Il calendario del 21 Maggio

Fonte:
CulturaCattolica.it
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Eventi

▪ 996 - Il sedicenne Ottone III viene incoronato Sacro Romano Imperatore

▪ 1674 - Jan III Sobieski viene eletto dalla nobiltà per essere re di Polonia

▪ 1840 - William Hobson dichiara la sovranità inglese sulla Nuova Zelanda: l'Isola del Nord per ratifica del Trattato di Waitangi e l'Isola del Sud per scoperta da parte di Cook

▪ 1863 - Guerra di secessione americana: Assedio di Port Hudson - le forze dell'Unione iniziano l'assedio a Port Hudson (Louisiana), controllata dai Confederati

▪ 1927 - Charles Lindbergh completa il primo volo transatlantico senza scalo

▪ 1941 - Seconda guerra mondiale: a 1.500 km dalla costa del Brasile, il mercantile SS Robin Moor diventa la prima nave statunitense ad essere affondata da un U-Boot tedesco

▪ 1956 - Nell'Oceano Pacifico, presso l'Atollo Bikini, avviene la detonazione della bomba Shot Redwing-Cherokee. È la prima bomba all'idrogeno aviotrasportabile testata dagli Stati Uniti d'America.

▪ 1961 - Il Governatore dell'Alabama, John Patterson, dichiara la legge marziale nel tentativo di ripristinare l'ordine a seguito dello scoppio di rivolte razziali

▪ 1991 - L'ex Primo Ministro indiano Rajiv Gandhi viene assassinato da un terrorista kamikaze imbottito di esplosivo nei pressi di Madras.

▪ 1998 - Suharto si dimette dalla presidenza dell'Indonesia.

▪ 2002 - L'Arma dei Carabinieri viene elevata a rango di Forza Armata.

▪ 2003 - Un terremoto colpisce l'Algeria settentrionale. Oltre 2.000 le vittime.

▪ 2006 - Il Montenegro diventa uno stato indipendente.

Anniversari


▪ 1639 - Tommaso Campanella, al secolo Giovan Domenico Campanella (Stilo, 5 settembre 1568 – Parigi, 21 maggio 1639), è stato un filosofo, scrittore e poeta italiano.
«Io nacqui a debellar tre mali estremi;
tirannide, sofismi, ipocrisia [...]
Carestie, guerre, pesti, invidia, inganno,
ingiustizia, lussuria, accidia, segno,
tutti a que' tre gran mali sottostanno
che nel cieco amor proprio, figlio degno
d'ignoranza, radice e fomento hanno. » (T. Campanella, da Delle radici de' gran mali del mondo)

Giovan Domenico Campanella nacque a Stilo, come egli stesso più volte afferma nei suoi scritti e come dichiarò il 23 novembre 1599 nel carcere di Castel Nuovo a Napoli, al giudice Antonio Peri: «son di una terra chiamata Stilo in Calabria ultra, mio padre si domanda Geronimo Campanella e mia madre Caterina Basile».
Fino al 1806 si conservava anche l’atto di battesimo nella parrocchia di San Biagio, borgo di Stilo, così redatto: «A dì 12 settembre 1568, battezzato Giovan Domenico Campanella figlio di Geronimo e Catarinella Martello, nato il giorno 5, da me D. Terentio Romano, parroco di S. Biaggio [sic] nel Borgo».
Il padre era un ciabattino povero e analfabeta che non poteva permettersi di mandare i figli a scuola e Giovan Domenico ascoltava dalla finestra le lezioni del maestro del paese, segno precoce di quella volontà di conoscenza che non l’abbandonò per tutta la vita. E più che la vocazione religiosa, fu il desiderio di seguire corsi regolari di studi e di abbandonare un destino di miseria, a indurlo, a tredici anni, a entrare nell’Ordine domenicano.
Entrato novizio nel convento di Placanica, vi fece i primi studi regolari: pronunciò i voti a quindici anni nel convento di San Giorgio Morgeto, assumendo il nome di Tommaso e continuò gli studi superiori a Nicastro dal 1585 al 1587 e poi, a vent’anni, a Cosenza, dove affrontò lo studio della teologia.
L'istruzione ricevuta dai domenicani non lo soddisfa e non gli è sufficiente: «essendo inquieto, perché mi sembrava una verità non sincera, o piuttosto falsità in luogo della verità rimanere nel Peripato, esaminai tutti i commentatori d'Aristotele, i greci, i latini e gli arabi; e cominciai a dubitare ancor più dei loro dogmi, e perciò volli indagare se le cose ch'essi dicevano fossero nella natura, che io avevo imparato dalle dottrine dei sapienti essere il vero codice di Dio. E poiché i miei maestri non potevano rispondere alle miei obiezioni contro i loro insegnamenti, decisi di leggere da me tutti i libri di Platone, di Plinio. di Galeno, degli stoici, dei seguaci di Democrito e principalmente i Telesiani, e metterli a confronto con il primo codice del mondo per sapere, attraverso l'originale e autografo, quanto le copie contenessero di vero o di falso».
Fu in particolare il De rerum natura iuxta propria principia di Bernardino Telesio una rivelazione e una liberazione insieme: scoprì che non esisteva soltanto la filosofia scolastica e che la natura poteva essere osservata per quello che è, e poteva e doveva essere indagata con i mezzi concreti posseduti dall’uomo, con i sensi e con la ragione, prima osservando e poi ragionando, senza schemi precostituiti e senza mandare a memoria quanto altri credevano di aver già scoperto e di conoscere su di essa. Era il 1588 e Telesio, che da anni viveva a Cosenza, vi moriva ottantenne proprio in quei giorni. Il neofita frate entusiasta non poté sottrarsi a deporre sulla bara, nel duomo, versi latini di ringraziamento devoto.

Il pensiero di Campanella
Il pensiero di Campanella prende le mosse, in età giovanile, dalle conclusioni cui era giunto Bernardino Telesio; egli si riallaccia quindi al naturalismo telesiano, sostenendo che la natura vada conosciuta nei suoi propri principi, che sono tre: caldo, freddo e materia. Essendo tutti gli esseri formati da questi tre elementi, allora gli esseri della natura sono tutti dotati di sensibilità, in quanto la struttura della natura è comune a tutti gli enti; quindi mentre Telesio aveva affermato che anche i sassi possono conoscere, Campanella porta all’esasperazione questo naturalismo, e sostiene che anche i sassi conoscono, perché nei sassi noi ritroviamo questi tre principi, ovvero caldo, freddo e massa corporea(materia).

Il problema della conoscenza (e la rivalutazione dell’uomo)
Il naturalismo di Campanella, in conseguenza di ciò, comporta una teoria della conoscenza essenzialmente sensistica: egli sosteneva infatti che tutta la conoscenza è possibile solo grazie all'azione diretta o indiretta dei sensi, e che Cristoforo Colombo aveva potuto scoprire l’America perché si era rifatto alla sensazione, non di certo alla razionalità. La razionalità deriva dalla sensazione: non esiste una conoscenza razionale intellettiva che non derivi da quella sensitiva. Tuttavia Campanella, a differenza di Telesio, cerca di rivalutare l’uomo e pertanto afferma l'esistenza di due tipi di conoscenze: una innata, una sorta di autocoscienza interiore, e una conoscenza esteriore, che si avvale dei sensi. La prima è definita ‘sensus inditus’, che è la conoscenza di sé, la seconda ‘sensus additus che è la conoscenza del mondo esterno. La conoscenza del mondo esterno appartiene a tutti, anche agli animali; la conoscenza di sé, invece, appartiene solo all’uomo, ed è la coscienza di essere un essere pensante. Campanella si rifà ad Agostino d'Ippona, poiché afferma che noi possiamo dubitare della conoscenza del mondo esterno, mentre non possiamo dubitare della conoscenza di sé. Questo ‘sensus inditus’ sarà poi il punto essenziale della filosofia cartesiana, che si basa sul ‘cogito’: io penso quindi esisto (cogito ergo sum).

La religione e la politica
In base a queste premesse, Campanella si sofferma sulla religione che egli distingue in due tipologie: una religione naturale e religioni positive. La religione naturale è una religione che rispetta l’ordine universale dell’universo stesso; le religioni positive sono invece religioni che vengono imposte dallo stato. Campanella afferma però che il religione cristiana è l’unica religione positiva, poiché è imposta dallo stato, ma al contempo coincide con l’ordine naturale (cui però aggiunge il valore della rivelazione). Tuttavia anche questa teoria della religione razionale contrastava con i dogmi della Chiesa della Controriforma. Egli sostenne, del resto, la superiorità del potere temporale su quello spirituale, individuando poi il potere supremo, di volta in volta, nella Spagna e poi nella Francia, a seconda di convenienze politiche e personali.

La Città del Sole Civitas Soli
Campanella fu autore anche di una importante opera di carattere utopico, ovvero La Città del Sole. Nella Città del Sole egli descrive una città ideale, utopica, governata dal Metafisico, un re-sacerdote volto al culto del Dio Sole, un dio laico proprio di una religione naturale, di cui Campanella stesso è sostenitore, pur presupponendo razionalmente che coincida con la religione cristiana. Questo re-sacerdote si avvale di tre assistenti, rappresentanti le tre primalità su cui si incentra la metafisica campanelliana: Potenza, Sapienza e Amore. In questa città vige la comunione dei beni e la comunione delle donne. Nel delineare la sua concezione collettivista della società, Campanella si rifà a Platone (V secolo a.C.) e all'Utopia di Tommaso Moro (1517); fra gli antecedenti dell'utopismo campanelliano è da annoverare anche la Nuova Atlantide di Bacone. L'utopismo partiva dal presupposto che, poiché non si poteva realizzare un modello di Stato che rispecchiasse la giustizia e l’uguaglianza, allora questo Stato si ipotizzava, come aveva fatto a suo tempo Platone; però è importante mettere in evidenza che, mentre Campanella tratta una realtà utopistica, Niccolò Machiavelli esalta realtà concreta o effettuale, e la sua concezione dello Stato non è affatto utopistica, ma assume una valenza di concreto metodo di governo della cosa pubblica.

Interpretazioni storiografiche del pensiero politico
Significato e senso politico del pensiero del Campanella sfuggono a cliché ed interpretazioni storiografiche in cui lo si è finora relegato. Rimangono tuttora aperti molti aspetti della sua ricerca intellettuale, estremamente articolata e con sfaccettature all'apparenza contraddittorie, per riconfigurarsi in una sua complessa molteplicità, lontano dal settarismo idealista come dalle ristrettezze di una teocratica rivisitazione cattolica, da una antistorica visione laica come da un settarismo ideologico marxista.[senza fonte]
L'incertezza è già evidente nell'interpretazione della critica idealistica, che nei limiti di una conoscenza ancora incompleta dell'opera, coglie nel pensiero campanelliano un deciso orientamento in direzione del moderno immanentismo, contaminato tuttavia da residui del passato e della tradizione cristiana e medioevale.
Per Silvio Spaventa Campanella è il "filosofo della restaurazione cattolica", in quanto, la stessa proposizione che la ragione domina il mondo, è inficiata dalla convinzione che essa risieda unicamente nel papato.
Non molto dissimile la lettura di Francesco De Sanctis: "Il quadro è vecchio, ma lo spirito è nuovo. Perché Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perché la ragione governa il mondo". È la ragione che determina e giustifica i mutamenti politici, e questi ultimi "sono vani se non hanno per base l'istruzione e la felicità delle classi più numerose". Tutto ciò conduce Campanella, secondo il pensiero idealista, alla concezione di un moderno immanentismo.
Tuttavia, l'asserzione che essa ragione risieda unicamente nel Papato, determina delle contraddizioni nella sua opera riformatrice: perché Campanella è un riformatore, vuole il papa sovrano, ma vuole che il sovrano sia ragione non solo di nome ma di fatto, perché la ragione governa il mondo.
Non sfugge qui una contaminazione che riconduce a Platone e Tommaso Moro e può far presagire "ante litteram" il futuro socialismo scientifico di Karl Marx.

Curiosità
Campanella, dopo essersi finto pazzo e scampato al rogo, fu portato nelle carceri di Castello Novo. Lì, riferendosi agli inquisitori, disse ad un carceriere: "Che si pensavano che io era coglione, che voleva parlare?

Sull’utopia

* 1670 - Niccolò Zucchi (Parma, 6 dicembre 1586 – Roma, 21 maggio 1670) è stato un gesuita, astronomo e fisico italiano, noto per la realizzazione del primo telescopio riflettore concavo.
La sua vita e la sua opera – come quella di Matteo Ricci (vedi su Da ricordare 11 Maggio) - contrastano con l’immagine di una Chiesa oscurantista, lontana dalla ricerca scientifica e ad essa contraria.
Zucchi condusse studi di retorica a Piacenza e di filosofia e teologia a Parma; nel 1602 entrò nella Compagnia di Gesù. Professore di matematica e di teologia a Roma, dove successivamente divenne rettore, Niccolò Zucchi iniziò ad interessarsi di astronomia in seguito ad un incontro con Giovanni Keplero. Nel 1616 realizzò il primo telescopio riflettore concavo, grazie a cui poté osservare gli anelli di Giove (1630) e le macchie sulla superficie di Marte (1640).
Zucchi fu attivo anche in altri campi della scienza; nel 1652 dimostrò che la luce prodotta dal fosforo era il frutto di un'attivazione energetica. Il suo trattato Optica philosophia experimentalis et ratione a fundamentis constituta (1652-56) ispirò James Gregory ed Isaac Newton per la costruzione di telescopi ulteriormente perfezionati.
A parte Daujat, Zucchi fu il primo autore ad intuire nettamente che l'energia magnetica si propaga più facilmente attraverso i corpi più permeabili.
Zucchi prese inoltre posizione sul principio per cui "la natura ha orrore del vuoto", negando pertanto l'esistenza del vuoto, nonostante le esperienze condotte dai suoi contemporanei Torricelli e Pascal.
Il cratere Zucchi, sulla Luna, è stato così battezzato in suo onore.

▪ 1860 - Rosolino Pilo, o Rosalino Pilo, (Palermo, 15 luglio 1820 – San Martino delle Scale, 21 maggio 1860), è stato un patriota italiano.
«(Monreale) Precursore nobilissimo di libertà, morto combattendo per la patria addì 21 giugno 1860, il popolo monrealese auspice il Municipio consacrava questo conoscente ricordo, perché la dissimile età non dimentichi quanta religione d'amore di dolore di sacrificio leghi ancora, dopo tante amare delusioni, la generosa anima siciliana all'unità e alla gloria della religione.» (Epigrafe di Mario Rapisardi)


Quartogenito del conte Gerolamo di Capaci e di Antonia Gioeni dei principi di Bologna e di Petrulla, fu un patriota italiano. All'anagrafe era stato registrato come Rosolino, ma egli si firmò sempre Rosalino.[1]
Partecipò alla rivoluzione del 1848 contro il regime borbonico. Quando i liberali si impadronirono della città, tenne il comando delle batterie e delle artiglierie palermitane, sino al momento in cui la città fu costretta a capitolare.
Con la repressione e il fallimento dei moti, Rosolino Pilo partì esule verso Marsiglia, e poi per Genova. Qui frequentò Mazzini, riallacciò i contatti con gli altri esuli siciliani, conobbe e si innamorò di Rosetta Borlasca.
Durante i moti falliti del 1853 a Milano, Rosolino Pilo era a Torino per coprire la fuga dei cospiratori che cercavano di espatriare. Qui conobbe Giuseppe Piolti, agente mazziniano del quale non condivideva i propositi di agitazione di piazza. Pilo era più propenso alla guerriglia e, nell’estate 1856, iniziò in contatti con Carlo Pisacane per aprire un fronte rivoltoso in Sicilia.
Ai primi di dicembre dello stesso anno Rosolino Pilo salpò da Genova su un piroscafo inglese diretto a Malta con l’intento di unirsi alla rivolta capeggiata dal barone Francesco Bentivegna. Ma, arrivato a Malta, seppe del fallimento del tentativo e non poté far altro che ritornare a Genova.
A Genova incontrò Carlo Pisacane aderendo con entusiasmo al suo progetto di guerriglia che sarebbe partito da Sapri per sollevare la Campania e giungere a Napoli. Un primo tentativo si ebbe il 6 giugno 1857, si imbarcò su un battello diretto verso l’isola di Montecristo con diversi guerriglieri e col carico delle armi utili alla spedizione, precedendo la partenza di Carlo Pisacane. L’intesa con Pisacane prevedeva il loro ricongiungimento sull’isola. Durante la traversata, però fu travolto da una tempesta che lo costrinse, per alleggerire lo scafo, a gettare fuoribordo l’armamento. Pilo dovette far ritorno a Genova per avvisare gli altri cospiratori e non compromettere l’intera missione.
Il tentativo definitivo iniziò con la partenze di Pisacane e i suoi, il 25 giugno. Pilo si occupò nuovamente del trasporto delle armi e partì il giorno dopo a bordo di alcuni pescherecci, con l’accordo di unirsi a Pisacane successivamente. Ma, anche questa volta, per sfortuna o per inesperienza come navigatore, Pilo finì per sbagliare rotta e, non potendo più raggiungere Pisacane, tornò a Genova lasciandolo senza i rinforzi e le armi che erano a lui necessarie. A Genova, Pilo e Mazzini, non poterono altro che attendere fiduciosi notizie dal Sud Italia. Il governo piemontese, nel frattempo, attuò misure repressive nei confronti dei cospiratori e Mazzini dovette far ritorno a Londra, mentre Pilo riuscì a rifugiarsi a Malta.
Alle prime voci dello sbarco di Giuseppe Garibaldi alla guida dei Mille, il 28 marzo 1860, Rosolino, insieme a Giovanni Corrao, si affrettò a tornare nella sua Sicilia. Alla testa di un gruppo di volontari, si unì alla colonna garibaldina che marciava su Palermo, ma, in uno scontro a fuoco, cadde sei giorni prima della presa della città.
Alla memoria fu conferita, il 30 settembre 1862, la medaglia d’oro al valor militare con questa motivazione: «Morto sul campo combattendo con valore a San Martino di Monreale il 21 maggio 1860.»

▪ 1885 - Terenzio Mamiani della Rovere (Pesaro, 19 settembre 1799 – Roma, 21 maggio 1885) è stato un filosofo, politico e scrittore italiano. Ultimo conte di Sant'Angelo in Lizzola, fu fra i protagonisti di rilievo del periodo risorgimentale italiano.
Cugino di Giacomo Leopardi, entrò in contatto a Firenze nel 1827 con i circoli degli intellettuali vicini al Gabinetto Vieusseux (quando iniziò a collaborare al periodico "Antologia"), e sviluppò poi la propria esperienza politica partecipando ai moti del 1831 prima a Bologna, poi ad Ancona, come Ministro dell'Interno del Governo provvisorio delle Province Unite Italiane e a Roma, diciassette anni dopo, alle insurrezioni protrattesi fra il 1848 ed il 1849.
Nel 1847 con Domenico Buffa fondò a Genova il giornale "La Lega Italiana", sostituito tre mesi dopo da "Il Pensiero Italiano".
Contrario alla Repubblica romana, con Vincenzo Gioberti diede vita a Torino alla Società della confederazione italiana. Fu Ministro dell'Interno dello Stato Pontificio durante il pontificato di Pio IX fino all'assassinio di Pellegrino Rossi, poi agli Esteri con Carlo Emanuele Muzzarelli, Deputato all'assemblea costituente del 1849 e poi Ministro dell'Istruzione con Cavour, Senatore del Regno d'Italia dal 1864 e vicepresidente del Senato.
Nel 1827 fu professore nell'Accademia militare di Torino e da 1857 insegnò Filosofia della storia all'Università di Torino e poi a Roma. La sua posizione, sostanzialmente moderata, ispirò una contestuale visione storico-filosofica che - alla vigilia dell'Unità d'Italia - si riflesse nella sua opera di Ministro della Pubblica Istruzione nell'ultimo governo del Regno di Sardegna presieduto da Cavour e nel primo del nuovo Regno d'Italia. Nel 1860 Mamiani approvò i nuovi programmi scolastici, che includevano l'insegnamento della religione tra le materie fondamentali AA.VV., Elementi di legislazione scolastica e ordinamento del ministero della pubblica istruzione, Napoli, Edizioni Simone, 2008. pag.7 e 8 ISBN 978-88-244-7027-8.

▪ 1953 - Ernst Friedrich Ferdinand Zermelo (Berlino, 27 luglio 1871 – Friburgo, 21 maggio 1953) è stato un matematico e filosofo tedesco, reso celebre dai suoi contributi allo sviluppo della teoria assiomatica degli insiemi.
Si diplomò al Luisenstädtisches Gymnasium di Berlino nel 1889. Successivamente studiò matematica, fisica e filosofia alle Università di Berlino, Halle e Friburgo. Concluse il suo dottorato nel 1894 all'università di Berlino con una tesi sul calcolo delle variazioni dal titolo: Untersuchungen zur Variationsrechnung. Zermelo rimase all'università di Berlino dove fu nominato assistente di Max Planck sotto la cui guida cominciò i suoi studi di idrodinamica. Nel 1897 Zermelo si trasferì all'Università di Göttingen, a quel tempo uno dei centri più importanti al mondo per lo studio della matematica, dove nel 1899, completò la sua tesi di abilitazione.
In questo primo periodo di ricerca l'interesse di Zermelo era rivolto allo studio della matematica applicata, ma il suo orientamento sarebbe cambiato in relazione al problema dell'ipotesi del continuo. Nel 1900, alla conferenza di Parigi del Secondo Congresso Internazionale di Matematica, David Hilbert, professore a Göttingen, aveva proposto la sua lista di problemi irrisolti alla cui soluzione i matematici avrebbero dovuto impegnarsi a fondo nel secolo seguente. In testa alla famosa lista vi era la congettura avanzata da Cantor nota come ipotesi del continuo. Hilbert credeva che la chiave per risolvere il problema potesse essere data dalla soluzione di un'altra congettura di Cantor nota come principio del buon ordinamento.
Stimolato da queste prospettive Zermelo cominciò a lavorare a problemi di teoria degli insiemi e nel 1902 pubblicò un suo lavoro sull'addizione dei cardinali transfiniti. Nel 1904 riuscì a compiere il primo passo suggerito da Hilbert circa l'ipotesi del continuo, quando provò il teorema del buon ordinamento utilizzando l'assioma della scelta, assioma da lui enunciato per la prima volta. L'importante risultato gli portò una grande fama e nel 1905 fu nominato professore a Göttingen.
La sua dimostrazione suscitò un grande dibattito nel mondo matematico, dovuto principalmente al carattere non costruttivo dell'assioma della scelta e all'assenza di un'assiomatizzazione della teoria degli insiemi. Per difendere la validità della sua dimostrazione e dello stesso assioma della scelta, Zermelo pubblicò due articoli nel 1908.
Nel primo articolo riportò una nuova dimostrazione più formale del teorema del buon ordinamento, in cui esplicitava gli assiomi utilizzati e presentava una diversa formulazione dell'assioma della scelta al fine di evitare ambiguità. Inoltre, rispondeva direttamente ai critici dell'assioma, mostrando come esso fosse stato utilizzato inconsapevolmente in precedenza da molti matematici, inclusi alcuni dei suoi stessi critici.
Il secondo articolo conteneva invece la prima assiomatizzazione della teoria degli insiemi. I primi tentativi di costruire un sistema di assiomi per la teoria degli insiemi erano nati dall'esigenza di superare i paradossi degli insiemi e Zermelo stesso aveva trovato un paradosso simile al paradosso di Russell senza mai pubblicarlo. Il suo lavoro di assiomatizzazione, tuttavia, fu principalmente una conseguenza della sua volontà di dare salde basi al teorema del buon ordinamento e all'assioma della scelta entro un sistema rigoroso di assiomi.
Il suo sistema, costituito da sette assiomi, verrà successivamente migliorato indipendentemente da Adolf Fraenkel e Thoralf Skolem nel 1922 divenendo il sistema formale comunemente denominato ZF.
Nel 1910 Zermelo lasciò l'Università di Göttingen per la cattedra di matematica all'Università di Zurigo, che però dovette abbandonare per motivi di salute nel 1916.
Nel 1926 ottenne una cattedra onoraria a Friburgo, che lasciò nel 1935 a causa della sua disapprovazione del regime nazista; riottenne nuovamente tale cattedra dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1946.
Gli è stato dedicato un asteroide, 14990 Zermelo.

▪ 1973 - Carlo Emilio Gadda (Milano, 14 novembre 1893 – Roma, 21 maggio 1973) è stato uno scrittore italiano.

I primi anni e gli studi
Primo di tre fratelli, Carlo Emilio Gadda nacque il 14 novembre 1893 da madre ungherese, Adele Leher, in una famiglia medio-borghese a Milano, città dove compì tutti gli studi fino alla laurea. Inizialmente orientato verso le facoltà umanistiche (letteratura), in seguito alla morte del padre, che avvenne nel 1909 e lasciò la famiglia in precarie condizioni economiche, fu costretto a seguire i consigli della madre e ad iscriversi alla facoltà di Ingegneria del Politecnico di Milano rinunciando così agli studi letterari per i quali era portato.

Volontario nella prima guerra mondiale
Da convinto interventista qual era, allo scoppio della prima guerra mondiale partecipò come volontario nella divisione degli alpini, prendendo parte ad alcune azioni sull'Adamello e sulle alture vicentine. Venne fatto prigioniero e deportato a Celle (Hannover, Germania), dove strinse amicizia con Bonaventura Tecchi e Ugo Betti.
Al rientro in Italia, nel 1919, apprese della morte del fratello Enrico in guerra.
Dall'esperienza della guerra, della sconfitta e della prigionia uscirà il Giornale di guerra e di prigionia, pubblicato solamente nel 1955. Scritto come un diario e senza un preciso impianto letterario, l'opera riporta in differenti occasioni alcuni dei temi che diventeranno il fondamento delle opere maggiori di Gadda: il disordine oggettivo del reale, l'affetto dell'autore nei confronti del fratello, l'orrore della guerra, il disprezzo delle gerarchie.

Ingegnere e collaboratore a Solaria
Tornato a Milano, nel 1920 ottenne la laurea in ingegneria elettrotecnica. Come ingegnere lavorò in Sardegna, in Lombardia, in Belgio ed in Argentina. Nel 1924 decise di iscriversi alla facoltà di Filosofia e dedicarsi alla passione a lungo rimandata: la letteratura. Superò tutti gli esami, ma non discusse mai la tesi. Nel 1926 iniziò la sua collaborazione alla rivista fiorentina Solaria, esordendo nel 1927 sulle pagine di critica con il saggio dal titolo Apologia manzoniana.

I primi scritti
Nel 1928-1929 abbozzò un trattato filosofico, la Meditazione milanese (di cui stese una prima versione e iniziò, senza concluderla, una seconda versione), che trattava di una gnoseologia, e nel quale si manifestava il suo interesse per Leibniz, ma anche per Kant e per Spinoza. Nello stesso anno si dedicò al romanzo La meccanica, che tuttavia, rimasto incompiuto, vedrà la luce solamente nel 1970.
Nel 1931 iniziò la sua collaborazione al quotidiano milanese L'ambrosiano, e pubblicò presso le Edizioni di Solaria una raccolta di racconti e prose varie intitolata La Madonna dei filosofi. Con Il castello di Udine, sua seconda raccolta di racconti, che verrà pubblicata tre anni dopo, lo scrittore otterrà il premio Bagutta.
Nel 1936 morì la madre, con la quale Gadda intratteneva un rapporto conflittuale. Fu anche per la morte di Adele Lehr, e in relazione alla scelta di vendere la casa paterna in Brianza, in cui la madre aveva vissuto, che lo scrittore cominciò a stendere i primi abbozzi del romanzo La cognizione del dolore, pubblicato successivamente tra il 1938 e il 1941 sulla rivista Letteratura.

L'abbandono della professione e l'attività letteraria
Nel 1940 lo scrittore, abbandonata ormai definitivamente la professione di ingegnere, si trasferì a Firenze dove visse fino al 1950. Nel 1944 pubblicò l'Adalgisa, una raccolta di racconti di ambiente milanese e nel 1944 Disegni milanesi, un quadro storico-satirico della borghesia milanese nel primo trentennio del Novecento, affiancato da note che danno un rimando saggistico all'opera.

Il lavoro in RAI e la produzione letteraria matura
Nel 1950 Gadda si trasferì a Roma dove lavorò presso la RAI per i servizi di cultura del Terzo programma radiofonico fino al 1955. Sarà di questi anni la produzione letteraria più matura dello scrittore che lo imporranno come una delle grandi personalità letterarie del Novecento. Nel 1952 pubblicò Il primo libro delle favole e nel 1953 Novelle del ducato in fiamme, un'ironica rappresentazione dell'ultimo periodo del fascismo, con il quale ottenne nel 1953 il premio Viareggio.
Nel 1957 venne pubblicato Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, uno sperimentale romanzo giallo ambientato nei primi anni del fascismo che era già apparso in una prima versione nel 1946-1947 sulla rivista Letteratura. Da quest'opera nel 1959 fu tratto il film Un maledetto imbroglio del regista Pietro Germi.
Nel 1963 venne dato alle stampe La cognizione del dolore. L'opera, già apparsa in parte tra il 1938 e 1941 sempre su Letteratura, ottenne il Prix International de la Littérature ed uscì successivamente ai saggi e alle note autobiografiche raccolte nel 1958 con il titolo I viaggi la morte. Sempre nel 1963 uscirono Le meraviglie d'Italia nella loro stesura definitiva, con modifiche sostanziali rispetto alla pubblicazione del 1938.

Gli ultimi anni
Tra le ultime opere, il romanzo-saggio del 1967 Eros e Priapo: da furore a cenere, un violento e grottesco pamphlet sui miti del ventennio fascista che dimostra ancora una volta il rapporto di sostanziale ostilità di Gadda col fascismo; proprio Eros e Priapo è un divertente benché amarissimo scritto contro il regime e Benito Mussolini.
Vennero poi pubblicati il primo romanzo di Gadda, La meccanica, nel 1970, e altri scritti inediti che risalgono ai suoi primi anni di attività letteraria, come Novella seconda del 1971.
Gadda morì il 21 maggio 1973 a Roma. Dopo la sua morte vennero pubblicati Meditazione milanese 1974 e Romanzo italiano di ignoto del Novecento (1983).

Analisi
Nella quinta delle Lezioni Americane Italo Calvino analizza l'opera di Gadda come esempio moderno di «romanzo contemporaneo come enciclopedia» (p.103); secondo Calvino, Gadda «cercò per tutta la vita di rappresentare il mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l'inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento» (pp.103-4). Il critico letterario Guido Almansi ha sostenuto che questa definizione potrebbe applicarsi tanto a Gadda quanto a Thomas Pynchon.

* 1983 - Eric Hoffer (New York, 25 luglio 1902 – San Francisco, 21 maggio 1983) è stato uno scrittore e filosofo statunitense.
Ha scritto dieci libri ed ha ricevuto la Presidential Medal of Freedom nel febbraio 1983 dall'allora presidente degli Stati Uniti d'America Ronald Reagan. Il suo primo libro, Il vero credente, pubblicato nel 1951, fu largamente riconosciuto come un classico, ricevendo critiche positive sia dagli esperti che dai profani. Nel 2001 è stato istituito l'Eric Hoffer Award in suo onore.

Infanzia e giovinezza
Hoffer nacque a New York City nel 1902 da una coppia di immigrati ebrei tedeschi. Prima dei cinque anni era in grado di leggere sia in tedesco che in inglese. Quando aveva cinque anni, la madre cadde dalle scale con lui in braccio. Hoffer divenne cieco per ragioni sconosciute, ma anni più tardi disse che pensava potesse essere dovuto al trauma della caduta. In seguito alla morte di sua madre fu cresciuto da una donna tedesca di nome Martha, che viveva con la famiglia; la sua vista tornò, senza preavviso né apparenti ragioni particolari, quando aveva 15 anni. Temendo di perdere nuovamente la vista, colse l'opportunità per leggere più che poteva e il più a lungo possibile. La vista però rimase, ed Hoffer non abbandonò mai l'abitudine di leggere assiduamente.
Hoffer era un ragazzo quando suo padre, un ebanista, morì. Il sindacato degli ebanisti pagò le spese del funerale e diede ad Hoffer poco più di trecento dollari. Nel 1920 prese l'autobus e viaggiò fino a Los Angeles, pensando che la calda cittadina fosse il posto migliore per un ragazzo povero.
Trascorse i dieci anni successivi nella periferia della città, leggendo, scrivendo e lavorando saltuariamente. In uno di questi lavori temporanei – la vendita di arance porta a porta – scoprì che aveva un'abilità particolare per vendere, e che poteva arricchirsi facilmente. Messo a disagio da questa scoperta, abbandonò il lavoro dopo un solo giorno.
Nel 1931 tentò il suicidio cercando di bere dell'acido ossalico, ma il tentativo fallì in quanto non riuscì a costringersi ad ingollare il veleno.
Quest'esperienza gli conferì la determinazione di vivere avventurosamente: lasciò la periferia e divenne un lavoratore migrante. Seguendo i raccolti lungo tutta la California, si procurò le tessere delle biblioteche di tutte i paesi vicini ai campi dove lavorava, e vivendo «tra i libri ed i bordelli». Un evento chiave per Hoffer avvenne tra le montagne dove si trovava in cerca d'oro; costretto al chiuso dalla neve, lesse i saggi di Michel de Montaigne. Tale libro affascinò profondamente Hoffer, che si riferiva spesso all'importanza di esso per lui; sviluppò inoltre un grande rispetto per la classe meno agiata, che, affermò, era «impregnata di talento».

Scaricatore di porto
Hoffer arrivò a San Francisco nel 1941. Qui cercò di arruolarsi nell'esercito nel 1942 ma fu scartato a causa di un'ernia. Desideroso di contribuire comunque allo sforzo bellico, trovò un impiego come scaricatore di porto all'Embarcadero. Fu lì che si sentì a casa e decise di stabilirsi, continuando a leggere intensamente e presto iniziando a scrivere, guadagnandosi da vivere caricando e scaricando navi; questo lavoro andò avanti fino al suo pensionamento all'età di sessantacinque anni.
Hoffer considerava Il vero credente, spiegazione del fanatismo e dei movimenti di massa, il suo miglior scritto, ma anche The Ordeal of Change rientrava tra i suoi preferiti. Nel 1970 fu istituito il Lili Fabilli and Eric Hoffer Laconic Essay Prize assegnato a studenti, professori e membri della Berkeley.
Hoffer era un individuo carismatico ed un oratore persuasivo, ma sostenne che la gente non gli interessava. Nonostante fosse l'autore di dieci libri e tenesse una rubrica su un giornale, in pensione continuò la sua vita scrivendo da solo nel suo appartamento di San Francisco. Fumatore incallito, negli ultimi anni di vita soffrì di enfisema.

Pensiero - Le umili origini e gli "intellettuali"
Hoffer attinse sicurezza ed ispirazione dalle sue umili origini e dai lavoratori che lo circondavano, vedendovi un enorme potenziale a livello umano. In una lettera a Margaret Anderson datata 1941, scrisse:
«Scrivo sulla ferrovia aspettando il carico,
nei campi aspettando l'autocarro, e a mezzogiorno dopo il pranzo.
I paesi distraggono troppo.»

Traeva inoltre conforto dall'essere un emarginato, poiché credeva che gli emarginati fossero sempre stati dei pioneri nella società. Non si considerava un intellettuale, ed anzi disprezzava il termine, sostenendo che descrivesse le accademie antiamericane dell'occidente. Credeva nel potere accademico, ma nei paesi democratici occidentali gli era negato (ma non nei paesi a regime totalitario, che Hoffer riteneva però un mero sogno intellettuale). Credeva anzi che le accademie mordessero la mano che gli porgeva il cibo, accecate dalla ricerca di potere ed influenza.
Sebbene Hoffer non si identificasse con gli "intellettuali liberal" e criticasse spesso l'ideologia radicale di molti attivisti della New Left, sarebbe sbagliato classificare il pensiero dell'autore come "conservatore". Analogamente, sebbene i suoi scritti fossero spesso graditi alle filosofie centriste di liberali come Arthur Schlesinger Jr., le sue idee non erano riconducibili neanche al pensiero "liberal". Piuttosto, il suo approccio all'analisi e alla comprensione dei movimenti di massa e delle loro ideologie portò spesso Hoffer a posizioni fortemente non ideologiche. Come egli stesso affermò, «i miei scritti nascono dalla mia vita come un ramo da un albero». Quando veniva chiamato intellettuale, insisteva nel dichiararsi uno scaricatore di porto, diventando così noto come il "filosofo scaricatore di porto" (in inglese "longshoreman philosopher").

Sulla natura e le origini dei movimenti di massa
Hoffer fu tra i primi a riconoscere l'importanza fondamentale dell'autostima per il benessere psicologico. Mentre gli scrittori più recenti si concentrano sui benefici dell'autostima in senso positivo, Hoffer pose l'attenzione sulle conseguenze della mancanza di essa. Preoccupato dall'ascesa di regimi totalitari come quelli di Adolf Hitler e Josef Stalin, cercò di trovare le radici di questi "manicomi" nella psicologia umana. Postulò dunque che il fanatismo affonda le sue radici nell'odio di sé stessi e nell'insicurezza. Come descrive ne Il vero credente, un'appassionata ossessione per il mondo esterno o per le vite private delle altre persone è semplicemente un disperato tentativo di compensare la mancanza di significato della propria vita.
I movimenti di massa analizzati ne Il vero credente includono movimenti religiosi e politici, con un'ampia parte dedicata ad Islam e Cristianesimo, ed anche movimenti apparentemente positivi, che non appartengono né alla sfera politica né a quella religiosa.
Un principio che sta al centro del libro è la visione di intercambiabilità dei movimenti che ha Hoffer: nota infatti fanatici nazisti che diventano fanatici comunisti, fanatici comunisti che diventano fanatici anticomunisti e Saul, persecutore dei cristiani, che diventa Paolo di Tarso, fanatico cristiano.
Per il vero credente la sostanza dei movimenti di massa non è importante, fintantoché egli ne fa parte. Hoffer inoltre indica come sia possibile fermare un movimento non desiderato sostituendolo con uno positivo, che avrebbe dato a coloro predisposti ad unirsi ai movimenti uno sfogo per le loro insicurezze.
L'opera di Hoffer era originale, aprendo un nuovo territorio del tutto inesplorato dalla maggior parte del pensiero del suo tempo. In particolare, l'opera dell'autore era completamente non freudiana, in un periodo in cui quasi tutta la psicologia americana si riferiva al modello dello psicologo austriaco.

Altri scritti
Gli approfondimenti di Hoffer sulle conseguenze della mancanza di autostima permearono anche i suoi successivi scritti. Il libro del 1963 The Ordeal of Change tratta di cambiamento e modernizzazione della società; First Things, Last Things del 1971 è una raccolta di saggi pubblicati in un periodo in cui i giovani della classe media americana si stavano sempre più interessando ai movimenti di massa, fossero essi politici, religiosi o subculturali, in coincidenza con un rapido incremento del crimine giovanile. In questi ed in altri libri, Hoffer continuò a sviluppare i suoi approfondimenti.
Secondo la visione dello scrittore, un rapido cambiamento non è positivo per una società, ed una rapidità eccessiva nel mutamento poteva causare una regressione nella maturità di coloro che erano cresciuti in una società diversa da quella in cui si era trasformata.
Notò inoltre che nell'America degli anni sessanta molti giovani adulti vivevano ancora in una sorta di estensione dell'adolescenza. Cercando di spiegare l'attrazione verso i movimenti di protesta della New Left, li caratterizzò come risultato di un'agiatezza largamente diffusa, che «sta derubando la società moderna di qualsiasi cosa sia rimasta della pubertà per far sì che il raggiungimento dell'età adulta diventi una routine». Secondo la sua visione, questi riti puberali sono esseziali per l'autostima, e i movimenti di massa e la mentalità giovanile tendono a convergere sul punto che chiunque, a qualsiasi età, si unisca ad un movimento, inizia immediatamente ad esibire un comportamento giovanile. Inoltre evidenzia come la ragione per cui gli americani appartenenti alle classi lavoratrici non si univano ai movimenti degli anni '60 era che l'approdo al lavoro era effettivamente un rito di passaggio dall'adolescenza all'età adulta, mentre il disagiato ed il ricco erano «impossibilitati ad avere una parte nel mondo del lavoro e a provare la loro maturità lavorando e ricevendo una paga da uomini» e rimanendo quindi in questo stato estensivo dell'adolescenza, privi della necessaria autostima e dunque inclini ad aderire a movimenti di massa come forma di compensazione. Hoffer suggeriva inoltre che questo bisogno di lavoro come rito di passaggio avrebbe potuto essere soddisfatto attraverso un programma nazionale di due anni di servizio civile (non dissimile da quelli attuati durante la crisi del '29) nel quale ogni giovane adulto avrebbe lavorato a lavori a costruzioni e in altri campi, sostenendo che «la routinizzazione del passaggio da giovinezza a maturità contribuirebbe alla soluzione di molti dei nostri problemi più immediati. Non posso pensare ad altro modo per mutare un così alto numero di problemi in altrettante opportunità di crescita.».

Scritti non pubblicati
I documenti di Hoffer, tra cui 131 taccuini che portava con sé, furono acquistati dalla Hoover Instituion nel 2000. Tali documenti occupano circa 20 metri di spazio negli archivi; vista la natura aforistica dello stile di Hoffer, questi scritti, prodotti dal 1949 al 1977, contengono una parte significativa del lavoro dello scrittore. Una selezione di cinquanta di questi aforismi, riguardanti principalmente lo sviluppo di talenti inutilizzati attraverso il processo creativo sono stati pubblicati nel numero di Harper's Magazine del luglio 2005.[5]

Bibliografia
▪ Il Vero Credente - Riflessioni sulla Natura dei Movimenti di Massa (The True Believer: Thoughts On The Nature Of Mass Movements) (1951) ISBN 0-06-050591-5
▪ The Passionate State Of Mind, and Other Aphorisms (1955) ISBN 1-933435-09-7
▪ The Ordeal Of Change (1963) ISBN 1-933435-10-0
▪ The Temper Of Our Time (1967)
▪ Working And Thinking on The Waterfront; a journal, June 1958-May 1959 (1969)
▪ First Things, Last Things (1971)
▪ Reflections on the Human Condition (1973) ISBN 1-933435-14-3
▪ In Our Time (1976)
▪ Before the Sabbath (1979)
▪ Between the devil and the dragon : the best essays and aphorisms of Eric Hoffer (1982) ISBN 0-06-014984-1
▪ Truth Imagined ISBN 1-933435-01-1 (1983)
Libri su Hoffer [modifica]
▪ Eric Hoffer; an American Odyssey Tomkins, Calvin, New York, E.P. Dutton & Co., 1968 ISBN 0-8057-7359-2
▪ Hoffer's America, Koerner, James D., La Salle, Ill., Library Press, 1973 ISBN 0-912050-45-4
Eric Hoffer, Baker, James Thomas. Boston : Twayne, 1982 ISBN 0-8057-7359-2

▪ 1988 - Dino Grandi conte di Mordano (Mordano, 4 giugno 1895 – Bologna, 21 maggio 1988) è stato un politico e diplomatico italiano, ministro degli Affari Esteri, Ministro Guardasigilli e ambasciatore a Londra.
Nato da una famiglia di proprietari terrieri romagnoli, si iscrisse nel 1913 alla facoltà di giurisprudenza dell'Università di Bologna, ebbe una collaborazione giornalistica con il Resto del Carlino, ma si laureò con una tesi in economia politica solo nel 1919, a guerra finita, pur restando sotto le armi; congedato, si trasferì quasi subito ad Imola dove iniziò la sua carriera di avvocato.

Le origini politiche
Personaggio di acuta intelligenza, iniziò il suo percorso politico nelle file della sinistra, prima di seguire, nel 1914, Benito Mussolini.
In questo periodo, insieme al futuro capo del fascismo, fu acceso «interventista», sostenitore cioè della tesi che l'unico modo per l'Italia per acquistare importanza politica internazionale fosse quello di partecipare attivamente alla prima guerra mondiale. Nella polemica politica si inserì con grande ardore e violenza dialettica; il 17 ottobre 1920 fu ferito in un agguato da cinque colpi di pistola, mentre due giorni dopo il suo studio fu completamente devastato da militanti della sinistra.
Fu in seguito fra i fondatori dei fasci emiliani, dei quali divenne segretario regionale nel 1921. In questo particolare ambito, là dove il successo del fascismo passava necessariamente attraverso le maniere «sanguigne» del locale squadrismo rustico e ruspante, si sviluppò la sua vicinanza alle ali più animose e di fatto più discutibili del movimento. Nella sua lunga carriera di fascista gli squadristi lo accompagnarono sempre, garantendogli una base di supporto importante per molti aspetti, anche se con sempre minore evidenza quando la sua figura venne raffinandosi e ingentilendosi col crescente prestigio delle cariche che avrebbe assunto.
Nelle elezioni politiche del 15 maggio 1921, Grandi fu eletto deputato, ma un anno dopo, a conclusione di un lungo dibattito parlamentare, la sua elezione insieme a quelle di Bottai e Farinacci, sarebbe stata annullata perché al momento del voto non avevano ancora l'età necessaria. Dopo neppure due settimane dalle votazioni, comunque, aveva diretto un assalto fascista contro il circolo Andrea Costa di Imola, dove il successivo 17 giugno una squadra di 500 fascisti avrebbe occupato il palazzo comunale, issando il tricolore sulla torre dell'orologio. Questi episodi tennero Imola sotto assedio per un lungo periodo.

La leadership nel movimento fascista
Mussolini, che era mosso anche dalla necessità di consolidare la sua leadership nei rapporti con le altre forze politiche, tentò di elaborare per poi proporre un patto di pacificazione fra i gruppi fascisti e quelli di sinistra, ma non ci riuscì vista l'avversa volontà di entrambe le parti. Frattanto si diffuse il sospetto che Grandi, emergente con sempre maggior piglio fra i notabili del partito e contrario con nitida decisione al patto, potesse ambire a sostituire il maestro di Predappio: insieme a Balbo, aveva esperito in segreto (ma non troppo) un tentativo, forse non così ingenuo come allora parve, per convincere Gabriele D'Annunzio a prendere il posto di Mussolini.
Il poeta-soldato evitò addirittura di entrare nel merito della proposta, rifiutando il contatto, ma Grandi si era ormai posto, pur relativamente giovane qual era, come un candidato alternativo alla guida del movimento. Per superare l'insidia, Mussolini dovette rischiosamente presentare le dimissioni della sua giunta esecutiva, ammonendo che sarebbe tornato a ruoli più modesti di «portatore d'acqua»; come aveva correttamente preveduto, ed ovviamente sperato, le dimissioni non furono accettate per mancanza di validi potenziali sostituti. Lo spettro politico di Grandi che si aggirava intorno ai votanti, pur ben presente seppur mai nominato, non aveva convinto.
Fu quindi Grandi, l'unico reale antagonista del Duce all'interno del movimento, l'unico ad aver mai posto davvero in discussione - e con qualche chance - il capo, ad accettare il ruolo di gregario e nel congresso del 7 novembre 1921 a Roma manifestò l'avvenuta sua sottomissione con un palese quanto melodrammatico «fraterno abbraccio», concessioni barattate con la cancellazione del patto coi socialisti dall'agenda fascista. Mussolini aveva definitivamente sconfitto, con Grandi, tutte le opposizioni interne, sebbene non senza costo.
Il giovane bolognese aveva, come detto, assunto un ruolo di una certa autorevolezza presso gli squadristi ed in questa occasione si diede merito presso di loro di averne ottenuta l'ammissione in seno al partito, in guisa di truppa civile organizzata in forma militare. Questo «sdoganamento» (come forse lo si chiamerebbe oggidì) gli consentì comunque di mettere le mani su un elettorato contiguo a quello dello stesso Mussolini il quale, nativo di Romagna, avrebbe ovviamente preferito rappresentare più direttamente i suoi conterranei, ma dovette volgersi invece all'elettorato milanese. Grandi restò il riferimento degli squadristi e dei fascisti di quella elettoralmente assai cruciale regione.
Nell'estate dello stesso 1921, Grandi guidò la rivolta dello squadrismo agrario contro la dirigenza dei Fasci; nel luglio del 1922 diresse 2.000 fascisti all'occupazione di Ravenna.

Un fascista diplomatico
Pur avendo dunque stabilito rapporti profondi con lo squadrismo, manovra che però era in assoluto anche un modo astuto di accrescere il peso e le dimensioni della sua corrente politica in poco tempo e con minimo dispendio di energie e di filosofia, Grandi sarebbe poi diventato uno dei «moderati» fra i gerarchi più importanti del regime, in compagnia di Bottai, Balbo e Federzoni, mentre Starace, Farinacci e De Bono, gli altri componenti di questo non ufficiale direttorio del fascismo, di questo «quadrumvirato allargato», avrebbero invece preso direzioni più estremiste, sino al folklore, sebbene questi posizionamenti fossero più di facciata che non di contenuto.
Fu sottosegretario all'Interno ed agli Esteri dal 1924 al 1929, ministro degli Esteri dal 1929 al 1932 quando lasciò il suo incarico a capo del Ministero per andare nel mese di luglio a Londra, ove rimase come ambasciatore fino al 1939; fu infine ministro della Giustizia e dal 1942 presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni. Si deve al guardasigilli Grandi l'ultimazione della codificazione, con l'entrata in vigore nel 1942 del codice civile e di quello di procedura civile e del codice della navigazione, nonché della legge fallimentare, dell'ordinamento giudiziario e di altre norme speciali. Seguì in prima persona le fasi finali della codificazione, avvalendosi di giuristi di altissimo livello, molti dei quali (come Piero Calamandrei e Francesco Messineo) notoriamente antifascisti.
Dal 1929, anno dei Patti Lateranensi, terminata la sua fase di apprendistato governativo da sottosegretario, si occupò di rappresentare l'Italia presso le altre nazioni, e fu forse questa l'attività in cui riuscì ad esprimere le sue doti migliori. La Farnesina era allora un organismo ancora ottocentesco, liberale (nel senso culturale del termine), e Grandi vi entrò per applicarvi, burocraticamente, i nuovi stili ed i nuovi concetti della Rivoluzione fascista, in primis dando l'opportunità a chiunque fosse laureato in giurisprudenza, scienze politiche o economia e commercio di partecipare al concorso per l'accesso alla carriera diplomatica, opportunità questa fino ad allora riservata ai rampolli della nobiltà.
Grandi si sarebbe presto trovato dinanzi alla necessità di stabilire buoni rapporti con le potenze straniere, in vista di una crisi economica che avrebbe avvinto l'intero globo e certo anche l'Italia, e l'opportunità di poter contare su nuove leve di giovani di talento, e cresciuti lontano dagli ambienti nobiliari, gli diede modo di rinnovare la classe diplomatica italiana dalle fondamenta.
L'impostazione che Grandi diede alle relazioni internazionali fu, forse senza destare sorpresa né rammarico, assai differente da quella prevista da Mussolini: se il Duce, nonostante grandi capacità di mediazione, vi si affacciava con aggressività, il suo ministro si incamminò su una strada di saggia e delicata prudenza. Mentre il capo del Governo pensava a come poter trarre eventualmente vantaggi competitivi dalla crisi, Grandi si fece convinto (e convinse forse anche altri) che la crisi avrebbe potuto creare positivi vincoli di collaborazione fra i grandi stati europei e che il farsene promotore avrebbe accresciuto il prestigio italiano sino all'ammissione dell'Italia nel novero delle potenze, obiettivo comunque perseguito dal fascismo di tutte le correnti e sempre più facile da raggiungere man mano che la crisi riduceva i disvalori economici fra gli stati.
I suoi tre anni da ministro furono di estrema intensità politica e diplomatica. Riuscì in così breve tempo a dare all'apparato un'organizzazione omogenea con quella degli altri apparati dello stato, compiendovi la richiesta «fascistizzazione». Operò in sostegno degli italiani all'estero, rassicurando gli emigrati (che, se pur indirettamente, potevano rafforzare il consenso presso i parenti rimasti in Patria) e li dotò di una rete di strutture consolari che tuttora è quella da lui ideata. Si adoperò anche per l'esenzione dall'obbligo di leva per i figli dei lavoratori emigrati, mettendo fine agli episodi che vedevano molti giovani italiani cresciuti all'estero venire arrestati per renitenza non appena sbarcati in patria ed obbligati a scontare lunghe pene detentive a cui erano stati condannati in contumacia da tribunali militari, e delle quali erano totalmente ignari.
Nei rapporti con le altre nazioni, Grandi "infilò" l'Italia dovunque gli riuscisse possibile, in tutti gli organismi anche inutili dai quali già sapesse che non sarebbe stata rifiutata, inserendosi in tutte le discussioni più importanti sui problemi internazionali. L'Italia stava conoscendo una popolarità estera che forse non ebbe più a ripetersi.
Fu a questo punto che l'efficace attivismo del ministro richiamò l'attenzione di Mussolini, il quale ancora una volta temette che Grandi avrebbe potuto guadagnare più prestigio di lui e «scippargli» il ruolo di interlocutore nazionale esterno. L'occasione fu data dalle concessioni dialettiche che il ministro cominciava ad avallare informalmente in tema di disarmo; sebbene al tempo le fabbriche d'armi e dunque la capacità di armamento costituissero uno dei primati italiani, e sebbene tutta la non esigua tecnologia industriale civile fosse accompagnata da una non occulta analoga produzione militare, tali che l'Italia poteva considerare eventuali concessioni come nei fatti niente affatto significative, Mussolini non amava parlare della sicurezza patria con altri. Accusando Grandi di essere andato a letto con l'Inghilterra e con la Francia, lo rimosse dall'incarico, nominandolo ambasciatore a Londra; non un «promoveatur», ma certo in tutto un «amoveatur».
La politica estera italiana, ripresa in mano dal Duce che assunse personalmente anche quel dicastero (la procedura di revoca fu eseguita tutta a bordo di un vile bigliettino che diceva fra l'altro: «Domattina alle otto verrò a prendere le consegne») vide la conclusione del revisionismo pacifico ed il definitivo distacco dalle tradizioni della diplomazia. A Londra Grandi avrebbe potuto meditare con calma sul contrasto fra la sua linea metodica e prudente, condivisa con Bottai, e la linea drastica del capo del regime.
Come ambasciatore a Londra, Grandi si fece apprezzare anche dai politici britannici. Ne conobbe molti e con molti fu in rapporti di viva cordialità. Seguì da vicino le fasi di avvicinamento di Churchill all'Italia, cercando di incoraggiare la diplomazia inglese nella stessa direzione. Tuttavia le convergenze fra i regimi totalitari erano più forti e così, alla fine, i suoi progetti di favorire un patto fra Roma e Londra si rivelarono velleitari, quando Mussolini decise di legare il suo destino a quello della Germania di Hitler.

Uno strano fascista
Nella vita di partito Grandi seppe far fruttare le posizioni raggiunte all'epoca dello scontro con Mussolini, ma pian piano ebbe a crearsi numerosi detrattori fra quei gerarchi dei quali non condivideva la rozzezza o la stupidità.
L'elevato livello delle sue relazioni internazionali, con cui il solo Ciano poteva rivaleggiare (ma non sempre per meriti), lo condusse ad assumere un distacco quasi anglosassone e certamente snob verso la popolaresca classe politica italiana. Il suo non malevolo disprezzo, ad esempio, verso Achille Starace, il segretario nazionale autore delle campagne di immagine più goffe e più irritanti (come quella sulla italianizzazione dei cognomi), del quale diceva che non fosse in fondo cattivo, ma che era «un pover'uomo», lo mise una volta di più in contrasto col Duce che, a sua volta, per difenderlo e per difendere la sua scelta, epigraficamente definì il poveretto come «un cretino, sì, ma obbediente».
Il contrasto con Starace, di modi, di concetti e di stili, oltre che la differenza di capacità e di potenzialità di pensiero, simbolizza vividamente la distanza di Grandi dal mondo in orbace. Egli stesso ebbe a dire di sé, parlando con Ciano nel 1942: «Non so come ho fatto a contrabbandarmi per fascista durante vent'anni». E del suo rapporto col Duce, e della sua supposta insubordinazione, scrisse note nelle quali, con artifici della retorica, giunse a spiegare che la fedeltà non è sinonimo di obbedienza, a giustificare le sue originali prese di posizione politiche.
Amante delle vie tortuose (così ne disse Bottai), si guadagnò la fiducia di Casa Savoia e in particolare di Vittorio Emanuele III. Fu fatto conte di Mordano e in seguito ebbe il Collare dell'Annunziata, con la conseguenza di diventare «cugino del Re». Degustatore capace della vita comoda, fu scosso dal repentino ordine di Mussolini che nel 1941 lo spedì a combattere sul fronte greco.

Il ruolo di Grandi nell'esautorazione di Mussolini
La preparazione

Grandi fu l'estensore del noto ordine del giorno che il 25 luglio 1943 provocò la caduta di Mussolini. Fu decisivo infatti, il suo voto e fu essenziale la sua opera di persuasione nei confronti degli altri membri del Gran Consiglio del Fascismo.
Da tempo, insieme a Giuseppe Bottai e Galeazzo Ciano, Grandi riteneva che una via d'uscita per evitare la disfatta militare dell'Italia avrebbe potuto sortire soltanto dalla sostituzione (ovvero dalla deposizione) del Duce, che nella parossistica identificazione personale con il Regime (Fascismo = Mussolini, e viceversa) aveva condotto, a loro vedere, l'idea fascista originaria ad essere condizionata e compromessa dai suoi errori. In sostanza, gli sbagli di Mussolini avevano posto in pregiudizio la sopravvivenza stessa del fascismo, e se non si trovava una soluzione, entrambi sarebbero destinati a perire. Conveniva piuttosto sacrificare il capo, e con esso tutto il regime, pur di consentire potenziali aperture per una successiva eventuale riformulazione, che non attendere gli eventi, che avrebbero portato probabilmente al disfacimento del regime.
Le posizioni di Grandi, di Ciano e di Bottai, comunque, erano lievemente differenti.
▪ Grandi aveva scritto nei suoi diari, un paio di mesi prima del 25 luglio: « Siamo noi che, indipendentemente dal nemico, dobbiamo dimostrarci capaci di riconquistare le nostre perdute libertà. ... Mussolini, la dittatura, il fascismo, debbono sacrificarsi, ... debbono "suicidarsi" dimostrando con questo loro sacrificio il loro amore per la Nazione...»
▪ Se Grandi considerava ormai finita l'esperienza fascista e riteneva quasi un «dovere fascista» il suicidio politico, Bottai attribuiva al Duce la responsabilità unica delle deviazioni e confidava che il fascismo (o forse l'altamente ideale concezione che ne nutriva) potesse presto risplendere di luce nuova appena caduto il suo discusso capo;
▪ Ciano, invece, pragmaticamente vedeva davanti a sé una soluzione «all'italiana»: Mussolini, disse al suo interlocutore, «se ne andrà e noi in qualche modo ci aggiusteremo». E previde anche le prossime attribuzioni di alcuni ministeri. E, per rendere un servigio più completo, già che c'era gli previde anche i rimpasti («poi ci si scambierà i posti»).
Di Grandi, in verità, si è anche ipotizzato che l'eterno antagonismo col Duce, risultato di un lento strisciante rancore che aveva accompagnato le loro carriere sin dal 1914, fosse giunto a suscitargli un cupio dissolvi che nella raggiunta freddezza di modi avesse comunque preservato tutto intatto il furore della vendetta e tutta aperta l'ambizione alla vittoria finale sull'avversario. Ma lo spessore dell'uomo e la sua esperienza internazionale fanno credere invece che le note reperite sui suoi diari siano espressione di una sincera convinzione politica e morale, la cui distanza dalle visioni ed esperienze mussoliniane ben potevano essere cagione del loro antagonismo.
Elemento scatenante avrebbe potuto essere il generale rimpasto delle più alte cariche dello stato voluto da Mussolini nella prima parte del 1943. D'altro canto, il vorticoso giro di rapporti fra monsignor Montini ed il Re (anche per il tramite dell'ingenua nuora Maria Josè), Galeazzo Ciano e gli anglo-americani, ha sempre lasciato il sospetto che il Vaticano abbia avuto un ruolo più vasto di quello dello spettatore terzo. Ciano, genero del Duce e cugino del Re (per averne ricevuto il Collare dell'Annunziata), buon amico di Montini, era con Bottai e Grandi il terzo e più inatteso promotore della mozione di sfiducia.

Il piano
Il piano scattò nella seconda parte dell'anno, ma venne pensato poco dopo il rimpasto. L'azione fu certamente concordata con Vittorio Emanuele III. La data dei diari di Grandi (maggio) delinea un tempo di maturazione della decisione non irrilevante che, date le sue relazioni, avrebbe potuto consentire una lunga elaborazione, certo non sgradita alla poco scattante tradizione sabauda. Grandi espose il suo piano al Re il 4 giugno, in occasione di un'udienza privata. Grandi ricorda: « Vittorio Emanuele prese atto della mia richiesta e, conoscendo l'impossibilità di convocare le Camere, per la prima volta accennò al Gran Consiglio come possibile "surrogato".»
Il piano comprendeva anche l'arresto immediato di Mussolini, che sarebbe stato condotto in un luogo sicuro, protetto da Carabinieri e Polizia, dopo di che, senza alcun commento, il nuovo governo avrebbe dato notizia delle sue dimissioni. Il Re avrebbe sostenuto Grandi nel suo tentativo e l'avrebbe incoraggiato lasciandogli credere che il governo sarebbe stato affidato allo stimato generale Caviglia (invece a metà luglio il re deciderà di affidare l'incarico al Maresciallo Pietro Badoglio, gradito nelle alte sfere militari e appartenente alla massoneria).
Grandi, uscendo dal colloquio col re, pensò già a cosa fare dopo l'esautorazione di Mussolini: « […] bisognava separarsi dalla Germania, scendere a combatterla senza indugio prima che l'inevitabile vendetta potesse prendere sostanza e, nello stesso tempo prendere i contatti con gli anglo-americani chiedendo loro di rinunciare [ad imporre] la resa incondizionata, in quanto l'Italia già aveva rivolto le armi contro il nemico comune»
Grandi fece ritorno a Bologna, dove rimase per oltre un mese e mezzo (nonostante fosse presidente della Camera), mantenendo il segreto sul colloquio con il re e attendendo l'evolversi della situazione. Il 15 luglio gli giunse la notizia che gli anglo-americani avevano preso Augusta e Siracusa. Il 18 venne a sapere che il 16 i gerarchi avevano chiesto a Mussolini l'urgente convocazione del Gran Consiglio.
Il 19 luglio partì per Roma; lo stesso giorno Mussolini aveva un colloquio, inconcludente, con Hitler nei pressi di Feltre (BL). Il 21 Grandi si recò nella sede del partito; qui venne a sapere che Mussolini, dopo essere tornato da Feltre, aveva accolto la richiesta di convocazione del G.C. ed aveva fissato la data per il 25 luglio. Nei tre giorni che rimanevano, Grandi iniziò a contattare i membri dell'assise e chiese il loro appoggio all'O.d.G. che intendeva presentare. Ad ogni buon conto, forse anche per levarsi una soddisfazione, la mattina del 23 Grandi informò Mussolini del suo ordine del giorno e di cosa avrebbe detto. Il Duce, gli negò metà della soddisfazione, ascoltando senza batter ciglio.
« Dissi a Mussolini tutto […] gli anticipai quello che avrei detto e fatto in G.C., lo scongiurai di deporre spontaneamente nelle mani del Re tutti i poteri civili e militari come unica alternativa possibile per una soluzione della guerra e per il ripristino integrale della Costituzione.[…] Mi attendevo una reazione violenta da parte di Mussolini. Questa non venne. Egli non mi aveva interrotto, aveva continuato a guardarmi fisso e cupo giocherellando nervosamente con la matita. Dopo di che il Duce, dopo aver respinto le mie richieste mi congedò con un arrivederci a posdomani in G.C. […] Uscii triste da Palazzo Venezia. Non restava che andare diritti in fondo »
I gerarchi contattati gli espressero il loro appoggio. Però Grandi riuscì a parlare solo con la metà dei componenti del G.C. Tutto quindi sarebbe dipeso dall'esito della discussione a Palazzo Venezia.

Dopo il 25 luglio
Per la mozione del 25 luglio, Grandi fu condannato a morte in contumacia al Processo di Verona, che si tenne nel territorio della Repubblica Sociale Italiana. Grandi, tuttavia, avendo presagito quanto stava per accadere già immediatamente dopo la caduta di Mussolini, riparò in Spagna già nell'agosto del 1943.
Nello stesso anno si trasferì in Portogallo, ove visse sino al 1948. Negli anni cinquanta fu un informatore assiduo delle autorità americane, in particolare dell'ambasciatrice a Roma, Clare Boothe Luce. Grandi servì spesso da intermediario in operazioni politiche ed industriali tra Italia e Stati Uniti. Si trasferì quindi in America Latina, ove visse soprattutto in Brasile, da dove rimpatriò negli anni sessanta per aprire una fattoria modello nella campagna di Modena.
Morì a Bologna nel 1988 all'età di 93 anni.

* 1988 - Nettuno Pino Romualdi (detto Pino) (Predappio, 24 luglio 1913 – Roma, 21 maggio 1988) è stato un politico e giornalista italiano. È stato vicesegretario del Partito fascista repubblicano e tra i fondatori del Movimento sociale italiano, di cui è stato eletto presidente. Deputato nazionale e deputato europeo.

Gli anni della gioventù
Nato in una famiglia di Predappio, una persistente leggenda lo ha ritenuto per anni figlio naturale di Benito Mussolini. Romualdi combatte nella Guerra d'Etiopia e proprio in Africa Orientale Italiana nel 1939, ha il suo primo incarico politico di rilievo, come vicesegretario del P.N.F. a Gimma, in Etiopia. Giornalista professionista, nel 1940 è chiamato a dirigere il periodico forlivese Il Popolo di Romagna, ma poco dopo, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, si arruola volontario e viene inviato sul fronte greco - albanese. Combatte in Albania e a Corfù.

L'impegno nella RSI
L'8 settembre 1943 si trova a Venezia e aderisce alla Repubblica sociale italiana, diventando funzionario del Partito fascista repubblicano a Forlì. È delegato al Congresso di Verona nel novembre del 1943. Nello stesso periodo dirige La Gazzetta di Parma. Segretario federale del partito nella stessa Parma dall'aprile all'ottobre del 1944, è infine vice-segretario nazionale. All' incarico di vicesegretario affianca quello di responsabile amministrativo dei Fasci all'estero e oltremare. Per conto del governo della Repubblica sociale italiana nell'aprile del 1945 tratta la resa con le truppe anglo-americane.

Il dopoguerra e l'attività nel MSI
Al termine del conflitto viene processato e condannato a morte. Pare che nel 1946, ancora latitante, Romualdi abbia trattato segretamente con Palmiro Togliatti, Ministro di Grazia e Giustizia, garantendogli un massiccio afflusso di voti neofascisti verso la Repubblica al referendum del 2 giugno, in cambio di un'amnistia la più ampia possibile. Che sia la verità o un'altra sorprendente leggenda, sta di fatto che l'amnistia promulgata nel 1946 dal leader comunista cancella per chiunque qualsiasi imputazione connessa con le responsabilità avute nel regime fascista o nel periodo bellico, tranne che per i crimini di guerra. Prima dell'amnistia viene comunque arrestato e rimane in prigione per otto mesi.
Nel dicembre del 1946 Romualdi è tra i fondatori del Movimento sociale italiano. Nel 1948 è il primo presidente del Centro Nazionale Sportivo Fiamma. Viene eletto alla Camera nelle liste del partito dagli anni cinquanta in poi. Nel 1970 appoggia la politica del segretario Almirante che punta alla fusione con il Partito Democratico Italiano di Unità Monarchica e a una politica di allargamento verso il centro parlamentare dando vita al Movimento sociale italiano - Destra nazionale. E proprio Destra Nazionale è il nome della prima corrente che nel partito fa capo a Romualdi, di cui fanno parte tra gli altri Franco Petronio e Guido Lo Porto.
Negli anni ottanta, Romualdi è anche parlamentare europeo e, soprattutto dopo la scissione promossa nel 1976 dai parlamentari che danno vita a Democrazia Nazionale, si consolida nel partito la 'diarchia' Almirante - Romualdi, col primo nel ruolo di segretario e leader carismatico e il secondo nel ruolo istituzionale di presidente del partito.
Nel 1984, a sorpresa, i due si recano a rendere omaggio alla salma di Enrico Berlinguer, il segretario comunista prematuramente scomparso a Padova.
Romualdi muore nel 1988, un giorno prima di Giorgio Almirante. Alla camera ardente arrivano anche i comunisti: Nilde Iotti, presidente della Camera, e Giancarlo Pajetta, leader storico del Partito Comunista Italiano. Per Giorgio Almirante e Pino Romualdi si svolgono esequie comuni a Roma, in piazza Navona.
È il padre di Adriano Romualdi, teorico e studioso della cultura di destra.
La sua salma riposa nel cimitero di Predappio, vicino alla cripta di Benito Mussolini.

Le memorie
Le memorie che Romualdi ha scritto in clandestinità a Roma tra l'inverno 1945 e la primavera 1946, sono state pubblicate postume dopo quasi mezzo secolo dalla loro redazione, con il titolo Fascismo Repubblicano. Offrono una visione dall'interno del mondo composito che ruotava attorno al PFR, degli uomini e delle idee che animarono la classe dirigente della Repubblica Sociale Italiana.

▪ 1991 - Rajiv Gandhi, (Bombay, 20 agosto 1944 – Tamil Nadu, 21 maggio 1991), è stato un politico indiano.

Fu primo ministro dal 1984 al 1989. Figlio maggiore di Indira Gandhi e Feroze Gandhi, studiò in Inghilterra dove conobbe l'italiana Sonia Maino che sposò nel 1968; era pilota della Indian Airlines, quando nel 1980, alla morte del fratello Sanjay, la madre Indira lo convinse ad entrare in politica nella direzione del Partito del congresso. Dopo l'assassinio di lei fu eletto primo ministro.
Intorno a lui si creò un'immagine di politico incorruttibile, e proprio grazie ad essa e un po' grazie anche alla tragica scomparsa di Indira, il partito ottenne grande consenso alle elezioni tenutesi dopo pochi mesi. Rajiv cominciò un profondo rinnovamento del partito.
Inizialmente in politica interna favorì una linea di conciliazione nazionale per cercare di arginare le spinte centrifughe causate da forze politiche regionali particolarmente forti tra i sikh.
In campo economico si distaccò dal modello socialista tentando di accelerare la modernizzazione, con una politica più liberale ed enfatizzando molto l'efficienza.
Però già alla fine del 1986 seguire questo programma risultò problematico. Così Rajiv volle cominciare una politica più accentratrice e personalistica mentre le spinte centrifughe peggioravano.
Alla fine si trovò coinvolto in un grosso scandalo, nel quale erano implicati alcuni suoi collaboratori, accusati di avere incassato tangenti per l'accordo stipulato con una ditta svedese per forniture militari all'India. Nel 1989 il Partito del congresso venne pesantemente sconfitto alle elezioni generali.
Il 21 maggio 1991, a Sriperumbudur, pochi giorni prima delle nuove elezioni generali dove avrebbe potuto ottenere un riscatto politico, Rajiv fu assassinato da un appartentente alle setta dei Sikh o, secondo altre ipotesi, da un commando delle Tigri Tamil, l'organizzazione militare clandestina che lotta per l'indipendenza dei tamil di Sri Lanka.

▪ 1994 - Giovanni Giuseppe Goria (Asti, 30 luglio 1943 – Asti, 21 maggio 1994) è stato un politico italiano e il più giovane Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana, dal 28 luglio 1987 al 13 aprile 1988.
Goria iniziò la sua carriera politica iscrivendosi alla Democrazia Cristiana nel 1960 e operando a livello di politica locale. Venne eletto alla Camera dei deputati nel 1976.
Fu sottosegretario al Bilancio dal 28 giugno 1981 al 3 giugno 1982 nel I Governo Spadolini (sostituito da Emilio Rubbi in seguito alle sue dimissioni).
Dal 1982 ebbe cariche ministeriali in quasi tutti i governi:
▪ Ministro del Tesoro dal 1º dicembre 1982 al 4 agosto 1983 con il V° Governo Fanfani;
▪ Ministro del Tesoro dal 4 agosto 1983 al 1º agosto 1986 con il I° Governo Craxi;
▪ Ministro del Tesoro dal 1º agosto 1986 al 17 aprile 1987 con il II° Governo Craxi;
▪ Ministro del Tesoro e Ministro del Bilancio e programmazione economica (ad interim) dal 17 aprile 1987 al 28 luglio 1987 con il VI° Governo Fanfani.
Divenne celebre per il suo stile informale e la sua adattabilità alle trasmissioni televisive. Resta anche memorabile l'icona del suo volto vuoto, incorniciato da barba e capelli fluenti, reiterata dall'allora vignettista di Repubblica Giorgio Forattini (probabilmente a sottolineare il suo scarso peso politico).
In seguito alle elezioni del 1987 Goria divenne presidente del Consiglio su indicazione del segretario del suo partito Ciriaco De Mita; in tale governo era anche Ministro (senza portafoglio) per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno. Fu costretto a dare le dimissioni nel 1988 in seguito alla bocciatura in Parlamento del suo bilancio.
Goria venne eletto al Parlamento Europeo nel 1989.
Si dimise nel 1991 per diventare Ministro dell'Agricoltura e foreste nel VII° Governo Andreotti dal 12 aprile 1991 al 24 aprile 1992. Durante tale ministero Giovanni Goria decise di Commissariare la Federconsorzi che in breve fu travolta da una crisi irreversibile. Divenne Ministro delle Finanze nel successivo governo, presieduto da Giuliano Amato.
Procedimenti giudiziari
Diede le dimissioni nel 1993 durante le indagini di Mani pulite che portarono alla dissoluzione del suo partito. Lo stesso Goria venne implicato nelle indagini giudiziarie. Il suo processo iniziò nel 1994; Goria morì di cancro il 21 maggio dello stesso anno ad Asti.
"La fine prematura gli impedirà di veder proclamata in giudizio la propria innocenza. Ma la causa che lo tormenta per lunga parte della sua carriera politica è quella relativa alla Cassa di risparmio di Asti, conclusasi con l'archiviazione del caso e la piena assoluzione di tutti gli amministratori. Eppure soprattutto tale vicenda proiettò l'ombra del sospetto e alimentò illazioni sulla vicenda personale e politica di Giovanni Goria con conseguenze sommamente ingiuste e gravi. Si smarrì, in questa come in altre analoghe vicende, qualsiasi equilibrio nei rapporti tra politica e magistratura e la cultura garantista venne sacrificata sull'altare di un giustizialismo di marca giacobina che, nel nome della ricerca della verità, non esitò a mettere alla gogna un'intera classe dirigente.
La responsabilità di quanto verificatosi, in questo come in molti altri casi, non può essere semplicisticamente attribuita alla magistratura, la cui azione va storicamente collocata. Tra i magistrati vi furono eccessi e protagonismi anche gravi ma molti seppero invece conservare equilibrio e imparzialità. Lo dimostra la stessa vicenda della Cassa di risparmio di Asti per la quale
il pubblico ministero chiese l'archiviazione ma il giudice ordinò che si procedesse ugualmente. La questione sulla quale incentrare la riflessione attiene piuttosto al clima determinatosi nella società italiana e che, alimentato dagli organi di informazione e da alcune forze politiche e sociali, agì come un rullo compressore, travolgendo anche uomini come Goria.
Venne improvvisamente alla luce il grado di isolamento e di estraneità in cui era sprofondata la classe politica di allora rispetto ad amplissimi settori dell'opinione pubblica - a motivo, anche ma non certamente solo, della diffusione del malaffare - e "tangentopoli" poté divenire la leva per promuovere un cambio di regime.
Dimostrarsi ostinatamente refrattari al cambiamento ed incapaci di comprendere i riflessi delle trasformazioni interne ed internazionali risultò esiziale per i partiti di governo. Il cuore della vicenda di Giovanni Goria coincide con la crisi di un regime politico-istituzionale e la conclusione di un ciclo della storia repubblicana. Egli ha operato all'interno di un sistema fortemente indebolito dalla propria incapacità di mettersi in discussione, di rigenerarsi, di individuare un percorso non traumatico per realizzare una democrazia dell'alternanza.
L'esperienza politica e istituzionale di Giovanni Goria è, in una qualche misura, il primo capitolo di una storia di riforma e di rinnovamento della politica rimasta gravemente incompiuta. In particolare, per la Democrazia cristiana di quell'epoca è risultata esiziale la mancanza di una nuova classe dirigente.
Nuova negli uomini e nei metodi, nuova nella sintonia con gli umori profondi del paese, nuova nel comprendere la prospettiva europea dell'Italia ed i riflessi di un quadro internazionale radicalmente mutato, nuova nel recepire l'insofferenza di un'economia che voleva essere posta nelle condizioni di competere e non soffocata dalla politica, nuova nell'intercettare una domanda di legalità e di moralità che, per quanto confusa e contraddittoria, richiedeva risposte adeguate." (Bruno Tabacci)


• 1999 - Fulvio Tomizza (Umago, 26 gennaio 1935 – Trieste, 21 maggio 1999) è stato uno scrittore italiano.
Nasce nel 1935 da una famiglia della piccola borghesia a Giurizzani presso a Materada (in croato Juricani), uno dei villaggi della penisola istriana, dove i suoi genitori erano proprietari di piccoli appezzamenti agricoli e si dedicavano con alterna fortuna a varie attività commerciali. In possesso di una naturale predisposizione nello scrivere e da una precoce senso dello spazio e per le arti figurative, ottenuta la maturità classica si trasferisce temporaneamente a Belgrado e a Lubiana e incomincia a lavorare occupandosi sia di teatro che di cinema.
Nel 1954, la Zona B del Territorio Libero di Trieste, con inclusa Materada, passa sotto l'amministrazione iugoslava e Tomizza, appena ventenne, benché legato alla sua terra da un sentimento d'appartenenza quasi viscerale, si trasferisce a Trieste dove risiederà per tutta la vita. La nostalgica lontananza dalla sua amata parrocchia di Materada, lo porta nel 1966 a pubblicare la raccolta Trilogia istriana che comprende i romanzi La ragazza di Petrovia (1963), Il bosco delle acacie (1966) e il suo primo romanzo Materada (1960). Gli ultimi anni della sua vita, però, li vive nella natia Materada e una volta scomparso, la locale comunità nazionale italiana gli intitolerà la propria sede sociale, con annesso teatrino.
Questi romanzi con le loro pagine di epica contadina inseriscono il giovane Tomizza nella variegata corrente europea degli scrittori di frontiera, e sono l'inizio di una estesa opera narrativa il cui tema costante è la perdita d'identità dei profughi istriani, al centro di complessi intrecci geopolitici, istituzionali e ideologici. Pubblica altri romanzi, alcuni sospesi tra la fantasia e la realtà quali L'albero dei sogni (1969), con il quale vince nello stesso anno il Premio Viareggio, altri vicini alla ricostruzione storica, si veda L'ereditiera veneziana (1989). In mezzo a questi due romanzi c'è una vasta narrativa, tra cui si ricorda La torre capovolta (1971), La città di Miriam (1972), L'amicizia (1980) e Il male viene dal Nord (1984). Con La miglior vita (1977) si aggiudica nello stesso anno il prestigioso Premio Strega.
Nel 2007 viene pubblicato Vera Verk, un dramma inedito in tre tempi (pubblicato da Ibiskos Editrice Risolo), ambientato nel 1930 in un paesino del Carso istriano. Il dramma è andato in scena per la prima volta nel 1963 a Trieste. Tra i protagonisti Paola Borboni, Fosco Giacchetti, Marisa Fabbri. Questa tragedia rusticana, che per certi versi può far pensare al Verismo di fine Ottocento o alle grandi tragedie del mondo classico - dove amore e morte, colpa ed espiazione si legano indissolubilmente una all’altra -, va in realtà inserita in un momento peculiare del teatro europeo del Secondo Novecento. È il momento in cui si incontrano le opere del Neorealismo italiana con le fortune di Brecht in tutta Europa, gli studi antropologici con la psicanalisi freudiana, il teatro del Grande Attore con la rinascita dell’Avanguardia: il tutto sullo sfondo di una sentita rivalutazione delle proprie tradizioni. Curatore dell'opera è Paolo Quazzolo (docente di drammaturgia).