Il calendario del 21 Giugno

Fonte:
CulturaCattolica.it
Vai a "Giorno per giorno"

Eventi

▪ 1280 - Torino viene ceduta, in cambio della libertà, dal marchese Guglielmo VII del Monferrato a Tommaso III di Savoia: da questa data la storia della città si legherà a quella dei Savoia

▪ 1321 - Con l'editto di Poitiers Filippo V di Francia ordina l'eccidio dei lebbrosi.

▪ 1665 - Quebec: I primi soldati del Régiment de Carignan-Salières arrivano per invadere i territori Irochesi

▪ 1689 - Praga, un incendio devasta la Città Ebraica della capitale boema

▪ 1734 - Montreal, Nuova Francia (oggi principalmente Quebec): una schiava nera conosciuta con il nome francese di Marie-Joseph Angélique, viene torturata e impiccata dalle autorità francesi, durante una cerimonia pubblica nella quale viene svergognata e le viene amputata una mano

▪ 1749 - Nuova Scozia: viene fondata la città di Halifax

▪ 1788 - USA: il New Hampshire ratifica la Costituzione degli Stati Uniti e viene ammesso come nono stato degli USA

▪ 1791 - Il re Luigi XVI di Francia con la famiglia tenta la fuga ma viene fermato a Varennes-en-Argonne.

▪ 1885 - A Iseo viene inaugurata la linea ferroviaria per Brescia, primo tratto della Ferrovia Brescia Iseo Edolo

▪ 1887 - Gran Bretagna: giubileo della regina Vittoria del Regno Unito

▪ 1919 - Scapa Flow, Isole Orcadi: l'Ammiraglio Ludvig von Reuter autoaffonda la flotta tedesca: i nove marinai uccisi furono le ultime vittime della prima guerra mondiale

▪ 1940

  1. - Seconda guerra mondiale: la Francia si arrende alla Germania
  2. - Vancouver (Columbia Britannica): inizia la prima traversata riuscita da ovest a est del Passaggio a nord-ovest

▪ 1942 - Seconda guerra mondiale: Tobruk cade nelle mani delle forze italo-tedesche

▪ 1963 - Giovanni Battista Montini diventa papa Paolo VI

▪ 1964 - Contea di Neshoba, Mississippi: tre attivisti dei diritti civili (Andrew Goodman, James Cheney e Mickey Schwerner) vengono assassinati da membri del Ku Klux Klan

▪ 1969 - Francia: Georges Pompidou vince le elezioni della Quinta Repubblica francese

▪ 1970 - A Città del Messico Il Brasile conquista il terzo titolo mondiale battendo in finale l'Italia per 4-1

▪ 2001
  1. - USA: emissione del francobollo commemorativo di Frida Kahlo
  2. - Africa del Sud: prima eclissi totale di sole del III millennio

▪ 2002 - Italia: parte a Bologna l'hackmeeting 02

▪ 2004 - Spazio: la SpaceShipOne compie il primo volo spaziale sviluppato con soli fondi privati

▪ 2005 - Gran Bretagna: la Germania esce vincitrice della Coppa UEFA femminile per la sesta volta

Anniversari

* 1377 - Edoardo di Windsor, in inglese Edward III of England (Castello di Windsor, 13 novembre 1312 – Richmond, 21 giugno 1377), fu re d'Inghilterra e signore d'Irlanda dal 1327 alla sua morte.
Alto e bello, Edoardo trasse ispirazione dalla cavalleria medioevale per i suoi ideali di vita. Durante tutto il suo regno sostenne fortemente e promosse la cavalleria, il che gli consentì di sviluppare buone relazioni con la nobiltà del regno.
Il suo regno (durato cinquant'anni) cominciò quando fu deposto il padre Edoardo II d'Inghilterra il 21 gennaio 1327, e finì nel 1377. Solo Enrico III prima di lui aveva regnato così a lungo, e ci vollero altri 400 anni prima che un altro monarca occupasse il trono con questa durata. Il regno di Edoardo fu segnato dall'espansione del territorio inglese attraverso le guerre in Scozia e in Francia.

▪ 1527 - Niccolò Machiavelli (Firenze, 3 maggio 1469 – Firenze, 21 giugno 1527) fu un filosofo, scrittore e politico italiano.
Come Leonardo, Machiavelli è considerato un tipico esempio di uomo rinascimentale. Questa definizione - secondo molti - descrive in maniera compiuta sia l'uomo sia il letterato più del termine machiavellico, entrato peraltro nel linguaggio corrente ad indicare un'intelligenza acuta e sottile ma anche spregiudicata. Machiavelli è inoltre considerato il fondatore della scienza politica moderna.

Infanzia e gioventù
Niccolò Machiavelli, nacque a Firenze il 3 maggio del 1469, terzo figlio, dopo le sorelle Primavera (1465) e Margherita (1468) e prima del fratello Totto (1475-1522); figlio di Bernardo (1432-1500) e di Bartolomea Nelli (1441-1496). Anticamente originari della Val di Pesa, i Machiavelli sono attestat popolani guelfi risiedenti almeno dal XIII secolo a Firenze, dove occuparono uffici pubblici ed esercitarono il commercio. Il padre Bernardo era tuttavia di così poca fortuna da esser considerato, non si sa quanto veritieramente, figlio illegittimo: dottore in legge, risparmiatore per carattere o per necessità, ebbe interesse agli studi di umanità, come risulta da un suo Libro di Ricordi che è anche la principale fonte di notizie sull'infanzia di Niccolò. La madre, secondo un suo lontano pronipote, avrebbe composto laude sacre, rimaste peraltro sconosciute, dedicate proprio al figlio Niccolò.
Nel 1476 Niccolò cominciò a studiare latino con un certo Matteo, l'anno dopo si dedicava allo studio della grammatica con un Battista da Poppi, all'aritmetica nel 1480 e l'anno seguente affrontava le prove scritte di componimento in latino. Opere in questa lingua esistevano nella biblioteca paterna: la I Deca di Tito Livio e quelle di Flavio Biondo, opere di Cicerone, Macrobio, Prisciano e Marco Giuniano Giustino. Adulto, maneggerà anche Lucrezio e la Historia persecutionis vandalicae di Vittore Uticense. Non conobbe invece il greco antico, ma poté leggere le traduzioni latine di alcuni degli storici più importanti, soprattutto Tucidide, Polibio e Plutarco, da cui trasse importantissimi spunti per la sua riflessione sulla storia.
S'interessò alla politica fin dalla giovinezza, come dimostra una sua lettera del 9 marzo 1498, la seconda che di lui ci è pervenuta - la prima è una richiesta al cardinale Giovanni Lopez, del 2 dicembre 1497, affinché si adoperi a riconoscere alla sua famiglia un terreno contestato dalla famiglia dei Pazzi - indirizzata all'amico Ricciardo Becchi, ambasciatore fiorentino a Roma, nella quale egli si esprime in modo critico contro Girolamo Savonarola.

La formazione
Due sono le fasi che scandiscono la vita Niccolò Machiavelli: nella prima parte della sua esistenza egli è impegnato soprattutto negli affari pubblici e, in secondo luogo, nella scrittura di testi di limitata portata teorica e speculativa. A partire dal 1512 si apre la seconda fase segnata dal forzato allontanamento di Niccolò dalla politica attiva.
Segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica fiorentina
«Della persona fu ben proporzionato, di mezzana statura, di corporatura magro, eretto nel portamento con piglio ardito. I capelli ebbe neri, la carnagione bianca ma pendente all'ulivigno; piccolo il capo, il volto ossuto, la fronte alta. Gli occhi vividissimi e la bocca sottile, serrata, parevano sempre un poco ghignare. Di lui più ritratti ci rimangono, di buona fattura, ma soltanto Leonardo, col quale ebbe pur che fare ai suoi prosperi giorni, avrebbe potuto ritradurre in pensiero, col disegno e i colori, quel fine ambiguo sorriso » (Roberto Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, p. 22)

Niccolò aveva già presentato al Consiglio dei Richiesti, il 18 febbraio 1498, la propria candidatura a segretario della Seconda Cancelleria della Repubblica fiorentina, ma gli fu preferito un candidato savonaroliano.
Pochi giorni dopo la fine dell'avventura politica e religiosa del frate ferrarese, il 28 maggio Machiavelli fu nuovamente designato ed eletto il 15 giugno dal Consiglio degli Ottanta, elezione ratificata dal Consiglio maggiore il 19 giugno 1498, probabilmente grazie all'autorevole raccomandazione del Primo segretario della Repubblica, Marcello Virgilio Adriani, che il Giovio asserisce essere stato suo maestro.
Per quanto i compiti delle due Cancellerie siano stati spesso confusi, generalmente alla prima si attribuivano gli affari esterni, e alla seconda quelli interni e la guerra: ma i compiti della seconda Cancelleria, presto unificati con quelli della Cancelleria dei Dieci di libertà e pace, consistevano nel tenere i rapporti con gli ambasciatori della Repubblica, cosicché, essendogli stata affidata, il 14 luglio, anche questa ulteriore responsabilità, Machiavelli finì per doversi occupare di una tale somma di compiti da essere storicamente considerato, senza ulteriori distinzioni, il «Segretario fiorentino».
Era il tempo nel quale, conclusa l'avventura italiana di Carlo VIII, la maggiore preoccupazione di Firenze era volta alla riconquista di Pisa - resasi indipendente dopo che Piero de' Medici l'aveva data in pegno al re francese - e alleata di Venezia che, intendendo impedire l'espansione fiorentina, aveva invaso il Casentino, occupandolo a nome dei Medici. Il pericolo venne fronteggiato dal capitano di ventura Paolo Vitelli, e la mediazione del duca di Ferrara Ercole I, il 6 aprile 1499, riconsegnò il Casentino a Firenze, autorizzandola altresì a riprendersi Pisa.
In marzo venne inviato a Pontedera, dove erano acquartierate le milizie del signore di Piombino, Jacopo d'Appiano, alleato di Firenze; in maggio scrisse il Discorso della guerra di Pisa per il magistrato dei Dieci: poiché «Pisa bisogna averla o per assedio o per fame o per espugnazione, con andare con artiglieria alle mura», esaminate diverse soluzioni, si esprime favorevole a un assedio di «un quaranta o cinquanta dì ed in questo mezzo trarne tutti gli uomini da guerra potete, e non solamente cavarne chi vuole uscire, ma premiare chi non ne volesse uscire, perché se ne esca. Dipoi, passato detto tempo, fare in un subito quanti fanti si può; fare due batterie, e quanto altro è necessario per accostarsi alle mura; dare libera licenza che se ne esca chiunque vuole, donne, fanciulli, vecchi ed ognuno, perché ognuno a difenderla è buono; e così trovandosi i Pisani voti di difensori dentro, battuti dai tre lati, a tre o quattro assalti sarìa impossibile che reggessero».
Il 16 luglio 1499 si presentò a Forlì alla contessa Caterina Sforza Riario, nipote di Ludovico il Moro e madre di Ottaviano Riario, che era stato al soldo dei fiorentini, per rinnovare l'alleanza e ottenere uomini e munizioni per la guerra pisana. Ottenne solo vaghe promesse dalla contessa che era già impegnata a sostenere lo zio nella difficile difesa del Ducato milanese dalle mire di Luigi XII e dovette ripartire senza aver nulla ottenuto.
Era nuovamente a Firenze in agosto, quando le artiglierie fiorentine, provocata una breccia nelle mura pisane, aprivano la via alla conquista della città, ma il Vitelli non seppe sfruttare l'occasione e temporeggiò finché la malaria non ebbe ragione delle sue truppe, costringendolo a togliere l'assedio il 14 settembre. Invano ritentò l'impresa: sospettato di tradimento, quello che «era il più reputato capitano d'Italia» fu decapitato. Nessuna prova vi era che il Vitelli fosse stato corrotto dai Pisani ma la giustificazione di Machiavelli, a nome della Repubblica, in risposta alle critiche di un cancelliere di Lucca, fu che «o per non havere voluto, sendo corropto, o per non havere potuto, non avendo la compagnia, ne sono nati per sua colpa infiniti mali ad la nostra impresa, et merita l'uno o l'altro errore, o tuct'a due insieme che possono stare, infinito castigo».
Conquistato il Ducato di Milano, in risposta alla richieste fiorentine Luigi XII mandò suoi soldati a risolvere l'impresa di Pisa le cui mura furono bensì abbattute nel luglio del 1500 ma né gli svizzeri né i francesi entrarono in città anzi, lamentando che Firenze non li pagasse, levarono l'assedio e sequestrarono il commissario fiorentino Luca degli Albizzi, che fu rilasciato solo dietro riscatto. A Machiavelli, presente ai fatti, non restava che informare la Repubblica, che decise di mandarlo in Francia, insieme con Francesco della Casa, per cercare nuovi accordi che risolvessero finalmente la guerra di Pisa. Il 6 agosto 1500 raggiunsero la corte francese a Nevers, presentando al re e al ministro, cardinale di Rouen, le rimostranze per il cattivo comportamento dei loro soldati; sapendo che Firenze non aveva al momento denari sufficienti a finanziare l'impresa, invitarono Luigi a intervenire direttamente nella guerra, al termine della quale la Repubblica avrebbe ripagato la Francia di tutte le spese.
Il rifiuto dei francesi - che richiedevano a Firenze il mantenimento degli svizzeri rimasti accampati in Lunigiana e minacciavano la rottura dell'alleanza - mise i legati fiorentini, privi di istruzioni dalla Repubblica, in difficoltà, acuite dalla ribellione di Pistoia e dalle iniziative che frattanto aveva preso in Romagna Cesare Borgia, i cui ambiziosi e oscuri piani potevano anche indirizzarsi contro gli interessi fiorentini. Occorreva, pagando, mantenere buoni rapporti con la Francia - scriveva da Tours il 21 novembre - e guardarsi dalle macchinazioni del papa: così, ottenuto dalla Signoria il denaro richiesto dalla Francia, Machiavelli poteva finalmente ritornare a Firenze il 14 gennaio 1501.
Da quella lunga permanenza nella corte francese trasse le notarelle De natura Gallorum, descritti «humilissimi nella captiva fortuna; nella buona insolenti [ ... ] più cupidi de' danari che del sangue [ ... ] varii et leggieri», con una bassa opinione degli Italiani, oltre ai successivi Ritratti delle cose di Francia, ma soprattutto ricavò un bagaglio d'esperienza, diplomatica e politica, i cui frutti dovranno maturare un decennio più tardi.

Cesare Borgia
«Questo signore è molto splendido e magnifico, e nelle armi è tanto animoso che non è sì gran cosa che non gli paia piccola, e per gloria e per acquistare Stato mai si riposa né conosce fatica o periculo: giugne prima in un luogo che se ne possa intendere la partita donde si lieva; fassi ben volere a' suoi soldati; ha cappati e' migliori uomini d'Italia: le quali cose lo fanno vittorioso e formidabile, aggiunte con una perpetua fortuna » (Machiavelli, Lettera ai Dieci del 26 giugno 1502)

La minaccia del Borgia si fece presto concreta: fermato dalle minacce della Francia quando tentava d'impadronirsi di Bologna, si volse contro Piombino, entrando nel territorio della Repubblica e cercando di imporle tributi, dai quali Firenze fu nuovamente fatta salva dall'intervento di Luigi. Fra una missione a Pistoia e un'altra a Siena, Niccolò ebbe tempo di sposare, nell'autunno del 1501, Marietta Corsini, donna di modesta origine, dalla quale avrà sette figli: Primerana, Bernardo, Lodovico, Guido, Piero, Baccina e Totto.
Padrone di Piombino il 3 settembre 1501, il Borgia, per mezzo del suo sodale Vitellozzo Vitelli s'impadronì di Arezzo, dove si stabilì Piero de' Medici, poi delle terre di Valdichiana, di Cortona, di Anghiari e di Borgo San Sepolcro e di lì passò a investire Camerino e Urbino, chiedendo nel contempo di intavolare trattative con Firenze che, nel frattempo, vistasi stretta dai due Borgia, padre e figlio, aveva rinnovato gli accordi con la Francia. Il 22 giugno 1502, lo stesso giorno della caduta della città nelle mani di Cesare, partirono per Urbino Machiavelli e il vescovo di Volterra, Francesco Soderini, fratello di Piero: ricevuti il 24 giugno, si sentirono ordinare di cambiare il governo della Repubblica, pena la sua inimicizia. La crisi fu superata grazie all'intervento delle armi francesi: avvicinandosi queste ad Arezzo, la città fu sgomberata e restituita, insieme con le altre terre, ai Fiorentini. Riferimento a questi casi è il breve scritto dell'anno successivo, Del modo di trattare i popoli della Valdichiana ribellati, nel quale, preso esempio dal comportamento tenuto dagli antichi Romani in caso di ribellioni, rimprovera il governo fiorentino di non aver trattato severamente la ribelle città di Arezzo. Pensa che come i Romani «fecero giudizio differente per esser differente il peccato di quelli popoli, così dovevi fare voi, trovando ancora nei vostri ribellati differenza di peccati [ ... ] giudico ben giudicato che a Cortona, Castiglione, il Borgo, Foiano, si siano mantenuti i capitoli, siano vezzeggiati e vi siate ingegnati riguadagnarli con i beneficii [ ... ] ma io non approvo che gli Aretini, simili ai Veliterni ed Anziani non siano stati trattati come loro. [ ... ] I Romani pensarono una volta che i popoli ribellati si debbano o beneficare o spegnere e che ogni altra via sia pericolosissima».
Di fronte a quelli che apparivano tempi nuovi e tempestosi, nei quali occorreva che uomini capaci prendessero pronte risoluzioni, come prima riforma nell'organizzazione dello Stato fiorentino fu resa vitalizia la carica di gonfaloniere, affidata, il 15 settembre 1502, a Pier Soderini, che appariva uomo accetto tanto agli ottimati che ai popolani. La prima missione che egli affidò a Machiavelli fu quella di prendere nuovamente contatto col Borgia il quale, formalmente capitano delle truppe pontificie e finanziato da quello Stato, intendeva tuttavia agire nel proprio interesse e in quello della sua famiglia, stringendo un nuovo patto col Luigi XII e ottenendone libertà d'azione nei suoi piani di espansione, non solo nei confronti di signorotti quali gli Orsini, i Baglioni e il Vitelli, già suoi alleati, ma anche contro lo stesso Bentivoglio di Bologna. Seguendo la tradizionale politica di alleanza con la Francia, Firenze - pur diffidando del Valentino - intendeva confermargli la sua amicizia, per non essere investita dai suoi aggressivi disegni.
Machiavelli giunse a Imola dal Borgia il 7 ottobre, confidandogli che Firenze non aveva aderito all'offerta di amicizia propostale dagli Orsini e dai Vitelli, congiurati a Magione contro il duca Valentino, e ne ricevette in cambio un'offerta di alleanza, alla quale Niccolò, affascinato dalla figura di Cesare Borgia, guardava con favore più di quanto non facesse il governo fiorentino. Fu al seguito del Valentino per tutta la durata di quei tre mesi di campagna militare e, il 1º gennaio 1503, due ore dopo l'uccisione a tradimento di Vitellozzo e di Oliverotto da Fermo, ne raccolse le parole «savie e affezionatissime» per i Fiorentini, invitati nuovamente a unirsi a lui per avventarsi contro Perugia e Città di Castello. Firenze, a questo punto, decise di mandare presso il Borgia un ambasciatore accreditato, Jacopo Salviati, così che il nostro Segretario il 20 gennaio lasciò il campo di Città della Pieve per fare ritorno a Firenze.

«Vitellozo, Pagolo et duca di Gravina in su muletti ne andorno incontro al duca, accompagnati da pochi cavagli; et Vitellozo disarmato, con una cappa foderata di verde, tucto aflicto se fussi conscio della sua futura morte, dava di sé, conosciuta la virtù dello huomo et la passata sua fortuna, qualche ammiratione [ ... ] Arrivati adunque questi tre davanti al duca, et salutatolo humanamente, furno da quello ricevuti con buono volto [ ... ] Ma, veduto il duca come Liverotto vi mancava [ ... ] adciennò con l'occhio a don Michele, al quale la cura di Leverotto era demandata, che provedessi in modo che Liverotto non schapassi [ ... ] Liverotto havendo facto riverenza, si adcompagnò con gli altri; et entrati in Senigagla, et scavalcati tutti ad lo alloggiamento del duca, et entrati seco in una stanza secreta, furno dal duca fatti prigioni [ ... ] venuta la nocte [ ... ] al duca parve di fare admazare Vitellozzo e Liverotto; et conductogli in uno luogo insieme, gli fe' strangolare [ ... ] Pagolo et el duca di Gravina Orsini furno lasciati vivi per infino che il duca intese che a Roma el papa haveva preso el cardinale Orsino, l'arcivescovo di Firenze et messer Jacopo da Santa Croce; dopo la quale nuova, a dì 18 di giennaio, ad Castel della Pieve furno anchora loro nel medesimo modo strangolati »(Machiavelli, Descrizione del modo tenuto dal duca Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini, giugno-agosto 1503)

A Roma
La morte di Alessandro VI privò Cesare Borgia delle risorse finanziarie e politiche che gli occorrevano per mantenere il ducato di Romagna, che si dissolse tornando a frammentarsi nelle vecchie signorie, mentre Venezia s'impadronì di Imola e di Rimini. Dopo il brevissimo pontificato di Pio III, Machiavelli fu inviato a Roma il 24 ottobre 1503 per il conclave che il 1º novembre elesse Giulio II. Raccolse le ultime confidenze del Valentino, del quale pronosticò la rovina imminente, e cercò di comprendere le intenzioni politiche del nuovo papa, che egli sperava s'impegnasse contro i Veneziani, le cui mire espansionistiche erano temute da Firenze: «O la sarà una porta che aprirà loro tutta Italia, o fia la rovina loro», scrive il 24 novembre.
A Roma gli giunse la notizia della nascita del secondogenito Bernardo: «Somiglia voi, è bianco come la neve, ma gli ha il capo che pare velluto nero, et è peloso come voi, e da che somiglia voi parmi bello», gli scrive la moglie Marietta il 24 novembre. E Machiavelli, che lungamente in questo scorcio di tempo aveva frequentato la casa del cardinal Soderini, al quale forse prospettò già il suo progetto di costituire una milizia nazionale che sostituisse l'infida soldatesca mercenaria, il 18 dicembre s'avviò per Firenze.

In Francia
Le fortune della Francia in Italia sembrarono declinare dopo la cacciata dal Napoletano ad opera dell'armata spagnola di Gonzalo Fernández de Córdoba. Firenze, alleata di Luigi XII, e timorosa delle prossime iniziative della Spagna, del papa e della nemica tradizionale, la Siena di Pandolfo Petrucci, era interessata a conoscere i progetti del re e a questo scopo alla sua corte mandò Machiavelli «a vedere in viso le provvisioni che si fanno e scrivercene immediate, e aggiungervi la coniettura e iudizio tuo». Il 22 gennaio 1504 Machiavelli era a Milano per conferisce con il luogotenente Charles II d'Amboise, che non credeva in un attacco spagnolo in Lombardia e rassicurò Niccolò sull'amicizia francese per Firenze.
Raggiunse la corte e l'ambasciatore Niccolò Valori a Lione il 27 gennaio, ricevendo uguali rassicurazioni dal cardinale di Rouen e da Luigi stesso. In marzo ripartiva per Firenze e di qui si recava per pochi giorni a Piombino da Jacopo d'Appiano, per sondare la posizione di quel signorotto.
È di questo tempo la stesura del suo primo Decennale, una storia dei fatti notevoli occorsi degli ultimi dieci anni volta in terzine: Machiavelli non è poeta, anche se invoca Apollo nell'esordio del poemetto, ma a noi interessa il suo giudizio sull'attualità della vicenda politica italiana e su quel che attende Firenze:
«L'imperador, con l'unica sua prole
vuol presentarsi al successor di Pietro
al Gallo il colpo ricevuto duole;
e Spagna che di Puglia tien lo scetro
va tendendo a' vicin laccioli e rete,
per non tornar con le sue imprese a retro;
Marco, pien di paura e pien di sete,
fra la pace e la guerra tutto pende;
e voi di Pisa troppa voglia avete [ .... ]
Onde l'animo mio tutto s'infiamma
or di speranza, or di timor si carca
tanto che si consuma a dramma a dramma,
perché saper vorrebbe dove, carca
di tanti incarchi debbe, o in qual porto,
con questi venti, andar la vostra barca.
Pur si confida nel nocchier accorto
ne' remi, nelle vele e nelle sarte;
ma sarebbe il cammin facile e corto
se voi el tempio riapriste a Marte »
(Decennale primo, vv 529-549)

I tentativi d'impadronirsi di Pisa fallirono ancora: battuta a Ponte a Cappellese il 27 marzo 1505, Firenze doveva anche guardarsi dalle manovre dei signori ai loro confini. Machiavelli andò a Perugia l'11 aprile per conferire col Baglioni, ora alleato con gli Orsini, con Lucca e con Siena, poi a Mantova, per cercare invano accordi con il marchese Giovan Francesco Gonzaga e il 17 luglio a Siena. In settembre, fallì un nuovo assalto a Pisa e Machiavelli ne trasse spunto per presentare la proposta della creazione di un esercito cittadino. Rimasti diffidenti i maggiorenti della città - che temevano che un esercito popolare potesse costituire una minaccia per i loro interessi - ma appoggiato dal Soderini, Machiavelli si mosse per mesi nei borghi toscani a far leva di soldati, istruiti «alla tedesca», e finalmente, il 15 febbraio 1506, Firenze poté vedere la prima parata di una milizia «nazionale» che peraltro non avrà nessun ruolo nella successiva conquista di Pisa e si rivelerà di scarso affidamento nella difesa di Prato del 1512.

La seconda legazione a Roma
Con la pace concordata con la Francia nell'ottobre 1505, la Spagna, con Ferdinando II d'Aragona, aveva preso definitivamente possesso del Regno di Napoli. I piccoli stati della penisola attendevano ora le mosse di Giulio II, deciso a imporre la sua egemonia nell'Italia centrale: nel luglio, il papa chiese a Firenze di partecipare alla guerra che egli intendeva muovere al signore di Bologna, Giovanni Bentivoglio, che era alleato, come Firenze, dei francesi, e perciò teoricamente amico, oltre che confinante, dei Fiorentini. Si trattava di temporeggiare, osservando gli sviluppi dell'impresa del papa al quale fu mandato Machiavelli, che lo incontrò a Nepi il 27 agosto 1506.
Giulio II gli dimostrò di godere dell'appoggio della Francia, che aveva promesso di inviare truppe in suo aiuto, cosicché fu agevole a Machiavelli promettere aiuti a sua volta - dopo però che fossero arrivati quelli di re Luigi - e seguì papa Giulio che, con la sua corte curiale e pochi armati se n'andava a Perugia, ottenendo, il 13 settembre, la resa senza combattimento di Giampaolo Baglioni che, con stupore e rimprovero del Machiavelli e, un giorno, anche del Guicciardini, non ebbe il coraggio di opporsi alle poche forze allora a disposizione del papa. La corte papale, dopo aver atteso a Cesena fino a ottobre l'arrivo dei francesi e, dopo questi, dei Fiorentini di Marcantonio Colonna, entrò trionfante a Bologna l'11 novembre.
Machiavelli, tornato a Firenze già alla fine d'ottobre, s'occupò ancora dell'istituzione delle milizie fiorentine: il 6 dicembre furono creati i Nove ufficiali dell'Ordinanza e Milizia fiorentina, eletti dal popolo, responsabili militari della Repubblica.

In Germania
Il nuovo anno 1507 si aprì con le minacce del passaggio in Italia del «Re dei Romani» Massimiliano, intenzionato a ribadire le proprie pretese di dominio sulla penisola, a espellere i francesi e a farsi incoronare a Roma «imperatore del Sacro Romano Impero».
Si valutò a Firenze la possibilità di finanziargli l'impresa in cambio della sua amicizia e del riconoscimento dell'indipendenza della Repubblica: il 27 giugno fu inviato a questo scopo l'ambasciatore Francesco Vettori e, il 17 dicembre, lo stesso Machiavelli. Giunse a Bolzano, dove Massimiliano teneva corte, l'11 gennaio 1508 e le lunghe trattative sull'esborso preteso da Massimiliano s'interruppero quando i Veneziani, sconfiggendolo più volte, gli fecero comprendere la velleità dei suoi sogni di gloria.
Da questa esperienza Machiavelli trasse tre scritti, il Rapporto delle cose della Magna, composto il 17 giugno 1508, il giorno dopo il suo rientro a Firenze, il Discorso sopra le cose della Magna e sopra l'Imperatore, del settembre 1509, e il più tardo Ritratto delle cose della Magna, del 1512, una rielaborazione del primo Rapporto. Rileva la grande potenza della Germania, che «abunda di uomini, di ricchezze e d'arme»; le popolazioni hanno «da mangiare e bere e ardere per uno anno: e così da lavorare le industrie loro, per potere in una obsidione [assedio] pascere la plebe e quelli che vivono delle braccia, per uno anno intero sanza perdita. In soldati non spendono perché tengono li uomini loro rmati ed esercitati; e li giorni delle feste tali uomini, in cambio delli giuochi, chi si esercita collo scoppietto, chi colla picca e chi con una arme e chi con una altra, giocando tra loro onori et similia, e quali tra loro poi si godono. In salari e in altre cose spendono poco: talmente che ogni comunità si truova ricca in publico».
Importano e consumano poco perché «le loro necessità sono assai minori delle nostre», ma esportano molte merci «di che quasi condiscono tutta la Italia [...] e così si godono questa loro rozza vita e libertà e per questa causa non vogliono ire alla guerra se non sono soprappagati e questo anche non basterebbe loro, se non fussino comandati dalle loro comunità. E però bisogna a uno imperadore molti più denari che a uno altro principe».
Tanta forza potenziale, che potrebbe fare la grandezza politica e militare dell'Imperatore, è limitata dalle divisioni delle comunità governate dai singoli principi, una realtà simile a quella italiana: nessun principe tedesco vuole favorire l'imperatore, «perché, qualunque volta in proprietà lui avessi stati o fussi potente, e' domerebbe e abbasserebbe e principi e ridurrebbeli a una obedienzia di sorte da potersene valere a posta sua e non quando pare a loro: come fa oggi il re di Francia, e come fece già il re Luigi, quale con l'arme e ammazzarne qualcuno li ridusse a quella obedienzia che ancora oggi si vede».

La conquista di Pisa
Decisa a concludere le operazioni militari contro Pisa, Firenze mandò Machiavelli a far leve di soldati: in agosto condusse soldati prelevati da San Miniato e da Pescia all'assedio della città irriducibile. Riunite altre milizie, si incaricò di tagliare i rifornimenti bloccando l'Arno; poi, il 4 marzo del 1509, andò prima a Lucca a intimare a quella Repubblica di cessare ogni aiuto ai Pisani e, il 14, ri recò a Piombino, incontrando gli ambasciatori di Pisa per cercare invano un accordo di resa.
Raccolte nuove truppe, in maggio era presente all'assedio: Pisa, ormai stremata, trattava finalmente la pace. Machiavelli accompagnò i legati pisani a Firenze dove, il 4 giugno 1509 fu firmata la resa e l'8 giugno poté entrare in Pisa con i commissari Niccolò Capponi, Antonio Filicaia e Alamanno Salviati.

A Verona e in Francia
Un ben più vasto incendio era intanto divampato nell'Italia settentrionale: stipulato un patto di alleanza a Cambrai, Francia, Spagna, Impero e papato si avventavano contro la Repubblica veneziana che a maggio cedeva i suoi possedimenti lombardi e romagnoli e, in giugno, anche Verona, Vicenza e Padova, consegnate a Massimiliano. Firenze, da parte sua, doveva finanziare la nuova impresa imperiale: consegnato un primo acconto in ottobre, il 21 novembre Machiavelli era a Verona per consegnare il saldo a Massimiliano, che era stato però costretto alla ritirata dalla controffensiva veneziana, resa possibile dalla rivolta popolare contro i nuovi padroni. E Machiavelli commentava dei «due re, che l'uno può fare la guerra e non vuol farla, l'altro ben vorrebbe farla e non può», riferendosi a Luigi e a Massimiliano che se n'era tornato in Germania a chiedere soldati e denari ai principi tedeschi. Atteso inutilmente il ritorno dell'Imperatore, il 2 gennaio 1510 Machiavelli se ne tornò a Firenze.
Venezia si salvò soprattutto grazie alle divisioni degli alleati: mentre Luigi XII aveva tutto l'interesse di ridurre all'impotenza Venezia per avere le mani libere nella pianura padana, Giulio II la voleva abbastanza forte da opporsi alla Francia senza averne contrasto alle proprie ambizioni di espansione. Per Firenze, amica della Francia ma non nemica del papa, era necessario spiegarsi con il re francese, e Machiavelli fu mandato a Blois, dove Luigi teneva la corte, incontrandolo il 17 giugno 1510.
Machiavelli confermò l'amicizia con la Francia ma disse di dubitare che la Repubblica potesse impegnarsi in una guerra contro Giulio II, in grado di volgere contro Firenze forze troppo superiori: meglio sarebbe stata una mediazione che evitasse il conflitto e sottraesse, oltre tutto, Firenze dalla responsabilità di un impegno nel quale era difficile trarre un guadagno. Dovette tornare a Firenze il 19 ottobre, convinto che la guerra fosse ineluttabile.
Le vittorie militari non furono sfruttate da Luigi XII e la sua indizione di un concilio a Pisa, che condannasse il papa, provocò l'interdetto di Giulio II contro Firenze. Il 22 settembre 1511 Machiavelli era ancora in Francia, ottenendo dal re soltanto un breve rinvio del concilio: dalla Francia andò a Pisa e riuscì a ottenere il trasferimento del concilio a Milano.

Il ritorno dei Medici a Firenze
Le fortune di Luigi XII volgevano al tramonto: sconfitto dalla nuova coalizione guidata dal papa, era costretto ad abbandonare la Lombardia, lasciando Firenze politicamente isolata e incapace di resistere alle armi spagnole. Il 31 agosto 1512 Pier Soderini fuggì a Siena, i Medici rientrarono a Firenze: disfatto il vecchio governo, il 7 novembre anche Machiavelli venne rimosso dal suo incarico, il successivo 10 novembre fu confinato e multato della grande somma di mille fiorini e il 17 gli fu interdetto l'ingresso a Palazzo Vecchio.
Il nuovo regime processò Pietro Paolo Boscoli e Agostino Capponi, accusati di aver complottato contro il cardinale Giovanni de' Medici, condannandoli a morte. Anche Machiavelli è sospettato: arrestato il 12 febbraio 1513, fu anche torturato (con una tortura che si chiama "Colla"). Scrisse allora a Giuliano de' Medici due sonetti, per ricordargli, ma senza averne l'aria e in forma scherzosa, la sua condizione di carcerato:
«Io ho, Giuliano, in gamba un paio di geti
e sei tratti di fune in sulle spalle;
l'altre miserie mie non vo' contalle,
poiché così si trattano i poeti
Menon pidocchi queste parieti
grossi e paffuti che paion farfalle,
né mai fu tanto puzzo in Roncisvalle
o in Sardigna fra quegli arboreti
quanto nel mio sì delicato ostello»


Giulio II moriva intanto proprio in quei giorni e dal conclave uscì eletto l'11 marzo il cardinale de' Medici con il nome di Leone X: era la fine dei pericoli di guerra per Firenze e anche il tempo dell'amnistia. Uscito dal carcere, Machiavelli cercò di ottenere favori dai Medici attraverso l'ambasciatore Francesco Vettori e lo Giuliano, ma invano. Si ritirò allora nel suo podere dell'Albergaccio, a Sant'Andrea in Percussina, tra Firenze e San Casciano in Val di Pesa.

L'esilio dalla politica. «Il Principe»
Qui, tra le giornate rese lunghe dall'ozio forzato, comincia a scrivere i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio che, forse nel luglio 1513, interrompe per metter mano al suo libro più famoso, il De Principatibus, dal solenne titolo latino ma scritto in volgare e perciò divenuto ben più noto come Il Principe. Lo dedica dapprima a Giuliano de' Medici e, dopo la morte di questi nel 1516, a Lorenzo de' Medici, figlio di Piero; ma il libro uscì solo postumo, nel 1532.
Certo, non doveva farsi illusioni che un Medici potesse mai essere quel «redentore» atteso dall'Italia contro «questo barbaro dominio», ma da un Medici si attendeva almeno la sua propria «redenzione» dall'inattività cui era stato relegato dal ritorno a Firenze di quella famiglia. Sperava che l'amico Vettori, ambasciatore a Roma, si facesse interprete del suo «desiderio [...] che questi signori Medici mi cominciasseino adoperare», dal momento «che io sono stato a studio all'arte dello stato [...] e doverrebbe ciascheduno aver caro servirsi d'uno che alle spese d'altri fussi pieno d'esperienza. E della fede mia non si doverrebbe dubitare, perché, avendo sempre osservato la fede, io non debbo imparare ora a romperla; e chi è stato fedele e buono quarantatrè anni che io ho, non debbe potere mutare natura; e della fede e bontà mia ne è testimonio la povertà mia».
Delle ombre della sua povertà, ma anche delle sue luci, Machiavelli scrive al Vettori in quella che è la più famosa lettera della nostra letteratura:
«Venuta la sera, mi ritorno in casa ed entro nel mio scrittoio; e in su l'uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui; dove io non mi vergogno parlare con loro e domandargli della ragione delle loro azioni; e quelli per loro umanità mi rispondono; e non sento per quattro ore di tempo alcuna noia; sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte; tutto mi trasferisco in loro. E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo avere inteso, io ho notato quello di che per la loro conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo de Principatibus »(Lettera a Francesco Vettori, 10 dicembre 1513)

Ritornato il 3 febbraio 1514 a Firenze, continuò a sperare a lungo che il Vettori, al quale spedì il manoscritto del Principe, lo facesse introdurre in qualche incarico nell'amministrazione cittadina, ma invano. Tutto dipendeva dalla volontà del papa, e Leone non era affatto intenzionato a favorire chi non si era mostrato, a suo tempo, favorevole agli interessi di Casa Medici. Machiavelli, da parte sua, scriveva al Vettori di aver «lasciato i pensieri delle cose grandi e gravi» e di non dilettarsi più di «leggere le cose antiche, né ragionare delle moderne: tutte si sono converse in ragionamenti dolci». Si era infatti innamorato di una «creatura tanto gentile, tanto delicata, tanto nobile e per natura e per accidente, che io non potrei né tanto laudarla né tanto amarla che la non meritasse più».
La guerra, ripresa in Italia dalla discesa del nuovo re di Francia Francesco I, si concluse nel settembre 1515 con la sua grande vittoria a Marignano (oggi Melegnano) contro la vecchia «Lega santa»: Leone X dovette accettare il dominio francese in Lombardia e la stipula a Bologna di un concordato che riconosceva il controllo reale sul clero francese. Si rifece impossessandosi, per conto del nipote Lorenzo, capitano generale dei Fiorentini, del Ducato di Urbino. A quest'ultimo invano dedicava Machiavelli il suo Principe: la sua esclusione dalla gestione degli affari di Firenze continuava.

Gli «ozi letterari»
Nel 1516 o 1517 si diede a frequentare gli «Orti Oricellari», latineggiamento che indica i giardini del Palazzo di Cosimo Rucellai, dove si riunivano letterati, giuristi ed eruditi come Luigi Alamanni, Jacopo da Diacceto, Jacopo Nardi, Zanobi Buondelmonti, Antonfrancesco degli Albizi, Filippo de' Nerli e Battista della Palla. Qui vi lesse probabilmente qualche capitolo di quell'Asino, poemetto in terzine che voleva essere una contaminazione fra l'Asino d'oro di Apuleio e la Divina Commedia dantesca, ma che lasciò presto interrotto: e al Rucellai e al Buondelmonti dedicò i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, scritti dal 1514 al 1517.
Machiavelli si era già cimentato, quando ricopriva l'incarico di segretario della Repubblica, in composizioni teatrali: una imitazione dell'Aulularia di Plauto e una commedia, Le maschere, ispirata ad Aristofane, sono tuttavia perdute. Al 1518 risale il suo capolavoro letterario, la commedia Mandragola, nel cui prologo egli rilascia un accenno autobiografico
«scusatelo con questo, che s'ingegna
con questi van pensieri
fare el suo tristo tempo più suave,
perch'altrove non have
dove voltare el viso;
ché gli è stato interciso
mostrar con altre imprese altra virtue,
non sendo premio alle fatiche sue.»


Intorno a quest'anno vanno collocate la sua traduzione dell'Andria di Terenzio e la novella di Belfagor arcidiavolo o Novella del demonio che pigliò moglie - il suo titolo preciso è attualmente stabilito in Favola - il cui tema di fondo è la visione pessimistica dei rapporti che legano gli esseri umani, tutti intesi al proprio interesse a danno, se necessario, di quello di ciascun altro.

Machiavelli e il Rinascimento
Con il termine machiavellico si è spesso indicato un atteggiamento spregiudicato e disinvolto nell'uso del potere: un buon principe deve essere astuto per evitare le trappole tese dagli avversari, capace di usare la forza se ciò si rivela necessario, abile manovratore negli interessi propri e del suo popolo. Ciò si accompagna a un travaglio personale che il Machiavelli sentiva nella sua attività quotidiana e di teorico, secondo una tradizione politica che già in Cicerone affermava: "un buon politico deve avere le giuste conoscenze, stringere mani, vestire in modo elegante, tessere amicizie clientelari per avere un'adeguata scorta di voti".
Con Machiavelli l'Italia ha conosciuto il più grande teorico della politica. Secondo Machiavelli la politica è il campo nel quale l'uomo può mostrare nel modo più evidente la propria capacità di iniziativa, il proprio ardimento, la capacità di costruire il proprio destino secondo il classico modello del faber fortunae suae.
Nel suo pensiero si risolve il conflitto fra regole morali e ragion di Stato che impone talvolta di sacrificare i propri princìpi in nome del superiore interesse di un popolo.

La concezione della storia
Per Machiavelli la storia è il punto di riferimento verso il quale il politico deve sempre orientare la propria azione. La storia fornisce i dati oggettivi su cui basarsi, i modelli da imitare, ma indica anche le strade da non ripercorrere. Machiavelli si basa su una concezione ciclica della storia: "Tutti li tempi tornano, li uomini sono sempre li medesimi". Ma ciò che allontana Machiavelli da una visione deterministica della storia è l'importanza che egli attribuisce alla "virtù", ovvero alla capacità dell'uomo di dominare il corso degli eventi utilizzando opportunamente le esperienze degli errori compiuti nel passato.
Non a caso il Principe, nella conclusione, abbandona il suo taglio cinico e pragmatico per esortare i sovrani italiani, con una scrittura più solenne e venata di un certo idealismo, a riconquistare la sovranità perduta e a cacciare l'invasore straniero. Non c'è rassegnazione nel Principe, né tanto meno sfiducia nei confronti dell'uomo.

Il senso della nazione
Una errata interpretazione del ‘900 fece del Machiavelli un precursore del movimento unitario, ma la parola nazione ha assunto l'attuale significato solo a partire dalla seconda metà del ‘700, mentre il Machiavelli la usò in senso particolaristico e cittadino (es. nazione fiorentina o, nel senso più generico di popolo, moltitudine).
Tuttavia, Machiavelli propugnava un principato in grado di reggersi sull'unità etnica dell'Italia; così facendo, e denunciando in tal modo una chiara coscienza dell'esistenza di una civiltà italiana, Machiavelli predica la liberazione dell'Italia sotto il patrocinio di un principe criticando il dominio temporale dei Papi che spezza in due la penisola.
Ma l'unità d'Italia resta in Machiavelli un problema solo intuito. Non si può dubitare che avesse concepito l'idea dell'unità d'Italia, ma tale idea restò indeterminata, poiché non trovò appigli concreti nella realtà, restando perciò a livello di utopia, cui solo dava forma la figura ideale del principe nuovo. Machiavelli dunque intraprese un viaggio che identificò come viaggio spirituale in giro per il mondo in seguito tornato in patria ebbe una nuova visione sia del "popolo" che della "nazione" così comincia quello che oggi definiamo rinnovamento culturale.

Il principe o De Principatibus
Emblematico è il modo di trattare argomenti delicati, quali le mosse necessarie al Principe per organizzare uno stato ed ottenerne uno stabile e duraturo consenso. Per esempio vi troviamo indicazioni programmatiche, quali l'utilità nello "spegnere" gli stati abituati a vivere liberi di modo da averli sotto il proprio diretto controllo (metodo preferito al creare un'amministrazione locale "filo-principesca" o al recarvisi e stabilirvisi personalmente, metodo però sempre tenuto da conto in modo da avere un occhio sempre presente sulle proprie terre, e stabilire una figura rispettata e conosciuta in loco).
Altro elemento caratteristico del trattato sta nella scelta dell'atteggiamento da tenere nei confronti dei sudditi, culminante nell'annosa questione del "s'elli è meglio essere amato che temuto o e converso" (Cap. XVII).
La risposta corretta si concretizzerebbe in un ipotetico principe amato e temuto, ma essendo difficile o quasi impossibile per una persona umana l'essere ambedue le cose, si conclude decretando che la posizione più utile viene ad essere quella del Principe temuto (pur ricordando che mai e poi mai il Principe dovrà rendersi odioso nei confronti del popolo, fatto che porrebbe i prodromi della propria caduta). Qua appare indubbiamente la concezione realistica e la concretezza del Machiavelli, il quale non viene a proporre un ipotetico Principe perfetto, ma irrealizzabile nel concreto, bensì una figura effettivamente possibile e soprattutto "umana".
Ulteriore atteggiamento principesco dovrà l'essere metaforicamente sia "volpe" che "leone", in modo da potersi difendere dalle avversità sia tramite l'astuzia (volpe) che tramite la violenza (leone). Mantenendo un solo atteggiamento dei due non ci si potrà difendere da una minaccia violenta o di astuzia.
Spesso alla figura evocata dal Principe di Machiavelli viene associata la figura di un uomo privo di scrupoli, di un cinismo estremo, nemico della libertà. Spesso gli viene anche associata la frase "il fine giustifica i mezzi", che - invece - mai enunciò. Questo perché la parola "giustifica" evoca sempre un criterio morale, mentre Machiavelli non vuole "giustificare" nulla, vuole solo valutare, in base ad un altro metro di misura, se i mezzi utilizzati sono adatti a conseguire il fine politico, l'unico fine da perseguire è il mantenimento dello Stato. Machiavelli nella stesura del Principe si rifà alla reale situazione che gli si presentava attorno, una situazione che necessitava essere risolta con un atto deciso, forte, violento. Machiavelli non vuole proporre dei mezzi giustificati da un fine, egli pone un programma politico che qualunque Principe voglia portare alla liberazione dell'Italia, da troppo tempo schiava, dovrà seguire. Fuori dai suoi intenti una giustificazione morale dei punti suggeriti: egli stende un vademecum necessariamente utile a quel Principe che finalmente vorrà impugnare le armi. Alle accuse di sola illiberalità od autoritarismo, si può dare una risposta leggendo il capitolo IX, "De Principatu Civili", ritratto di un principe nascente dal e col consenso del popolo, figura ben più solida del Principe nato dal consesso dei "grandi", cioè dei grandi proprietari feudali. Non esiste un unico tipo di principato, ma per ognuno troviamo un'ampia trattazione di pregi e dei difetti.

Controversie sul Principe
La gelida obiettività con cui Machiavelli descriveva il comportamento freddo, razionale ed eventualmente spietato che un capo di stato deve mettere in atto, colpì i critici. Così, da una parte vi è la linea di pensiero tradizionale, secondo la quale "Il Principe" è un trattato di scienza politica destinato al governante, che tramite esso saprà come affrontare i problemi, spesso drammatici, posti dal suo ruolo di garante della stabilità dello stato; dall'altra, troviamo un'interpretazione secondo cui il trattato di Machiavelli ha come vero scopo quello di mettere a nudo, e quindi chiarire, le atrocità compiute dai principi dell'epoca, a vantaggio del popolo, che di conseguenza avrebbe le dovute conoscenze per attuare le precauzioni al fine di stare in guardia e difendersi quando si dimostra necessario.Visto anche come figura assai drammatica la quale per il bene dello stato stesso non si può permettere di lasciare spazio al proprio carattere diventando cosi quasi un uomo macchina.
Questa seconda interpretazione (la cosiddetta "interpretazione obliqua") ha avuto diffusione soprattutto nell'Ottocento; ne è un esempio Foscolo nei "Sepolcri": "..temprando lo scettro a' regnatori / gli allor ne sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue". In epoca più recente, tuttavia, è prevalso il primo orientamento, dal quale risalta la libertà e concretezza anche spregiudicata del pensiero di Machiavelli.

Lo stile
Il modello linguistico prescelto da Machiavelli è fondato sull'uso vivo più che sui modelli letterari; lo scopo, esplicito soprattutto nel Principe, di scrivere qualcosa di utile e di chiaramente espressivo lo induce a scegliere spesso modi di dire proverbiali di immediata evidenza.
Il lessico impiegato dall'autore si rifà a quello boccacciano, è ricco di parole comuni e i latinismi, seppure abbondanti, provengono per lo più dal gergo cancelleresco. Nelle sue opere ricoprono un ruolo assai rilevante anche le metafore, i paragoni e le immagini.
La concretezza è una delle caratteristiche salienti, l'esempio concreto ed essenziale, tratto dalla storia sia antica che recente, è sempre preferito al concetto astratto.
In generale si parla di uno stile "fresco", come lo ebbe a definire Nietzsche in Al di là del bene e del male, con un riferimento particolare all'uso della paratassi, a una certa sentenziosità delle frasi, costruite secondo un criterio di chiarezza a scapito di un maggior rigore logico-sintattico. Machiavelli rende evidenti concetti che, se espressi con un linguaggio più elaborato, sarebbero molto difficili da decifrare, e riesce a esprimere le sue tesi con originale capacità espositiva.

▪ 1547 - Sebastiano del Piombo (nome d'arte di Sebastiano Luciani; Venezia, 1485 – Roma, 21 giugno 1547) è stato un pittore italiano.

A Venezia
Nasce da Luciano Luciani a Venezia nel 1485, secondo la testimonianza di Vasari, che lo dice morto a sessantadue anni nel 1547. Ancora il Vasari riporta che la sua prima professione fu quella di musicista «perché oltre al cantare si dilettò molto di sonar varie sorti di suoni, ma sopra il tutto il liuto, per sonarsi in su quello stromento tutte le parti senz'altra compagnia [...] Venutagli poi voglia, essendo ancor giovane, d'attendere alla pittura, apparò i primi principii da Giovan Bellino allora vecchio. E doppo lui, avendo Giorgione da Castel Franco messi in quella città i modi della maniera moderna, più uniti e con certo fiammeggiare di colori, Sebastiano si partì da Giovanni e si acconciò con Giorgione, col quale stette tanto che prese in gran parte quella maniera».
Nel Ritratto di giovane donna di Budapest, del 1508 circa, se i riferimenti a Giovanni Bellini e al Giorgione consistono, rispettivamente, nello scalare i piani della rappresentazione e nell'osservazione precisa dell'epidermide, si mostra la caratteristica del Luciani: il contrappuntare gli elementi della composizione, qui mettendo in relazione gli opposti moti del braccio e della testa.
Tra il 1508 e il 1509 dovrebbe aver realizzato le quattro ante d'organo nella chiesa di San Bartolomeo di Rialto, commesse da Alvise Ricci, vicario della chiesa dal 1507 al 1509: in esse la critica vede la fusione di colore e spazio del Giorgione e l'esaltazione delle forme potentemente costruite già in sintonia con le conquiste del primo classicismo tosco - romano; purtroppo le ridipinture ed i "restauri" in chiave giorgionesca che si sono susseguiti nel tempo hanno confuso e spento gli squillanti, "fiammeggianti" colori di Sebastiano.
Al 1510 data la tavola della Salomé della National Gallery di Londra, mentre tra il 1510 e il 1511 realizza la Pala di san Giovanni Crisostomo, commissionata per testamento, il 13 aprile 1509, da Caterina Contarini Morosini affinché fosse eseguita dopo la morte del marito Nicolò, deceduto nel 1510. I santi rappresentati sono, da sinistra, Caterina, Maddalena, Lucia, Crisostomo, Nicola, Giovanni Battista e Liberale.
Il Vasari l'attribuì in un primo tempo (1550) al Giorgione ma nella redazione delle vite del 1568, ammettendo lo sbaglio, restituì la paternità a Sebastiano. La critica successiva si divide, volendo alcuni vedere nel dipinto almeno l'ideazione del Giorgione.
Ma già secondo un esame stilistico, la struttura compositiva dell'opera appare estranea alle intenzioni del maestro di Castelfranco, non interessato a legare le figure in composizioni armoniche, in «masse articolate, serrate nella loro complessità, ma individuate in un movimento potenziale» (Pallucchini 1944) come qui è mostrato nel rapporto contrappuntato fra i due santi a destra, il Battista e Liberale. Un'altra sostanziale differenza sta nella creazione di uno spazio unitario e grandioso, tratto che lo differenzia da Giorgione, impegnato piuttosto nello sviluppo di un nuovo rapporto con la natura.
Inoltre la datazione del testamenti dei committenti (in particolare quelli di Nicolò, datati fra 4 e 18 maggio 1510) fugano la presenza di Giorgione, morto nell'ottobre 1510, al quale sarebbe rimasto ormai pochissimo tempo per prendere parte all'impresa considerando anche quanto bisognasse attendere per attingere ai crediti di un lascito testamentario ed allestire il lavoro per una pala di grandi dimensioni (Gentili-Bertini 1985).
La novità della composizione è nell'esclusione della visione frontale delle pale tradizionali e, a giudizio del Lucco, nel tono dimesso e sereno delle figure inserite in un pacato paesaggio crepuscolare: Crisostomo, addirittura, ha deposto mitria e pastorale e legge tranquillamente.
L'ultima notizia dell'attività artistica veneziana di Sebastiano è documentata da Marcantonio Michiel che nel suo quaderno del 1525 annota di aver visto in casa del patrizio Taddeo Contarini la tela dei cosiddetti "Tre Filosofi" di Giorgione "finita" da Sebastiano.

A Roma
Nella primavera del 1511 «spargendosi la fama delle virtù di Sebastiano, Agostino Chigi sanese, ricchissimo mercante, il quale in Vinegia avea molti negozii, sentendo in Roma molto lodarlo, cercò di condurlo a Roma, piacendogli oltre la pittura che sapesse così ben sonare di liuto e fosse dolce e piacevole nel conversare. Né fu gran fatica condurre Bastiano a Roma, perché, sapendo egli quanto quella patria comune sia sempre stata aiutatrice de' begl'ingegni, vi andò più che volentieri. Andatosene dunque a Roma, Agostino lo mise in opera e la prima cosa che gli facesse fare furono gl'archetti che sono in su la loggia, la quale risponde in sul giardino dove Baldassarre Sanese aveva, nel palazzo d'Agostino in Trastevere, tutta la volta dipinta; nei quali archetti Sebastiano fece alcune poesie di quella maniera ch'aveva recato da Vinegia, molto disforme da quella che usavano in Roma i valenti pittori di que' tempi».
Sono lunette affrescate nel palazzo della Farnesina con soggetti mitologici, tratti dalle Metamorfosi di Ovidio: Tereo insegue Filomela e Progne, Aglauro ed Erse, Dedalo e Icaro, Giunone, Scilla taglia i capelli a Niso, La caduta di Fetonte, Borea rapisce Orizia, Zefiro e Flora e una Testa gigantesca che sono certamente conclusi nel gennaio 1512; mesi dopo aggiunge un Polifemo sotto la lunetta del Dedalo e Icaro.
Del 1512 è il ritratto degli Uffizi chiamato Fornarina e il Ritratto del cardinale Ferry Corondolet e del suo segretario di Madrid; qui, se l'impostazione del personaggio è raffaellesca, l'atmosfera che promana dal paesaggio dorato e dalle costruzioni nel fondo è veneta.

L'amicizia di Michelangelo
Il Ritratto d'uomo, nel Museo di Budapest dal 1895, allora attribuito a Raffaello e per questo motivo pagato una somma enorme, se mantiene la sintesi compositiva fra scuola romana e veneta, mostra la tendenza in atto nella ritrattistica del Luciani alla semplificazione nei particolari e nella stesura cromatica.
Sono gli anni della rivalità tra Raffaello e Michelangelo: «molti artefici che più aderivano alla grazia di Raffaello che alla profondità di Michelagnolo, erano divenuti, per diversi interessi, più favorevoli nel giudizio a Raffaello che a Michelagnolo. Ma non già era de' seguaci di costoro Sebastiano perché, essendo di squisito giudizio, conosceva a punto il valore di ciascuno. Destatosi dunque l'animo di Michelagnolo verso Sebastiano, perché molto gli piaceva il colorito e la grazia di lui, lo prese in protezione, pensando che se egli usasse l'aiuto del disegno in Sebastiano, si potrebbe con questo mezzo, senza che egli operasse, battere coloro che avevano sì fatta openione, et egli sotto ombra di terzo giudicare quale di loro fusse meglio».
Collocata entro il 1516, su un altare della chiesa viterbese di San Francesco - ora nel Museo civico di Viterbo - è la Pietà di cui il Vasari afferma che «fu con molta diligenza finito da Sebastiano, che vi fece un paese tenebroso molto lodato, l'invenzione però ed il cartone fu di Michelangelo»; il cartone è perduto ma è rimasto un disegno di Michelangelo, con studi preparatori della pala e le radiografie del dipinto hanno tuttavia mostrato le tracce del cartone michelangiolesco. Traspare nel dipinto, certamente il capolavoro di Sebastiano, spoglio, severo e quasi arcaico, «la solitudine senza speranza che separa la Madre impietrita e il Figlio morto, ed entrambi da un Dio Padre addirittura nullificato dall'audacissima idea [...] di prolungare oltre il momento evangelico della morte sulla croce le tenebre sul mondo» (Rosci).
Nello stesso anno riceve dal mercante Pierfrancesco Borgherini, che aveva apprezzato la sua Pietà, la commissione della decorazione della sua cappella nella chiesa romana di San Pietro in Montorio; il 9 agosto Sebastiano chiede un disegno per il suo lavoro a Michelangelo che glielo invia la settimana seguente.
Verso la metà del secondo decennio il suo stile diviene la più valida alternativa a quello di Raffaello e la competizione con l'Urbinate diviene esplicita: alla fine del 1516 il cardinale Giulio de' Medici commissiona due pale d'altare per la sua sede vescovile di Narbonne, una a Raffaello, che eseguirà la Trasfigurazione e l'altra a Sebastiano, che conclude nel 1519 La resurrezione di Lazzaro, ora alla National Gallery di Londra.
La corrispondenza di Leonardo Sellajo con Michelangelo riporta alcuni termini della competizione: nel gennaio del 1517 scrive che Raffaello mette «sottosopra el mondo perché lui non la faccia per non venire a paraghoni»; a settembre scrive che Sebastiano «fa miracholi di modo che ora mai si può dire abbia vinto»; Raffaello non ha neanche cominciato la sua tavola e nel luglio del 1518 Sebastiano scrive a Michelangelo di aver rallentato il lavoro perché «non voglio che Rafaello veda la mia in sino lui non ha fornita la sua». Finita nel maggio 1519, l'opera è esposta nel Palazzo vaticano una prima volta a dicembre «con grande sua laude et di tutti et del Papa» e ancora, il 12 aprile 1520, a confronto con l'incompiuta Trasfigurazione di Raffaello, morto sei giorni prima.
Come dice il Vasari, «fu contrafatta e dipinta con diligenza grandissima, sotto ordine e disegno in alcune parti di Michelagnolo». La composizione si sviluppa in due flussi di figure disposte diagonalmente e si apre su un paesaggio che, se allude a una Roma di fantasia, richiama ancora, ma con un fare più aspro, le vedute giorgionesche. Se alcune monumentali figure si riferiscono al Buonarroti, l'alterno variare di colori freddi e caldi e il senso atmosferico, che dà severità alla scena, sono essenzialmente di Sebastiano.
Il cardinale rifiuterà tuttavia di pagare i 1000 ducati richiesti da Sebastiano che dovrà accontentarsi di 800 ducati.
«Fece per il cardinale d'Aragona, in un quadro, una bellissima S. Agata ignuda e martirizata nelle poppe, che fu cosa rara. Il qual quadro è oggi nella guardaroba del signor Guidobaldo duca d'Urbino, e non è punto inferiore a molti altri quadri bellissimi che vi sono di mano di Raffaello da Urbino, di Tiziano e d'altri»: il Vasari confuse il cardinale d'Aragona con il cardinale Ercole Rangoni, diacono di sant'Agata, vero committente del dipinto, che appare molto lontano dalla cultura pittorica veneta e quasi irreale, nelle superfici lisce e nel ritmo compositivo delle figure che danno al martirio un'impressione di algido balletto.
Il 6 aprile 1520 muore Raffaello: Sebastiano comunica la notizia il 12 aprile a Michelangelo, raccomandandosi per ottenere la decorazione della Sala dei Pontefici in Vaticano che tuttavia non otterrà. Accetta la commissione di una tavola e di completare la decorazione della cappella Chigi in Santa Maria del Popolo, sotto le figure di Raffaello, ma Sebastiano, temendo il confronto, indugia finché gli eredi di Agostino Chigi si stancano: «E così allogata a Francesco Salviati la tavola e la cappella, egli la condusse in poco tempo a quella perfezione che mai non le poté dare la tardità e l'irresoluzione di Sebastiano, il quale, per quello che si vede, vi fece poco lavoro, se bene si trova ch'egli ebbe dalla liberalità d'Agostino e degli eredi molto più che non se gli sarebbe dovuto quando l'avesse finita del tutto; il che non fece, o come stanco dalle fatiche dell'arte, o come troppo involto nelle commodità et in piaceri». In dicembre gli nasce il figlio Luciano cui Michelangelo fa da padrino.
Il 6 settembre 1521 comunica a Michelangelo di voler dipingere a olio il muro della cappella Borgherini di San Pietro in Montorio la Flagellazione che porterà a compimento solo nel 1524; conclude la Visitazione oggi al Louvre. Il 19 novembre 1523 viene eletto papa, col nome di Clemente VII, Giulio de' Medici.
Nel marzo 1524 la decorazione della cappella Borgherini è finalmente conclusa: «il Cristo alla colonna, che fece in San Piero a Montorio, infino ad ora non ha mai mosso et ha la medesima vivezza e colore che il primo giorno: perché usava costui questa così fatta diligenza, che faceva l'arricciato grosso della calcina con mistura di mastice e pece greca, e quelle insieme fondate al fuoco e date nelle mura, faceva poi spianare con una mescola da calcina fatta rossa, o vero rovente, al fuoco. Onde hanno potuto le sue cose reggere all'umido e conservare benissimo il colore senza farli far mutazione».
Si è identificato, in un piccolo foglio con un Cristo alla colonna di Michelangelo, oggi al British Museum, l'originale da cui Sebastiano trasse suoi propri disegni per l'olio su intonaco della chiesa romana.
Nel 1525 completa anche la Flagellazione di Cristo di Viterbo e il Ritratto di Anton Francesco degli Albizzi di Houston; dell'anno successivo sono i ritratti di Andrea Doria, di Clemente VII e di Pietro Aretino: «lo fece sì fatto che, oltre al somigliarlo, è pittura stupendissima per vedervisi la differenza di cinque o sei sorti di neri che egli ha addosso: velluto, raso, ermisino, damasco e panno, et una barba nerissima sopra quei neri, sfilata tanto bene che più non può essere il vivo e naturale. Ha in mano questo ritratto un ramo di lauro et una carta dentrovi scritto il nome di Clemente Settimo e due maschere inanzi, una bella per Virtù e l'altra brutta per il Vizio. La quale pittura Messer Pietro donò alla patria sua, et i suoi cittadini l'hanno messa nella sala publica del loro consiglio, dando così onore alla memoria di quel loro ingegnoso cittadino e ricevendone da lui non meno».
Durante il Sacco di Roma, nel maggio 1527 Sebastiano si rifugia dapprima in Castel Sant'Angelo; nel marzo del 1528 è attestato a Orvieto e nel giugno è a Venezia, dove l'11 agosto procura la dote per la sorella Adriana e poi è testimone alle nozze del pittore Vincenzo Catena. Fra molte esitazioni torna a Roma alla fine di febbraio 1529: della fine di quest'anno dovrebbe essere il Cristo portacroce del Prado, visto quasi frontalmente a tre quarti di figura, in una composizione spoglia e con larghe zone d'ombra, in sintonia col nuovo clima spirituale venuto a crearsi col Sacco e precorrendo la pittura sacra dell'epoca del Concilio di Trento.

"Fra' del Piombo"
Il 24 febbraio 1531 scrive a Michelangelo che «io mi son ridotto a tanto che potria ruinar l'universo che non me ne curo e me ne rido d'ogni cossa [...] Ancora non mi par esser quel Bastiano che io era inanti al sacco: non posso tornar in cervello ancora».
In quello stesso anno ottiene la carica - da cui deriverà il nome "del Piombo" - di piombatore pontificio, ossia di guardasigilli delle bolle e delle lettere apostoliche, con l'obbligo di indossare la tonaca di frate: «se me vedessi frate», scrive a Michelangelo, «credo certo ve la rideresti. Io sono il più bel fratazo di Roma. Cossa in vero non credo pensai mai». E all'Aretino: «Hora che Nostro Signor m'ha fatto frate, non vorria ve desti a intendere che la frataria m'habbi guastato. Et che non sia quel medesimo Sebastiano pittore buon compagno, che per il passato io son sempre stato [...] et dite al Sansovino che a Roma si pesca offitj, piombi, capelli [cappelli cardinalizi] et altre cose [...] ma a Venetia si pesca anguele e menole e masenette».
Nel 1534 si rompe l'amicizia fra Sebastiano e Michelangelo; scrive Vasari che «avendosi a dipigner la faccia della cappella del Papa, dove oggi è il Giudizio di esso Buonarroto, fu fra loro alquanto di sdegno, avendo persuaso fra' Sebastiano al Papa che la facesse fare a Michelagnolo a olio là dove esso non voleva farla se non a fresco. Non dicendo dunque Michelagnolo né sì, né no et acconciandosi la faccia a modo di fra' Sebastiano, si stette così Michelagnolo, senza metter mano all'opera, alcuni mesi; ma essendo pur sollecitato, egli finalmente disse che non voleva farla se non a fresco, e che il colorire a olio era arte da donna e da persone agiate et infingarde, come fra' Bastiano; e così gettata a terra l'incrostatura fatta con ordine del frate, e fatto arricciare ogni cosa in modo da poter lavorare a fresco, Michelagnolo mise mano all'opera, non si scordando però l'ingiuria che gli pareva avere ricevuta da fra' Sebastiano, col quale tenne odio quasi fin alla morte di lui».
Al Luciani è prevalentemente attribuito il Ritratto del cardinale Reginald Pole, ma con le autorevoli eccezioni del Longhi e dello Zeri, che lo danno a Perin del Vaga, in virtù dell'intellettualistico raffaellismo del dipinto.
Solo nel 1540 finisce la Pietà, ora a Siviglia, commissionata da Ferrante Gonzaga nel 1533 per farne dono a Francisco de los Cobos, cancelliere dell'imperatore Carlo V.
Ancora intorno al 1540, secondo la moderna critica, «condusse con gran fatica [...] al patriarca d'Aquilea un Cristo che porta la croce, dipinto in pietra dal mezzo in su, che fu cosa molto lodata, e massimamente nella testa e nelle mani, nelle quali parti era Bastiano veramente eccellentissimo». La citazione del Vasari è stata ricondotta al Cristo portacroce di Budapest. È una figura rappresentata con la massima essenzialità - manca anche la corona di spine - come a voler offrire la raffigurazione del dolore in sé stesso, universale perché colto nella sola espressione della sofferenza; il Cristo, tutt'uno con la croce, emerge violentemente dallo spazio buio e amplificato, protendendo le dita nervose davanti agli occhi dello spettatore. Per Federico Zeri, vi è «un senso di gravezza asciutta e dolorosa, un concentrarsi sul tema sacro con intenti inequivocabilmente meditativi, che segnano un distacco ben risoluto dalla libera idealizzazione formale dei suoi dipinti giovanili».
Il pittore è sepolto a Roma nella chiesa di Santa Maria del Popolo.

La fortuna critica
Fu lodato dall'Ariosto, «Bastiano [...] ch'onora [...] Venezia», dal Michiel, dall'Aretino, «Sebastiano Pittor miracoloso», dal Biondo, «pereua pengendo di superar la natura», e dal Vasari che, a parte Michelangelo, secondo lui irraggiungibile, e con le sue note riserve sull'indole del veneziano, considera Sebastiano alla pari di Raffaello e Tiziano e, dopo la morte del Sanzio, il più grande pittore di Roma: i contemporanei non ebbero dunque dubbi sulla grandezza del pittore, con l'eccezione del Dolce, il biografo di Tiziano, il quale scrisse che «Bastiano non giostrava di pari con Rafaello, se bene haveva in mano la lancia di Michel'Agnolo: e questo, perché egli non la sapeva adoperare: e molto meno con Tiziano».
Poco di lui si scrive nel Seicento; nel Settecento il veneziano Zanetti ne individua le radici formative: «Non vi fu, dopo Tiziano, chi s'accostasse più al colorito e alla forza del carattere Giorgionesco, quanto questo Pittore [...] serbando la dovuta misura, giunse a dipingere assai saporitamente con forza e rilievo sulle vere vie di Giorgione; onde molto onore a lui venne. E non in Venezia solamente, ma anche in Roma, dove recò quel nuovo e bel modo di colorire».
L'Ottocento è secolo di ricerche documentarie e filologiche ma anche del giudizio secondo il quale Sebastiano è un eclettico e diviso in due netti periodi distinti, quello veneziano, giorgionesco, e quello romano, ove è seguace di Raffaello e di Michelangelo: «educato alla Scuola veneziana, poco dopo il suo arrivo a Roma andò gradualmente perdendo la sua originalità, imitando quasi servilmente il Buonarroti e il Sanzio. La sua massima, disegno di Michelangelo e colore di Tiziano, fu trasportata a Venezia e, divenuta quasi un adagio volgare, videsi posta sulla porta del Tintoretto» (Cavalcaselle)
Nel Novecento si assiste alla ripresa degli studi sull'opera e sulla personalità del Luciani: il Fiocco ne rifiuta la nozione eclettica: «non trasse dai vari stili [...] una maniera ibrida e priva di sincerità, ma ispirandosi ad essi, seppe essere geniale ed eminentemente evolutivo. L'eclettismo non era allora nemmeno una formulazione retorica. Passare dallo stile caldo e pastoso veneziano al preciso disegnar fiorentino, smorzare lentamente le luminosità delle tinte per chiedere alle sole risorse del chiaroscuro quello che più leggermente aveva ottenuto con un certo fiammeggiar di colori, non è da pittore privo di energie e di doti originali».
Per il Pallucchini, Sebastiano mancò di fantasia inventiva: «sentì impellente l'esigenza di appoggiarsi a visioni già concretate da altri artisti, filtrandole attraverso il vaglio di una sensibilità critica quanto mai vivace [...] naturalmente il punto di arrivo è ben lontano e differenziato da quello di partenza [...] in Sebastiano l'espressione artistica è interpretazione già risolta e scontata con una volontà coscientissima di un proprio linguaggio autonomo e personale: il procedimento è quindi tipicamente manieristico [...] l'abusato pregiudizio di un Sabastiano che seppe conciliare Venezia con Roma deve essere pertanto risolto su un piano logico e individuale di un iniziale contrasto di tendenze tra l'artista e l'ambiente, che si placa nel momento in cui questo venga a significare clima culturale più propizio al suo temperamento».
Lo Zeri e l'Argan, infine, individuano nel Luciani il personaggio che, facendo da ponte fra Raffaello e Michelangelo, traspone «gli effetti luminosi dal piano delle emozioni sensorie al piano delle commozioni morali, anzi di quella commozione religiosa in cui soltanto, per la mistica del tempo, le verità della fede si rivelano all'intelletto [...] il primo indizio dell'orientarsi dell'arte verso gli ideali religiosi della Controriforma».

▪ 1788 - Johann Georg Hamann (Königsberg, 27 agosto 1730 – Münster, 21 giugno 1788) è stato un filosofo prussiano, tra le più importanti personalità del Contro-Illuminismo, fu il principale sostenitore dello Sturm und Drang e il maestro di Herder e di Jacobi. Amico di Immanuel Kant, fu tuttavia suo avversario nell'ambito intellettuale.
La sfiducia nella ragione e, di conseguanza, l'opposizione all'Illuminismo, lo portarono alla conclusione che solo la fede in Dio fosse l'unica soluzione per vagliare le problematiche filosofiche. Hamann fu profondamente influenzato dagli scritti di Hume sui limiti del pensiero umano (in particolare dal Trattato sulla natura umana) tanto che in un suo famoso saggio, i Sokratische Denkwürdigkeiten (1759), usò proprio la figura di Socrate come archetipo dell'uomo che dichiara di non avere conoscenze certe e di non sapere nulla. Con tale esempio egli volle criticare la dipendenza dell'Illuminismo dalla ragione umana, che, come affermava già Hume, si basa solo su conoscenze probabili e non certe.
Soprannominato dai suoi contemporanei il "Mago del Nord" ("Magus im Norden"); mentore di Herder, ebbe una grandissima influenza sul pensiero di numerosi filosofi del suo tempo e del secolo seguente, da Goethe a Jacobi, da Hegel a Kierkegaard.

Hamann e linguaggio
Il linguaggo per Hamann ha un'origine divina, è manifestazione di Dio (Λόγος) che si rivela. La sua critica a Kant, e in generale ad una certa impostazione razionalista, va letta come critica al secolarismo che l'Illuminismo stava portando a compimento. Da apologeta radicale del Cristianesimo non poteva non vedere con diffidenza gli avvenimenti che stavano sconvolgendo la tradizione cristiana e che, di lì a poco, avrebbero portato agli orrori della rivoluzione francese. Tutta la sua poliedrica e disordinata produzione era quindi inserita nello spirito apologetico e protoromantico; era finalizzata all'esaltazione dei valori spirituali cristiani. Il linguaggio è per il nostro pensatore una categoria a priori, la verità di fede è pertanto assoluta e incontrovertibile. La sua concezione del linguaggio va letta in funzione pedagogica e teologica. Egli stesso, come si legge nei suoi scritti, amava considerarsi guida morale della Germania. Partendo dall'assioma che non c'è affatto frattura tra pensiero e linguaggio, ma anzi stretta connessione, finalizzò tutta la sua speculazione nel mostrare come i diversi linguaggi (simboli) potessero essere compresi solo in chiave teologica, partendo dalla premessa che tutta la creazione è opera di Dio. Tutto è Parola di Dio, non solo le Sacre Scritture ma anche la natura parla all'uomo. Le sue critiche spesso erano colorate da vere e proprie invettive di tipo "oscurantista". Il dialogo acceso che ebbe con Herder in merito all'origine divina ci mostra come la sua impostazione e il suo punto di vista era in realtà imbevuto della cultura luterana e conservatrice prussiana. Egli tacciò Herder di anticristianesimo, poiché assertore di un'origine storico-immanentistica del linguaggio, e sebbene tale condanna possa apparire esagerata, la posizione di Hamann non deve stupire: per il filosofo prussiano negare la divinità della parola (linguaggio) significava negare la divinità del Verbum, della Parola e della Rivelazione di Dio che si manifesta nel creato. Posizioni affini a quelle di Hamann sull'origine divina del linguaggio saranno formulate indipendentemente anche dal visconte de Bonald nelle sue Recherches philosophiques (1818).

▪ 1852 - Friedrich Wilhelm August Fröbel (Oberweißbach, 21 aprile 1782 – Marienthal, 21 giugno 1852) è stato un pedagogista tedesco.
Definito il Pedagogista del Romanticismo è universalmente noto per aver creato e messo in pratica il concetto di Kindergarten (Giardino d'infanzia corrispondente all'odierna scuola dell'infanzia). Pur venendo subito riconosciute le straordinarie finalità sociali ed educative di questi centri, verranno a lungo osteggiati dal governo Prussiano dell'epoca, per la presunte idee socialiste e rivoluzionarie dello stesso Fröbel. Ciò nonostante si diffusero rapidamente in tutti gli stati Tedeschi.
Per Fröbel l'importanza del gioco era fondamentale, tale da ritenersi un diritto dell'infanzia. Il gioco è per il bambino l'equivalente del lavoro per l'adulto. Attraverso il gioco si sviluppano il linguaggio, l'attività logico-matematica, la produttività, il disegno.Dunque l'educatore, può scoprire gli interessi di ciascun bambino e disciplinarne, senza costrizione, l'attività dirigendola verso i fini che ritiene più opportuni.Attraverso l'educazione, il divino che è nell'uomo si sviluppa, per fargli trovare la pace con la natura e l'unione con Dio.
Nella sua opera principale L'Educazione dell'uomo (1826) Fröbel riprende in parte le riflessioni di Pestalozzi sui concetti educativi di spontaneità e intuizione e il misticismo dei filosofi suoi contemporanei.

▪ 1908 - Nikolaj Andreevič Rimskij-Korsakov (Tichvin, 18 marzo 1844 – Ljubensk, 21 giugno 1908) è stato un compositore e insegnante russo, particolarmente noto per la sua fine orchestrazione, che può esser stata influenzata dalla sinestesia. Le sue composizioni più famose sono Il volo del Calabrone, Shéhérazade e La grande Pasqua russa.

▪ 1970 - Achmed Sukarno (Surabaya, 6 giugno 1901 – Giacarta, 21 giugno 1970) è stato un politico indonesiano, è stato il primo presidente dell'Indonesia.
Aiutò la nazione ad ottenere l'indipendenza dai Paesi Bassi e fu presidente dal 1945 al 1967, assistendo in quel ruolo all'alterno successo nella turbolenta transizione all'indipendenza. Sukarno fu costretto ad abbandonare il potere da uno dei suoi generali, Suharto, cui venne concesso il titolo formale di Presidente nel marzo 1967.
Il nome di Sukarno viene talvolta scritto come Soekarno, e gli indonesiani lo ricordano anche come Bung Karno. Come molte persone dell'isola di Giava, aveva solo un nome.

Le origini
Figlio di un nobile dell'isola di Giava e della sua moglie Balinese della reggenza Buleleng, Sukarno nacque a Surabaya (anche se diverse fonti dicono che nacque a Blitar, nella parte orientale di Giava) nelle Indie Orientali Olandesi (l'odierna Indonesia). Venne ammesso da bambino in una scuola neerlandese. Quando suo padre lo mandò a Surabaya nel 1916 per frequentare le scuole secondarie, vi incontrò Tjokroaminoto, un futuro nazionalista. Nel 1921 iniziò a studiare alla Technische Hoogeschool di Bandung.
Sukarno parlava correntemente diverse lingue, in particolare l'olandese. Come egli ebbe a ricordare, quando era studente a Surabaya, si sedeva spesso dietro lo schermo dei cinema leggendo i sottotitoli in olandese al contrario, perché non poteva permettersi di pagare il prezzo del biglietto.

La lotta per l'indipendenza
Sukarno divenne un capo del movimento indonesiano per l'indipendenza, Partai Nasional Indonesia quando questo venne fondato nel 1927. Egli portò avanti anche la sua convinzione che il Giappone avrebbe cominciato una guerra contro le potenze imperialiste occidentali e che Giava poteva ottenere la sua indipendenza con l'aiuto giapponese. Venne arrestato nel 1929 dalle autorità coloniali olandesi e condannato a due anni di prigione. Quando venne rilasciato era diventato un eroe popolare. Negli anni trenta venne arrestato ancora diverse volte e stava scontando una condanna su un'isola quando il Giappone prese il potere a Giacarta nel 1942.

L'occupazione giapponese
Sia a Sumatra che a Giava c'erano forze che aiutarono i giapponesi contro gli olandesi, ma non collaborarono nel fornire il carburante per l'aviazione che era così essenziale allo sforzo bellico giapponese. Bisognosi dell'appoggio locale per rifornire i cargo, i giapponesi riportarono Sukarno a Giacarta.
Anche se Sukarno si rifiutò sempre di parlare delle sue azioni nel corso della guerra, si deve notare che al suo ritorno e grazie all'uso della radio giapponese e di reti di altoparlanti installate su tutta Giava, i giapponesi ricevettero il loro carburante oltre a delle Romusha (unità di lavoratori volontari) e a delle Peta e Heiho (truppe di volontari di Giava) che alla metà del 1945 ammontavano a circa due milioni, e si preparavano a sconfiggere qualsiasi forza Alleata inviata a riconquistare Giava.
Il 10 novembre 1943 Sukarno venne decorato dall'Imperatore del Giappone a Tokio. Divenne anche capo del Badan Penyelidik Usaha Persiapan Kemerdekaan Indonesia (BPUPKI), il comitato organizzato dai giapponesi, attraverso il quale venne in seguito ottenuta l'indipendenza indonesiana.

I primi tempi dell'indipendenza, la Panca Sila
Dopo la sconfitta giapponese, Sukarno e Mohammad Hatta dichiararono la Repubblica di Indonesia il 17 agosto 1945.
La visione di Sukarno per la costituzione indonesiana del 1945 comprendeva la Panca Sila (in sanscrito: cinque pilastri). La filosofia politica di Sukarno era guidata (in ordine sparso) da elementi di marxismo, democrazia e islam. Questi vengono riflessi nella Panca Sila, nell'ordine con cui li abbracciò in un discorso del 1º giugno 1945:
▪ Nazionalismo (unità nazionale)
▪ Internazionalismo (una nazione sovrana tra pari)
▪ Democrazia rappresentativa (tutti i gruppi più significativi sono rappresentati)
▪ Giustizia sociale (influenzata dal marxismo)
▪ Fede in Dio
Il parlamento indonesiano, fondato sulle basi di questa costituzione originale (e successivamente rivista), si dimostrò ingovernabile. Ciò era dovuto alle differenze inconciliabili tra le varie fazioni sociali, politiche, religiose ed etniche.
Nel caos che seguì, tra le varie fazioni e i tentativi neerlandesi di ristabilire il controllo coloniale, le truppe dei Paesi Bassi catturarono Sukarno nel dicembre 1948, ma furono costrette a rilasciarlo dopo il cessate il fuoco. Egli fece ritorno a Giacarta il 28 dicembre 1949.
Ci furono ulteriori tentativi di colpo di stato contro Sukarno nel 1956.
Nel tentativo di ripristinare l'ordine, Sukarno fondò quella che chiamò democrazia guidata, nella quale detenne un sempre maggior potere esecutivo, mantenendo al tempo stesso un parlamento multipartitico.

"Democrazia guidata" e autocrazia crescente
Durante quest'ultima parte della sua presidenza, Sukarno si trovò ad affidarsi sempre più all'esercito e all'appoggio del PKI - il Partito Comunista Indonesiano.
Il 30 novembre 1957, ci fu un attacco condotto con delle granate contro Sukarno, mentre stava visitando una scuola a Giacarta. Sei bambini rimasero uccisi, ma Sukarno non subì alcuna grave ferita. In dicembre ordinò la nazionalizzazione di 246 imprese neerlandesi. In febbraio iniziò la repressione dei ribelli del PRRI (Pemerintah Revolusioner Republik Indonesia) a Bukittingi.
Nel corso degli anni seguenti stabilì il controllo governativo sui media e sulle case editrici, e purghe contro i residenti cinesi. Il 5 luglio 1959 ripristinò la costituzione del 1945, dissolse il parlamento, piegandolo ai suoi voleri e assumendo il pieno potere personale in qualità di primo ministro. Chiamò questo sistema di governo per decreto Manifesto Politik o Manipol. Mandò al confino i suoi avversari.
Negli anni cinquanta aumentò i legami con la Repubblica Popolare Cinese ed ammise più comunisti nel suo governo. Iniziò anche ad accettare quantità sempre maggiori di aiuti militari sovietici.
Nel marzo 1960 Sukarno dissolse l'Assemblea eletta e la sostituì con una nominata, ed in agosto ruppe le relazioni diplomatiche con i Paesi Bassi a causa della Nuova Guinea Olandese (Papua Occidentale). Dopo che la Papua Occidentale si dichiarò indipendente nel dicembre del 1961, Sukarno ordinò delle incursioni nell'Irian Occidentale (Nuova Guinea Olandese). Ci fu un ulteriore tentativo di assassinio quando visitò Sulawesi nel 1962. L'Irian Occidentale venne portato sotto l'autorità indonesiana nel maggio 1963 in base a quanto previsto dal Piano Bunker. Nel luglio dello stesso anno Sukarno si fece proclamare Presidente a vita.
Sukarno si oppose anche alla Federazione Malese appoggiata dai britannici, sostenendo che era un piano neocoloniale per portare avanti gli interessi del Regno Unito. Nonostante le sue aperture politiche, lo Stato di Malesia venne proclamato nel settembre 1963. Questo portò al confronto Indonesiano-Malese (Konfrontasi) e alla fine del restante appoggio militare statunitense all'Indonesia. Sukarno ritirò l'Indonesia dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 1965 e la Malesia ne prese il posto. Sukarno divenne anche sempre più ammalato e collassò in pubblico il 9 agosto 1965. Gli venne diagnosticato in segreto un male ai reni.

Rimozione dal potere
La mattina del 1º ottobre 1965, alcune delle guardie personali di Sukarno lo rapirono e assassinarono sei generali anti-comunisti. Un sopravvissuto, che non venne preso di mira nel sospetto colpo di stato, era il Tenente-Generale Suharto.
La crisi creò una spaccatura nel Partito Comunista e una purga a livello nazionale dei sospetti comunisti, gran parte dei quali erano contadini. Gli omicidi si concentrarono a Sumatra, Giava Est e Bali. All'epoca in cui andarono a cessare, nel 1966, si stima che mezzo milione di indonesiani era stato massacrato da soldati, polizia e vigilantes pro-Suharto. Anche i cinesi etnici vennero presi di mira, principalmente per motivi economici e razziali. Un rapporto ufficiale della CIA chiamò la purga "uno dei peggiori omicidi di massa del XX secolo."
La presa sul potere di Sukarno venne indebolita nella crisi, e alla fine, il ten. gen. Suharto, filo-occidentale, costrinse Sukarno a cedere il potere esecutivo, l'11 marzo 1966.
Ci sono molte speculazioni su chi innescò la crisi che portò alla rimozione di Sukarno. Mentre la versione ufficiale sostiene che il Partito Comunista Indonesiano (PKI) ordinò l'uccisione dei sei generali, altri incolpano Sukarno, e alcuni credono che Suharto orchestrò gli assassinii per eliminare i potenziali rivali alla presidenza.
Esiste anche una versione secondo cui Sukarno venne rovesciato dagli Stati Uniti a causa del suo percepito comunismo e dei legami con Cina e Unione Sovietica.
Sukarno venne spogliato della carica presidenziale dal parlamento provvisorio indonesiano il 12 marzo 1967 e rimase agli arresti domiciliari fino alla sua morte, avvenuta a sessantanove anni, nel 1970 a Giacarta.
Megawati Sukarnoputri, ex presidente indonesiana, è sua figlia.

▪ 1984 - Davide Lajolo (Vinchio, 29 luglio 1912 – Milano, 21 giugno 1984) è stato uno scrittore, politico e giornalista italiano.
Davide Lajolo nasce da una modesta famiglia contadina astigiana e all'età di otto anni, per dargli la possibilità di continuare gli studi, dal momento che a Vinchio la scuola arrivava solamente al terzo ciclo di elementari, viene mandato dai genitori in collegio dai salesiani a Castelnuovo.
«Il giorno della partenza venne alla fine della terza classe elementare. A Vinchio c'erano solo le prime tre classi. "Per andare a zappare" si diceva "ne sanno anche troppo".»

Il distacco dalla famiglia sarà doloroso ma necessario e il giovane, dopo alcuni tentativi di fuga, si rassegnerà alla vita del collegio iniziando a dimostrare buone attitudini per gli studi e soprattutto per la letteratura. Dopo la maturità classica, conseguita presso il Liceo Plana di Alessandria, segue per un breve periodo la carriera militare come il fratello maggiore ma si dimostra soprattutto interessato alle discipline umanistiche e la sua ambizione è quella di diventare giornalista di professione.
Dal carattere avventuroso e difficile, rimane illuso dalla propaganda mistica della rivoluzione fascista in contrapposizione ad un certo conformismo borghese, conosce alcuni gerarchi del regime e si iscrive al partito fascista.
Nel 1937 partecipa alla guerra di Spagna ed milita nella divisione "Volontari del Littorio" sotto la guida del Generale Annibale Bergonzoli. Sulla sua esperienza scrisse circa i rapporti con la popolazione locale:
«Avevano detto loro che gli italiani tagliavano la testa a tutti, ma il primo sguardo li aveva rassicurati. Le orde barbare dei sanguinari erano fuggite; ora i soldati di Mussolini sapevano trasformare il glabro duro volto della battaglia nel sorriso chiaro del liberatore.» (Davide Lajolo in Bocche di donne bocche di fucili.)
Nel 1939 inizia a lavorare al "Corriere Adriatico" di Ancona e fra i suoi progetti c'è la pubblicazione della rivista di poesia Glauco. Nello stesso anno si unisce in matrimonio con la compaesana Rosetta Lajolo e pubblica il suo primo romanzo "Bocche di donne bocche di fucili". Dalla loro unione nascerà la figlia Laurana.
Con i gradi di ufficiale dell'esercito partecipa alla seconda guerra mondiale sui fronti greco e albanese e, nonostante il suo passare da un campo di battaglia all'altro, in situazioni dove le barbarie diventano modello di vita e la ragione sembra scemare, continua a scrivere soprattutto poesie di rifiuto della morte e della guerra e di fedeltà ai giovani commilitoni caduti.

Risale al 1940 la sua prima raccolta poetica dal titolo "Nel cerchio dell'ultimo sole e L'ultima rivoluzione" e al 1943 il secondo libro di poesie "Ponte alla voce". Fa carriera all'interno del PNF. Nel 1943 lascia il servizio militare perché viene nominato vice federale di Ancona. E manterrà tale carica fino alla caduta del Fascismo il 25 luglio 1943.
Un cambiamento radicale, che lo porterà in seguito a sconfessare i suoi trascorsi giovanili, giunge l'8 settembre 1943, al ritorno al paese natio, dove prende la tormentata decisione di passare alla lotta partigiana sulle colline astigiane, con il nome di battaglia di Ulisse.
Tracce di questa conversione, definita in modo magistrale da lui stesso "voltar gabbana", si trovano in "Classe 1912" (1945) (ristampato nel 1975 e nel 1995 con il titolo "A conquistare la rossa primavera") e ne "Il Voltagabbana" (1963), in cui l'autore analizza le ragioni che lo portarono a schierarsi, dopo una giovinezza fascista, dalla parte della Resistenza.
Nel 1945 diventa caporedattore e poi direttore dell'edizione dell'Italia settentrionale de L'Unità, nel 1947 si trasferisce, come vicedirettore, a l'Unità di Milano e dal 1949 al 1958 ne è direttore.
Lajolo, sempre più immerso e legato al mondo del giornalismo, fonda il giornale sportivo "Il campione", dirige negli anni settanta "Giorni-Vie Nuove" e collabora molto assiduamente a quotidiani e settimanali; per molti anni con Giancarlo Vigorelli è direttore della rivista "Europa Letteraria", pubblica la raccolta di poesie "Ponte alla Noce" (1939), un romanzo ambientato nelle risaie piemontesi, "Quaranta giorni, quaranta notti" (1952), volumi autobiografici e alcune raccolte di racconti.
Nel 1956 compie un viaggio in Cina che assume per lo scrittore una indimenticabile esperienza e incontra Mao Tse Tung e Ciu En Lai .
Nel 1958 viene eletto alla Camera dei deputati per il partito comunista, addirittura per tre legislature consecutive, fino al 1972, ed assume la carica di Deputato Questore.
Per un breve periodo è vicepresidente della Commissione interparlamentare di Vigilanza della RAI-TV e si batte contro la censura del cinema. Durante gli anni delle sue legislature si prodiga, insieme a Sandro Pertini per arricchire la pinacoteca della Camera dei deputati con numerosi dipinti di artisti per di più contemporanei.
Non smette comunque la sua attività di scrittore e nel 1960 pubblica la sua opera più nota "II vizio assurdo - Storia di Cesare Pavese" , una commossa rievocazione della vita di Cesare Pavese, suo fraterno amico che, tradotta in molte lingue, vinse nel 1961 il Premio Crotone.
Svolge anche un'intensa attività di consulente per le case editrici Rizzoli, Sperling & Kupfer, Frassinelli; nel 1972 pubblica la biografia di un noto fondatore del sindacalismo italiano, Giuseppe Di Vittorio, intitolato "Il volto umano di un rivoluzionario: la straordinaria avventura di Giuseppe Di Vittorio", e con "Veder l'erba dalla parte delle radici" nel 1977 vince il prestigioso Premio Viareggio; infine, nel 1983, da dialoghi con Leonardo Sciascia pubblica "Conversazione in una stanza chiusa".
Nel 1983, con "Il merlo di campagna e il merlo di città" vince il Premio Stresa di Narrativa.
Lajolo scrive anche sceneggiature per il teatro, a partire dal suo successo "Il vizio assurdo", in collaborazione con Diego Fabbri, Luigi Vannucchi come attore e Giancarlo Sbragia come regista oltre a "I giorni, gli uomini da Fiori rossi al Martinetto" che, sotto la regia di Leandro Castellani, venne rappresentato al Teatro Stabile di Torino.
Scrive inoltre sceneggiature per il cinema e la televisione e cura la stesura di documentari televisivi oltre a condurre per la televisione le trasmissioni con Guido Sacerdote su Beppe Fenoglio intitolate "Voi ed io - dialogo con gli ascoltatori" e la rubrica "Tuttolibri".
Colpito da un secondo attacco di infarto, chiude con spirito libero e anticonformista la sua vita, vissuta come un'epopea, il primo giorno d'estate, il 21 giugno 1984 a Milano e riposa nella tomba di famiglia a Vinchio che riporta il motto scelto dallo stesso scrittore:
"Dignità nella vita, serenità nella morte".

Curiosità
Davide Lajolo fu protagonista della bocciatura di uno degli scrittori italiani oggi più apprezzati, Beppe Fenoglio, quando dalle pagine dell'Unità criticò aspramente il racconto I ventitré giorni della città di Alba, reo di non aver dipinto una Resistenza eroica: "Pubblicare e diffondere questo tipo di letteratura significa non soltanto falsare la realtà, significa sovvertire i valori umani e distruggere quel senso di dirittura e onestà morale di cui la tradizione letteraria può farsi vanto [...] Stupisce che un editore come Einaudi pubblichi roba del genere, con partigiani che stanno tra la caricatura e il picaresco".

Opere
▪ Davide Lajolo, Bocche di donne bocche di fucili, Osimo, Barulli, 1939.
▪ Davide Lajolo, Nel cerchio dell’ultimo sole, Genova, Emiliano degli Arfini, 1940.
▪ Davide Lajolo, I corsivi di Ulisse, Milano, La nuova cultura, 1953.
▪ Davide Lajolo, Quaranta giorni quaranta notti, Milano, Ceschina, 1955.
▪ Davide Lajolo, Il "vizio assurdo". Storia di Cesare Pavese, Milano, Il Saggiatore, 1960.
▪ Davide Lajolo, Il Voltagabbana, Milano, Il Saggiatore, 1963.
▪ Davide Lajolo, Come e perché, Milano, Palazzi, 1968.
▪ Davide Lajolo, Cultura e politica in Pavese e Fenoglio, Firenze, Vallecchi, 1970.
▪ Davide Lajolo, Poesia come pane, Milano, Rizzoli, 1973.
▪ Davide Lajolo, I rossi, Milano, Rizzoli, 1974.
▪ Davide Lajolo, Finestre aperte a Botteghe Oscure, Milano, Rizzoli, 1975.
▪ Davide Lajolo, I mé, Firenze, Vallecchi, 1977.
▪ Davide Lajolo, Veder l'erba dalla parte delle radici, Premio Viareggio 1977, Milano, Rizzoli, 1977.
▪ Davide Lajolo, Fenoglio. Un guerriero di Cromwell sulle colline delle Langhe, Milano, Rizzoli, 1978.
▪ Davide Lajolo, Il volto umano di un rivoluzionario. La straordinaria avventura di Giuseppe Di Vittorio, Firenze, Vallecchi, 1979.
▪ Davide Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa con Leonardo Sciascia, Milano, Sperling & Kupfer, 1980.
▪ Davide Lajolo, Ventiquattro anni, Milano, Rizzoli, 1981.
▪ Davide Lajolo, Su fratelli su compagni, Cuneo, L'Arciere, 1983.
▪ Davide Lajolo, Il merlo di campagna e il merlo di città, Milano, Rizzoli, 1983.
▪ Davide Lajolo, Conversazione in una stanza chiusa con Mario Soldati, Milano, Frassinelli, 1983.
▪ Davide Lajolo, Parole con Piero Chiara, Milano, Frassinelli, 1984.
▪ Davide Lajolo, Gli uomini dell’arcobaleno, Parma, Augusto Agosta Tota Editore, 1984.
▪ Davide Lajolo, Il partigiano Johnny, a cura di Roberto Mosena, Cisu, Roma 2006

▪ 1998 - Anastasio Alberto Ballestrero (Genova, 3 ottobre 1913 – Bocca di Magra, 21 giugno 1998) è stato un cardinale e arcivescovo cattolico italiano nominato da papa Giovanni Paolo II; fu anche autore di numerose pubblicazioni.
Nacque a Genova il 3 ottobre 1913.
Entrò nell'Ordine dei Carmelitani Scalzi.
Fu ordinato sacerdote il 6 giugno 1936.
Partecipò al concilio Vaticano II in quanto superiore generale dei Carmelitani, incarico che ricoprì per 12 anni, dal 1955 al 1967.
Fu eletto arcivescovo di Bari e Canosa il 21 dicembre 1973 ed ordinato vescovo il 2 febbraio 1974.
Fu eletto arcivescovo di Torino il 1º agosto 1977.
Papa Giovanni Paolo II lo elevò al rango di cardinale nel concistoro del 30 giugno 1979.
Fu nominato presidente della Conferenza episcopale italiana dal 1979 al 1985.
Il 5 febbraio 1980 ufficializzò la costituzione della Caritas diocesana torinese dopo un periodo sperimentale[1] durante il quale era stata gestita dall'ing.Giorgio Ceragioli.
In quell'occasione il Cardinale nominò direttore don Piero Giacobbo, il quale nel 1986 venne sostituito nella guida della Caritas da don Sergio Baravalle.
Le sue lettere pastorali, come pure i due Convegni Ecclesiali Diocesani che si tennero durante il suo episcopato (Evangelizzazione e promozione umana e Sulle strade della riconciliazione), ebbero una notevole influenza sul cammino della Chiesa torinese di quegli anni.
Il cardinale fu nominato dal papa nel 1988 custode della Santa Sindone e rese note le risultanze degli esami con il Metodo del carbonio-14.
Lasciò l'incarico di arcivescovo di Torino il 31 gennaio 1989.
Morì a Bocca di Magra, nella Casa di Spiritualità carmelitana dove si era ritirato, il 21 giugno 1998 all'età di 84 anni. È sepolto nella cripta dell'Eremo del Deserto di Varazze.