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Il calendario del 18 Agosto

Fonte:
CulturaCattolica.it

Eventi

▪ 1572 - Francia: Enrico di Borbone sposa Margherita di Valois, figlia di Caterina de' Medici ed Enrico II di Francia. Lo stesso Enrico IV chiederà lo scioglimento del matrimonio nel 1599 perché Margherita non gli darà nessun figlio

▪ 1634 - Urbain Grandier è accusato e bruciato vivo sul rogo per stregoneria (a Loundun, Francia)

▪ 1690 - Nicholas Catinat, generale del Re Sole, distrugge a Staffarda le truppe savoiardo-imperiali

▪ 1775 - gli spagnoli costruiscono un forte a Tucson (Arizona, USA)

▪ 1789 - inizio della Rivoluzione di Liegi

▪ 1807 - Viene inaugurata l'Arena Civica di Milano

▪ 1832 - François-René de Chateaubriand soggiorna a Lugano per quel giorno a Villa Tanzina

▪ 1868 - l'astronomo francese Pierre Jules César Janssen scopre l'elio

▪ 1877 - Asaph Hall scopre Phobos

▪ 1892 - Firma dell'Alleanza franco-russa.

▪ 1893 - la regina Margherita inaugura con la salita alla punta Gnifetti Monte Rosa, l'omonimo rifugio, il più alto d'Europa

▪ 1903 - l'ingegnere tedesco Karl Jatho costruisce il primo modello di aeroplano a motore quattro mesi prima dei fratelli Wright

▪ 1940 - Il Giorno più duro della Battaglia d'Inghilterra, in cui entrambi gli schieramenti subirono il massimo delle perdite.

▪ 1955 - Che Guevara si sposa con Hilda Gadea. Dal matrimonio nascerà Hilda Beatriz

▪ 1975 - ritrovata in una zona centrale della Cina una mummia di oltre 200.000 anni

▪ 1981 - Fabrizio De André comincia il suo tour musicale "Tour estivo l'Indiano"

▪ 1993 - A Lucerna (Svizzera) brucia il più antico ponte coperto d'Europa - il Kapellbruecke, costruito nel 1333 interamente in legno

▪ 2001 - La casa farmaceutica tedesca Bayer ammette che 52 persone sono morte a causa degli effetti collaterali del farmaco anticolesterolo Lipobay. Il farmaco era stato ritirato dal mercato all'inizio di agosto

▪ 2007 - Un gruppo di militanti di Al-Qaida dirotta un aereo Md-80 dell'Atlasjet nella Turchia meridionale, nel tentativo di dirigerlo verso Teheran, in Iran

Anniversari

▪ 1227 - Gengis Khan (o Genghis, tartaro Чингис Хан, pron. Gingis Khan, secondo moderne revisioni sarebbe più corretto il nome di ‪Chinggis Khaan‬ o ‪Činggis Qaγan‬), nato come Temujin o Temulujin, in altaico Temuçin, pron. Temucin (alto corso dell'Onon, 16 aprile 1162 – 18 agosto 1227) è stato un condottiero e sovrano mongolo.
«...Io vengo dal Barbaro Nord. Indosso le stesse vesti e mi sfamo dello stesso cibo dei pastori di vacche e dei mandriani di cavalli. Facciamo gli stessi sacrifici e ci dividiamo le ricchezze. Guardo alla Nazione come a un nuovo figlio appena nato e mi curo dei miei soldati come se fossero i miei fratelli...» (Gengis Khan)
Dopo aver unificato le tribù mongole, fondando l'Impero Mongolo, le condusse alla conquista della maggior parte dell'Asia Centrale, della Cina, della Russia, della Persia, del Medio Oriente e di parte dell'Europa orientale, dando vita, anche se per breve tempo, al più vasto impero della storia umana. Fu sepolto in un luogo tuttora ignoto della nativa Mongolia.

Infanzia
I primi anni di vita di Gengis Khan sono poco noti e controversi perché descritti solamente dopo la sua morte e, per complicare la materia, le pochissime fonti coeve di notizie sono spesso discordanti.
La madre Hoelun della tribù dei Merkit era stata rapita in una scorreria ed assegnata come bottino di guerra a Yesugei, il capo del clan Borjigin della tribù dei Kiyad, Mongoli praticanti il cristianesimo nestoriano; i due tra il 1155 e il 1167 ebbero un figlio (il secondo) a cui diedero il nome di Temüjin, in onore di un valoroso capitano Tartaro che il padre aveva appena catturato in battaglia.
Temujin sarebbe nato tra le montagne del Khentii Aimag, precisamente a Deluun Boldog sul monte Burkhan Khaldun (la Montagna Sacra) tra le rive del fiume Onon e vicino al fiume Kherlen, presso Lamyn Uhaa (pressappoco l'attuale Binder sumun non lontano da Ulaan Baataar) nell'anno 1162. Secondo la tradizione mongola nacque il giorno chiaro del primo mese dell'estate dell'anno del cavallo d'acqua del terzo ciclo (ogni ciclo del calendario mongolo era di 60 anni), e venne alla luce stringendo nel piccolo pugno un grumo di sangue, segno che il suo destino sarebbe stato quello di un grande guerriero.
I suoi primi anni di vita furono segnati dalle lotte e vendette tra le tribù vicine, dalla morte del padre, nel 1175 ad opera dei confinanti Tatari Merkit, all'ostracismo della tribù che non intendeva accettare un capo troppo giovane. Negli anni a seguire Temüjin e la famiglia vissero come poveri nomadi. Temujin aveva tre fratelli minori, Khasar Khajiun e Temuge, ed una sorella, Temulin.
Non esistono ritratti o raffigurazioni attendibili di Temujin in quanto sono tutte opere postume e da ritenersi interpretazioni artistiche fantasiose, compresa la più famosa raffigurazione conservata al National Palace Museum di Taipei (Taiwan); di certo dalle descrizioni dell'epoca e da quanto tramandato dallo storico persiano Rashid al-Din, si viene a sapere che nella famiglia di Temujin erano tutti alti, con capelli rossi, lunghe barbe ed occhi verdi, tutte caratteristiche anomale per le razze asiatiche su cui al tempo si erano costruite alcune leggende e sicuramente tratti fisiognomici che non passavano certo inosservati tra i Mongoli.

La conquista del trono
Nel 1202 Toghril Khan e Temujin si dichiararono ufficialmente padre e figlio; venendo adottato dal Khan dei potenti Keraiti, in quel momento forse il capo mongolo più potente, vassallo dell'imperatore Chin, Temujin acquisì la credibilità necessaria a un capo. Durante questo periodo conobbe alcuni di quelli che lo resero potente e vittorioso e che vennero in seguito definiti i suoi quattro cani:
▪ Sübetei, della tribu' Uriankhai
▪ Djelme, della tribu' Uriankhai (fratello maggiore di Subedei)
▪ Djebe, della tribu' Besud
▪ Mukali, della tribu' Barula
Grazie al matrimonio con la figlia del capo keraita, Börte, Temüjin divenne uno dei possibili candidati al titolo di Khagan o "Gran Khan", carica rimasta vacante dopo le sconfitte subite ad opera dei Chin. La lotta per il potere durò alcuni anni ed ebbe termine quando il futuro sovrano dei Mongoli sconfisse le forze dei Karaiti e dei loro alleati, arrivando a porre sotto il suo dominio l'intera area del Gobi nel 1206.
Subito dopo, Temüjin, durante un grande khurultai (il concilio dei capi tribù), ottenne il titolo di Khagan, cioè "khan dei khan" di tutti i mongoli che sotto di lui avevano trovato un'unità nazionale. Da allora iniziò ad essere chiamato Gengis Khan che significa "Sovrano Universale", "Sire di tutti gli uomini" o anche "Signore Oceanico".

La creazione dell'Impero - Organizzazione politica
Gengis Khan si diede a conquistare e organizzare i popoli, secondo un'impostazione politico-militare basata sulla mobilità e fortemente gerarchizzata: ogni tribù (ulus, che indicava anche il patrimonio collettivo) era indipendente, ma tutte erano sottomesse alla famiglia imperiale (cioè alla famiglia di Gengis Khan), il cosiddetto "casato della stirpe aurea", sacro poiché mitologicamente derivato dal Dio del cielo, Tengri, divinità suprema dei mongoli. L'impero nel suo insieme era l'ulus della famiglia imperiale. Tutti i khan offrivano fedeltà e rispetto al Gran Khan, che li sorvegliava con un rapido ed organizzato sistema di intendenti e corrieri.
Marco Polo nel Milione descrive il modo in cui Gengis Khan finanziava la sua spesa militare e i fasti della corte dell'impero mongolo. Il Gran Khan aveva introdotto una moneta a corso forzoso, che poteva essere acquistata dietro conferimenti all'imperatore di oggetti in oro, argento e pietre preziose. Viceversa, la moneta non era rimborsabile al portatore con un controvalore metallico. A pena della morte, la moneta doveva essere l'unico mezzo di pagamento per l'acquisto di beni e servizi in tutto il regno, ed era vietato il baratto. Periodicamente, l'imperatore vietava il possesso privato di oro e altri preziosi, e disponeva che questi dovevano essere conferiti al re in cambio di banconote.

Organizzazione militare
Ma l'aspetto più straordinario della personalità di Gengis Khan fu il genio in campo militare, dalla formidabile tattica: le armate mongole, forti di arcieri a cavallo, attaccavano nel più completo silenzio, guidate solo da bandiere di diverso colore, compiendo manovre complesse in assoluta simmetria e coordinazione, il che incuteva una soprannaturale paura nel nemico.
Le tribù unificate adottarono il sistema militare degli Unni basato sul sistema decimale. L'esercito veniva suddiviso in unità di 10 (arban), 100 (yaghun), 1000 (minghan) e infine 10.000 (tumen) soldati. Durante gli spostamenti i soldati portavano con sé le famiglie e tutti i cavalli, che spesso ammontavano almeno a tre o quattro per cavaliere, avendo così sempre a disposizione animali di trasporto freschi.
Un altro aspetto fondamentale dell'organizzazione militare fu l'adesione totale alla meritocrazia: gli unici criteri presi in considerazione da Gengis Khan per stabilire il grado di un ufficiale erano la sua capacità e fedeltà, mentre i tradizionali parametri di nascita e stirpe erano praticamente ignorati. Il figlio di un guardiano di bestiame, Subudei, divenne uno dei suoi comandanti più stimati.
Gengis Khan curò anche la sua fama (l'"immagine") con calcolate azioni di straordinaria ferocia nel punire i nemici o di grande magnanimità verso gli alleati. La fama di inflessibile e invincibile fu un'ottima propaganda contro i suoi avversari politici, i quali sapevano che non sottomettersi equivaleva allo sterminio.

Le campagne militari - Assoggettamento degli Xia
Contemporaneamente al khurultai Genghis Khan si trovò coinvolto in una disputa con gli Xia Occidentali; fu la prima guerra del nuovo khan che, malgrado le difficoltà di conquistare le ben fortificate città degli Xia, ottenne una sostanziale vittoria, fino al punto che, quando nel 1209 venne stipulata la pace, questo popolo era praticamente ridotto ad un protettorato, tanto che il loro imperatore dovette accettare Gengis Khan come suo signore.
Nella capitale venivano inviati oggetti d'oro da tutte le parti del regno per accrescere il tesoro reale. In cambio venivano rilasciati certificati di possesso cartacei, equivalenti alle odierne banconote. Queste somme, come l'oro, erano spendibili dai proprietari per l'acquisto di beni e servizi. Con una simile riserva aurea, fu possibile coniare la moneta necessaria per le spese di guerra. Con la conquista di nuove terre e oro, la riserva veniva reintegrata potendosi così finanziare nuove conquiste.

Invasione della Cina
Nel 1211 le genti mongole erano unificate, quindi Gengis Khan guardò alla Cina; questo obiettivo di maggior respiro fu scelto sia per vendicare antiche sconfitte, ma anche per conquistare le ricchezze dell'Impero celeste. Gengis Khan dichiarò guerra quell'anno e inizialmente le operazioni contro i Chin ebbero lo stesso andamento di quelle contro gli Xia. I Mongoli ottennero numerose vittorie in campo aperto ma fallirono nei loro tentativi di conquistare le principali città.
Con la mentalità che gli era tipica, logica e determinata, Gengis Khan ed i suoi ufficiali superiori si dedicarono allora allo studio delle tecniche di assedio, aiutati da ingegneri cinesi disertori, fino a diventare specialisti in quel campo militare.
Come risultato delle vittorie in campo aperto e di alcune conquiste di fortificazioni, i mongoli nel 1213 si spinsero a sud della Grande Muraglia. Essi avanzarono con tre eserciti fino al cuore del territorio della Cina tra la Grande Muraglia ed il fiume Huang He. Gengis Khan sconfisse gli eserciti cinesi, devastò il nord della Cina, conquistò numerose città ed infine, nel 1215, assediò, conquistò e saccheggiò la capitale dei Chin, Yanjing (in seguito nota come Pechino). Malgrado ciò l'imperatore Chin Xuan Zong non si arrese e spostò la capitale a Kaifeng. Qui, nel 1234 il suo successore fu definitivamente sconfitto ponendo fine alla dinastia Chin.
Nel frattempo Kuchlug, deposto khan della tribù mongola dei Naiman, era fuggito verso ovest ed aveva usurpato il trono nel khanato Kara-Khitan, il più occidentale degli alleati di Gengis Khan.
Il momento era poco favorevole per i mongoli, per via della stanchezza dell'esercito, esausto dopo dieci anni di guerre continue, prima contro gli Xia e poi contro gli Chin. Comunque Gengis Khan inviò contro Kuchlug un brillante generale, Jebe, accompagnato solamente da due tumen (20.000 soldati). Una rivolta fomentata da agenti mongoli ridusse le forze dell'usurpatore che infine venne sconfitto, catturato e giustiziato. Il Kara-Khitan venne annesso allo Stato mongolo.
Nel 1218 le terre controllate da Gengis Khan si estendevano verso ovest fino al lago Balkhash confinando con Khwārezm, uno Stato islamico che giungeva fino al Mar Caspio, al Golfo di Persia ed al Mar Arabico.

La guerra contro l'impero irano-persiano di Khwārezm
Nel 1218 Gengis Khan inviò alcuni emissari nella provincia più orientale del Khwārezm (Corasmia) per parlamentare con il governatore di questa.
Gli emissari mongoli vennero però trucidati e Genghis Khan reagì furiosamente, inviando un esercito di 200.000 soldati.
La campagna che seguì fu forse una delle più sanguinose, con molte città che vennero messe a ferro e fuoco e le loro popolazioni sterminate; secondo alcune tradizioni, nella sola città di Merv vennero uccise un milione e mezzo di persone. Nel 1223 il Khwārezm viene annesso ai domini mongoli, comprese città come Samarcanda e Bukhara.
Le truppe mongole si diressero poi a nord dove venne conquistato il regno della Grande Bulgaria, la cui popolazione fu deportata.

La campagna finale
Durante la campagna contro Khwarizm l'imperatore degli Xia occidentali (vassallo dei mongoli), che si era rifiutato di prendere parte alla guerra, strinse un'alleanza anti-mongola con i Chin. Dopo aver fatto riposare ed aver riorganizzato l'esercito, Gengis Khan si preparò alla guerra contro di loro.
Nello stesso tempo, conscio del passare degli anni, Gengis Khan decise di stabilire le regole per la sua successione in modo da evitare conflitti tra i suoi discendenti. Djuci, il primo figlio prescelto e preferito era già morto, e così egli nominò Ögödei, suo terzo figlio, come successore, stabilendo un criterio per la selezione dei successivi khan, specificando che essi sarebbero dovuti essere suoi discendenti diretti.
Nel 1226 Gengis Khan attaccò i Tanguti, accusandoli di aiutare i suoi nemici. Nel febbraio di quell'anno conquistò le città di Heisui, Gan-zhou e Su-zhou. In autunno prese Xiliang-fu. Un generale Xia sfidò i mongoli in battaglia vicino ai monti Helanshan (Helan significa grande cavallo nel dialetto del nord) ma le sue armate vennero sconfitte. In novembre Gengis Khan pose l'assedio alla città tanguta di Ling-zhou, attraversò il Fiume Giallo e sconfisse un esercito venuto in soccorso di Xia.
Nel 1227 Gengis Khan attaccò la capitale dei Tanguti ed in febbraio assunse il controllo di Lintia-fu. In marzo conquistò la prefettura di Xining e la città di Xindu-fu. In aprile conquistò la prefettura di Deshun dove il generale Xia, Ma Jianlong, resisté per giorni guidando personalmente le cariche della cavalleria fuori dalle porte della città. Ma Jianlong infine cadde trafitto da una freccia e Gengis Khan, dopo aver conquistato Deshun, si mosse verso le montagne di Liupanshan per sfuggire alla calura dell'estate.

La morte
Non è chiara la causa della sua morte; di certo si sa che morì dopo una lunga agonia, forse causata da un trauma riportato a seguito di una caduta da cavallo.
La motivazione è però certamente correlata ad uno scontro coi Tanguti; si suppone che sia morto per le fatiche sostenute in battaglia alla sua veneranda età oppure alle ferite riportate in quest'ultima; alcuni imputano lo scontro ad una rappresaglia per il rapimento di una principessa tanguta che era stata consegnata a Gengis Khan come bottino di guerra; altre fonti (dalle cronache degli Oirat) sostengono che la principessa deportata avesse nascosto una piccola tagliola nella vagina e che il Gran Khan fosse morto per i traumi subiti a seguito del rapporto sessuale con la principessa.
Comunque fosse, a metà del 1227 Gengis Khan in agonia si rese conto che la sua fine si avvicinava. Dopo aver confermato Ögödei come successore (il primogenito prescelto Djuci era già morto), dettò dal suo letto di morte al figlio più giovane, Tolui, le istruzioni per completare la distruzione dell'impero Chin.
Morì lasciando un impero che si estendeva dalla Siberia al Kashmir, al Tibet, al Mar Caspio, al Mar del Giappone. Nonostante i genocidi, le deportazioni di massa e le distruzioni delle città rase al suolo e ricostruite da zero, l'Impero mongolo era solido, pacifico, con genti diverse per stirpe, lingua e religione che convivevano armoniosamente sotto l'equa e inflessibile pax mongolica.
Il suo corpo venne riportato in Mongolia e sepolto in una località segreta, probabilmente insieme a molti servi uccisi per l'occasione. Tutta l'area intorno, per centinaia di chilometri quadrati, venne dichiarata interdetta all'accesso (horig) e sorvegliata dalle guardie Uriankhai (il fedele gruppo tribale di Subedei), oltre ad essere volutamente calpestata da centinaia di cavalli per cancellare ogni traccia della sepoltura.
Per decenni varie spedizioni americane e giapponesi hanno tentato inutilmente di ritrovare il sepolcro del grande sovrano, che però resta a tutt'oggi introvabile. D'altronde, non è mai stata scoperta lapide o tomba di capo mongolo, perché questo popolo, tradizionalmente, non ha mai adottato segni sepolcrali del genere.
Dopo la sua morte, e per un paio di anni, rimase reggente ad interim Tolui (fratello di Ogodei) in attesa del concilio del Kuriltai del 1229.

L'eredità di Gengis Khan
Gengis Khan ebbe da varie mogli e concubine numerosi figli e figlie, a ciascuno dei quali vennero assegnati titoli e guerrieri, ma per i 4 figli maschi avuti dalla prima e principale moglie Börte furono riconosciuti i più alti onori ed il diritto di successione per le cariche più rilevanti; questi 4 erano:
▪ Djuci, dalla cui discendenza nacquero sovrani e condottieri dell'Orda d'Oro.
▪ Djagatai,
▪ Ögödei, il successore investito dallo stesso Temujin
▪ Tolui , padre di Kublai Khan
Le successive mogli che gli avevano dato figli e di cui si abbia traccia, furono:
▪ Qulan Khatun dei Merkit,
▪ Yesugan dei Tatari,
▪ Chi Kuo della Cina,
▪ Yesulun dei Tatari,
▪ Abika Khatun dei Keraiti,
▪ Gurbasu Khatun dei Naiman,
▪ Chaga Khatun dei Tanguti,
▪ Moge Khatun (poi moglie di Ogodei),
▪ una concubina dei Naiman madre di Djurchetai e una concubina dei Tatari madre di Orchakan.
Da altre concubine ebbe il figlio Aladjai, una figlia che sposò Togutshar ed un figlio che gli diede il nipote Mutugen.
Recenti ricerche hanno messo in evidenza come l'estensione dell'impero mongolo abbia ricadute visibili ancora oggi nel patrimonio genetico della popolazione eurasiatica. Si è calcolato che circa l'8% delle persone che vivono nei territori un tempo sottomessi ai Mongoli hanno cromosomi Y identici: l'ipotesi più accreditata è che questo sia proprio uno dei risultati delle invasioni mongole.
L'opera politica e militare di Genghis Khan presenta luci ed ombre; accanto a iniziative positive come il sistema postale, il divieto dell'uso della tortura, l'esenzione per insegnanti e dottori dal pagamento delle tasse od il principio della libertà di religione, molti cronisti forniscono dati impressionanti sulle stragi compiute dai Mongoli durante le loro conquiste. Ad esempio, la Cina avrebbe avuto prima dell'invasione una popolazione di 100 milioni di abitanti che si era ridotta a 60 milioni nel 1300, ossia circa cinquant'anni dopo la conquista dei Mongoli; in particolare le popolazioni a nord del fiume giallo, facenti parte della dinastia Sung settentrionale, si ridussero da 46 milioni a soli 4,5 milioni. Queste dure iniziative non furono mai gratuite o irrazionali, ma sempre inquadrate nell'ambito di un disegno strategico, che doveva rafforzare l'immagine dei mongoli come inflessibili e imbattibili, agendo da deterrente contro i possibili oppositori.

▪ 1563 - Étienne de La Boétie (Sarlat, 1° novembre 1530 – Germignan, 18 agosto 1563) fu un filosofo, scrittore e politico francese.

La formazione
Nasce il 1° novembre del 1530 a Sarlat, piccola città del Périgord non lontana dal capoluogo della regione, Périgueux. In giovane età rimane orfano e viene allevato dallo zio, curato di Bouilhonas, il quale lo avviò agli studi. Era, in questo periodo, vescovo di Sarlat un cugino della famiglia Medici di Firenze, Niccolò Gaddi, il quale era anche strettamente legato alle esperienze dell’Umanesimo italiano e intendeva fare della propria diocesi una sorta di Atene del Périgord. Fu attraverso questo ambiente culturale che Étienne conobbe le idee repubblicane dell’antichità classica, idee che influerenzeranno il suo pensiero maturo.
Dopo gli studi collegiali gli si prospettò l’occasione di far carriera nella magistratura; così Étienne si iscrisse alla Facoltà di Diritto dell’Università di Orléans. La Facoltà di Diritto ad Orléans offriva un punto di vista sugli studi giurisprudenziali molto originale e all'avanguardia per l'epoca; di tale punto di vista si avvantaggiò tutto il pensiero e l'attività politica di La Boétie; ebbe infatti occasione di conoscere le opere di Lorenzo Valla, Andrea Alciato, Angelo Poliziano. Ad Orléans insegnava, inoltre, Anne du Bourg il quale applicava e insegnava con estrema originalità l’interpretazione grammaticale delle espressioni giuridiche, l’analisi semantica dei termini e incoraggiava la riflessione sulla filosofia del diritto e l’esame critico dei testi giuridici.
La Boétie si laurea in giurisprudenza il 23 settembre del 1553 e, subito dopo, il 13 ottobre, ottiene la licenza reale che gli apre l'accesso alla carica di Consigliere al Parlamento di Bordeaux, carica che ottiene il 17 marzo 1554.

L'incontro con Montaigne
Tre anni dopo l'accesso alla carica di Consigliere di La Boétie, nel 1557, toccherà a un altro grande pensatore francese diventare Consigliere al Parlamento di Bordeaux: Michel de Montaigne; in questo modo i due avranno occasione di conoscersi e sviluppare quella celebre amicizia che Montaigne descriverà nei suoi Essais. I due sviluppano la loro amicizia in un clima politico estremamente travagliato: il Parlamento di Bordeaux viene infatti coinvolto nei disordini seguiti agli scontri religiosi e al diffondersi della Riforma protestante nel Midi aquitano. Inizialmente il Parlamento si schiera col lealismo realista e attraverso di esso passarono numerose condanne a morte, tra le quali, nel 1559, anche quella del vecchio professore di Étienne de La Boétie: Anne du Bourg. Etienne benché cattolico, aveva avvertito profondamente l’influenza del suo maestro.

L'incarico presso la corte
È in questa situazione politica e sociale che, nel 1560, La Boétie si vede affidare un incarico segreto di riconciliazione religiosa presso Caterina de Medici (la quale era reggente al trono di Francia per Carlo IX, allora bambino di dieci anni). L'incarico fu organizzato sotto il pretesto di una ambasciata presso il potere centrale per discutere della paga dei magistrati della città. I motivi per cui un incarico di tale delicatezza venisse affidato ad un consigliere così giovane e, tutto sommato, abbastanza oscuro, stanno, senza ombra di dubbio, nel fatto che La Boétie fosse l’uomo giusto al momento giusto per una tale incombenza: occorre ricordare che il giovane Étienne si era intellettualmente formato sotto Nicolò Gaddi, parente della reggente, ed aveva perciò una naturale predisposizione all'essere ben visto dalla corte reale francese. Inoltre proprio il fatto che La Boétie non si fosse fatto particolarmente notare durante tutta la sua attività di Consigliere al Parlamento di Bordeaux pareva essere indice, nonostante la sua fede cattolica, di una posizione di disaccordo con la politica repressiva attuata fino a quel momento dal Parlamento nei confronti dei non cattolici.

L'incontro con L'Hospital
Nell'eseguire il suo incarico, Étienne conobbe e divenne amico del cancelliere Michel de l'Hospital, l'esecutore, per così dire, materiale della politica di tolleranza religiosa e pace sostenuta da Caterina de Medici. Il cancelliere incaricò il giovane di farsi interprete della nuova linea di tolleranza, i cui punti salienti erano contenuti nell’ordinanza degli Stati Generali di Francia (Orléans il 31 gennaio 1561), presso il Parlamento di Bordeaux, che come abbiamo visto fino ad allora aveva seguito una politica filocattolica repressiva. Svolto tale compito, l’Hospital gli affidò l'incarico di mediatore di alcuni scontri religiosi avvenuti nella zona dell' Agenais; il suo ruolo fu essenziale nel raggiungere una soluzione pacifica di compromesso sostanzialmente soddisfacente per entrambe le parti.

Mémoire sur l’Edit de Janvier
Ormai Étienne de La Boétie è diventato uno dei referenti di spicco della politica di conciliazione religiosa della reggente e del suo cancelliere e questo fu ancora più visibile nella pubblicazione della Mémoire sur l’Edit de Janvier, in cui La Boétie prende decisamente posizione a favore della politica di tolleranza religiosa della reggente Caterina dei Medici. In questo testo, inoltre, denuncia i pericoli connessi agli scontri religiosi e dall’altro l’inutilità e la dannosità della repressione violenta: occorre fermare gli scontri in modo non violento, pena la lacerazione dello Stato. La strada per la pacificazione nazionale consisteva, a suo avviso, nello strutturarsi di un “cattolicesimo riformato” in cui poter operare la riconciliazione tra i protestanti cattolici fedeli alla chiesa di Roma.

La morte
Nel dicembre 1562 egli è nuovamente protagonista di un tentativo di pacificazione, peraltro riuscito. Sarà questa la sua ultima azione politica rilevante e non perché la sua carriera politica fosse in discesa, anzi, stava cominciando ad assumere un ruolo politico di una qualche rilevanza; però, pochi mesi dopo, improvvisamente si ammalò. Il 14 agosto 1563 egli redasse il suo testamento nominando l'amico Montaigne, che era accorso al suo capezzale, suo esecutore testamenterio.
Il 18 agosto, Étienne de La Boétie morì tra le braccia dell'amico invocandone il nome e pronunciando la frase: «Mon frére! Me refusez-vous donc une place?» (Fratello mio! Vorreste negarmi dunque un posto?). Queste estreme parole invocanti un riconoscimento, appunto un place, nel tempio della gloria sconvolsero a tal punto il sensibile animo di Montaigne, antagonista della vana gloria, da generare in lui l'enorme riflessione filosofica che si tradurrà poi nella stesura dei celebri Essays, iniziati dieci anni dopo la morte dell'amico.

Discorso sulla servitù volontaria
Il Discorso sulla servitù volontaria (o il Contr'Uno) fu composto da Étienne de La Boétie, secondo gli ultimi studi, nel periodo dell'università, cioè attorno ai 22 anni. Secondo l'amico Montaigne, tuttavia, il discorso sarebbe stato addirittura precedente, scritto cioè attorno ai 18 anni. Il pamphlet circolò clandestinamente fino al 1576, anno della sua pubblicazione con il titolo di "Il contro uno".
Il discorso sostiene che i tiranni detengono il potere in quanto sono i sudditi a concederglielo, e delegittima quindi ogni forma di potere. La libertà originaria sarebbe stata abbandonata dalla società, che una volta corrotta avrebbe poi preferito la servitù del cortigiano alla libertà dell'uomo libero, che rifiuta di essere sottomesso e di obbedire. Questa relazione tra dominio ed obbedienza sarebbe stata poi ripresa successivamente da pensatori anarchici.
Il pensiero di La Boètie fu anche ripreso dai movimenti di disobbedienza civile, che trassero dal concetto di ribellione alla servitù volontaria il fondamento del proprio strumento di lotta.
Étienne de La Boétie fu infatti uno dei primi a proporre la non collaborazione, e quindi una forma di disobbedienza nonviolenta, come arma realmente efficace. La Boètie non è interessato alle «congiure di gente ambiziosa» interessata soltanto a «far cadere una corona, non togliere il re, cacciare sì il despota, ma tenere in vita la tirannide», ma auspica un cambiamento ed una liberazione profonda dal potere.
«Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte, sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data, non ha potere di nuocere se non in quanto viene tollerato. Da dove ha potuto prendere tanti occhi per spiarvi se non glieli avete prestati voi? come può avere tante mani per prendervi se non è da voi che le ha ricevute? Siate dunque decisi a non servire più e sarete liberi!»
Proprio la disobbedienza civile, ed il rifiuto di servire l'autorità ingiusta collaborando con essa, avrebbero costituito il presupposto teorico dal quale avrebbero tratto spunto i moderni movimenti nonviolenti.

▪ 1642 - Guido Reni (Bologna, 4 novembre 1575 – Bologna, 18 agosto 1642) fu un pittore e incisore italiano, fra i maggiori del Seicento.
Nasce a Bologna, nell'attuale Palazzo Ariosti di via San Felice 3, da Daniele, musicista e maestro della Cappella di San Petronio, e da Ginevra Pozzi; è battezzato il 7 novembre nella chiesa di San Pietro.
Un'erronea tradizione che risale alla fine del Settecento lo fa nascere a Calvenzano (Vergato), nell'Appennino bolognese.
Nel 1584, a dire dello storico Carlo Cesare Malvasia, che conobbe in vita il pittore, abbandona gli studi di musica, a cui era stato avviato dal padre, per entrare nell'avviata bottega bolognese del pittore fiammingo Denijs Calvaert, amico del padre, che lo impegna a tenerlo con sé per dieci anni. Ha per compagni di apprendistato pittori destinati a grande successo come Francesco Albani e il Domenichino; studia Raffaello, del quale copia più volte l'Estasi di Santa Cecilia, e le incisioni del Dürer.
Morto il padre il 7 gennaio 1594, Guido lascia la bottega del Calvaert per aderire all'Accademia del Naturale, scuola di pittura fondata dai Carracci nel 1582, che si trasformerà nel 1599 nell'Accademia degli Incamminati.
Qui mostra il suo talento tanto che il Malvasia riferisce l'improbabile aneddoto del suggerimento dato da Annibale a Ludovico Carracci, di non gl'insegnar tanto a costui, che un giorno ne saprà più di tutti noi. Non vedi tu come non mai contento, egli cerca cose nuove? Raccordati, Lodovico, che costui un giorno ti vuol far sospirare.
Nel 1598 è già pittore indipendente e dipinge l' Incoronazione della Vergine e quattro santi, oggi nella Pinacoteca di Bologna, per la chiesa di San Bernardo, e vince la gara, in concorso con Ludovico Carracci, per la decorazione della facciata del Palazzo del Reggimento, l'attuale palazzo municipale di Bologna: gli affreschi, commissionati per onorare la visita di papa Clemente VIII e rappresentanti figure allegoriche, si erano già cancellati nell'Ottocento. Sono contemporanee le tele della Madonna col Bambino, san Domenico e i Misteri del Rosario della Basilica di San Luca, la Resurrezione di San Domenico e l'Assunzione della Vergine della parrocchiale di Pieve di Cento. Il 5 dicembre 1599 fa parte del Consiglio della Congregazione dei pittori di Bologna.

A Roma
Forse già nel 1600 ma certamente nel 1601 è a Roma, dove l'11 ottobre viene pagato dal cardinale Sfrondato per il suo Martirio di santa Cecilia della Basilica di Santa Cecilia in Trastevere: per lo stesso committente e la stessa chiesa esegue anche l' Incoronazione dei santi Cecilia e Valeriano e, copia del noto dipinto di Raffaello, la Santa Cecilia con quattro santi, ora conservata nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Ai primi del 1603 è a Bologna per assistere ai funerali di Agostino Carracci.
Viaggia da Bologna a Roma e di qui a Loreto, per trattare delle eventuali decorazioni della Santa Casa che verranno però affidate al Pomarancio; a Loreto, comunque, vede gli affreschi di Melozzo, le cui opere aveva probabilmente già conosciuto a Roma e, di passaggio, a Forlì. Delle soluzioni melozziane terrà conto nei suoi lavori: si pensi alla prospettiva degli affreschi del Duomo di Ravenna.
Nel 1605 completa La crocefissione di san Pietro, per la chiesa romana di San Paolo alle Tre Fontane, ma ora nella Pinacoteca Vaticana, commissionatagli dal cardinale Pietro Aldobrandini. Per il Malvasia sarebbe stato il Cavalier d'Arpino a suggerire l'emulazione del soggetto, derivato dalla tela caravaggesca in Santa Maria del Popolo, allo scopo di danneggiare il Caravaggio nei favori dei committenti. Ne riproduce in parte i contrasti di luce ma vi toglie il dramma: la sua crocefissione è la rappresentazione di un tranquillo lavoro di artigiani, che rovesciano un santo rassegnato sulla croce e lo legano e l'inchiodano con gesti lenti e metodici.
È la sua ricerca del bello ideale, ricavato dal classicismo raffaellesco nella mediazione dei Carracci che sfiora soltanto la visione naturalistica di Caravaggio ma se ne allontana per la necessità di ammantarla di "decoro"; di questa esperienza, nel primo decennio del secolo, sono parte il Davide con la testa di Golia del Louvre, il Martirio di santa Caterina per la chiesa di Sant'Alessandro a Conscente, ora al Museo diocesano di Albenga in Liguria, La preghiera nell'orto di Sens e L'incoronazione della Vergine di Londra.
La sua fama è così consolidata che nel 1608 papa Paolo V gli affida la decorazione di due sale dei Palazzi Vaticani, la Sala delle Nozze Aldobrandine e la Sala delle Dame, e il cardinale Borgherini gli affreschi di San Gregorio al Celio, il Martirio di sant'Andrea e l'Eterno in gloria; l'anno dopo inizia la decorazione della cappella dell'Annunciata nel palazzo del Quirinale, avvalendosi anche di aiuti importanti come quelli di Francesco Albani e di Giovanni Lanfranco.
Il 25 settembre 1609 riceve il primo acconto per gli affreschi della cappella Paolina in Santa Maria Maggiore che interrompe alla fine del 1610 - sembra per contrasti con l'amministrazione papale - tornando a Bologna, dove esegue importanti dipinti quali La strage degli innocenti, il Sansone vittorioso e il severo e intensissimo Ritratto della madre.
Se il Sansone è un gigante effeminato che si ristora dopo il massacro e i morti sembrano dormire placidamente nella serenità albeggiante di una vasta pianura, nell'altra Strage rappresentata in atto con sei donne, due piccoli morti e due assassini, la tragedia è congelata nella misura e nella simmetria della composizione raffaellesca.
Torna a Roma nel 1612, per terminare nell'aprile gli affreschi di Santa Maria Maggiore; il cardinale Scipione Borghese gli commissiona, per il suo Casino nel parco del suo Palazzo, ora Rospigliosi Pallavicini, l'affresco dell'Aurora, terminato nell'agosto 1614. Il grandioso affresco ebbe grande fortuna fino al Neoclassicismo: il carro di Apollo, circondato dalle figure delle Ore è preceduto dall'Aurora mentre sopra i quattro cavalli vola Phosphoros, l'astro del mattino, con una torcia accesa; in basso a destra è rappresentato un paesaggio marino.
Dopo un breve soggiorno a Napoli, è a Bologna dove inizia ad affrescare l'abside della cappella di San Domenico, nell'omonima basilica; ancora a Roma nel primi del 1614, torna definitivamente a Bologna nell'ottobre 1614.

A Bologna
Qui esegue opere che saranno prototipo di numerose tele seicentesche come, per la chiesa di Santa Maria della Pietà, la pala detta Pietà dei Mendicanti, il Crocifisso ora nella Pinacoteca bolognese e l'Assunzione della Vergine di Genova.
Il 20 giugno 1617 è chiamato a Mantova per eseguire decorazioni nel Palazzo Ducale ma rifiuta a causa delle "infermità mortali" che gli provocherebbe la pittura a fresco; in compenso, esegue per il duca quattro tele con le Fatiche di Ercole - Ercole sul rogo, Ercole e Archeloo, Ercole e l'idra e Nesso rapisce Deianira - ora al Louvre.
Nel maggio 1622 è a Napoli, per affrescare la cappella del Tesoro di San Gennaro nel Duomo ma non raggiunge l'accordo economico e riparte per Roma, dopo aver dipinto tre tele per la chiesa di San Filippo Neri. Se le presunte, oscure manovre ordite contro di lui dai pittori napoletani non hanno riscontro documentario, una lettera del 20 agosto del conte Barbazzi al duca di Mantova attesta l'"estremo bisogno" di denaro del pittore, "larghissimo dissipatore".
La tela napoletana dell'Atalanta e Ippomene figurava nel Seicento nelle proprietà dei Gonzaga a Mantova. Rappresenta il mito della gara fra Ippomene e l'invincibile Atalanta, che perderà la corsa - e la propria verginità - per fermarsi a raccogliere le mele d'oro lasciate cadere da Ippomene durante la corsa. "Nudi da Erebo, fantasmi di un imbrunire perpetuo, Atalanta e Ippomene sono colpiti da una luce spettrale: evocati, richiamati dal nulla....le carni s'imbevono di una luce astratta, lunare. Una diagonale di rossori, in quel pallore livido, d'incarnati più rosei, un soffio appena vitale attraversa le mani dei due adolescenti, scalando dal volto del giovane fino alla mano della fanciulla che interrompe la corsa e si distrae a raccogliere il pomo gettato dal rivale: un gesto - lapsus, che nel suo curvo ritmo di danza scopre una nudità di membra molli, lievemente deteriorate...Atalanta assorta in un'ermetica indifferenza, Ippomene che si ritrae spaventato dalla magia fascinatrice del pomo, divergono in un rapporto di fraterna, incomunicabile solitudine..." (Cesare Garboli).
Nel 1625 firma e data a Roma il Ritratto del cardinale Roberto Ubaldini, ora in una collezione privata inglese e la grande pala barocca della Trinità per la chiesa dei Pellegrini, dipinta, secondo il Malvasia, in soli ventisette giorni e terminata in settembre.
A questo periodo (1627) appartiene anche la celeberrima tela della Immacolata Concezione oggi conservata nella Chiesa di San Biagio di Forlì.
Ritorna ancora a Roma nel 1627 per eseguire gli affreschi, commissionatigli dal cardinale Barberini, delle Storie di Attila in San Pietro; impone che nessuno – "né anco i cardinali" - salga sulle impalcature durante i lavori e tuttavia non mette mano all'opera ripartendo bruscamente per Bologna, a causa, s'è detto, oltre che dell'ostilità di alcuni cardinali, anche della gelosia del Gessi, suo ex allievo.
Durante questa permanenza a Roma riceve la commissione del Ratto d'Elena dall'ambasciatore spagnolo col quale non viene però raggiunto l'accordo sul compenso e viene allora venduto in Francia a Monsieur de la Vrillière: è una fredda e decorativa scena da melodramma cortigiano, diversamente dal Ritratto del cardinale Bernardino Spada, conservato nell'omonima Galleria romana, donato dal pittore all'amico cardinale, legato pontificio a Bologna. Lo Spada viene rappresentato con evidente simpatia e una resa vibrante di colori che ne esalta l'aspetto aristocratico e intelligente in un contesto di compostezza e decoro.
Superata la tremenda peste del 1630, il Senato bolognese gli commissiona la pala votiva della Madonna col Bambino e santi, criticata dai contemporanei per l'avvicinarsi del Reni alla sua seconda maniera, ove schiarisce le tonalità, intridendole di argento, come si nota anche nella delicata Annunciazione di Ascoli Piceno.

Gli ultimi anni
Prima del 1635 esegue su seta, per conto del cardinale Sant'Onofrio, fratello del papa Urbano VIII, il San Michele arcangelo, attualmente esposta a Palazzo Venezia nell'ambito della mostra "Il Potere e la Grazia". Celebrato come esempio di bellezza ideale, il Reni, in una lettera, scrisse di aver voluto avere "pennello angelico o forme di Paradiso per formare l'Arcangelo o vederlo in Cielo; ma io non ho potuto salir tant'alto ed invano l'ho cercato in terra. Sicché ho riguardato in quella forma che nell'idea mi sono stabilita".
Fanno parte della produzione ultima le Adorazioni dei pastori di Napoli e di Londra, i San Sebastiano di Londra e di Bologna, la Flagellazione di Cristo di Bologna, Il suicidio di Cleopatra e La fanciulla con corona, entrambe nella Pinacoteca Capitolina, tutte opere che il Malvasia definì incompiute: eseguite a pennellate veloci e sommarie, secondo un'intenzione stilistica che la critica, dal Novecento, riconosce invece una consapevole scelta estetica del Reni. Per il suo biografo, a causa dei debiti, il pittore fu costretto negli ultimi anni "a lavorare mezze figure e teste alla prima, e senza il letto sotto; a finire inconsideratamente le storie e le tavole più riguardevoli; a prender denaro a cambio da tutti; a non ricusare ogni imprestito da gli amici; a vendere, vil mercenario, l'opra sua e le giornate a un tanto l'ora".
Sembra certo che soffrisse di depressione:"...comincio a non piacere più nemmeno a me stesso", scrive, e alla morte confessa di pensare "conoscendo essere vissuto assai, anzi troppo, dando fastidio a tanti altri, forzati a star bassi finch'io vivo".
Il 6 agosto 1642 è "colto da febbri" che lo portano alla morte il 18 agosto. Il corpo viene esposto vestito da cappuccino e sepolto nella cappella Guidotti della basilica di San Domenico, per volontà del senatore bolognese Saulo Guidotti, legato al pittore da profonda amicizia. Accanto a lui giacciono le spoglie di Elisabetta Sirani, sua allieva prediletta.

La fortuna critica
È la sostanziale ambiguità della sua poetica ad aver fatto oscillare l'apprezzamento della sua opera nel tempo: fu esaltato dai contemporanei per l'armonia raggiunta nel coniugare il classicismo raffaellesco alle esigenze di verità poste da Caravaggio - esigenze naturalistiche del resto già sentite dal Reni fin dal tempo della sua frequentazione dei Carracci - e depurate dagli eccessi in nome del decoro e della ricerca del bello ideale.
"Di tutti gli allievi dei Carracci è stato il più felice e ancor oggi si trova un'infinità di persone che prediligono le sue opere al punto da preferire la delicatezza e la grazia che manifestano alla grandezza e alle forti espressioni di altre" (Des Avaux, 1666) e il Mariette, nel 1741, scrive che "la nobiltà e la grazia che Guido ha soffuso sui volti, i suoi bei drappeggi, uniti alla ricchezza delle composizioni, ne hanno fatto un pittore dei più gradevoli. Ma non si deve credere che sia giunto a questo senza essersi sottoposto a un intenso lavoro. Lo si vede soprattutto nei disegni preparatori di grandi dimensioni: ogni particolare è reso con assoluta precisione. Attraverso di essi si rivela un uomo che consulta continuamente la natura e che non fa alcun assegnamento sul suo dono felice di abbellirla".
Apprezzate nel Settecento anche le opere dell'ultima maniera dalle forme che si dissolvono nella luce, nell'Ottocento, a parte la stroncatura di John Ruskin, nel 1844, ("la religione deve essere ed è sempre stata il fondamento e lo spirito informatore di ogni vera arte. Mi assale una collera disperata quando sento che Eastlake compera dei Guido per la National Gallery"), intorno al Reni si fa silenzio quando non vi è il disprezzo per certe espressioni della sua pittura devozionale.
Nel 1923 esce l'importante articolo di Hermann Voss sugli anni romani dell'attività del Reni, in cui lo studioso tedesco individua l'attenzione del bolognese alla pittura moderna di Annibale Carracci e dello stesso Caravaggio ma con un approccio da conservatore che "paralizza" la monumentalità dell'uno e il naturalismo dell'altro, tanto da suscitare l'entusiasmo di un Cavalier d'Arpino. "L'irresistibile incanto del Reni era ed è riposto nel sensuale fascino della sua cantilena in una sua tipica e inimitabile dolcezza musicale....il modo con cui lascia cadere una veste frusciante, con cui, grazie ad una semplicissima curva compositiva, fa risuonare e vibrare l'intera figurazione, ha qualcosa di sonnambulesco". Non vi sono nel Reni nuovi pensieri e originalità compositive ma un semplice confrontarsi con la tradizione: la forza del pittore sta "nell'alto senso della bellezza e in quella musicalità del sentire che nobilitano ogni linea, ogni movenza...."
Per il Longhi, nel Reni è acutissimo il desiderio "di una bellezza antica ma che racchiuda un'anima cristiana... spesso, da vero pittore e poeta, escogita gamme paradisiache... angeli soffiati in rosa e biondo... un anelito a estasiarsi, dove il corpo non è che un ricordo mormorato, un'impronta; un movente quasi buddistico, che bene s'accorda con l'esperienza tentata da Guido di dipinger sulla seta, a somiglianza, appunto, degli orientali".
Una grande mostra a Bologna nel 1954 accentuò l'interesse critico per l'artista: per il Ragghianti, "il vero Reni ci si presenta come un artista rimasto, oltre ogni dottrina e bravura di prove, trepidamente adolescente, in un crepuscolo di esperienze che, come nella pubertà, avvolge il senso nella fantasia e gli dà quell'accensione fascinosa che dilata la realtà...".
Per Cesare Gnudi, la poetica classicista fu dominante nel Reni, ed egli, pur identificando il suo ideale di bellezza con le immagini della mitologia classica, dovette mediare tale ideale con la realtà storica, politica e religiosa, cui aderiva, della Controriforma, e "fra il suo ideale di bellezza e il suo sentimento religioso già assestato in una quieta e accomodante pietà, egli non sentì forse mai un vero contrasto".
Non è vero che il vero Reni si troverebbe nell'evocazione di soggetti mitologici e un falso Reni si esprimerebbe nella convenzionalità dei suoi soggetti religiosi; se mondo classico e mondo religioso non contrastano fra di loro, tuttavia nemmeno si identificano e il Reni non sentì mai di dover scegliere: "La scelta non avvenne perché egli sentiva nell'uno e nell'altro mondo qualche parte vitale di sé. Non avvenne mai la rinuncia all'uno in nome dell'altro. Il dualismo restò così fino all'ultimo, continuamente composto e continuamente affiorante".
Negli ultimi anni "alla levitazione della forma materica farà seguito progressivo un disfacimento delle ultime vestigia naturali; la pittura andrà sempre più a decomporsi come una crisalide, lasciando emergere la struttura scarna e tuttavia persuasiva del progetto grafico sottostante. L'accelerazione è così evidente da far risuonare sotto le volte dello studio posto quasi in piazza Maggiore quel non finito che il Manierismo aveva portato al livello della metafora (l'impossibile a dire, a esprimere) che al contrario Guido intendeva come la sublime sprezzatura poetica dell'esprimibile toccato e colto nella pienezza dell'idea, del suo mondano travestimento..." (Emiliani).

▪ 1795 - Luigi Zamboni (Bologna, 12 ottobre 1772 – Bologna, 18 agosto 1795) è stato un patriota italiano.
Studente presso l'Università di Bologna, è uno dei primi martiri in nome dell'Unità Italiana e l'ideatore del tricolore italiano.Studente presso l'Università "Alma Mater" di Bologna è stato con Giovanni Battista de Rolandis ideatore del tricolore italiano. La storia Patria li considera patrioti della nuova Italia e protomartiri del Risorgimento. A lui è intitolata una delle vie principali di Bologna, che collega le Due Torri a Porta San Donato, passando per la zona Universitaria.

▪ 1850 - Honoré de Balzac (Tours, 20 maggio 1799 – Parigi, 18 agosto 1850) è stato uno scrittore francese, considerato fra i maggiori della sua epoca.
Romanziere, critico, drammaturgo, giornalista e stampatore, è considerato il principale maestro del romanzo realista francese del XIX secolo.
Scrittore prolifico, ha elaborato un'opera monumentale - la Commedia umana - ciclo di numerosi romanzi e racconti che hanno l'obiettivo di descrivere in modo quasi esaustivo la società francese contemporanea all'autore o, come ha detto più volte l'autore stesso, di "fare concorrenza allo stato civile".
La veridicità di quest'opera colossale ha portato Friedrich Engels a dichiarare di aver imparato più dal "reazionario" Balzac che da tutti gli economisti.
Di grande influenza (da Flaubert a Zola, fino a Proust e a Giono, tanto per restare in Francia), la sua opera è stata anche utilizzata per moltissimi film e telefilm.

▪ 1944
- Sirio Corbari meglio conosciuto come Silvio Corbari (Faenza, 10 gennaio 1923 – Castrocaro Terme, 18 agosto 1944) è stato un partigiano italiano operante in Romagna durante la Resistenza al nazifascismo.
Corbari, dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943, decise di rifugiarsi in montagna insieme ad altri compagni, di diverse correnti politiche, creando un'unità partigiana di circa una cinquantina di uomini, della quale divenne il comandante con il nome di battaglia di Silvio, per combattere le forze di occupazione tedesche e le milizie fasciste che le appoggiavano. Per undici mesi la sua formazione si mosse tra i territori delle province di Ravenna e Forlì, effettuando numerosi attacchi ed imboscate ai danni delle forze occupanti, che gli valsero la stima (e l'aiuto) della popolazione locale.
Il 18 agosto 1944 Corbari, insieme alla compagna Iris Versari, ferita in un precedente scontro, e ai partigiani Adriano Casadei e Arturo Spazzoli, fu circondato da reparti fascisti presso Ca' Cornio, nei pressi di Modigliana. Dopo un intenso scontro a fuoco la Versari, accortasi dell'accerchiamento del rifugio, per salvare il suo uomo uscì all'aperto, ferì a morte un milite e si suicidò.
Corbari e Casadei furono portati a Castrocaro ed impiccati, come monito per la popolazione. Pino Cacucci nel libro "Ribelli" racconta che quando fu il turno di Casadei la corda fu tirata troppo forte e si spezzò: Casadei allora la raccolse e riannodandosela da solo al collo disse in dialetto: "Siete marci anche nella corda". I corpi dei quattro partigiani furono successivamente portati a Forlì ed appesi, sempre a scopo intimidatorio, ai lampioni della piazza centrale, piazza Saffi, dove rimasero per alcuni giorni.
Tonino Spazzoli non venne giustiziato subito. Durante un trasferimento a bordo di un furgone da Forlì a Ravenna tentò la fuga, ma fu ucciso nei pressi di Coccolia.
Per i numerosi successi nelle operazioni condotte contro le forze di occupazione tedesche, Sirio Corbari è stato insignito della Medaglia d'Oro al Valor Militare.

La Banda Corbari
La piccola brigata partigiana al comando di Silvio Corbari è nota col nome di Banda Corbari, come è nota come Banda Cervi la formazione partigiana formata dai fratelli Cervi da amici come Dante Castellucci e da prigionieri sovietici e sudafricani scappati dai campi di prigionia, le due piccole formazioni partigiane hanno similitudini sia dal punto di vista che diversi componenti sono legati da rapporti molto stretti sia dal fatto che agivano su territorio perfettamente noto ai componenti così come Piccola Banda di Ariano è chiamata la ancor più piccola formazione partigiana a comando di Gianluca Spinola e anche qui troviamo rappori di parentela e/o di strettisima amicizia, altra caratteristica della Banda Corbari è l'alto numero di decorazioni al valor miltare alla memoria per un così basso numero di componenti così come la Banda Cervi.

L'omicidio del console della milizia Gustavo Marabini
Il piccolo numero di componenti non impedì alla Banda Corbari di compiere numerose azioni fra le altre si può ricordare l'omicidio del console della milizia fascista Gustavo Marabini (episodio ricordato anche nel libro di Pino Cacucci) e che successivamente provocò l'annientamento della Banda Corbari da parte dei fascisti. A seguito di un bando emanato dalle autorità della Repubblica Sociale che garantiva l'amnistia ai partigiani, Corbari contattatò il conte Francesco Zanetti Protonotari Campi chiedendo di parlamentare con le autorità fasciste. Richiese, oltre all'immunità per i suoi trascorsi, anche un grado nella milizia fascista (questo è quello che fece sottintendere Corbari coi suoi contatti). Il conte Zanetti Portolani organizzò l'incontro fra Corbari e il console della milizia Gustavo Marabini nel proprio podere cui erano presenti anche Francesco Agnoletti e Tullio Mussolini. Corbari si presentò con Iris Versari ed Otello Sisi. La mediazione per la "resa" si protrasse a lungo arrivando alla conclusione che i partigiani si sarebbero consegnati dopo alcuni giorni.
Poco dopo essersi allontanati, ritornarono al podere motivando che per evitare sospetti era preferibile concludere immediatamente, per cui i tre della Banda Corbari, disarmati ovviamente o quanto meno sembrava, salirono sull'autovettura di Marabini insieme all'autista. Gli altri fascisti rimasti al podere avrebbero aspettato che qualcuno andasse a recuperarli. Presso Predappio però uno dei tre partigiani sparò a Marabini uccidendolo. L'autista fu invece rilasciato.
Tutto lo svolgersi della vicenda non è chiaro ma è pensabile ad una messa in scena di quelle tipiche di Silvio Corbari, illustrate nel libro di Cacucci, infatti Silvio Corbari aveva ottime capacità di attore teatrale arrivando anche travestirsi da anziano per girare impunemente in mezzo ai fascisti che lo cercavano. La versione data da Pino Cacucci è leggermente diversa: i partigiani erano effettivamente disarmati ma una macchina di compagni tese l'agguato alla vettura di Marabini e fattolo scendere Corbari lo uccise a sangue freddo. La Banda Corbari era usa a colpi di mano spregiudicati infatti questa non fu l'unica azione che rese nota la Banda Corbari nella zona in cui operava.

Il delatore
Massimo Novelli (vedi bibliografia) scrive che Corbari fu catturato per la soffiata di un delatore, Franco Rossi (classe 1928 o 1929), ex appartenente alla sua formazione. Novelli riporta che Rossi si presentò al comandante della brigata repubblichina «IX settembre», Benito Dazzani, indicandogli il luogo dov'era nascosto Corbari. Dazzani selezionò un'unità di 8-9 persone, salì verso Modigliana e procedette alla cattura del partigiano. Dazzani ricorda che Rossi fu presente.
Rossi seguì poi la «IX settembre» in Piemonte e quindi in Germania. La resa della brigata repubblichina avvenne il 28 aprile 1945, a Conegliano.
Nel dopoguerra Rossi, assieme alla madre e ad altri imputati, tutti latitanti, fu processato dalla Regia Corte d'assise straordinaria di Forlì con l'accusa di collaborazionismo e di attività spionistica a favore dei nazifascisti. Venne condannato a 18 anni, beneficiando delle attenuanti per la minore età. La difesa presentò ricorso.
Nel 1947 la Corte di Cassazione annullò senza rinvio la sentenza poiché nelle more del ricorso era sopraggiunta un'amnistia (nota come «Amnistia Togliatti»)

Onorificenze
Medaglia d'oro al valor militare alla memoria

«Comandante di un battaglione partigiano da lui stesso costituito, terrorizzava con attacchi improvvisi e di estrema audacia i presidi nazifascisti della Romagna, creando attorno a sé fama di leggendario eroe, inesorabile contro ogni prepotenza ed oppressione. Decine di colonne motorizzate nemiche furono da lui sbaragliate, caserme e reparti nazifascisti furono da lui disarmati e costretti alla resa, villaggi e paesi occupati e liberati. Ferito durante uno scontro contro forze preponderanti e catturato dal nemico, pagava col capestro il suo epico valore, concludendo la sua vita che fu simbolo di ogni ardimento e fiamma di amore per la Libertà e per la Patria.» — Cornio di Modigliana, 8 settembre 1943 - 18 agosto 1944.

- Adriano Casadei, partigiano italiano (n. 1922)
- Iris Versari, partigiana italiana (n. 1922)

- Ernst Thälmann, politico tedesco (n. 1886)

▪ 1992 - John Sturges (Oak Park, 3 gennaio 1910 – San Luis Obispo, 18 agosto 1992) è stato un regista statunitense.
Come cineasta esordì nell'immediato dopoguerra dopo una lunga gavetta soprattutto nel montaggio. Nella sua lunga carriera, durata l'arco di un trentennio, dimostrò di essere un grande esperto soprattutto nel girare film d'azione ed in particolare i western. La critica lo ha sempre considerato un solido ed esperto mestierante. Al suo attivo alcune pellicole che sono stati grandi successi ed hanno fatto la storia del cinema hollywoodiano: Sfida all'O.K. Corral del 1957, I magnifici sette del 1960 e La grande fuga del 1963. Ma tutti i suoi lavori sono comunque caratterizzati da un'onesta professionalità di base ed abilità nell'uso dello spazio filmico. Ebbero minore successo di pubblico ma erano ottimi film in particolare L'assedio delle sette frecce (1953), Giorno maledetto (1955) che gli valse la nomination al premio Oscar per la miglior regia e Il vecchio e il mare (1958).

▪ 2009 - Fernanda Pivano, detta Nanda (Genova, 18 luglio 1917 – Milano, 18 agosto 2009) è stata una traduttrice, scrittrice, giornalista e critica musicale italiana.
Fernanda Pivano nasce a Genova il 18 luglio 1917.
La sua formazione avviene a Torino dove nel 1929 si trasferisce con la famiglia. Frequenta il Liceo Classico Massimo D'Azeglio. Nel 1940 ottiene il Diploma di decimo anno al Conservatorio di Torino, diretto da Franco Alfano. Il 17 giugno 1941 si laurea in Lettere, con una tesi su Moby Dick di Herman Melville. Il 22 giugno 1943 si laurea in Filosofia sotto la guida di Nicola Abbagnano.
L'inizio della sua carriera letteraria risale al 1943, quando pubblica per Einaudi la sua prima traduzione della Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, sotto la guida di Cesare Pavese e traduce il romanzo di Ernest Hemingway Addio alle armi per il quale sarà arrestata. Questo romanzo non sarà pubblicato in Italia fino al 1948 perché ritenuto lesivo dell'onore delle Forze Armate dal regime fascista, sia per la descrizione della disfatta di Caporetto, sia per un certo antimilitarismo sottinteso nell'opera.
Nel 1949 sposa l’architetto e designer Ettore Sottsass e si trasferisce a Milano.
Nel 1956 compie il primo viaggio negli Stati Uniti che sarà seguito da numerosi altri viaggi in America e in altri paesi.
Dopo aver tradotto e studiato i lavori dei maggiori classici americani tra cui Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway, William Faulkner, promuove la valorizzazione in Italia degli scrittori della beat generation tra cui Allen Ginsberg, Jack Kerouac, William Burroughs e Gregory Corso. Lo stesso per autori come Henry Miller e Charles Bukowski. In anni più recenti, continua a segnalare al pubblico e alla critica italiani gli scrittori americani di talento che si sarebbero presto imposti sulla scena letteraria internazionale tra cui Erica Jong, Jay McInerney e Bret Easton Ellis.
Poco noto il suo interessamento verso la poesia beat italiana, che sviluppò negli anni '60, grazie anche al progetto editoriale East 128 e alla rivista di tendenza psichedelica da lei creata e diretta, "Pianeta Fresco". In quel periodo incentivò la crescita di alcuni giovani poeti, il più noto dei quali fu il torinese Gianni Milano.
Molti i premi e i riconoscimenti ottenuti, tra cui il Premio Saint Vincent per il giornalismo (1964), il Premio Monselice per la traduzione (1975), il Premio letterario Giovanni Comisso (1985), il Premio Estense (1998), il Premio Grinzane Cavour (2003), il Premio Tenco (2005), il Premio Vittorio De Sica per la Letteratura (2006).
Il 16 dicembre 1998 viene inaugurata in Corso di Porta Vittoria, 16 a Milano la struttura destinata ad accogliere il patrimonio librario e documentario di Fernanda Pivano e i volumi del padre Riccardo.
La Biblioteca Riccardo e Fernanda Pivano è una sezione staccata della Biblioteca/Centro documentazione della Fondazione Benetton Studi e Ricerche di Treviso.
Nell'estate 2001 la Pivano gira per Fandango il film A Farewell To Beat che racconta il viaggio in America per ritrovare amici e luoghi cari.
Nel 2003 viene istituito un premio a suo nome da assegnare ogni anno a chi si è distinto per avere svolto ricerche, scritti o portato contributi eccezionali alla società.
Gli ultimi anni vedono un'intensificarsi della sua passione per la musica e i cantautori. In particolare per Fabrizio De André a cui consegnò, nel 1997, il Premio Tenco.
La sera del 18 agosto 2009 nella clinica milanese Don Leone Porta, dove era ricoverata da qualche tempo, Fernanda Pivano si spense a 92 anni compiuti da un mese.
I funerali si svolgono a Genova nella stessa Basilica dove vennero celebrati i funerali di Fabrizio De André. Anche per lei, come dieci anni prima per De André, è Don Gallo a concelebrare il rito funebre, in una chiesa gremita, con una vibrante commemorazione.
Dopo la cremazione, Nanda viene sepolta nel cimitero di Staglieno a Genova, accanto alla madre.
Nel marzo 2010 esce edito da Bompiani e curato da Enrico Rotelli con Elena Bricchi il secondo volume della Biografia che raccoglie gli anni che vanno dal 1974 al 2009.

Politica
Per un certo periodo vicina al Partito Radicale, di cui fu candidata in varie occasioni elettorali. Nei giorni della sua morte, fu salutata dai Radicali con grande affetto. Nel 1971 fu tra gli intellettuali firmatari dell'appello pubblicato sul settimanale L'Espresso sul caso Pinelli.

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