica Italiana a scontare interamente una pena detentiva in carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa.
Nel 1956 la sua condizione fisica si era deteriorata ed iniziò a trascorrere lunghi periodi a Cademario in Svizzera per motivi di salute.
Gli ultimi anni
Nel 1957 si ritirò da direttore del Candido rimanendo tuttavia un collaboratore della rivista.
Il 1961 fu un anno nefasto. Nel giugno 1961 fu colto da infarto, da cui si riprese con fatica; lo stesso anno il Candido chiuse le pubblicazioni.
Guareschi ricevette l'invito da parte di Nino Nutrizio a collaborare col suo quotidiano, il milanese La Notte. Guareschi rispose favorevolmente:
«Ritengo «La Notte» l'ultima isola di resistenza rimasta in campo nemico e mi auguro, come italiano, come giornalista e come amico, che tu possa ancora resistere ai «liberatori» di Milano.»
Continuò a collaborare a vari periodici con disegni e racconti.
Nel 1968 gli fu riproposta la direzione del Candido da parte di Giorgio Pisanò, ma morì prima di poter ricominciare a causa di un attacco cardiaco.
Guareschi ed il potere
Il rapporto di Guareschi con il potere ha sempre dato adito a controversie. Quello che è certo è che il suo carattere irruento e sanguigno gli abbia procurato sovente dei guai con le istituzioni. Non c'è dubbio che egli dovette sopportare da un lato l'ostracismo della sinistra, dall'altro l'assoluta mancanza di riconoscenza da parte di chi la sua penna aveva spesse volte enormemente favorito.
Nel periodo delle vicende giudiziarie, Azione giovanile, rivista della Gioventù italiana di Azione Cattolica, titolò un'intera pagina con: "Guareschi ovvero lo scarafaggio". A corredo dell'articolo la foto di una mano con uno scarafaggio con la didascalia: Quando certi individui ti danno la mano ti succede di provare un senso di ribrezzo.
Nonostante il fondamentale contributo dato da Guareschi alla vittoria democristiana del 1948, dopo la carcerazione morì poco ricordato dopo un decennio di piccole collaborazioni in rubriche di alcuni periodici, ed i suoi funerali, svoltisi sotto la bandiera con lo stemma sabaudo, vennero disertati da tutte le autorità. Unici volti di rilievo Nino Nutrizio, Enzo Biagi ed Enzo Ferrari.
Umberto II di Savoia dall'esilio lo insignì dell'onorificenza di Grand'Ufficiale della Corona d'Italia.[11]
Note
1. Pier Mario Fasanotti, "Il coraggio di Guareschi", Liberal, 26 aprile 2008, pag. 8.
2. dati della fondazione Mondadori
3. Elenco di personalità italiane che pubblicamente si schierarono a favore dei provvedimenti razzisti del Regime, dal sito dell'associazione Associazione Nazionale Miriam Novitch
4. Le leggi razziali, dal sito dell'ANPI di Roma
5. Cuomo, F. (2005) I Dieci. Chi erano gli scienziati italiani che firmarono il manifesto della razza, Milano, Baldini Castoldi Dalai, ISBN 9788884908254, pp. 202-207
6. Celebrazioni di Guareschi... ma quel Manifesto della Razza...
7. Perché pubblichiamo il primo numero della rivista "La difesa della razza": eccolo l'antisemitismo fascista (pag. 12)
8. La storia di Giovannino senza paura (1940-1943)
9. « Contrordine compagni! La frase pubblicata sull'Unità: 'Bisogna fare opera di rieducazione dei compagni insetti', contiene un errore di stampa e pertanto va letta: 'Bisogna fare opera di rieducazione dei compagni inetti'.»
10. Gian Luigi Falabrino, I comunisti mangiano i bambini La storia dello slogan politico, Vallardi, 1994. ISBN 88-11-90425-0
11. a b c d Tesi di laurea sul processo a Guareschi di Sacha Emiliani.
12. estratto della sentenza
▪ 2001 - Indro Montanelli (Fucecchio, 22 aprile 1909 – Milano, 22 luglio 2001) è stato un giornalista, scrittore e storico italiano.
Figlio di Sestilio Montanelli (1880 – 1972) e di Maddalena Doddoli (1886 – 1982), Indro nacque a Fucecchio (FI) in Toscana[1] nel palazzo di proprietà della famiglia della madre. A tale circostanza sono riferite alcune «leggende», la più famosa delle quali - raccontata dallo stesso Indro - narra che dopo un litigio (gli abitanti di Fucecchio erano divisi in «insuesi» e in «ingiuesi», cioè di sopra e di sotto; la madre era insuese e il padre ingiuese) la famiglia materna ottenne di far nascere il bambino nella propria zona collinare, mentre il padre scelse un nome adespota, estraneo alla famiglia materna e neppure presente nel calendario.[2] Il nome Indro, scelto dal padre, infatti è la mascolinizzazione del nome della divinità induista Indra, poi trasformato nel soprannome "Cilindro" dagli amici ed anche da alcuni avversari politici.[3] Passò l'infanzia nel paese natale, spesso ospite nella villa di Emilio Bassi, sindaco di Fucecchio per quasi un ventennio, nei primi anni del Novecento. A Emilio Bassi, che considerava come un «nonno adottivo», restò legato tanto da volere che a lui fosse cointitolata la Fondazione costituita nel 1987.[4] Il padre, preside di Liceo, fu trasferito prima a Lucca, poi a Nuoro presso il Liceo Classico "G. Asproni", dove il giovane Indro lo seguì. Ancora a causa degli spostamenti del padre, frequentò il liceo a Rieti.
Anni giovanili
Sin da ragazzo, Montanelli iniziò a soffrire di depressione, un male che lo segnerà per tutta la vita:
«La prima crisi fu a undici anni. Mi svegliai una notte urlando "Muoio, muoio!". Una mano mi attanagliava la gola, mi sentivo soffocare. Accorsero i miei genitori, un po' mi quietai, ma smisi di dormire e di mangiare per mesi, avevo paura di tutto, un vero terrore, e mi sentivo addosso la tristezza del mondo intero. Dovetti abbandonare la scuola per quell'anno. I sintomi si sono poi ripresentati identici più o meno ogni sette anni, ciclicamente. [5]»
L'adesione al regime
Si diplomò al Liceo di Rieti nel 1925 e in seguito si laureò in giurisprudenza a Firenze, con un anno di anticipo sulla durata normale dei corsi, discutendo una tesi sulla riforma elettorale del fascismo in cui sosteneva che si trattava puramente di un'abolizione delle elezioni, ottenendo la valutazione di centodieci e lode. Poté questo grazie ai professori antifascisti dell'ateneo[6]. Successivamente frequentò uno stage a Grenoble in scienze politiche e sociali. Debuttò sulla rivista Frontespizio di Piero Bargellini, con un articolo su Byron e il cattolicesimo (luglio-agosto 1930). Fu attento lettore di altre riviste, specie di L'Italiano di Leo Longanesi (destinato, dal 1937, a diventare suo grande amico e, nel secondo dopoguerra, suo editore) e di Il Selvaggio di Mino Maccari: periodici, entrambi, che pur essendo fascisti furono fra i primi a fare "fronda", cioè a rompere con il coro conformista del regime. Ma fu altresì profondamente influenzato dalla lettura di La Voce (1909-1914) di Giuseppe Prezzolini (destinato, nel secondo dopoguerra, a essere tra i migliori suoi amici). Nel 1932 collaborò al periodico fiorentino l'Universale di Berto Ricci, con una diffusione di circa millecinquecento copie.
Esordì come giornalista di cronaca nera nel 1934 a Parigi, al Paris-Soir, collaborando contemporaneamente al quotidiano italo-francese diretto da Italo Sulliotti L'Italie Nouvelle. Fu poi mandato come corrispondente in Norvegia, da lì in Canada e poi assunto alla United Press negli Stati Uniti, continuando anche nella collaborazione con Paris-Soir. In questo periodo intervistò il magnate Henry Ford, che descrisse in maniera molto originale. Si propose come inviato in Etiopia, ma l'agenzia non acconsentì, e così volle partire volontario verso l'Abissinia, preso dagli ideali fascisti, come comandante di un battaglione di Ascari:
«Questa guerra è per noi come una bella lunga vacanza dataci dal Gran Babbo in premio di tredici anni di scuola. E, detto fra noi, era ora.» (Indro Montanelli, ringraziando Benito Mussolini ("Gran Babbo"), nel raccontare la sua esperienza di comandante di una banda di Ascari durante la guerra d'Etiopia.[7])
Sempre nel 1936, Manlio Morgagni, direttore dell'Agenzia Stefani e fedelissimo di Mussolini, lo avrebbe voluto come corrispondente dall'Asmara[8].
Durante la campagna militare, sposò un'eritrea di 12 anni, versando al padre la convenuta cifra di 500 lire, secondo i costumi locali. Questa prima moglie lo seguì per l'intera permanenza in Africa.[9] L'usanza di sposare un "suddito coloniale", in Italia definita "madamato", venne proibita nell'aprile 1937, per evitare contatti tra italiani e africani; il provvedimento sarà seguito l'anno dopo dall'emanazione delle Leggi Razziali.
Della sua esperienza africana, scrisse un pezzo per Civiltà Fascista intitolato "Dentro la guerra":
«Non si sarà mai dei dominatori, se non avremo la coscienza esatta di una nostra fatale superiorità. Coi negri non si fraternizza. Non si può, non si deve. Almeno finché non si sia data loro una civiltà.»(Indro Montanelli, gennaio 1936, "Civiltà Fascista".[10])
Il passaggio all'antifascismo
Tornato in Italia, ripartì per la guerra civile spagnola, corrispondente sia per il quotidiano romano Messaggero sia per il settimanale Omnibus di Longanesi. In Spagna, le sue posizioni contro il regime si radicalizzarono. In un articolo commentò il resoconto della battaglia di Santander con queste parole: “È stata una passeggiata militare con un solo nemico: il caldo.”[11] Mentre la sua simpatia per gli anarchici spagnoli lo portò ad aiutare uno di loro, accompagnandolo fuori frontiera. Il gesto venne ricompensato da "El Campesino"[12], capo anarchico della 46° divisione nella Guerra di Spagna, con il dono di una tessera della Federazion Anarquista de Cataluña di cui Montanelli si sarebbe fregiato per tutta la vita.[13]. Una volta rimpatriato, il Minculpop, con l'intervento diretto di Mussolini lo cancellò dall'albo dei giornalisti per l'articolo sulla battaglia di Santander, considerato offensivo per l'onore delle forze armate. Montanelli inoltre venne sospeso dal Partito fascista.[11]
Gli inizi al Corriere della Sera
La presa di posizione contro il fascismo lo portò ai primi seri dissidi. Gli fu tolta la tessera del Partito, che poi nulla egli fece per riavere; così, per evitare il peggio, Giuseppe Bottai prima gli trovò in Estonia un lettorato di italiano nell'Università di Tartu, poi lo fece nominare direttore dell'Istituto Italiano di Cultura di Tallinn, la capitale.
Ritornato in Italia, entrò nel 1938 al Corriere della Sera grazie anche all'interessamento di Ugo Ojetti, che credeva nel suo talento giornalistico. Ojetti, ex direttore del Corriere, fece il suo nome ad Aldo Borelli, il direttore in carica, che lo assunse come "redattore viaggiante" [14], con l'incarico di occuparsi di articoli di viaggi e letteratura, e con la consegna di tenersi lontano dai temi politici.
Montanelli fece l'inviato in giro per l'Europa. Nel 1939 fu in Albania, diventata quell'anno colonia italiana. Il 1º settembre 1939, mentre si trovava in Germania, conobbe sul Corridoio di Danzica [15] Adolf Hitler, alla presenza dello scultore Arno Brecker e dell'architetto Albert Speer (che confermò poi, nel 1979, la veridicità di quell'incontro). Montanelli stesso ebbe modo di rievocare l'episodio nel libro-intervista autobiografico Il testimone.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, Montanelli si spostò al fronte: oltre all'invasione della Polonia, assistette a quella della Norvegia ad opera dei tedeschi e dell'Estonia da parte dei russi. In Finlandia fu appassionato testimone del tentativo d'invasione da parte dell'URSS; nei suoi articoli traspariva una forte propensione per la causa finlandese.
Con l'entrata in guerra dell'Italia, Montanelli venne mandato in Francia e nei Balcani; poi gli fu assegnato il compito di corrispondente dalla Grecia e dall'Albania, per seguire la campagna militare italiana. Qui raccontò di aver scritto poco, per malattia ma soprattutto per onestà intellettuale: il regime gli imponeva l'obbligo di propaganda, ma sotto i suoi occhi l'esercito italiano subiva seri danni. Un suo articolo, pubblicato su Panorama del 12 settembre 1940, venne considerato "disfattista" dai censori del Minculpop, che successivamente ordinarono la chiusura del periodico.
«Rimasi su quel fronte vari mesi, senza scrivere quasi nulla, un po' perché mi ammalai di tifo e molto perché mi rifiutati di spacciare per una gloriosa campagna militare lo squasso di legnate che ci beccammo laggiù.» ( Tiziana Abate, Indro Montanelli, «Soltanto un giornalista».[16])
Finite obtorto collo le corrispondenze dal fronte, rimpatriò nel 1942 per sposarsi in seconde nozze con l'austriaca Margarethe De Colins De Tarsienne, che aveva conosciuto nel 1938.[17]
Nel 1943 visse il disfacimento dell'8 settembre e si associò a Giustizia e Libertà, il movimento partigiano. Divenne ricercato, e, scoperto dai tedeschi, fu incarcerato (5 febbraio 1944) e condannato a morte (20 febbraio 1944). Riuscì ad evitare la sentenza per intercessione del cardinale di Milano Ildefonso Schuster [18] [19] [20] [21] [22] [23] [24] [25] [26]. Fuggì da San Vittore grazie all'aiuto della famiglia Crespi, proprietaria del Corriere della Sera [27]. Successivamente fu aiutato a fuoriuscire dall'Italia grazie alla rete clandestina «Opera Scout Cattolica Aiuto ai Rifugiati» (OSCAR). Dall'esperienza trascorsa nella prigione di Gallarate e poi in quella di San Vittore trasse ispirazione per il romanzo Il generale Della Rovere [28].
Gli anni cinquanta e sessanta
L'immediato dopoguerra di Montanelli non fu facile: gli antifascisti non gli perdonavano il fatto di essere stato fascista; gli ex fascisti non avevano dimenticato il suo «8 settembre». Le porte del Corriere della Sera gli furono inizialmente sbarrate. Montanelli dovette ricominciare dal "popolare" del Corriere, La Domenica del Corriere di cui assunse la direzione nel 1945. Solo alla fine dell'anno seguente poté tornare in Via Solferino.
Nel 1946, assieme a Giovanni Ansaldo e Henry Furst, aiutò l'amico Leo Longanesi a fondare l'omonima sua casa editrice, per la quale cominciò a pubblicare fin dal 1949 (Morire in piedi). Montanelli, oltre che con Longanesi, strinse un'amicizia profonda con un altro personaggio importante nella cultura italiana dell'epoca, Dino Buzzati. Il terzo intellettuale con cui Montanelli strinse una forte e duratura amicizia fu Giuseppe Prezzolini, che stimava per l'indipendenza di pensiero.[29]
Negli anni cinquanta Montanelli accettò la richiesta di Dino Buzzati di tornare a collaborare con la Domenica del Corriere. Buzzati gli diede una pagina intera; nacque la rubrica «Montanelli pensa così», che divenne poi «La Stanza di Montanelli», uno spazio in cui il giornalista rispondeva ai lettori sui temi più caldi dell'attualità. In breve tempo diventò una delle rubriche più lette d'Italia.
Grazie al successo della rubrica, Montanelli accettò scrivere a puntate la Storia dei romani e poi la Storia dei greci. Cominciò così la carriera di storico, che fece di Montanelli il più venduto scrittore italiano[30].
Il primo libro fu la Storia di Roma, che venne pubblicata a puntate su La Domenica del Corriere e poi raccolto in volume per Longanesi (1957). Dal 1959 in poi la fortunata serie venne edita dalla Rizzoli Editore. La serie continuò con la Storia dei greci, per poi riprendere con la Storia d'Italia dal Medioevo ad oggi.
Quando la parlamentare socialista Lina Merlin, nel 1956 propose un disegno di legge che prevedeva l'abolizione della regolamentazione della prostituzione in Italia e la lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui, in particolare attraverso l'abolizione delle case di tolleranza, Montanelli si batté pervicacemente contro quella che veniva già chiamata - e si sarebbe da allora chiamata - la "legge Merlin". Diede alle stampe un pamphlet intitolato Addio, Wanda!, nel quale scriveva tra l'altro:
«... in Italia un colpo di piccone alle case chiuse fa crollare l'intero edificio, basato su tre fondamentali puntelli, la Fede cattolica, la Patria e la Famiglia. Perché era nei cosiddetti postriboli che queste tre istituzioni trovavano la più sicura garanzia...»
Nello stesso 1956 la sua attività d'inviato aveva portato Montanelli a Budapest, dove fu testimone della rivoluzione ungherese del 1956. La repressione sovietica gli ispirò la trama di un'opera teatrale, I sogni muoiono all'alba (1960), da lui portata anche al cinema l'anno successivo insieme a Mario Craveri ed Enrico Gras, con Lea Massari e Renzo Montagnani nel ruolo dei giovani protagonisti.
Nel 1961 sostenne la candidatura di Giovanni Spadolini alla direzione del Corriere. I colleghi anziani si schierarono invece per Alfio Russo, che venne nominato al posto del giornalista-storico fiorentino. Montanelli, risentito, ruppe l'amicizia con Russo.
A partire dal 1965 partecipò attivamente al dibattito sul colonialismo italiano. In accesa polemica con lo storico Angelo Del Boca, Montanelli rilanciava il mito secondo cui quello italiano fu un colonialismo mite e bonario, portato avanti grazie all'azione di un esercito cavalleresco, incapace di compiere brutalità, rispettoso del nemico e delle popolazioni indigene. Nei suoi numerosi interventi pubblici ha negato ostinatamente l'impiego sistematico di armi chimiche come iprite, fosgene e arsine da parte dell'aviazione militare italiana in Etiopia.[31]
Dichiaratamente anticomunista, "anarco-conservatore" (come amava definirsi su suggestione del grande amico Prezzolini) e controcorrente, vedeva nelle sinistre un pericolo incombente, in quanto foraggiate dall'allora superpotenza sovietica.
L'abbandono del Corriere
Nei primi anni settanta, dopo la morte di Mario e Vittorio Crespi e la grave malattia del terzo fratello Aldo, la proprietà del "Corriere" venne gestita dalla figlia di quest'ultimo [22]. Sotto il controllo di Giulia Maria, il quotidiano operò una netta virata a sinistra. La nuova linea venne varata nel 1972, con il licenziamento del direttore Giovanni Spadolini e la sua sostituzione con Piero Ottone. Nell'ottobre 1973 Montanelli fu costretto a lasciare. All'inizio di ottobre rilasciò un'intervista al settimanale politico-culturale "Il Mondo" [32], in cui Montanelli dichiarava a Cesare Lanza:
«Non esiste un contrasto personale fra Piero Ottone e me. Siamo, anzi, in ottimi rapporti. C'è piuttosto un'impostazione del Corriere della Sera del tutto diversa da quella che è la tradizione del giornale: dissensi sull'attuale indirizzo esistono e sono stati apertamente manifestati. Un dissenso niente affatto sotterraneo, un dibattito; e può darsi che esso si concluda con la sconfitta di chi sostiene questi valori tradizionali. In questo caso, potrebbe avvenire una secessione. » (Giampaolo Pansa, Comprati e venduti, Bompiani, 1977, pag. 143.)
E concludeva lanciando un appello:
«Ci vorrebbe da parte di una certa borghesia lombarda, che si sente defraudata dal suo giornale, un gesto di coraggio, di cui però questa borghesia, capace in fondo solo di brontolare, non è capace.» (Giampaolo Pansa, op. cit., pag. 143.)
In una successiva intervista a Panorama spiegava di avere
«l'impressione, le rare volte che vado al giornale, di trovarmi in casa altrui e di non essere amato [...] C'è una nuova leva che evidentemente mi considera un'anticaglia e un intralcio, e con cui mi è impossibile stabilire un rapporto umano, come esisteva con i miei coetanei.»(Giampaolo Pansa, ''op. cit., pag. 144.)
Giulia Maria Crespi, la cui avversione al giornalista toscano era ben nota[22], non apprezzò affatto l'intervista. Il 17 ottobre Piero Ottone si recò personalmente al domicilio milanese di Montanelli per comunicargli la decisione di licenziarlo. Montanelli, però, se ne andò volontariamente, presentando le dimissioni ed accompagnandole da un polemico articolo di commiato; l'articolo non fu pubblicato. Il Corriere diede la notizia con un comunicato, su una colonna, il 19 ottobre.
Montanelli stava già lavorando per fondare un nuovo giornale, di cui sarebbe stato il direttore. Sapeva che giornali importanti come La Stampa e lo stesso Corriere avevano perso quote di lettori, che non apprezzavano la nuova linea di tali quotidiani, favorevole al "compromesso storico" tra DC e PCI (era nata pochi anni prima l'espressione "maggioranza silenziosa"). Chiamò la nuova creatura Il Giornale Nuovo [33]. Nella sua "traversata nel deserto" dal Corriere al Giornale lo seguirono molti validi colleghi che, come lui, non condivisero il nuovo clima del Corriere, tra i quali Enzo Bettiza, Egisto Corradi, Guido Piovene, Cesare Zappulli, ed intellettuali europei come Raymond Aron, Eugène Ionesco, Jean-François Revel e François Fejtő; il successore di Piero Ottone alla direzione del Corsera, Franco Di Bella, ebbe a dire che Montanelli si stava portando via "l'argenteria di famiglia".
Dieci giorni dopo l'uscita dal Corriere, Montanelli passò temporaneamente a La Stampa, dove pubblicò il suo primo pezzo il 28 ottobre [34]. Montanelli lasciò anche la sua "storica" rubrica sul settimanale Domenica del Corriere per traslocare sul concorrente Oggi [35]. Il 17 marzo preannunciò sul quotidiano torinese il suo progetto di fondare un nuovo giornale; il suo ultimo articolo su La Stampa comparve il 21 aprile 1974.
All'inizio del 1974 il progetto di fondazione del nuovo quotidiano era definitivo. Trovò un insperato sostegno finanziario nella Montedison (guidata all'epoca da Eugenio Cefis), che gli fornì 12 miliardi di lire per tre anni [36]. Montanelli ottenne di rimanere il proprietario della testata con i giornalisti cofondatori.
Nello stesso anno si sposò in terze nozze con la collega Colette Rosselli, corsivista del settimanale Gente più nota con lo pseudonimo di «Donna Letizia» [37].
Direttore de il Giornale
Con il Giornale (il primo numero uscì il martedì 25 giugno 1974) che sin dal principio concepì come una testata d'opinione, tra l'ostilità della stampa di sinistra e degli ambienti della borghesia radical-chic, Montanelli ebbe l'opportunità di rappresentare con maggiore evidenza le proprie posizioni, sempre poco conformiste e spesso originali; in guisa di interlocutore esterno alla politica, non schierato se non su orientamenti di massima e fautore di una destra ideale, si inserì nel dibattito politico, contribuendo alla creazione della figura dell'opinionista politico di provenienza giornalistica. Il Giornale si avvalse della collaborazione di diverse grandi figure del giornalismo italiano, fra cui Enzo Bettiza e, successivamente, di Gianni Brera.
Dinanzi alla crescita, che egli considerò pericolosa, del Partito Comunista Italiano, restò celebre la sua sollecitazione elettorale in favore della Democrazia Cristiana:
«Turiamoci il naso e votiamo DC» (frase originalmente detta da Gaetano Salvemini, alla vigilia delle elezioni politiche del 18 aprile 1948, come affermato dallo stesso Montanelli)
L'attentato delle Brigate Rosse
Il 2 giugno del 1977 Montanelli fu vittima di un attentato delle Brigate Rosse. Montanelli, mentre si stava recando, come ogni mattina, al giornale, venne ferito a Milano, all'angolo fra via Manin e piazza Cavour (ove aveva sede il Giornale nel cosiddetto Palazzo dei giornali), con una pistola 7.65 munita di silenziatore che gli sparò tutti i sette colpi di un caricatore e un ottavo già in canna, colpendolo due volte alla gamba destra, una volta di striscio alla gamba sinistra ed alla natica, dove l'unico proiettile non fuoriuscì (secondo una pratica definita col neologismo coniato in quel periodo come "gambizzazione").
L'attentatore prima di sparare, aveva chiesto di spalle a Montanelli, se fosse lui, aprendo il fuoco mentre il giornalista fermatosi stava girandosi per rispondergli. Colpito, Montanelli, non cercò di estrarre la pistola che portava con sé, ma tentò di tenersi in piedi aggrappandosi alla cancellata dei Giardini Pubblici [38], scivolando poi a terra ed urlando "Vigliacchi, vigliacchi" all'indirizzo dell'attentatore e di un suo complice in fuga; poco dopo dichiarò ad un soccorritore: "quei vigliacchi mi hanno fottuto. Li ho visti in faccia, non li conosco, ma credo di poterli riconoscere"[39].
Il "Corriere della sera" dedicò un articolo al fatto di cronaca omettendo il suo nome nel titolo ("Milano [...], gambizzato un giornalista"). Più ironico su La Repubblica fu il vignettista Giorgio Forattini, che raffigurò l'allora suo direttore Eugenio Scalfari nell'atto di puntarsi una pistola contro il piede, dopo aver letto la notizia dell'attentato a Montanelli, suggerendo che ne invidiasse la popolarità. L'"Unità" pubblicò la notizia in prima pagina, col titolo Montanelli ferito da colpi di pistola in un attentato di «brigatisti rossi» corredato con la fotografia del ferito soccorso dai passanti, il quotidiano comunista riportava una precisa cronaca dell'evento, evidenziava la ferma condanna del partito per un atto definito criminale nell'occhiello del titolo.
L'attentato venne rivendicato dalla colonna Walter Alasia delle Brigate Rosse, con una telefonata al "Corriere d'Informazione". Secondo la rivendicazione dei terroristi, perché "schiavo delle multinazionali". Due giorni prima, con la medesima tecnica le Brigate Rosse avevano gambizzato a Genova Vittorio Bruno, vicedirettore del "Secolo XIX", mentre il giorno successivo dell'attentato a Montanelli venne gravemente ferito, a Roma, Emilio Rossi a quel tempo direttore del TG1.
Proprio in quel periodo il corsivista de L'Unità, Fortebraccio scrisse di aver dettato per la propria tomba questo epitaffio: "Qui giace Fortebraccio, che segretamente amò Indro Montanelli. Passante perdonalo, perché non ha mai cessato di vergognarsene". Montanelli, con lo spirito che lo contraddistingueva, replicò prontamente avvertendo lo stesso Fortebraccio che lui aveva iscritto fra le sue ultime volontà quella di essere seppellito accanto al collega e rivale, con questo epitaffio: "Vedi lapide accanto".
I rapporti con Silvio Berlusconi
Nel 1977 terminò il finanziamento della Montedison. Montanelli accettò il sostegno di Silvio Berlusconi, all'epoca costruttore edile, che divenne socio di maggioranza nell'ottobre 1979. Secondo Felice Froio, Montanelli, sottoscrivendo il contratto con Berlusconi, gli avrebbe detto: «Tu sei il proprietario, io sono il padrone almeno fino a che rimango direttore [...] Io veramente la vocazione del servitore non ce l'ho» [40].
Il loro sodalizio durò senza significativi contrasti fino al 1994. Secondo quanto racconta Marco Travaglio, in una delle visite di Montanelli presso la villa di Arcore, Berlusconi gli fece visitare il proprio mausoleo funebre e, al termine della visita, giunti presso la sala dei loculi, gli avrebbe offerto un posto vicino a Previti, Dell'Utri e sé stesso. Ma Montanelli declinò l'offerta, rispondendo ironicamente: «Domine, non sum dignus».[41]
Secondo la versione raccontata da Montanelli, in seguito alla "discesa in campo" di Berlusconi, questi si presentò all'ufficio amministrativo del Giornale chiedendo a Montanelli di supportarne le iniziative politiche. Egli però decise di non seguirlo. Il Giornale passò sotto la guida di Vittorio Feltri.
Da un'intervista audiovisiva rilasciata ad Alain Elkann si evince che la loro separazione fu presa di comune accordo. Nell'intervista con Elkann, Montanelli spiega meglio la dinamica della sua uscita dal Giornale. Egli, riferendosi a Berlusconi, afferma: "gli dissi: io non mi sento di seguirti in questa avventura, noi dobbiamo separarci, fu una separazione consensuale tra me e Berlusconi. Il patto su cui si reggeva la nostra convivenza, che era stato scrupolosamente osservato da entrambe le parti (ossia "Berlusconi è il proprietario del Giornale, Montanelli ne è il padrone"), era venuto meno" [42]. Montanelli ricostruisce quindi il dialogo che avvenne con Berlusconi, asserendo che non volle mettersi al suo servizio, sia perché non si era mai messo a servizio di nessuno e non riteneva opportuno cominciare con Berlusconi, sia perché riteneva che Berlusconi non potesse avere successo in politica.
Altri invece, citando lo stesso Montanelli, parlano di un aspro conflitto tra Montanelli e Berlusconi e non convengono con coloro che sostengono la tesi che l'abbandono di Montanelli fosse in comune accordo con la proprietà [43]. Tale versione viene avvalorata da quanto lo stesso Montanelli ebbe modo di confermare nel corso di numerose interviste. [44].
Il 10 gennaio di quel 1994 Montanelli in una lettera aperta a Silvio Berlusconi scrisse:
«Ho creduto di metterti in guardia da quello che mi sembra un grosso azzardo [la discesa in campo]. A questa mia franchezza hai risposto venendo in assemblea di redazione a proporre un rilancio del Giornale purché adottasse una linea politica diversa per sostanza e per forma da quella seguita da me: e con questo hai sbarrato la strada ad ogni possibile intesa.» (Federico Orlando, Il sabato andavamo ad Arcore, Edizioni Larus, 1995, pag. 214.)
Successivamente egli attaccò duramente Berlusconi, paragonandolo a Mussolini ("ho già conosciuto un uomo della Provvidenza e mi era bastato"), considerandolo incapace di sopravvivere alla politica ("farà la fine del povero Antonio La Trippa: non riuscirà a mantenere le promesse che ha fatto agli italiani e dovrà andarsene").
Non ritenendo di poter accettare la direzione del Corriere della Sera (che non avrebbe assunto anche gli altri redattori del Giornale) offertagli da Paolo Mieli e Gianni Agnelli, decise di fondare una nuova testata insieme agli altri quaranta giornalisti dimissionari, La Voce, nome che scelse in omaggio a Giuseppe Prezzolini.
La nuova impresa tuttavia non ebbe vita lunga, non riuscendo ad ottenere nel tempo un sufficiente volume di vendite, nonostante un esordio di 400.000 copie. Come egli stesso ebbe modo di dire, La Voce si proponeva un obiettivo troppo ambizioso: nella sua idea iniziale la nuova testata doveva essere un settimanale, o un mensile, sul modello de Il Mondo di Mario Pannunzio: di conseguenza la progettazione della "terza pagina", la sezione culturale, risultò particolarmente curata; tuttavia, il numero di giornalisti alle sue dipendenze lo spinsero verso un quotidiano. Tra questi Beppe Severgnini, Marco Travaglio e Peter Gomez.
Dopo la chiusura de La Voce, tornò così a lavorare per il Corriere della Sera, per curare la pagina di colloquio coi lettori, la "Stanza di Montanelli", posta in chiusura del giornale.
Ultimi anni
Da molti considerato il più grande giornalista italiano, il suo lavoro fu riconosciuto e premiato anche all'estero (Premio Principe delle Asturie 1996 in Spagna, una decorazione in Finlandia, dagli Stati Uniti gli arrivò il riconoscimento annuale come miglior giornalista internazionale). È stato autorevole cronista della storia italiana ed ha intervistato personaggi come Winston Churchill, Charles de Gaulle, Luigi Einaudi, Papa Giovanni XXIII.
La sua prassi giornalistica fu influenzata dal praticantato che fece in America, tenendo presente ciò che gli aveva detto il direttore del giornale di allora, vale a dire che ogni articolo deve poter essere letto e capito da chiunque, anche dal "lattaio dell'Ohio". Divenne membro onorario dell'Accademia della Crusca, per la quale si batté, sulle pagine del Giornale, cercando di coinvolgere direttamente i suoi lettori, così che uno dei più antichi e importanti centri di studio sulla lingua italiana non scomparisse.
Nel 1991 Francesco Cossiga, presidente della Repubblica, gli offrì la nomina a senatore a vita, ma Montanelli non la volle accettare a garanzia della sua completa indipendenza. Dichiarò:
«Non è stato un gesto di esibizionismo, ma un modo concreto per dire quello che penso: il giornalista deve tenere il potere a una distanza di sicurezza.» (Il Messaggero, 10 agosto 2001)
e ancora:
«Purtroppo, il mio credo è un modello di giornalista assolutamente indipendente che mi impedisce di accettare l'incarico.»(dalla sua lettera al Presidente Cossiga)
Negli ultimi suoi anni Montanelli si distinse per la posizione profondamente critica assunta nei confronti del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, il suo ex editore, ritenuto antidemocratico, propenso alla menzogna[45], autore di un progetto politico che, diversamente da come veniva descritto, con la destra non aveva niente a che fare. Intendeva mettere in guardia gli italiani, ricordando la pericolosità di un nuovo "uomo della provvidenza" capace di risolvere tutti i problemi, facendo notare, riferendosi a Benito Mussolini, che ne aveva già conosciuto uno in passato e che gli era bastato. Fra le sue considerazioni più note, quella fatta poco tempo prima delle elezioni politiche del maggio 2001, quando, ritenendo Berlusconi vicino alla vittoria elettorale, lo paragonò ad una malattia e disse che l'Italia ne sarebbe guarita, similmente all'azione di un vaccino, in seguito al suo esercizio del potere.
Due mesi dopo, il 22 luglio 2001, si spense a Milano nella clinica de La Madonnina (lo stesso luogo dove 29 anni prima si era spenta un'altra figura storica del Corriere, Dino Buzzati). Il giorno seguente il direttore del Corriere della Sera pubblicò in prima pagina, scritto dallo stesso Montanelli qualche giorno prima di morire, il suo necrologio:
«Mercoledì, 18 luglio 2001 - ore 1.40 del mattino. Giunto al termine della sua lunga e tormentata esistenza - Indro Montanelli - giornalista - Fucecchio 1909, Milano 2001 - prende congedo dai suoi lettori ringraziandoli dell'affetto e della fedeltà con cui lo hanno seguito. Le sue cremate ceneri siano raccolte in un'urna fissata alla base, ma non murata, sopra il loculo di sua madre Maddalena nella modesta cappella di Fucecchio. Non sono gradite né cerimonie religiose, né commemorazioni civili.[46]» (Corriere della Sera, 23 luglio 2001)
Migliaia di persone sfilarono nella camera ardente per rendergli omaggio.
Eugenio Scalfari lo ha definito "anarchico e guascone", più simile a Cyrano che a Don Chisciotte: "Montanelli non ha mai combattuto contro i mulini a vento scambiandoli per minacciosi giganti, gli avversari che di volta in volta si sceglieva rappresentavano potenti realtà politiche o economiche, che Indro studiava con molta cura prima di muoverne all'attacco. Ne misurava la forza, ne coglieva il punto debole e lì sferrava il colpo".
Enzo Biagi ricordava il suo legame con il lettore: "Era il suo vero padrone. E quando vedeva lo strapotere di certi personaggi, si è sempre battuto cercando di rappresentare la voce di quelli che non potevano parlare".
Il Comune di Milano ha intitolato al grande giornalista i Giardini pubblici di Porta Venezia, divenuti «Giardini Pubblici Indro Montanelli». All'interno del parco è stata posta una statua raffigurante Montanelli, intento nella stesura di un articolo con la celebre Lettera 22 sulle ginocchia.
Note
1. ^ lo stesso giorno, mese e anno di Rita Levi-Montalcini
2. ^ indro montanelli biografia fucecchio - firenze - toscana - italia
3. ^ Vedi capitolo Indro Montanelli in G. Mazzucca, 2008
4. ^ Dal sito della Fondazione Montanelli Bassi
5. ^ Indro Montanelli, citato in Serena Zoli e Giovanni B.Cassano, Liberaci dal male oscuro, TEA Longanesi, Milano 1993, pag. 377
6. ^ Soltanto un giornalista - Pag 6
7. ^ Indro Montanelli XX Battaglione Eritreo, Panorama, Milano, 1936, pag. 226
8. ^ R. Canosa, La voce del Duce. L'agenzia Stefani: l'arma segreta di Mussolini, Mondadori, Milano 2002, p. 108.
9. ^ Intervista di Enzo Biagi a Indro Montanelli del 1982 nel programma RT-Era ieri, trasmesso da Rai Tre alle 23.45 del 13 ottobre 2008
10. ^ http://www.canegrate.org/xxvaprile/pdf/fascismo_giusto.pdf
11. ^ a b Biografia dal sito Fondazione Montanelli relativamente al 1937; lo stesso sito fa riferimento anche ad un ordine diretto di Mussolini per quanto riguarda il successivo rimpartrio.
12. ^ Al secolo Valentín González.
13. ^ Soltanto un giornalista. Montanelli-Abate, Rizzoli 2002,ISBN 978-88-17-12991-6
14. ^ Che corrisponde oggi ad inviato.
15. ^ Fu anche il giorno della dichiarazione di guerra, da parte del Regno Unito e della Francia, alla Germania che diede origine al secondo conflitto mondiale.
16. ^ Citazione non sicura, da verificare.
17. ^ L'unione si concluse con la separazione nel 1951.
18. ^ Indro Montanelli
19. ^ Travaglio:ricordando il grande Montanelli.- « SPACEPRESS
20. ^ Indro Montanelli, biografia - Italiani
21. ^ la Repubblica/cronaca: È morto Indro Montanelli in lutto il giornalismo
22. ^ a b c Montanelli. appuntamenti con la storia
23. ^ http://www.avvenimentitaliani.it/montanelli.html
24. ^ MONTANELLI L' IMPREVEDIBILE INDRO - Repubblica.it » Ricerca
25. ^ Montanelli Indro (Fucecchio, 1909 - Milano, 2001 luglio 22) - Archivi storici - Lombardia Beni Culturali
26. ^ Indro Montanelli 1909-2001. Dal nostro inviato del Novecento | Ordine dei Giornalisti
27. ^ Aldo Crespi versò di propria tasca 500.000 lire all'ufficiale SS Theodor Saevecke, e a Luca Ostèria (un "agente doppio" noto come «dottor Ugo»), che ne organizzarono l'evasione.
28. ^ Dal libro Roberto Rossellini trasse il film-capolavoro Il generale Della Rovere, che venne premiato con un Leone d'Oro a Venezia.
29. ^ Quando Montanelli fondò il suo secondo quotidiano, nel 1994, lo chiamò La Voce proprio in onore di Prezzolini.
30. ^ Solo la Storia d'Italia ha venduto, al 2004, oltre un milione di copie, e risulta il saggio storico di maggior successo negli annali dell'editoria italiana.
31. ^ Angelo Del Boca, I gas di Mussolini, Il fascismo e la guerra d'Etiopia , Roma, Editori Riuniti, 1996. pp. 29 e 32
32. ^ L'intervista uscì nel numero datato 18 ottobre.
33. ^ Montanelli avrebbe desiderato chiamarlo "Il Giornale", tuttavia, a quel tempo esisteva una piccola testata con lo stesso nome, per cui dovette scegliere un altro nome decidendo di aggiungervi l'aggettivo "Nuovo". In seguito, con la chiusura di quella testata poté rinominare il suo quotidiano semplicemente Il Giornale.
34. ^ Sandro Gerbi, Raffaele Liucci, op. cit., pag. 91.
35. ^ Montanelli non lasciò mai la sua Stanza su Oggi, che manterrà fino alla morte.
36. ^ Vittorio Feltri, "Piccola storia del giornalismo", Libero, 16 giugno 2003.
37. ^ Colette Rosselli è deceduta il 9 marzo 1996.
38. ^ Ricordando l'episodio, in una intervista televisiva sostenne che fu questo gesto a salvargli la vita in quanto se fosse immediatamente caduto gli ultimi colpi l'avrebbero probabilmente colpito alla pancia e al torace. Il particolare è annotato anche nei Diari, pubblicati nel 2009
39. ^ Vedi articoli in "L'Unità" del venerdì 3 giugno 1977.
40. ^ Felice Froio, Il cavaliere incantatore , Bari, Edizioni Dedalo, 2003 . 58
41. ^ http://www.youtube.com/watch?v=XdCrk9BLIGg
42. ^ intervista rilasciata al giornalista Alain Elkann sulla sua uscita dal Giornale. URL consultato il 09-12-2008.
43. ^ Marco Travaglio a 100 anni dalla nascita di Montanelli. URL consultato il 04-21-2009.
44. ^ Montanelli sulla sua uscita dal Giornale. URL consultato il 04-21-2009.
45. ^ Ad esempio, era stato riconosciuto colpevole del reato di falsa testimonianza dalla corte d'appello di Venezia, reato poi amnistiato. Vedi ad esempio: Peter Gomez; Marco Travaglio, Appendice in La repubblica delle banane, Prefazione di Curzio Maltese, Roma, Editori Riuniti, giugno 2001. 533 ISBN 88-359-4915-7
46. ^ Necrologio
47. ^ Cavaliere di Gran Croce Ordine al Merito della Repubblica Italiana Dott. Indro Montanelli giornalista, scrittore