Il calendario del 19 Luglio

Fonte:
CulturaCattolica.it
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Eventi

▪ 484 - Leonzio viene incoronato imperatore a Tarso, in opposizione a Zenone

▪ 711 - Le forze musulmane di Tariq ibn Ziyad sconfiggono i Visigoti guidati da re Rodrigo

▪ 1333 - battaglia di Halidon Hill: battaglia finale delle Guerre d'indipendenza scozzese

▪ 1747 - Battaglia dell'Assietta: sul pianoro omonimo, i piemontesi ottengono una clamorosa vittoria sull'esercito francese resistendo eroicamente con esigue truppe agli assalti delle forze di Luigi XV

▪ 1848 - Diritti delle donne: Inizia a Seneca Falls (New York) la Convenzione sui diritti delle Donne

▪ 1862 - Guerra di secessione americana: a Buffington Island, nell'Ohio, il raid del generale confederato John Hunt Morgan viene ostacolato quando un gruppo dei suoi uomini viene catturato mentre cerca di attraversare il fiume Ohio

▪ 1870 - Guerra franco-prussiana: la Francia dichiara guerra alla Prussia

▪ 1942 - Seconda guerra mondiale: battaglia dell'Atlantico - il Grandammiraglio tedesco Karl Dönitz ordina agli ultimi U-boot di ritirarsi dalle posizioni sulla costa statunitense dell'Atlantico, come risposta all'impiego statunitense di un efficace sistema di convogli

▪ 1943 - Seconda guerra mondiale: Roma viene bombardata dagli Alleati per la prima volta. I morti sono 617, la Basilica di San Lorenzo viene danneggiata. Papa Pio XII lascia il Vaticano e visita le vittime

▪ 1964 - Guerra del Vietnam: durante un comizio a Saigon, il primo ministro sudvietnamita Nguyen Khanh chiede di espandere la guerra nel Vietnam del Nord

▪ 1966 - Al Campionato mondiale di calcio, la Corea del Nord sconfigge clamorosamente l'Italia eliminandola dal torneo. Per la prima volta una Nazionale asiatica giunge ai quarti di finale.

▪ 1975 - Viene fondato il primo parco divertimenti stabile in Italia (Gardaland)

▪ 1979 - In Nicaragua i ribelli Sandinisti rovesciano la dittatura, appoggiata dagli USA, di Anastasio Somoza Debayle

▪ 1985

  1. - Alle ore 12:22:55 cede un bacino fangoso della Montecatini nella val di Stava (TN). Lungo il suo percorso la calata di fango provoca la morte di 268 persone. Insieme a quella del Vajont, la tragedia di Stava resta una delle più gravi catastrofi industriali e ambientali mai verificatesi in Italia.
  2. - Alle 13:15, la soc. ENI conferma al SanPaolo un ordine di acquisto di $ 125 milioni al cambio medio di giornata. La lira italiana, già sotto pressione nella giornata per l'incidente di poco prima, viene chiamata alle grida della Borsa di Milano fino a 2200 lire per un dollaro, quota alla quale il funzionario addetto della Banca d'Italia fissa il prezzo con conseguente caduta libera rispetto alle 1875 delle ore 13.00 e con grande risonanza interna ed internazionale. L'episodio sparirà presto dalle prime pagine in quanto l'economia italiana aveva da mesi bisogno di una svalutazione rispetto allo SME (sistema monetario europeo) e l'episodio del 19 luglio dava al governo questa possibilità. Unica danneggiata ENI che citerà il Sanpaolo senza esito.
  3. - Il vice presidente statunitense George H. W. Bush annuncia che l'insegnante Christa McAuliffe sarà la prima maestra a volare a bordo dello Space Shuttle

▪ 1992 - Palermo: a pochi mesi dalla strage di Capaci, viene ucciso dalla mafia il procuratore della Repubblica Paolo Borsellino

▪ 1997 - L'IRA, in seguito alla schiacciante vittoria dei laburisti nelle elezioni britanniche, ripristina il cessate il fuoco interrotto l' anno prima.

▪ 2001 - In Ciad viene scoperto un teschio fossile di una specie ancora sconosciuta, chiamata Sahelanthropus tchadensis, o più familiarmente "Toumaï". La presentazione ufficiale avverrà tramite la rivista Nature l'11 luglio 2002

Anniversari

▪ 1374 - Francesco Petrarca (Arezzo, 20 luglio 1304 – Arquà, 19 luglio 1374) è stato uno scrittore, poeta e umanista italiano. L'opera per la quale Petrarca è universalmente noto è il Canzoniere. Petrarca, nonostante si considerasse soprattutto, come tutti gli eruditi del suo tempo, un autore di lingua latina, svolse un ruolo essenziale per lo sviluppo della poesia italiana in volgare. L'opera lirica di Petrarca, come è stato sottolineato dalla critica, somma infatti in sé tutte le esperienze della poesia italiana delle origini, compiendo tuttavia una selezione dal punto di vista della metrica (stabilendo ad esempio precise regole sull'accentazione degli endecasillabi che all'epoca di Dante era ancora meno codificata) e negli argomenti (escludendo dal canone tematico gli elementi goliardici e realistici che nel Duecento erano stati presenti e che continuavano ad avere successo nel Trecento) che influenzò fortemente tutta la poesia a venire. Il fenomeno del petrarchismo costituisce uno dei capitoli più complessi nella storia delle tradizioni letterarie europee.
Nacque ad Arezzo il 20 luglio 1304, da Eletta Cangiani (o Canigiani) e dal notaio ser Pietro di ser Parenzo di ser Garzo dell'Incisa (soprannominato Ser Petracco, noto nei documenti come Petraccolus o Petrarca, da cui il cognome del figliolo). Ser Petracco era militante nei guelfi bianchi e fu amico di Dante Alighieri, esiliato da Firenze nel 1302 per motivi politici, legati all'arrivo di Carlo di Valois ed alle lotte tra guelfi bianchi e neri. È curioso a questo proposito notare come la sentenza del 10 marzo 1302 con la quale Cante Gabrielli da Gubbio, podestà di Firenze, condannava Ser Petracco all'esilio, sia la stessa con la quale a Dante Alighieri veniva ingiunto di seguire lo stesso fato: una sentenza, quindi, destinata ad influenzare la storia della letteratura italiana.
A causa dell'esilio paterno, il giovane Francesco trascorse l'infanzia in Toscana (prima ad Incisa e poi ad Arezzo e a Pisa), dove il padre era solito spostarsi per ragioni politico-economiche. Ma già nel 1311 la famiglia (nel frattempo era nato nel 1307 il fratello Gherardo) si trasferì a Carpentras, vicino ad Avignone (Francia), dove Petracco sperava in qualche incarico al seguito della corte papale.
Malgrado le inclinazioni letterarie, manifestate precocemente nello studio dei classici e in componimenti d'occasione, Francesco, dopo gli studi grammaticali compiuti sotto la guida di Convenevole da Prato, venne mandato dal padre prima a Montpellier e dal 1320, insieme a Gherardo, a Bologna per studiare diritto civile.
Morto il padre, poco dopo il rientro in Provenza (1326), Petrarca incontrò il 6 aprile 1327, nella chiesa di Santa Chiara in Avignone, Laura e se ne innamorò. Un amore autentico per una donna reale (come insistette il poeta nelle sue confessioni), del quale non restano tuttavia dati documentati: esso non venne ricambiato e assurse tra i motivi centrali dell'esperienza umana e poetica dello scrittore. È stata proposta l'identificazione di Laura con Laura de Noves, coniugata con Ugo de Sade. Attorno al 1330, consumato il modesto patrimonio paterno, Petrarca si diede alla carriera ecclesiastica, abbracciando gli ordini minori. In questo periodo fu assunto quale cappellano di famiglia dal cardinale Giovanni Colonna, fratello di Giacomo Colonna, anch'esso amico del poeta, nominato vescovo di Lombez nel 1330. Come lui stesso scrisse in una lettera al fratello, trascorse il periodo avignonese negli studi, senza peraltro trascurare i piaceri mondani; proprio da due relazioni avute nel 1337 e nel 1343 nacquero i figli Giovanni e Francesca, che legittimò in seguito, curandone la sistemazione economica e l'educazione.
Appoggiato da questa illustre e potente famiglia romana (fu amico anche di Stefano e Giovanni Colonna), compì in quegli anni numerosi viaggi in Europa, spinto dall'irrequieto e risorgente desiderio di conoscenza umana e culturale che contrassegna l'intera sua agitata biografia: fu a Parigi, a Gand, a Liegi (dove scoprì due orazioni di Cicerone), ad Aquisgrana, a Colonia, a Lione.

Ad Avignone e ritorno
Parallelamente alla formazione culturale classica e patristica, cresceva il suo prestigio in campo politico: nel 1335 ebbe inizio il suo carteggio con il Papa, inteso non solo a sedare le più incresciose rivolte della penisola, ma anche a ottenere il ritorno della sede pontificia da Avignone a Roma.
A questo periodo (1336-1337) risalgono anche la prima visita dell'Urbe, il trasferimento da Avignone a Valchiusa, attualmente Fontaine-de-Vaucluse nel dipartimento francese della Vaucluse, dove aveva acquistato una casa e la nascita di un figlio naturale, Giovanni, che morì in giovane età. All'anno successivo rimonta il progetto delle opere umanisticamente più impegnate, la cui parziale stesura, dell'Africa in particolare, gli procurò tale notorietà che contemporaneamente (il 1° settembre 1340) gli giunse da Parigi e da Roma il desiderato invito dell'incoronazione poetica.
Scelta Roma, preparata l'orazione per la solenne cerimonia, Petrarca scese in Italia a Napoli[2], ove, sotto il patrocinio del re Roberto D'Angiò, lesse alcuni episodi del poema e discusse, in tre giornate, di poesia, dell'arte poetica e della laurea: l'8 aprile del 1341, per mano del senatore Orso dell'Anguillara, veniva incoronato magnus poeta et historicus, e otteneva il privilegium laureae.
Questo altissimo riconoscimento, che sarà al centro della battaglia combattuta da Petrarca per il rinnovamento umanistico della cultura, lo confortò a proseguire la stesura dell'Africa, ospite di Azzo da Correggio a Parma e a Selvapiana, in Valdenza, sino al 1342.
Altri eventi turbarono la sua vita a Valchiusa: come la conoscenza di Cola di Rienzo, alle cui istanze Petrarca ottenne dal Papa la promessa della proclamazione, nel 1350, del giubileo romano, la monacazione (tra i certosini di Montreux-Jeune) di Gherardo, la nascita (da una misteriosa relazione) di una figlia illegittima, Francesca.

Da Napoli a Milano
Verso la fine del 1343 ritornò, per incarico del Papa, a Napoli, ripassò da Parma e si recò, infine, a causa della guerra che turbava l'Emilia, a Verona, dove scoprì i primi sedici libri delle "Epistole" ad Attico e le "Epistole" a Quinto e a Bruto di Cicerone. Dall'autunno del 1344 al 1347 risiedette a Valchiusa, donde lo distolse l'entusiastica adesione alla rivolta di Cola, ben presto smorzata amaramente dagli eventi, quando già aveva varcato le Alpi.
Rinunciò al viaggio romano e si arrestò a Parma, dove lo raggiunse la notizia (19 maggio 1348) della morte di Laura, colpita dalla peste così come gli amici Sennuccio del Bene, Giovanni Colonna, Francesco degli Albizzi.
Lasciata Parma, Petrarca riprese a vagabondare per l'Italia (fu a Carpi e a Ferrara, a Padova su invito di Francesco da Carrara, a Mantova, a Firenze, ove rinnovò i legami amicali con Giovanni Boccaccio e altri letterati toscani, e a Roma), fino al 1351, quando, rifiutata ogni altra offerta, rientrò (anche su pressione papale) in Provenza, donde scrisse le prime Epistole a Carlo IV di Boemia perché scendesse in Italia a sedare le rivolte cittadine.

In Italia, fino alla morte
Nel giugno del 1353, in seguito alle aspre e pungenti polemiche ingaggiate con l'ambiente ecclesiastico e culturale di Avignone, Petrarca lasciò la Provenza e accolse l'ospitale offerta di Giovanni Visconti, arcivescovo e signore della città, di risiedere a Milano. Malgrado le critiche di amici e nemici, collaborò con missioni e ambascerie (a Genova, a Venezia e a Novara, incontrò l'imperatore a Mantova e a Praga) all'intraprendente politica viscontea, cercando di indirizzarla verso la distensione e la pace.
Nel giugno del 1359 per sfuggire la peste abbandonò Milano per Padova e poi (1362) per Venezia, dove la Repubblica Veneta gli donò una casa in cambio della promessa di donazione, alla morte, della biblioteca alla città lagunare. Il tranquillo soggiorno veneziano, trascorso fra libri e amici, fu turbato nel 1367 dall'attacco maldestro e violento mosso alla cultura, all'opera e alla figura sua da quattro filosofi averroisti: amareggiato per l'indifferenza dei veneziani, Petrarca, dopo alcuni brevi viaggi, accolse l'invito di Francesco da Carrara e si stabilì a Padova, donde, di lì a poco (1370), si trasferì con i suoi libri ad Arquà, un tranquillo paese sui colli Euganei, nel quale, per generoso dono del tiranno padovano, si era costruito una modesta casa. Tra le famiglie padovane che gli furono più vicine ci fu quella dei Peraga e in particolare con i due fratelli frati Bonsembiante e Bonaventura Badoer Peraga. Da Arquà (dove l'aveva raggiunto con il marito Francescuolo da Brossano la figlia Francesca) si mosse di rado: una volta per sfuggire alla guerra scoppiata tra Padova e Venezia, un'altra per pronunciare una solenne orazione che ratificava la pace tra le due città venete. Tanto che rifiutò la nomina a diventare segretario di stato ad Avignogne con la conseguente carica di cardinale.
Colpito da una sincope, morì ad Arquà nella notte fra il 18 e il 19 luglio del 1374, esattamente alla vigilia del suo settantesimo compleanno e, secondo la leggenda, mentre esaminava un testo di Virgilio, come auspicato in una lettera al Boccaccio. Il frate dell'Ordine degli Eremitani di Sant'Agostino Bonaventura Badoer Peraga fu scelto, da tutte le autorità, per tessere l'orazione funebre a nome di tutti. Per volontà testamentaria, le spoglie di Petrarca furono sepolte nella chiesa parrocchiale del paese; furono poi collocate dal genero in un'arca marmorea accanto alla chiesa.

Opere - Opere latine in versi
▪ Africa – scritto fra il 1339 e il 1342 e in seguito corretto e ritoccato è un poema eroico incompleto che tratta della seconda guerra punica e in particolare delle gesta di Scipione.
▪ Bucolicum carmen – composto fra il 1346 e il 1357 e costituito da dodici egloghe, gli argomenti spaziano fra amore, politica e morale.
▪ Epistole metricae - scritte fra il 1333 e il 1361, sono 66 lettere in esametri, di cui alcune trattano d'amore ma in maggioranza si occupano di politica, morale o di materie letterarie. Alcune sono autobiografiche.
▪ Carmina varia - Si ricompone un materiale testuale disperso in vari luoghi:
1-6: F. Petrarchae, Poemata minora quae extant omnia, vol. III, Medioelani 1834.
7-24: K. Burdach, Von Mitteralter zur Reformation. IV. Aus Petrarcas Altestem Deutschen Schülerkreise, Berlin 1929.
25: E.H. Wilkins, The Making of the "Canzoniere" and other petrarchan Studies, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura 1951, pp.303.
26: G. Billanovich, Un carme ignoto del Petrarca, "Studi petrarcheschi", V (1989) pp.101-25.

Opere latine in prosa
▪ De viris illustribus - (1337) è una raccolta di biografie di uomini illustri in prosa latina composta da Francesco Petrarca, redatta a partire dal 1337 e dedicata a Francesco da Carrara signore di Padova nel 1358. Nell'intenzione originale dell'autore l'opera doveva trattare la vita di personaggi della storia di Roma da Romolo a Tito, ma arrivò solo fino a Nerone. In seguito Petrarca aggiunse personaggi di tutti i tempi, cominciando da Adamo e arrivando a Ercole. L'opera rimase incompiuta e fu continuata da un amico di Petrarca, Lombardo della Seta, fino alla vita di Traiano.
▪ Rerum memorandarum libri - (1350) raccolta di esempi storici e aneddoti a scopo d'educazione morale.
▪ Itinerarium ad sepulcrum Domini, descrizione dei luoghi che si incontrano viaggiando da Genova a Gerusalemme.
▪ Secretum o De secreto conflictu curarum mearum - (composta tra il 1347 ed il 1353, ed in seguito riveduta) è un'opera in prosa latina, articolata come un dialogo immaginario in tre libri tra il poeta stesso e Sant'Agostino, alla presenza di una donna muta che simboleggia la Verità. Quale esame di coscienza personale esso affronta temi intimi del poeta e per questo non era stato concepito per la divulgazione (da cui il titolo Secretum).
Il primo libro tratta del male in generale e conclude, appunto secondo il pensiero agostiniano, che esso non esiste, ma è causato da un'insufficiente volontà di bene, causata dalle passioni terrene che annebbiano lo spirito: Petrarca stesso non può non guarire, ma non vuole(per questo si è soliti affermare che la sua malattia è una "voluptas dolendi", una voglia nel contempo di liberarsi dall'accidia, ma continuare a conviverci, perché era questa la "scusa" dietro cui l'autore si nascondeva e rifugiava spesso).
Nel secondo libro vengono analizzate le passioni negative del Petrarca stesso, tra le quali egli si sofferma soprattutto sull'accidia che lo tormenta, sottolineando di essere affetto dalle colpe di tutti i peccati capitali, tranne l'invidia (era stato più volte accusato di invidiare il Sommo Poeta Dante, accuse che cercò immediatamente di dissipare).
Nel terzo si esaminano altre due passioni del poeta, in particolare l'amore per Laura e l'amore per la gloria, considerate le due più gravi colpe di Petrarca, che gli impediscono di raggiungere l'equilibrio spirituale cui tanto aspirava: per quanto il poeta dia ragione a Sant'Agostino che gli consiglia di rinunciarvi, egli però non sa come poter farne a meno.
▪ De vita solitaria - (1346-1356 circa) Il De vita Solitaria ("la vita solitaria") è un trattato di carattere religioso e morale. Fu elaborato nel 1346 ma successivamente ampliato nel 1353 e nel 1366. L'autore vi esalta la solitudine, tema caro anche all'ascetismo medioevale, ma il punto di vista con cui la osserva non è religioso: al rigore della vita monastica Petrarca contrappone l'isolamento operoso dell'intellettuale, dedito alle letture e alla scrittura in luoghi appartati e sereni, in compagnia di amici e di altri intellettuali. L'isolamento dello studioso in una cornice naturale che favorisce la concentrazione è l'unica forma di solitudine e di distacco dal mondo che Petrarca riuscì a conseguire e non lo considerava in contrasto con i valori spirituali cristiani, in quanto riteneva che la saggezza contenuta nei libri, soprattutto nei testi classici, fosse in perfetta sintonia con quelli. Da questa sua posizione è derivata l'espressione di "umanesimo cristiano" di Petrarca.
De otio religioso - (1346 – 1356) è un trattato in prosa latina, redatto all'incirca tra il 1346 e il 1356 ed è un'esaltazione della vita monastica. Simile al De vita solitaria, esalta la solitudine in particolare quella legata alle regole degli ordini religiosi (otium = tranquillità di spirito), definita come la migliore condizione di vita possibile.
De remediis utriusque fortunae - (1360–1366) è una raccolta di brevi dialoghi scritti in prosa latina, redatta all'incirca tra il 1360 e il 1366 ed composta da 254 scambi di battute tra entità allegoriche: prima il "Gaudio" e la "Ragione", poi il "Dolore" e la "Ragione".
Simile ai precedenti Rerum memorandarum libri, questi dialoghi hanno scopi educativi e moralistici, proponendosi di rafforzare l'individuo contro i colpi della Fortuna sia buona che avversa.
▪ Invectivarum contra medicum quendam libri IV - (1355)
▪ De sui ipsius et multorum ignorantia - (1368)
▪ Invectiva contra cuiusdam anonimi Galli calumnia o Contra eum qui maledixit Italiam
▪ Epistole (Familiares, Seniles, Sine nomine, Variae)
▪ De gestis Cesaris
▪ Psalmi penitentiales
▪ Posteritati - epistola esclusa per sua stessa volontà dalla raccolta Seniles, in cui il Petrarca si descrive per i posteri con gli attributi che poi saranno propri dell'umanista (cioè il recupero della civiltà classica e l'amore per il latino)
▪ Contra quendam magni status hominem
▪ Collatio laureationis
▪ Collatio coram Johanne rege
▪ Collatio inter Scipionem, Alexandrum, Hannibalem
▪ Arringhe
▪ Orationes
▪ Testamentum

Raccolte epistolari
Di estrema importanza le epistole latine. Raccolte "d'autore" delle lettere inviate da Petrarca, disposte in ordine cronologico, le epistole contribuiscono all'immagine autobiografica del poeta. Petrarca infatti tendeva sempre a offrire di sé una figura ideale. Le epistole per essere inserite nelle raccolte venivano ricorrette e formalmente revisionate. Non si esclude che alcune siano state scritte ex novo in vista della pubblicazione. Le raccolte di epistole petrarchesche sono note come Familiares, Seniles e il Sine nomine liber, contenente epistole di natura politica e polemica che miravano a tenere nascosto il nome dell'interlocutore; infine le Variae.

Opere in volgare
▪ Il Canzoniere (titolo originale: Francisci Petrarchae laureati poetae Rerum vulgarium fragmenta) è la storia poetica della vita interiore del Petrarca. La raccolta comprende 366 componimenti: 317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali [NB.- Il Canzoniere non raccoglie tutti i componimenti poetici del Petrarca, ma solo quelli che il poeta scelse con grande cura: altre rime (dette extravagantes) andarono perdute o furono incluse in altri manoscritti].
La maggior parte delle rime del Canzoniere sono d'argomento amoroso; una trentina sono di argomento morale, religioso o politico. Sono celebri le canzoni Italia mia e Spirto gentil nelle quali il concetto di patria si identifica con la bellezza della terra natale, sognata libera dalle lotte fratricide e dalle milizie mercenarie. Fra le canzoni più celebri ricordiamo anche Chiare, fresche et dolci acque e tra i sonetti Solo et pensoso.
La raccolta è stata comunemente divisa dagli editori moderni in due parti: rime in vita e rime in morte di Madonna Laura. In realtà il Petrarca curò ben nove stesure successive del Canzoniere, includendovi rime già composte fin dalla prima giovinezza sia per Laura, sia per altre donne (ed attribuendo queste ultime a Laura), realizzando altre rime che finse di aver scritto quando l'amata era ancora in vita ed aggiungendone altre ancora, in modo da rappresentare Laura come l'unico puro amore che conduce a Dio, secondo una concezione teleologica e mistica dell'amore, quale si ritrova già nel Dante della Vita nova e della Commedia. Sarebbe dunque improprio far coincidere la collocazione dei vari testi nell'opera con l'effettivo ordine cronologico della composizione.
L'amore per Laura è il centro intorno al quale ruota la vita spirituale, ricchissima ed originale, del Petrarca, per il quale tutto, spontaneamente, diviene letteratura, collegandosi agli studi dei classici. Da tale substrato di letteratura ha origine la grande poesia petrarchesca. Con il Petrarca la letteratura diventa maestra di vita e nasce la prima lezione dell'umanesimo. Tuttavia l'amore e l'ammirazione per i classici sono in costante tensione con l'aspirazione ad una spiritualità immune da tentazioni terrene, quali l'amore e la gloria, che pure i classici proponevano come mete alte e degne dell'uomo. In Petrarca si avvertono contemporaneamente la pena per il dissidio interiore e la ricerca della serenità: lo sconforto, il dolore, la volontà di pentimento, divengono speranza ed anche il pianto per la morte della donna amata trascolora nella figurazione di Laura che scende consolatrice dal cielo. Nella poesia del Petrarca la descrizione dei sentimenti trova riscontro o contrapposizione nel paesaggio.
Il Petrarca perfezionò le forme della tradizione lirica medievale, dai provenzali mutuò ad esempio la forma della sestina e ne rielaborò i modi poetici. Anche la raffigurazione della donna amata si inquadra nella tematica provenzale: Laura è una donna spiritualmente superiore alla quale il poeta rende omaggio, ma non ha tuttavia nulla di sovrumano; ella è modello di virtù e di bellezza, ma la sua figura non è palpitante di vita, non ha una vera realtà; i suoi tratti umani, i begli occhi, le trecce bionde, il dolce riso, si ripetono immutati. Tuttavia Laura costituisce il fulcro ideale intorno al quale si dispone la vita sentimentale del poeta. Petrarca associa il nome di Laura al lauro, simbolo della gloria poetica, ovvero della sua più grande aspirazione; e gioca sul nome Laura scambiandolo con l'aura (come nel sonetto 'Erano i capei d'oro a l'aura sparsi).
La seconda parte del Canzoniere si chiude con la canzone cosiddetta Alla Vergine, nella quale il poeta implora perdono e protezione.
▪ I Trionfi
▪ Frammenti e rime extravaganti
▪ Testi del Vaticano latino 3196

L'ascesa al monte Ventoso
Il 26 aprile del 1336 Petrarca, insieme al fratello e altri due compagni, scalarono il Monte Ventoso (monte della Provenza di 1.909 m s.l.m., oggi famoso per il Tour de France). Molto più tardi egli scrisse una memoria del viaggio sotto forma di lettera all'amico Dionigi de' Roberti da Borgo San Sepolcro, frate agostiniano e professore di teologia e filosofia a Parigi. A quei tempi non era usuale scalare montagne senza uno scopo pratico. Per questo il 26 aprile 1336 è considerata la "data di nascita dell'alpinismo", ed il "Petrarca alpinista" uno dei precursori di questo sport.
In realtà, questa ascensione è tutta basata sull'allegoria. La data stessa è connotata da elementi allegorici.
L'ascensione al monte non è il semplice resoconto di una scalata in compagnia, bensì una lettera di forte valore simbolico e ricca di elementi allegorici che si ritrovano a partire dalla data. La lettera è datata 26 aprile, mentre l'anno è possibile ricavarlo dal fatto che Petrarca scrive che sono passati dieci anni da quando ha lasciato Bologna (cosa che avvenne nel 1326).
Questa data viene fatta cadere da Petrarca nel giorno di venerdì santo e da ciò si può dedurre che l'autore abbia voluto far cadere questa esperienza in un giorno importante per ciascun cristiano: la morte di Gesù Cristo. Così come Cristo deve affrontare una salita sotto il peso della croce, allo stesso modo Petrarca deve affrontare una salita e la croce è rappresentata dal conflitto interiore a cui è sottoposto; l'uomo, prima ancora che il poeta, è scisso dal desiderio di congiungersi fisicamente con Laura e il rispetto delle morali cristiane. A differenza del fratello Gherardo, che salirà senza difficoltà, Petrarca sarà costretto continuamente a fermarsi. Ciò non è dovuto all'esser Gherardo un alpinista esperto, ma, in un contesto allegorico, all'esser lui, in quanto frate, estraneo "alla pesantezza" dei beni materiali.
Vista nella sua interezza l'ascensione rappresenta, allegoricamente parlando, la vita di Petrarca. Le asperità del terreno rappresentano le difficoltà della vita e la cima del monte la salvezza. Tant'è che il Petrarca, ammirando il magnifico panorama dalla cima del monte, aprendo una pagina a caso di una minuscola copia delle Confessioni di Sant'Agostino che portava con sé, lesse alcune parole che lo toccarono profondamente, facendogli capire la futilità delle cose umane.
"E gli uomini - dicevano quelle parole - vanno ad ammirare le vette dei monti e gli enormi flutti del mare, le vaste correnti dei fiumi e il giro dell'Oceano e le rotazioni degli astri, e non si curano di se stessi".
Ma se queste parole scossero il poeta, certamente non cambiarono la sua vita.

Dilemma sui resti
Il 5 aprile 2004 vennero resi noti i risultati dell'analisi dei resti conservati nella tomba del poeta ad Arquà: il teschio presente, peraltro ridotto in frammenti, una volta ricostruito, è stato riconosciuto come femminile e quindi non pertinente. Inoltre un frammento di pochi grammi del cranio, inviato a Tucson in Arizona ed esaminato con il metodo del radiocarbonio, ha consentito di accertare che il cranio femminile ritrovato nel sepolcro risale al 1207 circa. A chi sia appartenuto e perché si trovasse nella tomba del Petrarca è ancora un mistero, come un mistero è dove sia finito il vero cranio del poeta. Lo scheletro è stato invece riconosciuto come autentico: esso infatti riporta alcune costole fratturate e Petrarca fu ferito da una cavalla con un calcio al costato.

▪ 1630 - Daniele Crespi (Busto Arsizio, 1598 – Milano, 19 luglio 1630) è stato un pittore italiano.
Si formò presso la scuola di pittura istituita da Federico Borromeo presso la Pinacoteca Ambrosiana (suo maestro fu il Cerano).
Leggenda vuole che per ricostruire con naturalezza gli spasmi della morte di un uomo si sia macchiato di omicidio, e che per questa ragione si sia rifugiato nella Certosa di Milano.
Morì vittima della peste.
A Daniele Crespi è intitolato il Liceo Classico, Linguistico e Scienze Umane di Busto Arsizio.
Nel 2006 la sua città natale ha organizzato una mostra monografiche radunando sue opere conservate nei musei italiani e stranieri.
I suoi due poli artistici principali furono il manierismo accademico di Camillo Procaccini, quello più sofferto di Cerano ed il realismo di Andrea De Ferrari, di Rubens, di Van Dick e dei pittori spagnoli come Zurbarán.
I punti più alti Crespi li raggiunse nella La cena di San Carlo Borromeo (Milano, chiesa di Santa Maria della Passione) e nel Ciclo di San Bruno nella Certosa di Garegnano (o Certosa di Milano), terminato nel 1629, per alcune novità apportate nella lettura e nell'analisi del tema, come la definizione degli ambienti, gli scenari architettonici, e l'indagine psicologica dei personaggi.

▪ 1978 - Marcello Marchesi (Milano, 14 aprile 1912 – Cabras, 19 luglio 1978) è stato un comico, regista, sceneggiatore paroliere e cantautore italiano.
«Anche le formiche, nel loro piccolo, s'incazzano» (Marcello Marchesi)
Ricordato per le sue battute sospese fra il surreale e il satirico (gli aforismi del quale fu maestro Achille Campanile), come ad esempio "voglio che la morte mi trovi ancora vivo.."; condusse alcune trasmissioni televisive di successo come Il signore di mezza età e Alta pressione.
Ricorda il critico televisivo Aldo Grasso che «di Marcello Marchesi furono alcuni dei più famosi slogan di Carosello, divenuti quasi proverbiali: "Non è vero che tutto fa brodo!", "Il signore sì che se ne intende", "Con quella bocca può dire ciò che vuole", "Il brandy che crea un'atmosfera", "Per dindirindina che equivoco... Falqui: basta la parola!", e tanti altri».
Fu tra gli autori della rivista umoristica Bertoldo, pubblicata dal 1936 dalla Rizzoli.
Al cinema ebbe una fortunatissima collaborazione con Vittorio Metz e Dino Verde come sceneggiatore di una lunga serie di pellicole, e come regista, in trio con Metz e Marino Girolami di sette film, tra cui Sette ore di guai (1951), con Totò, Campanini e Celano.
Verso la fine degli anni 30 inizia la sua collaborazione, come autore di testi e di programmi, per le reti radiofoniche EIAR di Radio Roma, dove collabora con altri autori come Federico Fellini. In questo periodo Marchesi è uno dei pochissimi cantanti di jazz italiani, e di un certo successo; rari, perché la pratica del jazz era clandestina in quanto proibita dal regime fascista.
Celebri sono le sue traduzioni dei primi albi pubblicati in Italia di Asterix, personaggio dei fumetti creato da René Goscinny e Albert Uderzo. È lui l'ideatore della versione italiana della nota frase di Obelix «Ils sont fous ces Romains», resa con «Sono Pazzi Questi Romani», il cui acrostico è SPQR.
Marchesi è stato anche autore di canzoni: le più note sono sicuramente Bellezze in bicicletta, del 1951, su musica di Giovanni D'Anzi, contenuta nella colonna sonora dell'omonimo film di Carlo Campogalliani, portata al successo da Silvana Pampanini, che ha avuto molte reincisioni, Ho soffrito per te, successo di Cochi e Renato ed Enzo Jannacci e Taratapunziè, sigla di Canzonissima nel 1972, cantata da Loretta Goggi; lo stesso Marchesi si è dilettato qualche volta ad inciderle, ad esempio Bella tardona, presentata nel 1963 nello spettacolo televisivo Il signore di mezza età.
Convisse con Enrica Sisti, sua governante sarda, che sposò due mesi prima della nascita del figlio avuto da lei.
Durante una vacanza in Sardegna, mentre stava nuotando nel mare di San Giovanni di Sinis, comune di Cabras nei pressi di Oristano, venne scagliato da una fortissima onda contro uno scoglio, batté violentemente la testa e morì sul colpo. Aveva poco meno di 66 anni.
Per sentire una sua famosa canzone clicca qui

▪ 1986 - Alfredo Binda (Cittiglio, 11 agosto 1902 – Cittiglio, 19 luglio 1986) è stato un ciclista su strada italiano, passista-scalatore, professionista dal 1922 al 1936.

▪ 1992 -
- Paolo Emanuele Borsellino (Palermo, 19 gennaio 1940 – Palermo, 19 luglio 1992) è stato un magistrato italiano, vittima della mafia.
È considerato un eroe italiano, come Giovanni Falcone, di cui fu amico e collega.
Figlio di Diego Borsellino e Maria Lepanto, Paolo, nacque a Palermo nel quartiere popolare La Kalsa, in cui vivevano tra gli altri anche Giovanni Falcone e Tommaso Buscetta. La famiglia di Paolo era composta dalla sorella maggiore Adele (1938), il fratello minore Salvatore (1942) e l'ultimogenita Rita (1945).
Dopo aver frequentato le scuole dell'obbligo Borsellino si iscrisse al liceo classico "Giovanni Meli" di Palermo. Durante gli anni del liceo diventò direttore del giornale studentesco "Agorà". Nel giugno del 1958 si diplomò con otto in tutte le materie tranne il greco in cui ebbe nove.
L'11 settembre 1958 si iscrisse a Giurisprudenza a Palermo con numero di matricola 2301[1]. Dopo una rissa tra studenti "neri" e "rossi" finì erroneamente anche lui di fronte al magistrato Cesare Terranova, cui dichiarò la propria estraneità ai fatti. Il giudice sentenziò che Borsellino non era implicato nell'episodio. Proveniente da una famiglia con simpatie politiche di destra, nel 1959 si iscrisse al FUAN, organizzazione degli universitari missini di cui divenne membro dell'esecutivo provinciale, e fu eletto come rappresentante studentesco nella lista del FUAN "Fanalino" di Palermo[2].
Il 27 giugno 1962, all'età di ventidue anni, Borsellino si laureò con 110 e lode con una tesi su "Il fine dell'azione delittuosa" con relatore il professor Giovanni Musotto. Pochi giorni dopo, a causa di una malattia, suo padre morì all'età di cinquantadue anni. Borsellino si impegnò allora con l'ordine dei farmacisti a mantenere attiva la farmacia del padre fino al raggiungimento della laurea in farmacia della sorella Rita. Durante questo periodo la farmacia fu data in gestione per un affitto bassissimo, 120.000 lire al mese[3] e la famiglia Borsellino fu costretta a gravi rinunce e sacrifici. A Paolo fu concesso l'esonero dal servizio militare poiché egli risultava "unico sostentamento della famiglia".
Nel 1967 Rita si laureò in farmacia e il primo stipendio da magistrato di Paolo servì a pagare la tassa governativa.
Il 23 dicembre 1968 sposò Agnese Piraino Leto, figlia di Angelo Piraino Leto, a quel tempo magistrato presidente del tribunale di Palermo. Dalla moglie Agnese ebbe tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta.

La carriera da giudice
«L'equivoco su cui spesso si gioca è questo: si dice quel politico era vicino ad un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E NO! questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale, può dire: beh! Ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria che mi consente di dire quest'uomo è mafioso. Però, siccome dalle indagini sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, che non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reati. » (Paolo Borsellino, Istituto Tecnico Professionale di Bassano del Grappa 26/01/1989)
Nel 1963 Borsellino partecipò al concorso per entrare in magistratura; classificatosi venticinquesimo sui 110 posti disponibili, con il voto di 57, divenne il più giovane magistrato d'Italia[4]. Iniziò quindi il tirocinio come uditore giudiziario e lo terminò il 14 settembre 1965 quando venne assegnato al tribunale di Enna nella sezione civile. Nel 1967 fu nominato pretore a Mazara del Vallo. Nel 1969 fu pretore a Monreale, dove lavorò insieme ad Emanuele Basile, capitano dei Carabinieri. Proprio qui ebbe modo di conoscere per la prima volta la nascente mafia dei corleonesi[5].
Il 21 marzo 1975 fu trasferito a Palermo ed il 14 luglio entrò nell'ufficio istruzione affari penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con Chinnici si stabilì un rapporto, più tardi descritto dalla sorella Rita Borsellino e da Caterina Chinnici, figlia del capo dell'Ufficio, come di "adozione" non soltanto professionale. La vicinanza che si stabilì fra i due uomini e le rispettive famiglie fu intensa e fu al giovane Paolo che Chinnici affidò la figlia, che abbracciava anch'essa quella carriera, in una sorta di tirocinio[6]. Nel febbraio 1980 Borsellino fece arrestare i primi sei mafiosi tra cui Giulio Di Carlo e Andrea Di Carlo legati a Leoluca Bagarella[7]. Grazie all'indagine condotta da Basile e Borsellino sugli appalti truccati a Palermo a favore degli esponenti di Cosa Nostra si scopre il fidanzamento tra Leoluca Bagarella e Vincenza Marchese sorella di Antonino Marchese, altro importante Boss[7]. Il 4 maggio 1980 Emanuele Basile fu assassinato e fu decisa l'assegnazione di una scorta alla famiglia Borsellino.

Il pool antimafia
In quell'anno si costituì il "pool" antimafia nel quale sotto la guida di Chinnici lavorarono alcuni magistrati (fra gli altri, Falcone, Borsellino, Giuseppe Di Lello, Leonardo Guarnotta, Giovanni Barrile) e funzionari della Polizia di Stato (Cassarà e Montana).
Nel racconto che ne fece lo stesso Borsellino, il pool nacque per risolvere il problema dei giudici istruttori che lavoravano individualmente, separatamente, ognuno "per i fatti suoi", senza che uno scambio di informazioni fra quelli che si occupavano di materie contigue potesse consentire, nell'interazione, una maggiore efficacia con un'azione penale coordinata capace di fronteggiare il fenomeno mafioso nella sua globalità[6]. Uno dei primi esempi concreti del coordinamento operativo fu la collaborazione fra Borsellino e l'appena "acquisito" Di Lello, che Chinnici aveva voluto e richiesto in squadra: Di Lello prendeva giornalmente a prestito la documentazione che Borsellino produceva e gliela rendeva la mattina successiva, dopo averla studiata come fossero "quasi delle dispense sulla lotta alla mafia". E presto, senza che le note divergenze politiche[8] potessero essere di più che mera materia di battute, anche fra i due il legame professionale si estese all'amicizia personale[6]. Del resto era proprio la formazione di una conoscenza condivisa uno degli effetti, ma prima ancora uno degli scopi, della costituzione del pool: come ebbe a dire Guarnotta, si andava ad esplorare un mondo che sinora era sconosciuto per noi in quella che era veramente la sua essenza[6].
Nel pool andò formandosi una "gerarchia di fatto", come la chiamò Di Lello: fondata sulle qualità personali di Falcone e Borsellino, tributari di questa leadership per superiori qualità - sempre secondo lo stesso collega - di "grande intelligenza, grandissima memoria e grande capacità di lavoro"; ed i colleghi non l'avrebbero discussa, questa supremazia, anche per il timore di essere sfidati a sostituirli[6].
Tutti i componenti del pool chiedevano espressamente l'intervento dello Stato, che non arrivò. Qualcosa faticosamente giunse nel 1982, a prezzo però di nuovo altro sangue "eccellente", quando dopo l'omicidio del deputato comunista Pio La Torre, il ministro dell'interno Virginio Rognoni inviò a Palermo il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa, che proprio in Sicilia e contro la mafia aveva iniziato la sua carriera di ufficiale, nominandolo prefetto. E quando anche questi trovò la morte, 100 giorni dopo, nella strage di via Carini, il parlamento italiano riuscì a varare la cosiddetta "legge Rognoni-La Torre" con la quale si istituiva il reato di associazione mafiosa (l'articolo 416 bis del codice penale) che il pool avrebbe sfruttato per ampliare le investigazioni sul fronte bancario, all'inseguimento dei capitali riciclati; era questa la strada che Giovanni Falcone ed i suoi colleghi del pool maggiormente intendevano seguire, una strada anni prima aperta dalle indagini finanziarie di Boris Giuliano (sul cui omicidio investigava il capitano Basile quando a sua volta assassinato) a proposito dei rapporti fra il capomafia Leoluca Bagarella ed il losco finanziere Michele Sindona.
Il 29 luglio 1983 fu ucciso Rocco Chinnici, con l'esplosione di un'autobomba[9], e pochi giorni dopo giunse a Palermo da Firenze Antonino Caponnetto. Il pool chiese una mobilitazione generale contro la mafia. Nel 1984 fu arrestato Vito Ciancimino, mentre Tommaso Buscetta ("Don Masino", come era chiamato nell'ambiente mafioso), catturato a San Paolo del Brasile ed estradato in Italia, iniziò a collaborare con la giustizia.
Buscetta descrisse in modo dettagliato la struttura della mafia, di cui fino ad allora si sapeva ben poco. Nel 1985 furono uccisi da Cosa Nostra, a pochi giorni l'uno dall'altro, il commissario Giuseppe Montana ed il vice-questore Ninni Cassarà[10]. Falcone e Borsellino furono per sicurezza trasferiti nella foresteria del carcere dell'Asinara, nella quale iniziarono a scrivere l'istruttoria per il cosiddetto "maxiprocesso", che mandò alla sbarra 475 imputati. Si seppe in seguito che l'amministrazione penitenziaria richiese poi ai due magistrati un rimborso spese ed un indennizzo per il soggiorno trascorso [11].

Senza il camino fa freddo...
Pochi giorni prima di essere assassinato, Borsellino incontrò lo scrittore Luca Rossi cui raccontò diversi aneddoti della sua esperienza professionale, fra i quali uno riguardante degli accertamenti che insieme con Falcone conducevano in merito ad alcune delle rivelazioni di Buscetta. Don Masino aveva descritto minuziosamente la villa dei cugini Salvo, e questa descrizione, cruciale per attestare l'attendibilità del teste (ed ancora più cruciale visto quanto questo particolare teste stava risultando essenziale nell'azione complessiva del pool, che su queste spendeva la sua credibilità operativa), parlava di un grande salone che aveva al centro un grande camino. Durante il sopralluogo nella villa, però, quasi tutto corrispondeva al racconto del pentito, meno che il camino, che non c'era.
Falcone allora, guardando costernato Borsellino, fece il gesto della pistola alla tempia e gli disse "adesso possiamo spararci tutt'e due". La discrepanza poteva infatti in rapida successione rendere inattendibile il teste, privare l'impianto dell'indagine di uno dei suoi tasselli centrali, esporre l'intero pool alle accuse già ventilate di approssimazione professionale o, peggio, di intenti persecutorii nei confronti di onesti cittadini.
Borsellino avvicinò il custode della villa e, dopo averci chiacchierato di cose insignificanti, ad un certo punto gli chiese per curiosità cosa usassero per scaldarsi d'inverno. Il custode ripose: "Col camino. Ma d'estate lo spostiamo in giardino"[12].

Borsellino a Marsala
Borsellino chiese ed ottenne (il 19 dicembre 1986) di essere nominato Procuratore della Repubblica di Marsala. La nomina superava il limite ordinariamente vigente del possesso di alcuni requisiti principalmente relativi all'anzianità di servizio[13].
Secondo il collega Giacomo Conte[14] la scelta di decentrarsi e di assumere un ruolo autonomo rispondeva ad una sua intuizione per la quale l'accentramento delle indagini istruttorie sotto la guida di una sola persona esponeva non solo al rischio di una disorganicità complessiva dell'azione contro la mafia, ma anche a quello di poter facilmente soffocare questa azione colpendo il magistrato che ne teneva le fila; questa collocazione, "solo apparentemente periferica", fu secondo questo autore esempio della proficuità di questa collaborazione a distanza.
Di parere difforme fu Leonardo Sciascia, scrittore siciliano, il quale in un articolo pubblicato su Il Corriere della Sera il 10 gennaio del 1987, si scagliò contro questa nomina invitando il lettore a prendere atto che "nulla vale più, in Sicilia, per far carriera nella magistratura, del prender parte a processi di stampo mafioso", a conclusione di un'esposizione principiata con due autocitazioni[15]. Si tratta della nota polemica sui cosiddetti "professionisti dell'antimafia". Borsellino commentò (o lo citò) solo dopo la morte di Falcone, parlando il 25 giugno 1992 ad un dibattito, organizzato da La Rete e da MicroMega (rivista)., sullo stato della lotta alla mafia dopo la Strage di Capaci: "Tutto incominciò con quell’articolo sui professionisti dell'antimafia"[16][17].
«Il vero obiettivo del CSM era eliminare al più presto Giovanni Falcone» ((Durante il Convegno del La Rete del 25 giugno 1992)
«Quando Giovanni Falcone solo, per continuare il suo lavoro, propose la sua aspirazione a succedere ad Antonino Caponnetto, il CSM, con motivazioni risibili gli preferì il consigliere Antonino Meli. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il CSM ci fece questo regalo. Gli preferì Antonino Meli. » (Durante il Convegno del La Rete del 25 giugno 1992)
Secondo Umberto Lucentini, uno dei suoi biografi, Borsellino si era invece reso conto della crescente importanza delle cosche trapanesi, e di Totò Riina e Bernardo Provenzano, all'interno della rete criminale Cosa Nostra, che ad esempio intorno a Mazara del Vallo e nel Belice, facevano ruotare interessi notevoli che occorreva seguire da vicino[6].

Verso la fine
Nel 1987, mentre il maxiprocesso si avviava alla sua conclusione[18] con l'accoglimento delle tesi investigative del pool e l'irrogazione di 19 ergastoli e 2.665 anni di pena[19][6], Caponnetto lasciò il pool per motivi di salute e tutti (Borsellino compreso) si attendevano che al suo posto fosse nominato Falcone, ma il Consiglio Superiore della Magistratura non la vide alla stessa maniera e il 19 gennaio 1988 nominò Antonino Meli; sorse il timore che il pool stesse per essere sciolto.
Borsellino parlò allora in pubblico a più riprese, raccontando quel che stava accadendo alla procura di Palermo. In particolare, in due interviste rilasciate il 20 luglio 1988 a la Repubblica ed a L'Unità, riferendosi al CSM, dichiarò tra l'altro espressamente: "si doveva nominare Falcone per garantire la continuità all'Ufficio", "hanno disfatto il pool antimafia", "hanno tolto a Falcone le grandi inchieste", "la squadra mobile non esiste più", "stiamo tornando indietro, come 10 o 20 anni fa". Per queste dichiarazioni rischiò un provvedimento disciplinare (fu messo sotto inchiesta)[20]. A seguito di un intervento del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, si decise almeno di indagare su ciò che succedeva nel palazzo di Giustizia.
Il 31 luglio il CSM convocò Borsellino, il quale rinnovò accuse e perplessità. Il 14 settembre Antonino Meli, sulla base di una decisione fondata sulla mera anzianità di ruolo in magistratura, fu nominato capo del pool; Borsellino tornò a Marsala, dove riprese a lavorare alacremente insieme a giovani magistrati, alcuni di prima nomina. Iniziava in quei giorni il dibattito per la costituzione di una Superprocura e su chi porvi a capo, nel frattempo Falcone fu chiamato a Roma per assumere il comando della direzione affari penali e da lì premeva per l'istituzione della Superprocura.
Con Falcone a Roma, Borsellino chiese il trasferimento alla Procura di Palermo e l'11 dicembre 1991 vi ritornò come Procuratore aggiunto, insieme al sostituto Antonio Ingroia.

Il cammino segnato
Nel settembre del 1991, la mafia aveva già abbozzato progetti per l'uccisione di Borsellino. A rivelarlo fu Vincenzo Calcara, picciotto della zona di Castelvetrano cui la Cupola mafiosa, per bocca di Francesco Messina Denaro (capo della cosca di Trapani), aveva detto di tenersi pronto per l'esecuzione, che si sarebbe dovuta effettuare o mediante un fucile di precisione, o con un'autobomba. Assai onorato dell'incarico, che gli avrebbe consentito la scalata di qualche gradino nella gerarchia mafiosa, il mafioso attendeva l'ordine di entrare in azione come cecchino qualora si fosse propeso per questa soluzione.
Ma Calcara fu arrestato il 5 novembre e la sua situazione in carcere si fece assai pericolosa poiché, secondo quanto da lui stesso indicato, aveva in precedenza intrecciato una relazione con la figlia di uno dei capi di Cosa Nostra, uno sbilanciamento del tutto contrario alle "regole" mafiose e sufficiente a costargli la vita; se da latitante poteva ancora essere utilizzato per "lavori sporchi", da carcerato invece gli restava solo la condanna a morte emessa dall'organizzazione. Prima che finisse il periodo di isolamento, Calcara decise di diventare collaboratore di giustizia e si incontrò proprio con Borsellino, al quale, una volta rivelatogli il piano e l'incarico, disse: "lei deve sapere che io ero ben felice di ammazzarla". Dopo di ciò, raccontò sempre il pentito, gli chiese di poterlo abbracciare e Borsellino avrebbe commentato: "nella mia vita tutto potevo immaginare, tranne che un uomo d'onore mi abbracciasse"[21].
Il pomeriggio del 19 maggio 1992, nel corso dell'XI scrutinio delle elezioni presidenziali, i 47 parlamentari del MSI votarono per Paolo Borsellino come Presidente della Repubblica.
Il 23 maggio 1992 nell'attentato di Capaci persero la vita Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo.
«Guardi, io ricordo ciò che mi disse Ninnì Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana alla fine del luglio del 1985, credo.
Mi disse: "Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano".» (Paolo Borsellino, intervista a Lamberto Sposini dell'inizio di luglio)
Il 19 luglio, 57 giorni dopo Capaci, Paolo Borsellino fu ucciso insieme agli agenti della sua scorta Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina).
Una settimana dopo la strage, la giovanissima testimone di giustizia Rita Atria, che proprio per la fiducia che riponeva nel giudice Borsellino si era decisa a collaborare con gli inquirenti pur al prezzo di recidere i rapporti con la madre, si uccise.
Diversi pentiti di mafia ritrattarono alcune accuse precedentemente espresse.

Dichiarazioni e rifiuti
Borsellino rilasciò interviste e partecipò a numerosi convegni per denunciare l'isolamento dei giudici e l'incapacità o la mancata volontà da parte della politica di dare risposte serie e convinte alla lotta alla criminalità. In una di queste Borsellino descrisse le ragioni che avevano portato all'omicidio del giudice Rosario Livatino e prefigurò la fine (che poi egli stesso fece) che ogni giudice "sovraesposto" è destinato a fare.
Alla presentazione di un libro[22] alla presenza dei ministri dell'interno e della giustizia, Vincenzo Scotti e Claudio Martelli, nonché del capo della polizia Vincenzo Parisi, dal pubblico fu chiesto a Borsellino se intendesse candidarsi alla successione di Falcone alla "Superprocura"; alla sua risposta negativa Scotti intervenne annunciando di aver concordato con Martelli di chiedere al CSM di riaprire il concorso ed invitandolo formalmente a candidarsi. Borsellino non rispose a parole, sebbene il suo biografo Lucentini abbia così descritto la sua reazione: "dal suo viso trapela una indignazione senza confini""[23]. Rispose al ministro per iscritto, giorni dopo: "La scomparsa di Giovanni Falcone mi ha reso destinatario di un dolore che mi impedisce di rendermi beneficiario di effetti comunque riconducibili a tale luttuoso evento"[24].

La penultima intervista di Borsellino e le sue versioni
Due mesi prima di essere ucciso, Paolo Borsellino rilasciò un'intervista ai giornalisti Jean Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi (21 maggio 1992)[25]. L'intervista mandata in onda da RaiNews 24 nel 2000 era di trenta minuti, quella originale era invece di cinquantacinque minuti.
La trascrizione dell'intervista integrale si trova qui [26]
«All’inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un’impresa anch’essa. Un’impresa nel senso che attraverso l’inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all’estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all’industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso » (Paolo Borsellino, in quella intervista)
In questa sua ultima intervista Paolo Borsellino parlò anche dei legami tra la mafia e l'ambiente industriale milanese e del Nord Italia in generale, facendo riferimento, tra le altre cose, a indagini in corso sui rapporti tra Vittorio Mangano e Marcello Dell'Utri.
Alla domanda se Mangano fosse un "pesce pilota" della mafia al Nord, Borsellino rispose che egli era sicuramente una testa di ponte dell'organizzazione mafiosa nel Nord d'Italia. Sui rapporti con Berlusconi invece, nonostante esplicitamente sollecitato dall'intervistatore, si astenne da qualsiasi giudizio.
Anche alla luce di quest'intervista e del ruolo di Mangano così come descritto da Borsellino (testa di ponte dell'organizzazione mafiosa nel Nord d'Italia) destò scalpore la dichiarazione di Marcello Dell'Utri, condivisa dal presidente del consiglio dei ministri Silvio Berlusconi riferita a Vittorio Mangano: egli fu, a modo suo, un eroe[27] [28]
Paolo Guzzanti aveva sostenuto che l'intervista trasmessa da Rai News 24 era stata manipolata, i giornalisti della rete gli fecero causa, ma fu assolto. Vi era corrispondenza tra la cassetta ricevuta ed il contenuto trasmesso, ma non con il video originale. Alcune risposte erano state tagliate e messe su altre domande. Ad esempio, quando Borsellino parla di "cavalli in albergo" per indicare un traffico di droga, non si riferiva ad una telefonata fra Dell'Utri e Mangano come poteva sembrare dalla domanda dell'intervistatore (che faceva riferimento ad un'intercettazione dell'inchiesta di San Valentino, che Borsellino aveva seguito solo per poco tempo), ma ad una fra Mangano e un mafioso della famiglia Inzerillo.[29]
Nel numero de L'Espresso dell'8 aprile 1994 fu pubblicata una versione più estesa dell'intervista[30].
L'intervista, e i tagli relativi alla sua versione televisiva, furono citati anche dal tribunale di Palermo nella sentenza di condanna di Gaetano Cinà e Marcello Dell'Utri:
«Un riferimento a quelle indagini si rinviene nella intervista rilasciata il 21 maggio 1992 dal dr. Paolo Borsellino ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo. In dibattimento il Pubblico Ministero ha prodotto la cassetta contenente la registrazione originale di quella intervista che, nelle precedenti versioni, aveva subito, invece, evidenti manipolazioni ed era stata trasmessa a diversi anni di distanza dal momento in cui era stata resa, malgrado l’indubbio rilievo di un simile documento.» (Dalla sentenza di condanna di Dell'Utri Pag 431[31])
Nella sentenza fu poi riportato il brano dell'intervista relativo all'uso del termine "cavalli" per indicare la droga e sulle precedenti condanne di Mangano, in una versione ancora differente rispetto alle due già diffuse, trascritta dal nastro originale. Nella stessa sentenza era poi riportata l'intercettazione della telefonata intercorsa tra Mangano (la cui linea era sotto controllo) e Dell'Utri[32], relativo al blitz di San Valentino, in cui veniva citato un "cavallo", a cui aveva fatto riferimento il giornalista nelle domande dell'intervista a Borsellino.[33]. La sentenza specificava però che:
«Tra le telefonate intercettate (il cui tenore aveva consentito di disvelare i loschi traffici ai quali il Mangano si era dedicato in quegli anni) si inserisce quella del 14 febbraio 1980 intercorsa tra Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri.
È opportuno chiarire subito che questa conversazione, pur avendo ad oggetto il riferimento a “cavalli”, termine criptico usato dal Mangano nelle conversazioni telefoniche per riferirsi agli stupefacenti che trafficava, non presenta un significato chiaramente afferente ai traffici illeciti nei quali il Mangano era in quel periodo coinvolto e costituisce il solo contatto evidenziato, nel corso di quelle indagini, tra Marcello Dell’Utri e i diversi personaggi attenzionati dagli investigatori.»

La strage di via d'Amelio
Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a Villagrazia con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si recò insieme alla sua scorta in via D'Amelio, dove viveva sua madre.
Una Fiat 126 parcheggiata nei pressi dell'abitazione della madre con circa 100 kg di tritolo a bordo, esplose al passaggio del giudice, uccidendo oltre a Paolo Borsellino anche i cinque agenti di scorta Emanuela Loi (prima donna della Polizia di Stato caduta in servizio), Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L'unico sopravvissuto fu Antonino Vullo, ferito mentre parcheggiava uno dei veicoli della scorta [34].
Pochi giorni prima di essere ucciso, durante un incontro organizzato dalla rivista MicroMega, così come in una intervista televisiva a Lamberto Sposini, Borsellino aveva parlato della sua condizione di "condannato a morte". Sapeva di essere nel mirino di Cosa Nostra e sapeva che difficilmente la mafia si lascia scappare le sue vittime designate.
Antonino Caponnetto, che subito dopo la strage aveva detto, sconfortato, "Non c'è più speranza...", intervistato anni dopo da Gianni Minà ricordò che "Paolo aveva chiesto alla questura – già venti giorni prima dell'attentato – di disporre la rimozione dei veicoli nella zona antistante l'abitazione della madre. Ma la domanda era rimasta inevasa. Ancora oggi aspetto di sapere chi fosse il funzionario responsabile della sicurezza di Paolo, se si sia proceduto disciplinarmente nei suoi confronti e con quali conseguenze"[35].

Via d'Amelio come strage di Stato
«Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d'accordo.»(Lirio Abbate, Peter Gomez[36])

Nell'introduzione del libro L'agenda rossa di Paolo Borsellino Marco Travaglio scrive:
«Oggi, quindici anni dopo, non è cambiato nulla. L’impressione è che, ai piani alti del potere, quelle verità indicibili le conoscano in tanti, ma siano d’accordo nel tenerle coperte da una spessa coltre di omissis. Per sempre. L’agenda rossa è la scatola nera della Seconda Repubblica. Grazie a questo libro cominciamo a capire qualcosa anche noi» (Marco Travaglio[37])
Salvatore Borsellino, fratello di Paolo Borsellino, parla esplicitamente di "strage di Stato":
«Perché quello che è stato fatto è proprio cercare di fare passare l’assassinio di Paolo e di quei ragazzi che sono morti in via D’Amelio come una strage di mafia. [...] Hanno messo in galera un po’ di persone - tra l’altro condannate per altri motivi e per altre stragi - e in questa maniera ritengono di avere messo una pietra tombale sull’argomento. Devo dire che purtroppo una buona parte dell’opinione pubblica, cioè quella parte che assume le proprie informazioni semplicemente dai canali di massa - televisione e giornali - è caduta in questa chiamiamola “trappola” [...] Quello che noi invece cerchiamo in tutti i modi di far capire alla gente [...] è che questa è una strage di stato, nient’altro che una strage di stato. E vogliamo far capire anche che esiste un disegno ben preciso che non fa andare avanti certe indagini, non fa andare avanti questi processi, che mira a coprire di oblio agli occhi dell’opinione pubblica questa verità, una verità tragica perché mina i fondamenti di questa nostra repubblica. Oggi questa nostra seconda repubblica è una diretta conseguenza delle stragi del ‘92 » (Salvatore Borsellino[38])

L'eredità
«Io accetto la... ho sempre accettato il... più che il rischio, la... condizione, quali sono le conseguenze del lavoro che faccio, del luogo dove lo faccio e, vorrei dire, anche di come lo faccio. Lo accetto perché ho scelto, ad un certo punto della mia vita, di farlo e potrei dire che sapevo fin dall'inizio che dovevo correre questi pericoli.
Il... la sensazione di essere un sopravvissuto e di trovarmi in, come viene ritenuto, in... in estremo pericolo, è una sensazione che non si disgiunge dal fatto che io credo ancora profondamente nel lavoro che faccio, so che è necessario che lo faccia, so che è necessario che lo facciano tanti altri assieme a me.
E so anche che tutti noi abbiamo il dovere morale di continuarlo a fare senza lasciarci condizionare... dalla sensazione che, o financo, vorrei dire, dalla certezza, che tutto questo può costarci caro. » (Paolo Borsellino, intervista a Sposini, inizio luglio 1992)
La figura di Paolo Borsellino, come quella di Giovanni Falcone, ha lasciato un grande esempio nella società civile e nelle istituzioni.
Alla sua memoria sono state intitolate numerose scuole e associazioni, nonché (insieme all'amico e collega) l'aeroporto internazionale "Falcone e Borsellino" (ex "Punta Raisi", Palermo) ed un'aula della facoltà di Giurisprudenza all'Università di Roma La Sapienza.
Anche il cinema e la televisione hanno onorato la memoria del magistrato palermitano:
▪ Giovanni Falcone di Giuseppe Ferrara;
▪ I giudici di Ricky Tognazzi;
▪ Gli angeli di Borsellino di Rocco Cesareo;
▪ Paolo Borsellino, miniserie televisiva del 2004 di Gianluca Maria Tavarelli;
▪ Paolo Borsellino - Essendo Stato, scritto e diretto da Ruggero Cappuccio.
«Un giudice vero fa quello che ha fatto Borsellino, uno che si trova solo occasionalmente a fare quel mestiere e non ha la vocazione può scappare, chiedere un trasferimento se ne ha il tempo e se gli viene concesso. Borsellino, invece, era di un'altra tempra, andò incontro alla morte con una serenità e una lucidità incredibili.»(Antonino Caponnetto, intervista a Gianni Minà, maggio 1996[39] )

Onorificenze
Medaglia d'oro al valor civile
«Procuratore Aggiunto presso la Procura della Repubblica di Palermo, esercitava la propria missione con profondo impegno e grande coraggio, dedicando ogni sua energia a respingere con rigorosa coerenza la proterva sfida lanciata dalle organizzazioni mafiose allo Stato democratico. Nonostante le continue e gravi minacce, proseguiva con zelo ed eroica determinazione il suo duro lavoro di investigatore, ma veniva barbaramente trucidato in un vile agguato, tesogli con efferata ferocia, sacrificando la propria esistenza, vissuta al servizio dei più alti ideali di giustizia e delle Istituzioni.»
— Palermo, 19 luglio 1992

Note
1. Umberto Lucentini, Il mio mal d'Africa in Paolo Borsellino, 3a ed. Druento, Edizioni San Paolo [2004], 2006. pp. 37 ISBN 88-215-4968-2
2. "Paolo Borsellino" - Umberto Lucentini - 2003 - Edizioni San Paolo
3. Il valore di una vita, pag. 35
4. ^ http://www.lastoriasiamonoi.rai.it/puntata.aspx?id=154
5. www.ansa.it/legalita/static/bio/borsellino.shtml
6. a b c d e f g La Storia siamo noi - Paolo Borsellino
7. a b Umberto Lucentini, Hanno ucciso il capitano in Paolo Borsellino, 3a ed. Druento, Edizioni San Paolo [2004], 2006. pp. 57 ISBN 88-215-4968-2
▪ 8. Borsellino era di destra, Di Lello si definisce "social-comunista".
▪ 9. La prima autobomba usata dalla mafia, secondo Rita Borsellino
▪ 10. Insieme all'agente Roberto Antiochia
▪ 11. Figure di una battaglia: documenti e riflessioni sulla mafia dopo l'assassinio di G. Falcone e P. Borsellino, pag. 121
▪ 12. Riassunto dal relato di Enrico Deaglio, Raccolto rosso: la mafia, l'Italia e poi venne giù tutto, Feltrinelli, 1993 - ISBN 88-07-12010-0
▪ 13. "Notiziario straordinario" n. 17 del 10 settembre 1986 del Consiglio superiore della magistratura: «Rilevato, per altro, che per quanto concerne i candidati che in ordine di graduatoria precedono il dottor Borsellino, si impongono oggettive valutazioni che conducono a ritenere, sempre in considerazione della specificità del posto da ricoprire e alla conseguente esigenza che il prescelto possegga una specifica e particolarissima competenza professionale nel settore della delinquenza organizzata in generale e di quella di stampo mafioso in particolare, che gli stessi non siano, seppure in misura diversa, in possesso di tali requisiti con la conseguenza che, nonostante la diversa anzianità di carriera, se ne impone il "superamento" da parte del più giovane aspirante.»
▪ 14. Giacomo Conte (procuratore a Gela), Lo sdegno e la speranza: la lezione di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, in (a cura di) Franco Occhiogrosso, Ragazzi della mafia: storie di criminalità e contesti minorili, voci dal carcere, le reazioni e i sentimenti, i ruoli e le proposte, FrancoAngeli, 1993 - ISBN 88-204-7972-9
▪ 15. Il testo dell'articolo di Sciascia online (2 pagine)
▪ 16. Una fra le numerose fonti online
▪ 17. Trascrizione intervento
▪ 18. Il 16 dicembre.
▪ 19. Sentenza della Corte di Assise (pres. Alfonso Giordano) poi sostanzialmente confermata 5 anni dopo dalla Corte di Cassazione.
▪ 20. Disse lo stesso Borsellino durante la serata alla Biblioteca Comunale di Palermo il 25 giugno 1992: "per aver denunciato questa verità io rischiai conseguenze professionali gravissime, e forse questo lo avevo pure messo nel conto, ma quel che è peggio il Consiglio superiore immediatamente scoprì quale era il suo vero obiettivo: proprio approfittando del problema che io avevo sollevato, doveva essere eliminato al più presto Giovanni Falcone. E forse questo io lo avevo pure messo nel conto perché ero convinto che lo avrebbero eliminato comunque; almeno, dissi, se deve essere eliminato, l'opinione pubblica lo deve sapere, lo deve conoscere, il pool antimafia deve morire davanti a tutti, non deve morire in silenzio. L'opinione pubblica fece il miracolo, perché ricordo quella caldissima estate dell'agosto 1988, l'opinione pubblica si mobilitò e costrinse il Consiglio superiore della magistratura a rimangiarsi in parte la sua precedente decisione dei primi di agosto, tant'è che il 15 settembre, se pur zoppicante, il pool antimafia fu rimesso in piedi. ". Nello stesso intervento commentò la mancata nomina di Falcone: "Si aprì la corsa alla successione all'ufficio istruzione al tribunale di Palermo. Falcone concorse, qualche Giuda si impegnò subito a prenderlo in giro, e il giorno del mio compleanno il Consiglio superiore della magistratura ci fece questo regalo: preferì Antonino Meli."
▪ 21. Relato testuale del pentito in La Storia siamo noi - Paolo Borsellino (fonte per l'intero paragrafo)
▪ 22. "Gli uomini del disonore", di Pino Arlacchi
▪ 23. Umberto Lucentini, Paolo Borsellino. Il valore di una vita, Mondadori, 1994
▪ 24. Fonte per questo paragrafo
▪ 25. Trascrizione dell'intervista
▪ 26. http://www.19luglio1992.org/index.php?option=com_content&view=article&catid=26:in-evidenza&id=2300:paolo-borsellino-lintervista-nascosta#trascrizione
▪ 27. RadioDue
▪ 28. .la Repubblica
▪ 29. http://www.paologuzzanti.it/wp-content/2008/03/sentenza.pdf
▪ 30. trascrizione dell'intervista pubblicata su L'Espresso dell'8 aprile 1994, dal sito di Rainews 24
▪ 31. sentenza dell’11 dicembre 2004, relativa al procedimento contro Marcello Dell'Utri
▪ 32. Rapporto 0500/CAS del 13 aprile 1981 della Criminalpol di Milano.
▪ 33. Trascrizione di un'intercettazione telefonica tra Vittorio Mangano e Marcello Dell'Utri, sentenza dell’11 dicembre 2004, relativa al procedimento contro Marcello Dell'Utri, pag 483 e seguenti, proveniente dal rapporto 0500/CAS dell’aprile 1981 della Criminalpol di Milano
▪ 34. http://archiviostorico.corriere.it/1992/luglio/21/agente_superstite_vivo_per_miracolo_co_0_9207211793.shtml
▪ 35. Intervista di Minà a Caponnetto
▪ 36. Lirio Abbate, Peter Gomez, I complici. Tutti gli uomini di Bernardo Provenzano, da Corleone al Parlamento, p. 36
▪ 38. L'agenda rossa di Paolo Borsellino
▪ 39. Intervista RAI a Salvatore Borsellino fratello di Paolo Borsellino
40. Intervista di Minà a Caponnetto

- Emanuela Loi (Sestu, 9 ottobre 1967 – Palermo, 19 luglio 1992) è stata una agente di Polizia italiana.
Agente della scorta del magistrato Paolo Borsellino, cadde nell'adempimento del proprio dovere il 19 luglio 1992, vittima della Strage di via d'Amelio a Palermo; con lei persero la vita, oltre a Paolo Borsellino, i colleghi Walter Eddie Cosina, Agostino Catalano, Claudio Traina e Vincenzo Li Muli.
Entrata nella Polizia di Stato nel 1988 per seguire l'aspirazione della sorella Claudia, che però non venne ammessa, viene trasferita a Palermo due anni dopo. Avrebbe dovuto sposarsi pochi giorni dopo il fatale attentato.
Ad Emanuela Loi sono intitolate numerose strade, piazze ed alcuni edifici pubblici, tra cui una via e un istituto tecnico commerciale a Nettuno, una scuola elementare a Bagheria e una a Roma, una via e un asilo a Sestu, una via a Monastir, uno slargo con lapide a Leonforte (prov. di Enna), una via ad Iglesias facente parte di un intero quartiere dedicato alla legalità e agli eroi del nostro tempo e il Ponte della sopraelevata che collega la Cittadella Universitaria di Monserrato alla S.S 554. Il distretto sardo della FIDAPA (Federazione Italiana Donne Arte Professione Affari) le dedica da anni un premio, la città di Agrigento un torneo di calcio a 7.

Onorificenze
Medaglia d'oro al valor civile
«Preposta al servizio di scorta del giudice Paolo Borsellino, pur consapevole dei gravi rischi cui si esponeva a causa della recrudescenza degli attentati contro rappresentanti dell'ordine giudiziario e delle Forze di Polizia, assolveva il proprio compito con grande coraggio e assoluta dedizione al dovere. Barbaramente trucidata in un proditorio agguato di stampo mafioso, sacrificava la vita a difesa dello Stato e delle Istituzioni.»
— Palermo, 5 agosto 1992