Il calendario del 17 Luglio
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Eventi
▪ 180 - Dodici abitanti di Scillium, nel Nord Africa, vengono giustiziati in quanto cristiani: i Martiri scillitani. Questa è la prima notizia registrata della presenza cristiana in quella parte del mondo
▪ 1505 - Martin Lutero entra in convento a Erfurt. Diventerà sacerdote due anni dopo
▪ 1762 - Caterina II diventa zarina di Russia a seguito dell'assassinio di Pietro III di Russia
▪ 1771 - Massacro di Bloody Falls: Il capo Chipewyan, Matonabbee che viaggiava come guida di Samuel Hearne nel suo viaggio nelle terre artiche, massacra un gruppo di ignari Inuit
▪ 1815 - Guerre napoleoniche: In Francia, Napoleone si arrende a Rochefort alle forze britanniche
▪ 1897 - Inizia la corsa all'oro nel Klondike, quando i primi fortunati cercatori arrivano a Seattle (Washington)
▪ 1898 - Guerra Ispano-Americana: battaglia di Santiago Bay - Le truppe del generale statunitense William R. Shafter strappano la città di Santiago de Cuba agli spagnoli
▪ 1918 - Ad Ekaterinburg, Nicola II di Russia e la sua famiglia vengono uccisi dai bolscevichi
▪ 1936 - Inizio della guerra civile spagnola
▪ 1944 - Seconda guerra mondiale: a Firenze viene perpetrato l'eccidio di Piazza Tasso
▪ 1945 - Seconda guerra mondiale: Conferenza di Potsdam - A Potsdam, i tre principali capi alleati iniziano l'incontro finale della guerra. L'incontro finirà il 2 agosto
▪ 1955 - Anaheim (Los Angeles) - Inaugurazione del parco di divertimenti Disneyland
▪ 1962 - test nucleari: L'esplosione di prova Little Feller I diventa l'ultima detonazione di prova nell'atmosfera nel Nevada Test Site
▪ 1975 - Progetto Apollo-Sojuz: Una navetta Apollo americana e una Sojuz sovietica si agganciano in orbita, segnando il primo aggancio tra velivoli spaziali di due nazioni differenti
▪ 1976 - In occasione della cerimonia di apertura della XXI Olimpiade di Montreal in Canada alla televisione italiana iniziano le trasmissioni sperimentali di programmi a colori; viene scelto il formato PAL
▪ 1979 - Il presidente del Nicaragua, Anastasio Somoza Debayle, si dimette e fugge a Miami
▪ 1994 - A Los Angeles La squadra di calcio del Brasile conquista il quarto titolo mondiale battendo in finale ancora l'Italia dopo 24 anni, 0-0 ai supplementari e 3-2 ai rigori
▪ 1995 - L'indice Nasdaq chiude sopra i 1.000 punti per la prima volta
▪ 1996 - Al largo della costa di Long Island, il volo TWA 800, un Boeing 747 diretto a Parigi, esplode uccidendo le 230 persone a bordo
▪ 1998
- - A San Pietroburgo, Nicola II di Russia e la sua famiglia vengono sepolti nella Cappella di Santa Caterina, 80 anni dopo essere stati uccisi dai bolscevichi
- - Dei biologi spiegano sulla rivista Science come hanno sequenziato il genoma del batterio che causa la sifilide, il Treponema pallidum
- - Uno tsunami innescato da un terremoto sottomarino distrugge 10 villaggi in Papua Nuova Guinea, uccidendo circa 1.500 persone, e lasciandone altre 2.000 disperse e svariate migliaia senza tetto
▪ 2009 - Attentato suicida in Indonesia: a Giacarta 9 morti e 50 feriti.
Anniversari
▪ 1399 - Edvige di Polonia, nota anche come Edvige d'Angiò o Jadwiga (Buda, 18 febbraio 1374 – Cracovia, 17 luglio 1399), fu regina (ufficialmente, però, il suo titolo era "re" anziché "regina", per indicare che regnava per suo diritto e non in quanto consorte di re) di Polonia di origine ungherese.
Edvige fu la minore delle figlie di Luigi I d'Ungheria ed Elisabetta Kotromanic di Bosnia. Sia la madre di Edvige che quella di Luigi, Elisabetta (figlia di Ladislao I Lokietek), erano discendenti della Casa Reale dei Piasti, un'antica dinastia nativa della Polonia. Edvige era dunque bisnipote di Ladislao I, che aveva riunificato il regno polacco nel 1320. Regina di Polonia dal 1384 e Granduchessa di Lituania dal 1386, è venerata dalla Chiesa cattolica come "Santa Edvige Regina" ed è Patrona delle Regine e dell'Unione Europea, nonché Santa Patrona di Polonia.
▪ 1566 - Bartolomé de Las Casas (in alcuni testi italiani tradotto con Bartolomeo; Siviglia, 1484 – Madrid, 17 luglio 1566) è stato un vescovo cattolico spagnolo, impegnato nella difesa dei nativi americani. Viene altresì ricordato per aver proposto a Carlo V l'importazione di "negri" africani per sostituire gli indigeni nei "laboriosi inferni delle miniere d'oro delle Antille"[2][3]. Fu anche il primo ecclesiastico a prendere gli ordini sacri nel Nuovo Mondo.
«Tutta questa gente di ogni genere fu creata da Dio senza malvagità e senza doppiezze [...].»(Celebre critica di Bartolomeo de Las Casas a chi considerava gli indios non-figli di Dio[1].)
Nacque a Siviglia, probabilmente nel 1484, anche se il 1474 è l'anno indicato tradizionalmente. Alcuni resoconti sostengono che Las Casas discendesse da una famiglia di conversi, ovvero di Ebrei costretti a convertirsi al Cristianesimo. Dopo essere stato encomendero, la lettura della Bibbia finì per metterlo in contrapposizione ai conquistadores, in difesa degli indios.[1]
Entrò nel 1515 nell'ordine domenicano, che si era già schierato a favore dei diritti degli indigeni (ad esempio con la figura di Antonio Montesinos) e iniziò la sua instancabile battaglia a favore degli indios: condannò senza eccezioni il colonialismo e l'espansionismo degli europei, viaggiò nelle terre americane e attraversò molte volte l'oceano per portare in Spagna le sue proteste.
Nei suoi testi, Las Casas ci presenta una puntuale descrizione delle qualità fisiche, morali e intellettuali degli indios, finalizzata alla difesa dell'umanità degli abitanti del nuovo mondo, contro la tesi della loro irrazionalità e bestialità avanzata da altri suoi contemporanei, soprattutto di cultura umanista. Celebri sono i dettagliati resoconti che egli diede delle vessazioni e delle atrocità compiute dai colonizzatori "cristiani" [4].
Il suo tentativo di creare una società coloniale pacifica in Venezuela nel 1520 fallì e la comunità venne massacrata da una rivolta indigena che, secondo alcuni critici, venne incitata dai vicini coloniali.
In uno dei suoi ritorni in Spagna, Las Casas fu protagonista del grande dibattito del 1550, voluto da Carlo V, che aveva convocato allo scopo la Giunta di Valladolid. Avversario di Las Casas era il rappresentante del pensiero colonialista, l'umanista Juan Ginés de Sepúlveda, che sosteneva che alcuni uomini sono servi per natura, che la guerra mossa contro di loro è conveniente e giusta a causa della gravità morale dei delitti di idolatria, dei peccati contro natura e dei sacrifici umani da loro commessi e che, infine, l'assoggettamento avrebbe favorito la loro conversione alla fede.
Las Casas si dichiara, invece, a favore di una pacifica conversione e afferma la naturale bontà degli indios ("senza malizia né doppiezza"), dando origine al cosiddetto mito del buon selvaggio: gli stessi sacrifici umani non sono tanto negativi se li si considera "indotti dalla ragione naturale", al punto che i nativi avrebbero peccato se non avessero onorato i loro dei. Il processo e le discussioni durarono ben cinque giorni.
I domenicani non appoggiarono nessuno dei due e il tribunale sembrava propendere per Sepulveda. La disputa si risolse in un nulla di fatto. Tuttavia, sotto la pressione di Las Casas e dell'Ordine Domenicano, qualcosa cominciò a cambiare. Morì nel 1566.
Opere
Gli scritti di Las Casas non hanno fini letterari ma documentali e di testimonianza. Anche per questo utilizzano un linguaggio lineare ed efficace non consueto nella prosa spagnola dell'epoca, che ha contribuito alla loro fortuna. L'obiettivo è denunciare le atrocità perpetrate contro gli Inca ed evidenziare le qualità positive di queste popolazioni: l'autore condanna la violenza e la cupidigia, ma non è certamente contrario a diffondere il Cristianesimo. Anzi, proprio dal cristianesimo Las Casas trae quella spinta universalistica e quell'idea dell'uguaglianza di tutti gli uomini che ne animano l'opera e che lo spingeranno a denunciare anche le violenze dei portoghesi in terra d'Africa.
Anche se il sistema dell'encomienda non poté venir totalmente smantellato, in quanto sostenuto dalle classi coloniali spagnole che da esso traevano profitto, gli scritti di Las Casas vennero tradotti e pubblicati in tutta Europa, influenzando ad esempio le opinioni del saggista Montaigne, contribuendo alla riflessione della Spagna su di sé e sulla propria storia, e soprattutto - nei secoli successivi - alla presa di coscienza delle propria storia da parte dei popoli sudamericani colonizzati.
La fortuna di Las Casas come scrittore fu scarsissima in campo cattolico ma suscitò grandi entusiasmi tra protestanti e illuministi. In effetti i suoi scritti divennero un formidabile strumento di propaganda che i nemici della Spagna colonialista ebbero da quel momento in poi a disposizione. I resoconti di Las Casas rappresentano naturalmente un elemento cardinale della "Leggenda nera" sulle atrocità coloniali spagnole.
La Brevísima relación de la destrucción de las Indias
Nel 1542 l'imperatore Carlo V chiese al domenicano di redigere una sintesi dei memoriali che aveva presentato sulla situazione degli indios. L'opera venne pubblicata quello stesso anno, con il titolo Brevísima relación de la destrucción de las Indias, ebbe subito grande risonanza ed ebbe una indubbia influenza sulla liberazione per legge degli indios decretata dall'imperatore con le Leyes Nuevas del 1542-43. L'applicazione della nuova legislazione fu tuttavia resa difficile dalla resistenza dei conquistadores, che arrivarono ad uccidere i messi del re che cercavano di farla rispettare. In ogni caso, la condizione degli indigeni nei territori dominati dagli spagnoli risultò diversa da quella dei vicini territori portoghesi, dove la schiavitù rimase pienamente in vigore.
La Historia de las Indias
Las Casas fu autore anche della monumentale Historia de las Indias, a cui lavorò per molti anni, fino al 1561, ma che fu pubblicata (parzialmente) solo nel 1875.
Note
1. a b A. Giardina - G. Sabatucci - V. Vidotto. Il Manuale dal 1350 al 1650, Laterza, Bari, 2002; pag. 180.
2. Jorge Luis Borges. Storia Universale dell'Infamia, Adelphi, Milano, 1997; pag. 17.
3. Zinn, Howard (2003). A People's History of the United States 1492 - Present. HarperCollins. pp. 7. ISBN 0060528427
4. Da Istoria o Brevissima relatione della distruttione dell'Indie Occidentali conforme al suo vero originale spagnuolo già stampato in Siviglia di Bartolomeo dalle Case, o Casaus tradotta in italiano dall. eccell. sig. Giacomo Castellani già sotto nome di Francesco Bersabita: «..Nell'Isola Spagnuola; la qual fu la prima, come dicessimo, dove entrarono Christiani, dando principio alle immense stragi, e distruttioni di queste genti; e la quale primamente distrussero, e disertarono; cominciando li Christiani à levar le mogli; & e i figliuoli à gli Indiani per servirsene, & usar male di essi; & à mangiar le sostanze de i sudori, e delle fatiche loro; non contendandosi di quello, che gli Indiani davano loro spontaneamente, conforme alla facoltà, che ciascuno haveva, la quale è sempre poca; perché non sogliono tenere più di quello, che serve al bisogno loro ordinario, & che accumulano con poca fatica; & quello, che basta à tre case, di dieci persone l'una, per un mese, un Christiano se lo mangia, e lo distrugge in un giorno; & ad usare molti altri sforzi, violenze, e vessationi; cominciarono gl'Indiani ad accorgersi, che quegli huomini non doveano esser venuti dal Cielo.»
▪ 1790 - Adam Smith italianizzato in Adamo Smith (Kirkcaldy, 5 giugno 1723 – Edimburgo, 17 luglio 1790) è stato un filosofo ed economista scozzese, che, a seguito degli studi intrapresi nell'ambito della filosofia morale, gettò le basi dell'economia politica classica.
Adam Smith viene considerato unanimemente il primo degli economisti classici, sebbene non sia facile individuare con precisione la fine del mercantilismo e l'inizio dell'età classica, poiché per un certo periodo ci fu una sovrapposizione tra le due correnti di pensiero.
Spesso Smith è stato definito il padre della scienza economica. In effetti, nonostante molti precursori dell'economia classica avessero prodotto singole tessere o parti dell'intero mosaico, nessuno di essi fu in grado di fornire in un'unica opera il quadro generale delle forze che determinassero la ricchezza delle nazioni, delle politiche economiche più appropriate per promuovere la crescita e lo sviluppo e del modo in cui milioni di decisioni economiche prese autonomamente vengano effettivamente coordinate tramite il mercato.
L'opera più importante di Smith è intitolata Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776). L'opera di Adam Smith chiude il periodo dei mercantilisti, da lui così definiti e criticati, dando avvio alla serie di economisti classici superando i concetti definiti dai fisiocratici. La ricchezza delle nazioni diventa il testo di riferimento per tutti gli economisti classici del XVIII e XIX secolo, come David Ricardo, Thomas Robert Malthus, Jean-Baptiste Say, John Stuart Mill. Questi o ne ripresero il contenuto per elaborare le proprie posizioni, anche divergenti fra di loro, oppure la criticarono alla ricerca di nuove vie. La ricchezza delle nazioni è però anche un importante libro di storia economica in quanto vengono descritte le trasformazioni dell'economia inglese del tempo.
La concezione di Smith a proposito dello scopo della scienza economica segue quella dei mercantilisti, tendente alla spiegazione della natura e delle cause della ricchezza delle nazioni. In termini moderni si direbbe che Smith fu un teorico della macroeconomia interessato alle forze che determinano la crescita economica, anche se le forze di cui parlava erano ben più ampie rispetto alle zone oggi analizzate dalla moderna economia, infatti il suo modello economico è ricco di considerazioni di tipo politico, sociologico e storico.
Cronologia
▪ 1723 - Nasce a Kirkcaldy, piccolo porto scozzese sul golfo della Firth of Forth dirimpetto a Edimburgo. La data di nascita è incerta; si sa che fu battezzato il 5 giugno. Suo padre, di nome Adam come il figlio, era controllore delle dogane (più precisamente esattore del dazio, incarnazione quindi di quella politica protezionistica e mercantilistica fortemente criticata dal figlio Adam jr.), morì nel gennaio del 1723; la madre, Margaret Douglas, proveniva da una ricca famiglia scozzese. Figlio unico ed orfano di padre, Adam Smith jr. rimase molto legato alla madre da profondi sentimenti affettivi.
▪ 1737 - Dopo gli anni scolastici a Kirkcaldy, si iscrive all'Università di Glasgow dove viene influenzato dai corsi di Francis Hutcheson (1654-1746), professore di filosofia morale secondo il quale l'essere umano è guidato da due tipi di forze naturali: gli istinti egoistici (che incitano all'appagamento individuale) e gli istinti altruisti (che definiscono la propria coscienza morale).
▪ 1740 - Studia al College Balliol di Oxford, dall'atmosfera giacobita e anti-scozzese e del quale manterrà un cattivo ricordo.
▪ 1746 - Lascia Oxford e rientra a Kirkcaldy, senza progetti particolari.
▪ 1748 - Grazie all'appoggio di Henry Home (Lord Kames) e di Sir Oswald de Dunniker, viene invitato a sostenere lezioni pubbliche ad Edimburgo di retorica e letteratura.
▪ 1750 - Incontra David Hume, con il quale rimarrà sempre in contatto.
▪ 1751 - Sempre grazie a Lord Kames, ottiene la nomina alla cattedra di logica all'Università di Glasgow dove insegna logica e, successivamente, filosofia morale.
▪ 1752 - Succede a Francis Hutcheson alla cattedra di filosofia morale. Il contenuto dei corsi è stato a lungo conosciuto solo grazie ai ricordi lasciati da John Millar, suo brillante allievo. Solo nel 1896 Edwin Cannan ritrova e pubblica con il titolo Lectures of Jurisprudence le note dei corsi dell'anno 1763/1764. Nel 1958, vengono ritrovate e pubblicate da J. M. Lothian le note dei corsi di retorica e di lettere dell'anno 1762/1763. Questi documenti testimoniano dello stretto rapporto fra etica ed economia nel pensiero di Adam Smith.
▪ 1759 - Pubblica La teoria dei sentimenti morali che approfondisce il suo corso di etica insegnato a Glasgow ed introduce il principio di simpatia. La pubblicazione di questo libro, gli procurò una certa notorietà.
▪ 1761 - Pubblica Considerations Concerning the First Formation of Language in Philological Miscellany.
▪ 1764 - Lascia l'incarico all'Università di Glasgow per diventare precettore del giovane Duca di Buccleuch ottenendo una pensione di 300 lire sterline all'anno che conserverà per tutta la sua vita. Accompagna così il giovane nel suo tuor della durata di quasi due anni, prevalentemente in Francia, inizialmente a Tolosa e poi a Parigi.
▪ 1765 - Incontra Voltaire a Ginevra.
▪ 1766 - Nel mese di febbraio giunge a Parigi dove entra nei grandi salotti parigini grazie alla sua reputazione e all'aiuto di David Hume. Qui frequenta D'Alembert, d'Holbach, Helvetius e, soprattutto, François Quesnay (fondatore della scuola dei fisiocratici) e Turgot. Nel novembre torna, sempre accompagnato dal Duca di Bucchleuch, a Londra.
▪ 1767 - Ritorna a Kirkcaldy, presso la madre, ed inizia la redazione della La ricchezza delle nazioni.
▪ 1776 - Il 9 marzo, nove anni dopo l'inizio della stesura, pubblica presso Strahan e Cadell l'Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni testo più noto come La ricchezza delle nazioni. Seguiranno varie riedizioni del testo che ottenne già all'epoca un'importante risonanza.
▪ 1778 - Viene nominato commissario delle dogane e si istalla a Edimburgo. Malgrado l'attività lavorativa, si dedica alla riedizione della Ricchezza delle nazioni ed alla revisione, assai rimaneggiata, della Teoria dei sentimenti morali.
▪ 1790 - Muore il 17 luglio, lasciando istruzioni ad amici di bruciare gran parte dei suoi scritti. E così avvenne.
Opere [modifica]
▪ 1759 - Teoria dei sentimenti morali, (The Theory of Moral Sentiments), riedizioni nel 1761, 1767, 1774, 1781 e 1790.
▪ 1776 - La ricchezza delle nazioni, (An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations), riedizioni nel 1778, 1784, 1786 e 1789.
▪ 1795 - Essays on Philosophical Subjects, testo redatto durante il periodo di Glasgow e pubblicato postumo.
Pensiero filosofico ed economico
Il pensiero di Smith trae origini da differenti fonti mediate dall'insegnamento di Francis Hutcheson il quale già cercò di sintetizzare la legge e il diritto naturale di Ugo Grozio, l'empirismo di John Locke e l'idea tipica dei filosofi scozzesi secondo la quale l'uomo è mosso dalle passioni più che dalla ragione. Adam Smith realizza una sintesi personale di queste influenze, alle quali si aggiungono gli influssi di David Hume - che Smith conobbe personalmente e con il quale intrattenne lunghi contatti -, dei filosofi francesi del XVIII secolo come Jean-Jacques Rousseau e Montesquieu, dei fisiocratici e di Turgot, conosciuti durante il suo viaggio in Francia. Il pensiero di Adam Smith non si limita però ad una sintesi delle differenti correnti di pensiero esistenti: il suo merito è di avere apportato argomenti e tesi nuove, differenziandosi dagli insegnamenti di Francis Hutcheson anche per aspetti fondamentali.
Dell'opera di Adam Smith è stata fornita un'interpretazione basata sulla netta separazione fra la Teoria dei sentimenti morali e la La ricchezza delle nazioni. Hanno seguito questa via autori tedeschi, che parlano di "Das Adam Smith Problem", come Bruno Hildebrand e Knies, ma anche Buckle, Jakob Viner e Louis Dumont secondo i quali nel primo libro l'analisi porterebbe sui sentimenti altruisti mentre nel secondo si tratterebbe di comportamenti egoisti. Più recentemente grazie ad una rivalutazione della Teoria dei sentimenti morali e del principio di simpatia ivi incluso da parte di autori come A. L. Macfie, Andrew Skinner e Donald Winch, si sostiene l'unità di pensiero di Adam Smith che, occorre ricordarlo, alla fine della sua vita riprese in mano la Teoria dei sentimenti morali per un'ulteriore revisione. Il principio di simpatia è quindi un elemento basilare anche della mano invisibile. La "metodologia" smithiana è essenzialmente fondata sulla diffidenza verso l'idea di rigide leggi naturali da svelare (contrapponendo l'idea di sistemi filosofici come invenzioni dell'immaginazione) e sulla complessità delle motivazioni all'origine dei comportamenti umani, entrambi aspetti caratteristici dell'illuminismo scozzese che l'ha formato.
Principio di simpatia
La formazione del giudizio morale è oggetto di discussione della filosofia morale, tema con il quale anche i filosofi del XVIII secolo si sono confrontati. In modo assai generico, si identificano due correnti: una prima che fonda il giudizio morale sulla ragione e una seconda che ne ricerca le origini nelle passioni e nei sentimenti umani). Il dibattito verte anche sulla presenza innata del senso morale o la sua assimilazione dopo la nascita quale elemento culturale.
Seguendo l'approccio basato sui sentimenti, Adam Smith descrive nella Teoria dei sentimenti morali appunto, un sistema morale fondato sul principio di simpatia che comporta l'immedesimazione nelle passioni e nei sentimenti altrui e che differisce dalla benevolenza e dall'altruismo pur non sostituendosi all'egoismo. Per simpatia, sentimento innato nell'uomo, va intesa la capacità di identificarsi nell'altro, la capacità di mettersi al posto dell'altro e di comprenderne i sentimenti in modo da poterne ottenere l'apprezzamento e l'approvazione. E le norme sociali non possono che spingere verso modelli di solidarietà e integrazione sociale. Da questo sentimento gli individui deducono regole morali di comportamento. La coscienza morale non è allora un principio razionale interiore, ma, scaturendo dal rapporto simpatetico che l'uomo ha con gli altri uomini, presenta un carattere prevalentemente sociale e intersoggettivo.
In quest'ottica, ad esempio, il diritto di proprietà non è un diritto naturale come l'intendeva John Locke (anteriore ad ogni convenzione sociale) né un artifizio storico come sostenuto da Hume, ma il risultato di un processo speculare di simpatia e socializzante che giustifica la proprietà in quanto possesso di un oggetto frutto di un lavoro personale e il cui furto implicherebbe un giudizio negativo dell'altro su sé stessi.
Il principio di simpatia non viene abbandonato da Adam Smith nella redazione della Ricchezza delle nazioni, al contrario questo soggiace allo scambio e al mercato: il panettiere produce pane non per farne dono (benevolenza), ma per venderlo (perseguimento del proprio interesse). Tuttavia, il panettiere - pur mosso dal proprio interesse di vendere il prodotto del suo lavoro per ottenere altri beni o lavoro altrui - produce quel pane che anticipa essere desiderato, apprezzato, dal cliente. In altri termini, il panettiere cerca l'apprezzamento del suo cliente, senza il quale egli non potrà vendere il proprio pane non soddisfacendo così i propri interessi.
Gli individui, mossi dal principio di simpatia vanno alla ricerca dell'apprezzamento degli altri, ed iniziano a lavorare, a costruire e ad accumulare, favorendo di conseguenza la produzione economica.
Divisione del lavoro
Nel libro primo della Ricchezza delle nazioni Adam Smith analizza le cause che migliorano il "potere produttivo del lavoro" e il modo con il quale la ricchezza prodotta si distribuisce naturalmente fra le classi sociali. La ricchezza di una nazione viene identificata all'insieme dei beni prodotti suddivisi per l'intera popolazione[1], si può quindi parlare di reddito pro-capite. La ricchezza viene prodotta attraverso il lavoro e può essere incrementata aumentando la produttività del lavoro o il numero di lavoratori. Il lavoro permette inoltre di determinare il valore di scambio di un bene: Adam Smith sviluppa così una teoria del valore-lavoro, in contrapposizione all'idea di una ricchezza proveniente dalla natura sostenuta dai fisiocratici.
La divisione del lavoro permette l'incremento della produttività del lavoro, come illustrato dal celebre esempio della "manifattura di spilli": se un individuo deve, da solo, fabbricare spilli partendo dall'estrazione dal suolo della materia prima fino alla realizzazione di ogni singola fase artigianale, riuscirà difficilmente a produrre quantità elevate di spilli in poco tempo; se a questo stesso individuo viene fornito il filo metallico già pronto riuscirà ad aumentare la sua produzione; con la suddivisione delle varie fasi artigianali e l'assunzione di queste da parte di più artigiani specializzati in una singola fase, allora la produzione di spilli sarà nettamente superiore alla somma degli spilli che verrebbero prodotti, dallo stesso numero di individui, nelle modalità produttive precedenti. Le ragioni dell'incremento produttivo indotto dalla divisione del lavoro sono tre: (a) aumento dell'abilità manuale di ogni lavoratore (specializzazione), (b) riduzione tempo perso per passare da un'azione o da un'attività all'altra, (c) diffusione, per il desiderio di ognuno di ridurre la propria pena lavorativa, ma anche per l'emergere di un'industria di costruttori di macchinari, dell'invenzione e dell'applicazione di macchine che facilitano e riducono il lavoro permettendo ad un solo lavoratore di realizzare l'attività di più persone. Questi vantaggi appaiono più facilmente nell'industria che nell'agricoltura e si applicano sia all'interno di un'attività (divisione tecnica) sia fra settori (divisione sociale).
La divisione del lavoro porta i suoi benefici in termini produttivi anche quando induce la differenziazione fra mestieri e professioni. Questo genera un'"interdipendenza sociale" e presuppone lo "scambio" e il "mercato", attraverso il quale un individuo cede beni da lui prodotti in sovrappiù rispetto ai propri bisogni per acquisire prodotti realizzati da altri e necessari per soddisfare gli altri bisogni.
Alla base della divisione del lavoro non vi è un atto razionale, ma una passione: la tendenza naturale a "trafficare".
La divisione del lavoro comporta però anche "conseguenze negative": la specializzazione verso un'unica attività e la realizzazione di operazioni semplici, ripetitive e meccaniche, non sviluppa l'immaginazione e riduce le capacità intellettuali dell'individuo. Per compensare questo effetto, Adam Smith sostiene lo sviluppo dell'istruzione finanziata dallo Stato.
La divisione del lavoro è limitata dall'estensione del mercato, che può - non sempre - essere esteso attraverso sia lo sviluppo di mezzi e di infrastrutture di trasporto sia l'estensione del commercio estero. Ampliando il mercato, l'incremento della produzione che risulta da una maggiore divisione del lavoro può così trovare sbocchi commerciali.
Infine, la divisione del lavoro dipende dal "livello di risparmio": per incrementare la divisione del lavoro è necessario disporre di maggiore capitale fisso e circolante, entrambi finanziati con il risparmio realizzato nel periodo precedente. Il risparmio, essendo una condizione per la divisione del lavoro, è dunque un elemento determinante per lo sviluppo economico.
Senofonte e Diodoro Siculo come pure William Petty e Francis Hutcheson, suo maestro, hanno affrontato la divisione del lavoro prima di Adam Smith, il quale ne fa però un elemento centrale per comprendere le ragioni della ricchezza e del benessere di una nazione.
Valore di scambio e ripartizione dei redditi
Con il celebre esempio dell'acqua e del diamante, Adam Smith introduce la distinzione fra "valore d'uso" (utilità) e "valore di scambio" (facoltà che il possesso di un oggetto conferisce nell'acquisire altri beni). L'acqua, bene quanto mai necessario, ha un prezzo inferiore al diamante, il più superfluo fra tutti gli oggetti superflui. L'acqua ha un elevato valore d'uso, ma un basso valore di scambio mentre il diamante possiede uno scarso valore d'uso ma ha un elevato valore di scambio. Il valore d'uso, attualmente considerato soggettivo, era considerato oggettivo da Adam Smith così come il valore di scambio lo è essendo quest'ultimo misurabile e risultante dallo scambio.
Il valore di scambio dipende dal "lavoro comandato", vale a dire quel lavoro che l'oggetto offerto nello scambio permette di acquisire e corrispondente al lavoro risparmiato necessario per produrre l'acquisto. Più elevato è il lavoro comandato di un oggetto, più elevato sarà il suo valore di scambio. Il valore di scambio non è basato né sul tempo del lavoro né sul lavoro incorporato come presso altri autori (ad esempio David Ricardo) ma risulta dallo scambio stesso: il valore viene determinato in una relazione, non è preesistente allo scambio. Il valore di scambio è un potere d'acquisto, non inteso come accumulazione di beni o in rapporto alla moneta, ma potere di un oggetto nell'acquisire un altro oggetto.
Ponendo lo scambio fra due beni X e Y, il cui costo di produzione in termini di lavoro è rispettivamente Lx e Ly, e ammettendo il loro valore di scambio Vx e Vy, si giunge all'equivalenza seguente: Vx = lavoro risparmiato al possessore di X = lavoro necessario alla produzione di Y = Ly. Analogamente, Vy = lavoro risparmiato al possessore di Y = lavoro necessario alla produzione di X = Lx. Ne risulta che Vx=Vy e Lx=Ly: l'"uguaglianza nello scambio" implica l'"uguaglianza del costo del lavoro" fra i due beni.
In una "società antica", precedente all'accumulazione del capitale e all'appropriazione della terra, il "prezzo reale (o prezzo naturale)" è composto e determinato dalla quantità necessaria di lavoro per acquisire il prodotto (ciò significa che l'intero prodotto appartiene al lavoratore); mentre in una "società avanzata", suddivisa fra lavoratori, imprenditori capitalisti e proprietari terrieri (suddivisione corrispondente alla nascente società capitalistica in sostituzione alla società feudale basata sulla triade nobiltà-clero-terzo stato), il prezzo reale si compone di salari, profitto e rendita fondiaria. Il prezzo reale è quindi determinato dal costo dei mezzi di produzione necessari a realizzare il prodotto.
Il "prezzo di mercato" di un prodotto dipende dal confronto fra la domanda e l'offerta dello stesso e tende a convergere verso il prezzo reale ("teoria della gravitazione o dell'oscillazione dei prezzi"). Di fatto, il prezzo di mercato gravita attorno al prezzo reale a seguito delle fluttuazioni della domanda e dell'offerta: il prezzo di mercato sarà superiore al prezzo reale se la domanda supera l'offerta, mentre sarà inferiore se l'offerta supera la domanda. Il prezzo di mercato non può distanziarsi durevolmente dal prezzo reale in quanto gli agenti, accorgendosi, aggiustano l'offerta allineandola alla domanda (meccanismo d'aggiustamento). Solo l'assenza di informazioni, l'esistenza di risorse rare e la presenza di monopoli legali permettono al prezzo di mercato di distanziarsi costantemente dal prezzo reale.
Le tre componenti del prezzo reale si determinano in modo distinto secondo un rispettivo saggio naturale, questo non implica però una teoria dell'addizione dei differenti componenti.
"Determinazione del salario" - Il tasso di salario dipende dal confronto fra l'offerta e la domanda di lavoro (dove gli imprenditori hanno però un'influenza maggiore rispetto ai lavoratori), ma anche da altri fattori come la piacevolezza o meno del tipo di lavoro, il costo della formazione associato al tipo d'impiego, la continuità nel tempo dell'occupazione (attività stagionale o annuale) e la fiducia o meno che una professione richiede. Il tasso di salario non può però essere costantemente inferiore al minimo di sussistenza, corrispondente al livello che permette di soddisfare i bisogni vitali del lavoratore e della sua famiglia. Adam Smith non condivide l'idea pessimista della "legge bronzea (o ferrea) dei salari" secondo la quale gli stipendi si mantengono costantemente al livello del minimo vitale.
"Teoria del profitto"
- Per il finanziamento del profitto, Smith ha esitato fra due differenti idee: (a) il profitto si aggiunge ai salari per la determinazione del valore di scambio, (b) il profitto è complementare al salario all'interno di un valore di scambio dato. Secondo la teoria lavoro comandato, i lavoratori ricevono, nel salario, l'intero prodotto del loro lavoro. Di conseguenza, il profitto deve aggiungersi al salario nella determinazione del valore. Tuttavia, Smith sostiene che il profitto non è una remunerazione di un lavoro, per cui non può aggiungere altro valore ciò che porta all'idea di una complementarietà con il salario all'interno di un valore dato, mettendo però in dubbio la teoria del lavoro comandato. Adam Smith cade in un dilemma senza soluzione. Per quanto riguarda il montante del profitto è chiaro che questo dipende dal valore del capitale impiegato ed è più o meno elevato in proporzione al volume del capitale. Il tasso medio di profitto, tasso unico per l'intero sistema economico, può inoltre essere stimato con il tasso d'interesse medio sulla moneta, mettendo così in relazione il capitale finanziario (il risparmio) e il capitale reale (i beni corrispondenti al risparmio).
"Teoria della rendita"
- La rendita è un prezzo di monopolio grazie al quale i proprietari terrieri approfittano di una situazione nella quale l'offerta di terreni è limitata e costantemente inferiore alla domanda di terreni.[2] La rendita è quindi prelevata sui profitti dell'agricoltore, lasciando a questo quel tanto sufficiente per pagare i salari e ammortizzare i capitali secondo i rispettivi tassi normali.
A complemento della ripartizione del reddito, occorre citare la distinzione di Adam Smith fra "lavoro produttivo" (fabbricazione di oggetti materiali che si possono vendere sui mercato o che dà origine ad un sovrappiù) e "lavoro non produttivo" (attività immateriali come i servizi). Fra i lavoratori non produttivi Adam Smith inserisce i domestici, i funzionari, le professioni liberali e gli artisti, in quanto vivono con il reddito altrui. Adam Smith, ingannandosi sulla non produttività di questi settori, elimina giustamente l'errore dei fisiocratici della sterilità dell'industria ed evidenzia la distinzione fra "reddito primario" e "reddito di trasferimento".
Mano invisibile
La teoria di una regolazione spontanea dello scambio e delle attività produttive di Adam Smith è incentrata sulla nozione di mano invisibile secondo la quale il sistema economico non richiede interventi esterni per regolarsi, in particolare non necessita l'intervento di una volontà collettiva razionale. Il ruolo della mano invisibile è triplice.
"Processo con il quale si crea un ordine sociale"
- Dati l'uguaglianza di fronte al diritto, il non intervento dello Stato e il principio di simpatia, la mano invisibile assicura il realizzarsi di un ordine sociale che soddisfa l'interesse generale (convergenza spontanea degli interessi personali verso l'interesse collettivo).
"Meccanismo che permette l'equilibrio dei mercati"
- Domanda e offerta su differenti mercati tendono ad uguagliarsi: il libero funzionamento di un mercato concorrenziale, oltre a far convergere il prezzo di mercato al prezzo reale, tende a fare scomparire qualsiasi domanda o offerta eccedentaria.
"Fattore che favorisce la crescita e lo sviluppo economico"
- La regolazione si applica alla popolazione attraverso il mercato del lavoro (in caso di popolazione eccessiva, il salario scende al di sotto del minimo di sussistenza conducendo ad una riduzione della popolazione e viceversa in caso di popolazione deficitaria); la regolazione si applica pure al risparmio, condizione necessaria per l'accumulazione del capitale e quindi della crescita economica attraverso una maggiore divisione del lavoro (gli individui tendono spontaneamente a risparmiare in quanto desiderosi di migliorare la propria condizione); infine la regolazione si applica anche alla locazione dei capitali (investimenti indirizzati spontaneamente verso le attività più redditizie).
La teoria della mano invisibile è il concetto a noi più noto di Adam Smith e, pure, quello più abusato. La mano invisibile è valida, come descritto sopra, date certe condizioni. Tuttavia, questa teoria non permette di spiegare il fenomeno della disoccupazione e di trattare adeguatamente le produzioni non-mercantili come pure ambiti particolari dove bisogni fondamentali devono essere soddisfatti (educazione obbligatoria, salute di base). Contestabile anche il ruolo nell'allocazione dei capitali, basti pensare ai molti esempi di risparmio privato gettato al vento. Infine, Adam Smith assimila -discutibilmente- l'ordine economico all'ordine morale, definendo la mano invisibile come conforme alla giustizia.
La metafora della mano invisibile, cardine della dottrina liberale del laissez faire, compare nel secondo capitolo (Delle restrizioni all'importazione dai paesi stranieri di quelle merci che possono essere prodotte nel paese) del Libro quarto (Dei sistemi di economia politica) della Ricchezza delle nazioni.
Merita di essere segnalata l'interpretazione del concetto di mano invisibile data dal noto giurista italiano Guido Rossi (da un'intervista del 6 giugno 2008 a La Repubblica):
"Uno dei suoi concetti più equivocati è quello della mano invisibile. Nella vulgata si è imposta l'idea che Adam Smith con la mano invisibile abbia inteso dire che il mercato deve essere lasciato a se stesso perché raggiunge automaticamente un equilibrio virtuoso. La mano invisibile è diventato l'argomento principe in favore di politiche di laissez-faire, fino ai neoliberisti. In realtà Adam Smith prende a prestito l'immagine della mano invisibile, con molta ironia, dal terzo atto del Macbeth di Shakespeare. Macbeth parla della notte e della sua mano sanguinolenta e invisibile che gli deve togliere il pallore del rimorso prima dell'assassinio. Smith ha preso in giro ferocemente quei capitalisti che credevano di avere il potere di governare i mercati. Tra l'altro Adam Smith capì allora che la Cina sarebbe tornata ad essere una grande potenza dell'economia mondiale, e auspicò una sorta di Commonwealth universale per governare il nuovo ordine internazionale".
Con l'opera di John Maynard Keynes, in particolare con la nozione di disoccupazione involontaria, si comprese la necessità di un intervento pubblico nel sistema economico a garanzia di un giusto equilibrio.
Moneta [modifica]
La moneta, così come viene presentata nel Capitolo IV del Libro Primo della Ricchezza delle nazioni, è essenzialmente un mezzo di scambio che facilita la convergenza degli interessi nello scambio di beni contro beni. La moneta s'inserisce, in modo temporaneo, nello scambio attraverso due operazioni distinte: bene contro moneta e moneta contro bene. La moneta sorge quindi dalle necessità dello scambio commerciale di prodotti preesistenti, non è quindi intrinseca al processo produttivo e alla remunerazione della produzione.
Fino alla metà degli anni settanta del XX secolo, l'apporto di Adam Smith alla teoria della moneta è stato considerato marginale, in quanto simile a suoi predecessori. Recenti letture della sua opera, portano ad una certa rivalutazione facendone uno dei primi sostenitori del Free Banking e di argomenti che saranno ripresi dalla Banking School, in contrapposizione quindi alla Currency School avviata da David Hume e rilanciata da David Ricardo.
Libero-scambio e ruolo dello Stato
Adam Smith critica e si distanzia dai mercantilisti e dalla loro politica sostanzialmente protezionista, contrapponendo la difesa del libero scambio.
Una prima giustificazione al libero scambio si deduce dall'effetto sulla produttività del lavoro di una maggiore estensione del mercato: la soppressione di freni al commercio interno ed esterno, come pure l'accesso a nuovi mercati attraverso lo sviluppo o il miglioramento della rete di trasporti, favorisce la divisione del lavoro aumentando di conseguenza la produzione economica e il benessere collettivo. Una seconda giustificazione deriva dal ruolo equilibratore fra domanda e offerta esercitato dalla mano invisibile: nessun intervento esterno al mercato è necessario per raggiungere lo stato di equilibrio. Il mercato possiede forze di auto-regolazione.
Tuttavia, il libero scambio e il funzionamento dell'economia di mercato descritto da Adam Smith suppongono il principio di simpatia: ogni individuo conosce sì come nessun altro i propri interessi ma in questi interessi vi è il desiderio di essere apprezzato dagli altri, ciò che rende il mercato non un campo di combattimento, ma un luogo di convergenza di differenti interessi personali.
«Nella corsa alla ricchezza, agli onori e all'ascesa sociale, ognuno può correre con tutte le proprie forze, […] per superare tutti gli altri concorrenti. Ma se si facesse strada a gomitate o spingesse per terra uno dei suoi avversari, l'indulgenza degli spettatori avrebbe termine del tutto. […] la società non può sussistere tra coloro che sono sempre pronti a danneggiarsi e a farsi torto l'un l'altro.» (Adam Smith, Teoria dei sentimenti morali, 1759)
Infine, il libero-scambio non implica l'assenza assoluta dello Stato, piuttosto ne limita l'influenza. In un certo senso l'idea che ha Smith sull'influenza dello Stato è simile a quella moderna, riducendo l'intervento statale alla tutela della nazione (difesa), all'amministrazione della Giustizia affinché nessun individuo potesse lenire gli interessi di un altro individuo della nazione stessa ed infine l'intervento per le opere pubbliche e le istituzioni pubbliche: le prime in modo da migliorare le condizioni per commercio (strade, ponti, canali ecc. ecc.) il secondo con particolare riferimento all'Istruzione.
Hanno scritto di lui
«Ma, se non vide, o se non previde completamente la Rivoluzione industriale nella sua piena manifestazione capitalistica, Smith osservò con grande chiarezza le contraddizioni, l'obsolescenza e, soprattutto, l'angusto egoismo sociale del vecchio ordine. Se egli era un profeta del nuovo, ancor di più era un nemico del vecchio. »(John Kenneth Galbraith, Storia dell'economia, 1987)
«[...] egli lasciò cadere o rese sterili molti fra i più promettenti suggerimenti contenuti nelle opere di suoi immediati precursori. [...] In fondo, risale a Smith la responsabilità di parecchi tratti insoddisfacenti della teoria economica nei successivi cento anni e di molte controversie, che sarebbero state superflue se egli avesse compendiato in modo diverso il pensiero dei predecessori »(Joseph A. Schumpeter, Storia dell'analisi economica, 1959)
« Forse, rispetto agli autori precedenti, la principale caratteristica distintiva di Smith è di essere un 'accademico': cioè di affrontare il suo oggetto d'analisi mosso sì da passioni politiche ma sufficientemente distaccato dai problemi e dagli interessi immediati e, soprattutto, di dedicare grande cura e un'enorme quantità di tempo all'esatta definizione e all'accurata presentazione delle sue idee, con una grande capacità di mediare tra posizioni e tesi diverse e di cogliere gli elementi positivi di ciascuna di esse. Questa 'sottigliezza' smithiana, il rifiuto di tesi nette e prive di qualificazioni e sfumature, rende allo stesso tempo difficile e interessante il lavoro d'interpretazione delle sue opere.»(Alessandro Roncaglia, La ricchezza delle idee, 2001)
« […] il merito di Smith consiste nella sua abilità nel presentare argomenti che si sono rivelati essenziali nell'interpretazione dello stadio commerciale e industriale della storia, e nella profonda influenza che egli esercitò sugli economisti successivi in Inghilterra, in Francia, e in realtà dovunque si sia scritto di economia. »(Peter D. Groenewegen e Gianni Vaggi, Il pensiero economico, 2002)
« Non così finemente analitico quanto David Ricardo, non così rigoroso e profondo quanto Karl Marx, Smith è la vera personificazione dell'Illuminismo: pieno di speranza ma realista, speculativo ma pratico, sempre rispettoso del passato classico ma dedicato in definitiva alle grandi scoperte della sua era di progresso »(Encyclopedia Britannica, 1975)
▪ 1892 - Carlo Cafiero (Barletta, 1º settembre 1846 – Nocera Inferiore, 17 luglio 1892) è stato un anarchico italiano.
«Non solo l'ideale, ma la nostra pratica e la nostra morale rivoluzionaria sono eziandio contenute nell'anarchia; la quale viene così a formare il nostro tutto rivoluzionario. È per ciò che noi l'invochiamo come l'avvenimento completo e definitivo della rivoluzione; la rivoluzione per la rivoluzione»(Carlo Cafiero)
Carlo Cafiero nasce a Barletta il 1º settembre 1846 presso una ricca famiglia della borghesia agraria. Sin da giovane viene avviato alla carriera diplomatica che però abbandonerà ben presto.
Dopo l’incontro a Londra con Karl Marx e Friedrich Engels, che lo portò ad accostarsi al marxismo, divenne il primo divulgatore del Capitale di Marx. Nel 1871, fu tra i principali artefici dell'attività volta al consolidamento delle sezioni italiane dell'Associazione internazionale dei lavoratori.
L’anno successivo, durante il congresso di Rimini (4-6 agosto 1872), in cui si svolsero le conferenze delle sezioni italiane dell'Internazionale, ruppe con il comunismo autoritario marxista, accostandosi al comunismo anarchico, di cui peraltro divenne uno dei principali esponenti. Insieme ad Andrea Costa, Giuseppe Fanelli, Errico Malatesta e Lodovico Nabruzzi, entrò a far parte dell'Lega Internazione dei Lavoratori di Bakunin (una sorta di organizzazione segreta, dotata di speciali statuti).
Cafiero denunciò con vigore l'esclusione di Michail Bakunin (di cui in seguito fu il principale finanziatore) e degli anarchici dalla Prima Internazionale (congresso dell'Aia - 2 settembre), partecipando all'Internazionale antiautoritaria di Saint-Imier (15-16 settembre 1872), che sancì la nascita effettiva del movimento anarchico organizzato.
Nel 1873, dopo essere stato arrestato, riuscì ad acquistare un terreno in Svizzera, chiamato "La Baronata", in cui fu costruita un'abitazione che serviva a dare ospitalità ai rivoluzionari di tutta Europa. "La Baronata" divenne la dimora principale, tra gli altri, di Bakunin, legato da una forte amicizia con l'anarchico pugliese (successivamente i rapporti tra i due si ruppero, ma dopo breve tempo l'amicizia si rinsaldò).
Inserito stabilmente nel movimento anarchico, Cafiero partecipò ai tentativi insurrezionali di Bologna (1874) e del Matese (1877), concluse entrambe in maniera fallimentare e con il suo arresto.
Successivamente si sposò in Russia con la rivoluzionaria Olimpia Kutusov, probabilmente per sottrarla alle persecuzioni zariste. Nel 1875 fa il corrispondente dall'Italia del Bollettino della Federazione anarchica del Giura, riportando notizie sulla situazione sociale della penisola.
Cafiero fu sempre ben conscio dell’importanza della propaganda anarchica, per questo collaborò alla pubblicazione di diversi "fogli" socialisti del tempo, tra cui "La Campana" di Napoli". Nel 1879 pubblica il Compendio del primo volume de "Il Capitale" di Marx, che godette di immediata e larga diffusione. Il suo scritto più originale "Anarchia e comunismo" del 1880 parte dalla convinzione che la rivoluzione sia una legge che regola la storia dell’umanità e che rende possibile il progresso dei popoli nel corso del tempo (<
Purtroppo nella primavera del 1882 rientra in Italia annunciando, fra la sorpresa generale, il suo favore all'attivismo elettorale, anche se personalmente non accettò mai nessuna candidatura. Parlò di questa sua crisi interiore con Kropotkin e Malatesta, sostenendo di voler rinunciare «non all'ideale, ma alla pratica anarchica, non all'anarchia, ma all'anarchismo». Il suo allontanamento dall’anarchismo fu quindi più che altro formale e non sostanziale (come per esempio lo fu quello di Andrea Costa (1881), con cui peraltro lo stesso Cafiero fu durissimo, accusandolo di aver tradito la causa del proletariato).
In aprile venne arrestato per l’ennesima volta a Milano e in carcere si verificò il suo primo tentativo di suicidio. Dopo essere stato prosciolto dall’accusa e accompagnato al valico di frontiera di Chiasso, vagò in cerca d'alloggio, ma probabilmente erano già presenti in lui segni d'una malattia nervosa che più avanti si manifestò in maniera più completa.
Durante il suo peregrinare venne arrestato più volte in Italia e in Svizzera, ma la malattia nervosa lo portò al suo internamento in un manicomio (1883).
Morì a Nocera Inferiore (SA) il 17 luglio 1892.
Il pensiero
Per Cafiero il fine di ogni agire è la libertà, che certamente non è da intendere nel solo riconoscimento dei diritti borghesi. La via cui far ricorso per liberare l’umanità dalle catene, che limitano la libertà individuale e quella dei popoli, è la rivoluzione violenta (in questo senso concorda con Marx ed Engels):
Non solo l'ideale, ma la nostra pratica e la nostra morale rivoluzionaria sono contenute nell'anarchia; la quale viene così a formare il nostro tutto rivoluzionario. È per ciò che noi l'invochiamo come l'avvenimento completo e definitivo della rivoluzione; la rivoluzione per la rivoluzione.
Per Cafiero non può esistere libertà senza anarchismo (l’anarchia è l’unica condizione possibile per il libero sviluppo sia dell’individuo che della società), così come non può esserci uguaglianza senza comunismo (il comunismo è la riappropriazione di tutte le ricchezze della terra, precedentemente espropriata dalla minoranza al potere).
Il suo pensiero comunista-anarchico è certamente contrapposto all’individualismo:
“non solo si può essere comunisti; bisogna esserlo, a rischio di fallire lo scopo della rivoluzione una volta ci dicevamo "collettivisti" per distinguerci dagli individualisti e dai comunisti autoritari, ma in fondo eravamo semplicemente comunisti antiautoritari, e, dicendoci "collettivisti" pensavamo di esprimere in questo modo la nostra idea che tutto dev’essere messo in comune, senza fare differenze tra gli strumenti e i materiali di lavoro e i prodotti del lavoro collettivo... Non si può essere anarchici senza essere comunisti. Dobbiamo essere comunisti, perché nel comunismo realizzeremo la vera uguaglianza. Dobbiamo essere comunisti perché il popolo, che non afferra i sofismi collettivisti, capisce perfettamente il comunismo. Dobbiamo essere comunisti, perché siamo anarchici, perché l'anarchia e il comunismo sono i due termini necessari della rivoluzione”.
Cafiero era convinto che la società futura, realizzata dall’anarchia, avrebbe permesso una più equa distribuzione delle ricchezze e dei beni, la cui produzione sarà nettamente maggiore rispetto all'attuale perché conseguenza spontanea del lavoro libero e dei lavoratori liberi, mossi dal solo desiderio di contribuire alla realizzazione di una società migliore e quindi privi di interessi egoistici e capitalistici. Per Cafiero in futuro ognuno potrà contribuire alla realizzazione della società secondo le proprie capacità e ricevere secondo i propri bisogni.
▪ 1912 - Jules Henri Poincaré (Nancy, 29 aprile 1854 – Parigi, 17 luglio 1912) è stato un matematico, un fisico teorico e un filosofo naturale francese. Poincaré viene considerato un enciclopedico e in matematica l'ultimo universalista, dal momento che eccelse in tutti i campi della disciplina nota ai suoi giorni.
Come matematico e fisico, diede molti contributi originali alla matematica pura, alla matematica applicata, alla fisica matematica e alla meccanica celeste. A lui si deve la formulazione della congettura di Poincaré, uno dei più famosi problemi in matematica. Nelle sue ricerche sul problema dei tre corpi, Poincaré fu la prima persona a scoprire un sistema caotico deterministico, ponendo in tal modo le basi della moderna teoria del caos. Viene inoltre considerato come uno dei fondatori della topologia.
Poincaré introdusse il moderno principio di relatività e fu il primo a presentare le trasformazioni di Lorentz nella loro moderna forma simmetrica. Poincaré completò le trasformazioni concernenti la velocità relativistica e le trascrisse in una lettera a Lorentz nel 1905. Ottenne così la perfetta invarianza delle equazioni di Maxwell, un passo importante nella formulazione della teoria della relatività ristretta.
Il gruppo di Poincaré usato in fisica e matematica deve a lui il suo nome.
Poincaré nacque il 29 aprile 1854 nei dintorni di Cité Ducale, Nancy, Francia, nell’ambito di una famiglia influente (Belliver, 1956). Il padre, Leon Poincaré (1828–1892) fu professore di medicina all’Università di Nancy (Sagaret, 1911). La sua sorella minore Alina sposò il filosofo spiritualista Emile Boutroux. Un altro membro notevole della famiglia di Jules fu il cugino Raymond Poincaré, che sarebbe divenuto Presidente della Repubblica Francese dal 1913 al 1920, e un membro onorario dell’ Académie Française.
Educazione
Durante la sua infanzia cadde a lungo malato di difterite e ricevette un’istruzione speciale dalla madre, Eugénie Launois (1830–1897).
Nel 1862 entrò al Liceo di Nancy (oggi ribattezzato Liceo Henry Poincaré in suo onore, così come l’Università di Nancy). In tale scuola trascorse undici anni e durante questo periodo dimostrò di essere uno dei migliori studenti in tutte le discipline studiate; in particolare eccelleva in composizione scritta. Il suo insegnante di matematica lo descriveva come un "mostro in matematica" e vinse i primi premi ai concorsi tra i migliori studenti dei licei francesi. (Le sue materie deboli erano musica ed educazione fisica, dove era descritto come “nella media” (O'Connor et al., 2002). Comunque, la vista debole e la tendenza alla distrazione possono spiegare tali difficoltà (Carl, 1968). Ottenne il diploma liceale nel 1871 come baccalaureato in lettere e scienze.
Durante la Guerra Franco-Prussiana del 1870 egli prestò servizio con il padre nel corpo di soccorso medico.
Poincaré entrò all’ École Polytechnique nel 1873. Qui ebbe come insegnante di matematica Charles Hermite, continuò ad eccellere e pubblicò il suo primo trattato (Démonstration nouvelle des propriétés de l'indicatrice d'une surface) nel 1874. Si laureò nel 1875 o 1876. Proseguì gli studi presso l’École des Mines, continuando a studiare matematica oltre che ingegneria mineraria e conseguendo la laurea in ingegneria nel marzo 1879.
Dopo la laurea all’École des Mines, entrò nella Società Mineraria come ispettore della regione di Vesoul, nel nordest della Francia. Era sul posto durante il disastro di Magny nell’agosto 1879, ove persero la vita 18 minatori. Espletò le indagini ufficiali nell’incidente in un modo assai coinvolto e umanitario.
Nello stesso tempo, Poincaré si stava preparando per il dottorato in scienze e matematica sotto la supervisione di Charles Hermite. La sua tesi di dottorato riguardò il campo delle equazioni differenziali e si intitolava Sulle proprietà delle funzioni finite per le equazioni differenziali. Poincaré ravvisò un nuovo modo di studiare le proprietà di queste equazioni. Non solo affrontò il problema di determinare l’integrale di tali equazioni, ma anche fu il primo a studiarne le proprietà geometriche. Capì che potevano essere utilizzate per costruire un modello del comportamento dei multi-corpi in moto libero nel sistema solare. Poincaré si laureò all’Università di Parigi nel 1879.
Carriera
Poco dopo questa laurea gli fu offerto un posto come lettore junior presso l’Università di Caen, ma non abbandonò mai la sua carriera mineraria per l'insegnamento. Egli lavorò al Ministero dei Servizi Pubblici come ingegnere responsabile dello sviluppo delle ferrovie del nord della Francia dal 1881 al 1885 e successivamente diventò ingegnere capo della Società Mineraria nel 1893 e ispettore generale nel 1910.
A partire dal 1881 e per il resto della sua carriera, fu insegnante all’Università di Parigi (la Sorbonne). Inizialmente fu nominato “maestro di conferenze di analisi” (professore associato di analisi) (Sageret, 1911); successivamente occupò il posto di insegnante di Meccanica Fisica e Sperimentale, Fisica Matematica, Teoria della Probabilità, Meccanica Celeste ed Astronomia.
Nello stesso 1881 Poincaré sposò Poulain d'Andecy. Insieme ebbero quattro figli: Jeanne (nata 1887), Yvonne (nata 1889), Henriette (nata 1891), and Léon (nato 1893).
Nel 1887, alla giovane età di 32 anni, Poincaré divenne membro dell’ Académie des sciences. Di tale accademia divenne presidente nel 1906, e nel 1909 divenne membro della Académie française.
Nel 1887 vinse il concorso matematico indetto da Oscar II, Re di Svezia, per la risoluzione del problema a tre corpi che riguardava il moto libero dei molti-corpi in orbita (v. paragrafo #Il problema dei tre corpi).
Nel 1893 Poincaré fece parte del Bureau des Longitudes, che lo occupò nel problema della sincronizzazione dell’orario nel mondo. Nel 1897 riportò una soluzione infruttuosa per rendere decimale la misura circolare e quindi il tempo e la longitudine (v. Galison 2003). Fu questo che lo portò a considerare il problema di stabilire i fusi orari e la sincronizzazione temporale tra corpi in moto relativo tra loro (v. paragrafo #Lavori sulla relatività).
Nel 1899 e di nuovo nel 1904 con maggiore successo, intervenne nell’affare Alfred Dreyfus, un ufficiale ebreo dell’esercito francese accusato di tradimento dai colleghi antisemiti. Poincaré attaccò le sedicenti argomentazioni scientifiche mosse contro Dreyfus.
Nel 1912 Poincaré si sottopose ad un intervento chirurgico per un problema alla prostata e morì successivamente per embolia il 17 luglio 1912, a Parigi; aveva 58 anni. È ora sepolto presso la cappella della famiglia Poincaré nel Cimitero di Montparnasse, Parigi. Nel 2004 il Ministro francese per l’Educazione, Claude Allegre, ha proposto che Poincaré sia sepolto nel Panthéon di Parigi, che è riservato solo ai cittadini francesi più importanti.
Studenti
Poincaré ebbe due importanti studenti di dottorato all’Università di Parigi, Louis Bachelier (1900) e Dimitrie Pompeiu (1905).
Lavoro
Sommario
Poincaré diede molti importanti contributi in svariati campi della matematica pura e applicata come: meccanica celeste, meccanica dei fluidi, ottica, elettricità, telegrafia, elasticità, termodinamica, teoria del potenziale, l'allora nascente teoria della relatività e cosmologia.
Fu anche un divulgatore di matematica e fisica e scrisse parecchi libri per il pubblico più ampio.
Tra le materie a cui contribuì maggiormente si segnalano:
▪ topologia algebrica;
▪ teoria delle funzioni analitiche a variabili complesse;
▪ teoria delle funzioni abeliane;
▪ geometria algebrica;
▪ formulazione di uno dei più famosi problemi in matematica, noto come la Congettura di Poincaré , nell’ambito della topologia;
▪ teorema di Poincaré della ricorrenza;
▪ geometria iperbolica;
▪ teoria dei numeri;
▪ problema degli n-corpi;
▪ la teoria delle equazioni diofantee;
▪ elettromagnetismo
▪ teoria della relatività ristretta
▪ concetto di gruppo fondamentale, introdotto in un quaderno del 1894;
▪ molti risultati che sono cruciali per la teoria qualitativa delle equazioni differenziali, per esempio le nozioni di sfera di Poincaré e di mappa di Poincaré;
▪ un argomento matematico a favore della meccanica quantistica pubblicato in un quaderno.
Il problema dei tre corpi
Il problema della soluzione generale al moto di più di due corpi orbitanti nel sistema solare aveva eluso i matematici sin dal tempo di Newton. Inizialmente era noto come il problema dei tre corpi e poi più tardi come il problema degli n-corpi, dove “n” sta ad indicare un numero maggiore di due oggetti orbitanti. Il problema degli n-corpi alla fine del XIX secolo veniva considerato una delle maggiori sfide scientifiche. Anzi, nel 1887, in onore del sessantesimo compleanno, Oscar II, Re di Svezia, consigliato da Gösta Mittag-Leffler, istituì un premio per chi avesse trovato la soluzione al problema. L'annuncio era piuttosto specifico:
«Dato un sistema di un numero arbitrario di masse puntiformi che si attraggono l’un l’altra in accordo alla legge dell’inverso del quadrato di Newton, con l’ipotesi che non vi siano masse che collidono, cerca di trovare una rappresentazione delle coordinate di ogni massa come una serie in una variabile, che sia una funzione nota del tempo, e che per tutti i valori converga uniformemente.»
Nel caso il problema non fosse stato risolto, ogni altro contributo importante alla meccanica celeste sarebbe stato considerato degno di vincere il premio. Il premio fu assegnato a Poincaré, sebbene egli non avesse risolto il problema. Uno dei giudici, il noto Karl Weierstrass, disse, "Questo lavoro non si può proprio considerare la soluzione completa del problema proposto, tuttavia è di una tale importanza che la sua pubblicazione inaugurerà una nuova era nella storia della meccanica celeste." (La prima versione del suo contributo conteneva persino un errore grave; per maggiori dettagli vesi l’articolo di Diacu). La versione pubblicata conteneva notevoli idee che portarono in seguito allo sviluppo della teoria del caos. Il problema originale fu poi risolto da Karl Frithiof Sundman per n = 3 nel 1912 e fu generalizzato al caso di n > 3 da Qiudong Wang negli anni ‘90.
Lavori sulla relatività
Tempo proprio
Il lavoro di Poincaré presso il Bureau des Longitudes su come stabilire i fusi orari internazionali lo portò a considerare come potessero essere sincronizzati gli orologi nelle varie parti del mondo, in moto a diverse velocità relative rispetto allo spazio assoluto ( o all’ “etere luminifero”). Nello stesso tempo il fisico teorico olandese Hendrik Lorentz stava sviluppando la teoria di Maxwell per tenere conto del moto delle particelle cariche ("elettroni" o "ioni") e della loro interazione con la radiazione. Lorentz nel 1895 aveva introdotto una quantità ausiliaria (senza darne un’interpretazione fisica) chiamata “tempo proprio” , dove e aveva introdotto l’ipotesi della contrazione della lunghezza allo scopo di spiegare il fallimento degli esperimenti di ottica e di elettricità volti ad individuare il moto relativo all’etere (vedi esperimento di Michelson-Morley).
Poincaré fu un costante interprete (e a volte amichevolmente critico) della teoria di Lorentz; infatti sul piano filosofico era interessato al "significato più profondo" e così facendo pervenne a molti risultati che sono ora associati alla teoria della relatività speciale. In The Measure of Time (1898), trattò la difficoltà di stabilire la simultaneità a distanza e concluse che si potesse stabilire per convenzione. Egli asserì anche che gli scienziati dovevano porre la costanza della velocità della luce come postulato per dare alla teoria fisica la forma più semplice. Sulla base di queste assunzioni nel 1900 si occupò della “meravigliosa invenzione” di Lorentz del tempo proprio e precisò che essa era necessaria quando orologi in moto sono sincronizzati scambiandosi segnali di luce che viaggiano alla stessa velocità in entrambe le direzioni in una sistema di riferimento in moto.
Principio di relatività ristretta e trasformazioni di Lorentz
Poincaré trattò il "principio del moto relativo" in due quaderni del 1900[10][9] e lo chiamò principio di relatività nel 1904; tale principio afferma che nessun esperimento di meccanica o di elettromagnetismo può discriminare tra uno stato di moto uniforme e uno stato di quiete. Nel 1905 Poincaré scrisse a Lorentz sul suo lavoro del 1904, considerandolo come un "lavoro della massima importanza". Nella lettera metteva in evidenza un errore che Lorentz aveva commesso applicando le sue trasformazioni ad una delle equazioni di Maxwell; inoltre affrontava il problema del fattore di dilatazione temporale. In una seconda lettera a Lorentz, Poincaré diede la sua spiegazione sul perché il fattore di dilatazione temporale di Lorentz fosse corretto: era necessario che la trasformazione di Lorentz formasse un gruppo e formulò quella che è oggi nota come legge di composizione della velocità relativistica. Poincaré in seguito spedì un quaderno al congresso dell’Académie des sciences di Parigi del 5 giugno 1905 a cui erano rivolte tali pubblicazioni. Nella versione pubblicata scriveva:
«Il punto essenziale, stabilito da Lorentz, è che le equazioni del campo elettromagnetico non vengono alterate da una certa trasformazione (che chiamerò trasformazione di Lorentz) della forma»
Egli inoltre mostrava che la funzione arbitraria deve avere valore unitario per tutti gli (Lorentz aveva posto seguendo un’altra strada) per fare in modo che le trasformazioni formino un gruppo. In una versione ampliata del quaderno del 1906 Poincaré affermò che la combinazione x2 + y2 + z2 − c2t2 è invariante. Notò che la trasformazione di Lorentz è di fatto una rotazione nello spazio quadridimensionale attorno all’origine introducendo come quarta coordinata immaginaria, e usò una forma primitiva del quadrivettore. Il tentativo di Poincaré di riformulare la meccanica nello spazio quadrimensionale fu rifiutata da lui stesso nel 1907, perché riteneva che la traduzione della fisica nel linguaggio della metrica quadrimensionale richiedesse troppo sforzo per un beneficio esiguo. Così fu Hermann Minkowski a sviluppare le conseguenze della sua notazione del 1907.
Relazione massa-energia
Come altri prima di lui, Poincaré (1900) scoprì la relazione tra massa ed energia elettromagnetica. Studiando la discrepanza fra principio di azione e reazione esteso e la teoria dell'etere di Lorentz, egli cercò di determinare se il centro di gravità si muove ancora a velocità costante in presenza di campi elettromagnetici. Notò che il principio di azione e reazione si applica non solo alla materia, ma che il campo elettromagnetico ha una propria quantità di moto. Poincaré concluse che l’energia del campo elettromagnetico di un’onda elettromagnetica si comporta come un fluido fittizio avente una densità di massa pari a E/c². Se il centro di massa è definito sia dalla massa della materia che da quella del fluido fittizio, e se il fluido fittizio è indistruttibile – ovvero non è né creato né distrutto - allora il centro di massa si muove di moto uniforme. Ma l’energia elettromagnetica si può convertire in altre forme di energia. Così Poincaré assunse che esiste un‘energia di fluido non elettrico in ogni punto dello spazio, che porta con sé una massa proporzionale all’energia, e che l’energia elettromagnetica può essere trasformata in essa. Così il movimento del centro di massa si mantiene uniforme. Poincaré disse che non si doveva essere troppo sorpresi da ciò, dal momento che si trattava di assunzioni matematiche.
Tuttavia la soluzione di Poincaré portava ad un paradosso quando si cambiava il sistema di riferimento: se un oscillatore hertziano irraggia in una certa direzione, subirà un rinculo a causa dell’inerzia del fluido fittizio. Poincaré applicò una spinta di Lorentz (dell’ordine di v/c) al riferimento della sorgente in moto e notò che la conservazione dell’energia valeva per entrambi i riferimenti, mentre la conservazione del momento veniva violata. Questo avrebbe consentito il moto perpetuo, un concetto che egli aborriva. Le leggi della natura sarebbero state diverse al cambiare del sistema di riferimento e il principio di relatività non sarebbe stato più valido. Quindi asserì che anche in questo caso ci doveva essere un altro meccanismo di compensazione nell’etere.
Poincaré stesso ritornò sull’argomento in una sua conferenza al Congresso dell'Esposizione universale di St. Louis del (1904). In questa circostanza (e più tardi anche nel 1908) rifiutò la possibilità che l’energia potesse avere una massa e anche la possibilità che il moto nell’etere potesse compensare i problemi sopra menzionati:
«L’apparato rinculerà come se fosse un cannone e l’energia sparata una palla; ciò contraddice il principio di Newton, dal momento che il nostro proiettile non ha massa, essendo energia e non materia. [..] Dovremmo dire che lo spazio che separa l’oscillatore dal ricevitore, e che la perturbazione deve attraversare, non è vuoto, ma riempito non solo dall’etere ma da aria, o addirittura nello spazio interplanetario da qualche sottile seppur ponderabile fluido; tale materia subisce il colpo, come pure il ricevitore, nel momento in cui l’energia lo raggiunge e poi rincula quando la perturbazione l’ abbandona? Se così fosse, il principio di Newton sarebbe rispettato, ma non è così. Se l’energia durante la sua propagazione rimanesse legata sempre ad un qualche substrato materiale, la materia porterebbe con sé la luce e Fizeau ha mostrato, almeno per l’aria, che non può accadere nulla del genere. Michelson e Morley hanno confermato ciò. Dovremmo anche supporre che i moti della materia vera e propria siano esattamente compensate da quelli dell’etere, ma ciò condurrebbe alle stesse considerazioni esposte poco fa. Il principio, se così interpretato, spiegherebbe tutto, dal momento che quali che siano i moti visibili, potremmo immaginarci moti ipotetici per compensarli. Ma se questo potesse spiegare tutto, non potremmo prevedere nulla; non ci consentirebbe cioè di scegliere tra varie ipotesi, visto che spiega ogni cosa a priori. Diverrebbe inutile.»
Poincaré si occupò anche di altri due effetti inspiegabili: (1) la non conservazione della massa desunta dalla massa variabile di Lorentz γm, la teoria di Max Abraham sulla massa variabile e gli esperimenti di Walter Kaufmann sulla massa degli elettroni in moto rapido e (2) la non conservazione dell’energia negli esperimenti con il radio di Madame Curie.
Fu il concetto di Albert Einstein dell’equivalenza massa–energia (1905), secondo cui un corpo che irradia energia o calore perde una quantità di massa pari a m = E / c2 a risolvere il paradosso di Poincaré, senza ricorrere ad alcun meccanismo di compensazione mediato dall’etere. L’oscillatore hertziano perde massa nel processo di emissione e la quantità di moto si conserva in ogni sistema di riferimento. Comunque, per quanto riguarda la soluzione del problema del centro di gravità, Einstein notò che la formulazione di Poincaré e la propria del 1906 erano matematicamente equivalenti.
Poincaré e Einstein
La prima relazione di Einstein sulla relatività fu pubblicata tre mesi dopo il breve studio di Poincaré, ma prima della versione ampliata dello stesso. Essa si basava sul principio di relatività per ricavare le trasformazioni di Lorentz e per la sincronizzazione degli orologi usava una procedura simile a quella descritta da Poincaré (1900), ma era notevole il fatto che a questa non facesse alcun riferimento. Da parte sua Poincaré non citò mai il lavoro di Einstein sulla relatività ristretta. Einstein citò Poincaré nel testo di una conferenza del 1921 intitolata Geometrie und Erfahrung a proposito di geometrie non euclidee, ma non in relazione alla relatività speciale. Qualche anno prima della sua morte Einstein dichiarò che Poincaré era stato uno dei pionieri della relatività, dicendo che "Lorentz aveva riconosciuto che la trasformazione che porta il suo nome è essenziale per l’analisi delle equazioni di Maxwell, e Poincaré aveva ulteriormente approfondito questo punto di vista ..."
Filosofia
Poincaré aveva punti di vista filosofici opposti a quelli di Bertrand Russell e Gottlob Frege, che ritenevano la matematica una branca della logica. Poincaré era in netto disaccordo, reputando che fosse l’intuizione la vita della matematica. Egli fornisce un interessante punto di vista nel suo libro Scienza ed ipotesi:
Per un osservatore superficiale, la verità scientifica si colloca oltre la possibilità del dubbio, la logica della scienza è infallibile, e se gli scienziati talvolta sono in errore, questo accade solo a causa di una loro sbagliata applicazione delle sue regole.
Poincaré credeva che l’ aritmetica fosse una disciplina sintetica. Riteneva che gli assiomi di Peano non potessero essere dimostrati in modo non circolare mediante il principio di induzione (Murzi, 1998), e quindi che l’aritmetica fosse a priori sintetica e non analitica. Poincaré proseguiva dicendo che la matematica non poteva essere dedotta dalla logica dal momento che non è analitica. Le sue idee erano vicine a quelle di Immanuel Kant (Kolak, 2001, Folina 1992). Egli inoltre non accettava la teoria degli insiemi di Georg Cantor, rifiutando il suo utilizzo di definizioni impredicative.
Tuttavia egli non condivideva le idee di Kant in tutti i campi della filosofia e della matematica. Ad esempio, in geometria, Poincaré credeva che la struttura degli spazi non euclidei potesse essere conosciuta analiticamente. Egli riteneva che la convenzione giocasse un ruolo molto importante in fisica. Il suo punto di vista divenne noto come "convenzionalismo". Poincaré credeva che la prima legge di Newton non fosse di natura empirica, ma fosse un’assunzione di base convenzionale per la meccanica. Reputava anche che la geometria dello spazio fisico fosse convenzionale. Egli prese in considerazione esempi nei quali o la geometria dei campi fisici o i gradienti di temperatura possono essere modificati o descrivendo uno spazio non euclideo misurato mediante regoli rigidi, o usando uno spazio euclideo nel quale i regoli vengono dilatati o contratti da una distribuzione variabile del calore. Tuttavia Poincaré pensava che noi siamo tanto abituati alla geometria euclidea che preferiremmo cambiare le leggi fisiche per mantenerla, piuttosto che servirci di una geometria fisica non euclidea.
Carattere
Le abitudini lavorative di Poincaré sono state paragonate a quelle di un’ape che vola di fiore in fiore. Poincaré era interessato al modo in cui la propria mente lavorava; egli studiava le proprie abitudini e nel 1908 tenne una conferenza all’Istituto di Psicologia Generale di Parigi su quanto aveva osservato su se stesso.
Il matematico Gaston Darboux sosteneva che egli fosse un intuitivo, adducendo come ragione il fatto che egli operava molto spesso mediante rappresentazione visiva. Poincaré non si preoccupava molto di essere rigoroso e non amava la logica. Credeva che la logica non fosse un modo di inventare, ma un modo di strutturare le idee, anzi riteneva che la logica limitasse le idee.
Caratterizzazione di Toulouse
L'organizzazione mentale di Poincaré ha interessato, oltre che lui stesso, anche E. Toulouse, uno psicologo del Laboratorio di Psicologia della Scuola di Studi superiori di Parigi. In un libro del 1910 intitolato Henri Poincaré, Toulouse ha discusso lo schema di attività che lui seguiva con regolarità.
▪ Lavorava ogni giorno per brevi periodi che ogni giorno cadevano nelle stesse ore. Si dedicava alle ricerche matematiche per quattro ore al giorno dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 19. Leggeva articoli scientifici più tardi nella serata.
* Il suo modo di affrontare un problema consisteva nel risolverlo in modo completo nella sua mente e successivamente nel redigere su carta la presentazione dell'intero problema.
▪ Era ambidestro, ma molto miope.
▪ La sua capacità di visualizzare quello che ascoltava risultava particolarmente utile quando assisteva a seminari e conferenze, in quanto la sua vista era tanto debole da non consentirgli di vedere con chiarezza quello che l'espositore scriveva sulla lavagna.
Queste capacità erano bilanciate in una certa misura dalle sue debolezze:
▪ Era fisicamente goffo e inetto sul piano artistico.
▪ Era sempre di fretta e non amava ritornare su quanto fatto per effettuare modifiche o correzioni.
▪ Non ha mai dedicato un lungo periodo ad un problema, in quanto pensava che il proprio subconscio avrebbe continuato ad elaborare il problema mentre lui elaborava consciamente un altro problema.
Inoltre Toulouse rilevò che molti matematici procedevano da princìpi già consolidati, mentre Poincaré per ogni problema partiva da princìpi di base (v. Biography su MacTutor).
Il suo metodo di pensare viene ben descritto dal seguente brano:
"Habitué à négliger les détails et à ne regarder que les cimes, il passait de l'une à l'autre avec une promptitude surprenante et les faits qu'il découvrait se groupant d'eux-mêmes autour de leur centre étaient instantanément et automatiquement classés dans sa mémoire." ("Abituato a trascurare i dettagli e a guardare solo le cime, passava da una vetta all'altra con una velocità sorprendente ed i fatti che egli scopriva si raggruppavano essi stessi intorno al loro centro e si organizzavano istantaneamente e automaticamente nella sua memoria.") Belliver (1956)
▪ 1918 - Nicola II Romanov (Nikolaj Aleksandrovič Romanov; Carskoe Selo, 6 maggio 1868 – Ekaterinburg, 17 luglio 1918) fu l'ultimo imperatore di Russia.
Il suo titolo ufficiale era: "Per Grazia di Dio, Imperatore e Autocrate di tutte le Russie, Zar di Polonia, di Mosca, di Kiev, di Vladimir, di Novgorod, del Kazan', dell' Astrachan' e della Siberia; Granduca di Finlandia e di Lituania; Erede di Norvegia; Signore e sovrano di Iberia, dell'Armenia e del Turkestan; Duca dello Schleswig-Holstein, dello Stormarn, di Dithmarschen e dell'Oldenburg".
«Un uomo forte non ha bisogno del potere; un debole ne viene schiacciato.» (Nicola II)
Fu l'ultimo Zar di Russia. Ha conosciuto numerosi appellativi: Nicola il pacifico durante gli anni di regno; la letteratura sovietica lo ha dipinto invece come Nicola il sanguinario; attualmente, la tradizione popolare russa lo conosce come Nicola grande portatore della Passione.
Appartenente alla dinastia dei Romanov, alto 1,73 m, castano con occhi azzurri, considerato attraente in gioventù, sposò, in contrasto con i genitori, Alessandra d'Assia e del Reno, figlia del granduca Luigi IV d'Assia e del Reno e della Principessa Alice del Regno Unito, a sua volta figlia della regina Vittoria.
- Alessandra Feodorovna (n. 1872)
- Aleksej Nikolaevič Romanov (n. 1904)
- Maria Nikolaevna Romanova (n. 1899)
- Olga Nikolaevna Romanova (n. 1895)
▪ 1928 - Giovanni Giolitti (Mondovì, 27 ottobre 1842 – Cavour, 17 luglio 1928) è stato un politico italiano, più volte presidente del Consiglio dei ministri.
« ...le leggi devono tener conto anche dei difetti e delle manchevolezze di un paese... Un sarto che deve tagliare un abito per un gobbo, deve fare la gobba anche all'abito »(Giovanni Giolitti, "Memorie della mia vita / Giovanni Giolitti" con uno studio di Olindo Malagodi. - Milano: F.lli Treves, 1922. Cap.X.)
Il periodo storico durante il quale esercitò la sua guida politica sull'Italia è oggi definito età giolittiana. Sebbene la sua azione di governo sia stata oggetto di critica da parte di alcuni suoi contemporanei, come ad esempio Gaetano Salvemini, Giolitti fu uno dei politici più efficacemente impegnati nell'estensione della base democratica del giovane Stato unitario, e nella modernizzazione economica, industriale e politico-culturale della società italiana a cavallo fra Ottocento e Novecento. Dopo un iniziale riconoscimento nel 1922 del nuovo governo fascista, dal 1924 adottò una condotta di opposizione parlamentare verso Benito Mussolini.
La giovinezza
Figlio di Giovenale, cancelliere del Tribunale di Mondovì, e di Enrichetta Plochiù, appartenente ad una famiglia benestante di origine francese, il piccolo "Gioanin", come veniva chiamato in famiglia, rimase orfano del padre ancora in culla (il padre morì quando lui aveva un anno a causa di una polmonite contratta dopo una gita in montagna). La madre tornò allora in seno alla famiglia d'origine e si trasferì da Mondovì in via Angennes (ora Via Principe Amedeo) a Torino, nella casa dei suoi quattro fratelli che, essendo tutti celibi, circondarono il bimbo di particolari cure e affetto. In seguito a qualche giovanile problema di salute, su consiglio dello zio medico, la madre lo portò per alcuni periodi tra le montagne della Valle Maira, nella casa del nonno materno.
Studiò al ginnasio San Francesco da Paola di Torino (che avrebbe poi mutato il nome in liceo Gioberti). Frequentò la facoltà di Giurisprudenza all'Università di Torino e si laureò a soli 19 anni, grazie a una speciale deroga del rettore che gli consentì di compiere gli ultimi tre anni in uno solo.
Alla politica fu iniziato da uno degli zii ch'era stato deputato nel 1848 e manteneva stretti rapporti d'amicizia e politici con Michelangelo Castelli, segretario di Cavour. Il giovane Giolitti accompagnava sempre lo zio e il Castelli nella consueta passeggiata serale sotto i portici di piazza Castello, alla quale partecipava spesso anche Cavour. Tuttavia non appariva particolarmente interessato alle vicende risorgimentali e politiche trattate dai tre, così come non prestò orecchio al "grido di dolore", lanciato da Vittorio Emanuele II nel 1859, che aveva spinto molti suoi compagni di studî ad arruolarsi per combattere nella seconda guerra d'indipendenza.
L'ascesa
Privo di un passato impegnato nel Risorgimento, portatore di idee liberali moderate, nel 1862 iniziò a lavorare al Ministero di Grazia, giustizia e culti. Nel 1869 passò al Ministero delle Finanze, con la qualifica di caposezione, collaborando con diversi ministri della Destra storica, tra cui Quintino Sella e Marco Minghetti, contribuendo tra l'altro a quell'opera tributaria volta tutta al pareggio del bilancio.
La sua carriera di alto funzionario continuò nel 1877 con la nomina alla Corte dei conti e poi nel 1882 al Consiglio di Stato.
Sempre nel 1882 si candidò a deputato, venendo eletto. Nel 1886 si oppose agli eccessi di spesa del governo Depretis.
Nel 1889 fu nominato Ministro del Tesoro nel secondo governo Crispi, assumendo in seguito anche l'interim delle Finanze. Nel 1890 tuttavia si dimise, per una questione legata al bilancio ma anche a causa di un generale disaccordo sulla politica coloniale intrapresa da Crispi.
Nel 1891 si pronunciò per una riforma delle tasse per portarle da proporzionali a progressive.
Nel 1892, caduto il primo governo di Rudinì, che pure appoggiava, ricevette dal re Umberto I l'incarico di formare il nuovo governo.
Primo governo Giolitti
L'inizio dell'avventura giolittiana come primo ministro coincise sostanzialmente con la prima vera disfatta del governo di Crispi, messo in minoranza nel febbraio del 1891 su una proposta di legge di inasprimento fiscale. Dopo Crispi, e dopo una breve parentesi (6 febbraio 1891 - 15 maggio 1892) durante la quale il paese fu affidato al governo liberal-conservatore del marchese Di Rudinì, il 15 maggio 1892 fu nominato Primo Ministro Giovanni Giolitti, allora ancora facente parte del gruppo crispino.
Fu costretto alle dimissioni dopo poco più di un anno, il 15 dicembre 1893, messo in difficoltà dallo scandalo della Banca Romana e inviso ai grandi industriali e proprietari terrieri per il suo rifiuto di reprimere con la forza le proteste che attraversavano estesamente il paese (v. Fasci siciliani) e per voci su una possibile introduzione di una tassa progressiva sul reddito.
Dopo lo scandalo bancario
Giolitti non ebbe incarichi di governo per i successivi sette anni, durante i quali la figura principale della politica italiana continuò ad essere Francesco Crispi, che condusse una politica estera aggressiva e colonialista. A Crispi succedettero alcuni governi caratterizzati da una notevole rudezza nel reprimere le proteste popolari e gli scioperi; Giolitti divenne sempre più l'incarnazione di una politica opposta e il 4 febbraio 1901 un suo discorso alla Camera contribuì alla caduta del governo allora in carica, il Governo Saracco, responsabile di aver ordinato lo scioglimento della Camera del Lavoro di Genova.
Già a partire dal governo Zanardelli (15 febbraio 1901 - 3 novembre 1903), Giolitti ebbe una notevole influenza che andava oltre quella propria della sua carica di Ministro degli Interni, anche a causa dell'avanzata età del presidente del consiglio.
Secondo governo Giolitti
Il 3 novembre 1903 Giolitti ritornò al governo, ma questa volta si risolse per una svolta radicale: si oppose, come prima, alla ventata reazionaria di fine secolo, ma lo fece dalle file della Sinistra e non più del gruppo crispino come fino ad allora aveva fatto; intraprese un'azione di convincimento nei confronti del Partito Socialista per coinvolgerlo nel governo, rivolgendosi direttamente ad un "consigliere" socialista, Filippo Turati, che avrebbe voluto persino come suo ministro (Turati però rifiutò anche in seguito alle pressioni della corrente massimalista del PSI).
Nei confronti delle agitazioni sociali il presidente del Consiglio mutò radicalmente tattica rispetto alle tragiche repressioni dei governi precedenti e mise in pratica i concetti che da anni andava spiegando e in Aula e durante le manifestazioni elettorali: i sindacati erano i benvenuti in quanto un'organizzazione garantisce sempre e comunque maggior ordine rispetto ad un movimento spontaneo e senza guida; inoltre, e le informative prefettizie lo dimostravano, gli scioperi avevano alla base motivazioni economiche e non politiche e pertanto la dialettica tra le parti sociali, non coartata dall'intervento della pubblica sicurezza, avrebbe risolto le cose da sè. I precedenti governi, quindi, ravvisando nelle agitazioni operaie un intento sovversivo, avevano commesso un tragico errore: la repressione degli scioperi era espressione di una politica folle, che davvero avrebbe potuto scatenare una rivoluzione. Lo Stato non doveva spalleggiare l'una o l'altra parte in conflitto; doveva semplicemente svolgere una funzione arbitrale e mediatrice, limitandosi alla tutela dell'ordine pubblico.
Questi concetti, che oggi possono sembrare scontati, erano all'epoca considerati "rivoluzionari". I conservatori criticarono duramente quello che per loro era un cedimento al sovversivismo e gli industriali rimasero costernati quando si sentirono dire a chiare lettere che il governo non sarebbe assolutamente intervenuto nei confronti degli scioperi e che, piuttosto, gli imprenditori si sarebbero dovuti rassegnare a concedere adeguati aumenti salariali ai lavoratori.
In questo contesto furono varate norme a tutela del lavoro (in particolare infantile e femminile), sulla vecchiaia, sull'invalidità e sugli infortuni; i prefetti furono invitati ad usare maggiore tolleranza nei confronti degli scioperi apolitici; nelle gare d'appalto furono ammesse le cooperative cattoliche e socialiste. Con la Legge 137 del 22 aprile 1905 fu inoltre sancita la nazionalizzazione delle ferrovie tramite l'assunzione dell'esercizio pubblico soggette al controllo della Corte dei conti e alla vigilanza dei Lavori pubblici e del Tesoro [2] per le linee precedentemente previste in concessione dalle Convenzioni del 1885, escluse le linee di cui era proprietaria la Bastogi, che saranno tuttavia riscattate l'anno successivo; si promosse lo sviluppo economico attraverso la stabilità monetaria ed i lavori pubblici (ad esempio il traforo del Sempione).
Le parentesi Fortis e Sonnino
In questo periodo invitò l'amico Alessandro Fortis a creare un governo (come di fatto avvenne). A Fortis succedette, per soli tre mesi, un governo guidato da Sidney Sonnino e di grande eterogeneità; Giolitti si tenne fuori dal governo e anzi operò per farlo cadere, nell'intento di succedergli, come effettivamente avvenne.
Terzo governo Giolitti
Nel maggio 1906 Giolitti insediò il suo terzo governo, durante il quale continuò, essenzialmente, la politica economica già avviata nel suo secondo governo. Il terzo ministero Giolitti passò alla storia come "lungo e fattivo" ed è anche indicato come il "lungo ministero".
In campo finanziario l'operazione principale fu la conversione della rendita, cioè la sostituzione dei titoli di stato a tassi fissi in scadenza (con cedola al 5%) con altri a tassi inferiori (prima il 3,75% e poi il 3,5%). La conversione della rendita venne condotta con notevole cautela e competenza tecnica: il governo, infatti, prima di intraprenderla, chiese ed ottenne la garanzia di numerosi istituti bancari. Le critiche che il progetto aveva ricevuto soprattutto dai conservatori si rivelarono infondate: l'opinione pubblica seguì quasi con commozione le vicende relative, in quanto la conversione assunse immediatamente il valore simbolico di un risanamento effettivo e duraturo del bilancio e di una stabile unificazione nazionale.
Il bilancio dello stato si arricchì, così, di un gettito annuo che si aggirava sui 50 milioni di lire dell'epoca. Le risorse risparmiate sugli interessi dei titoli di stato furono usate per completare la nazionalizzazione delle Ferrovie; si iniziò a parlare anche di nazionalizzazione delle assicurazioni (portata a compimento nel quarto mandato).
Degne di nota, inoltre, le operazioni di soccorso e ricostruzione che il governo nel 1908 organizzò in occasione del terremoto di Messina e Reggio seguito da un disastroso maremoto. Dopo alcune, inevitabili, carenze, tutto il Paese si prodigò per aiutare la popolazione siciliana. Da molti storici questo episodio è stato definito come il primo evento durante il quale l'Italia diede la dimostrazione di un vero spirito nazionale.
Furono inoltre introdotte alcune leggi volte a tutelare il lavoro femminile e infantile con nuovi limiti di orario (12 ore) e di età (12 anni). In questa occasione i deputati socialisti votarono a favore del governo: fu una delle poche volte nelle quali parlamentari di ispirazione marxista appoggiarono apertamente un "governo borghese".
La maggioranza, poi, approvò leggi speciali per le regioni svantaggiate del Mezzogiorno. Tali provvedimenti, seppure non riuscirono neppure lontamente a colmare il divario nord-sud, diedero buoni risultati. I proprietari di immobili situati in aree agricole vennero esonerate dall'imposta relativa: anche questa fu una misura finalizzata al miglioramento delle condizioni economiche dei contadini del meridione.
Il buon andamento economico e l'oculata gestione del bilancio portarono ad una importante stabilità monetaria, agevolata anche dal fenomeno dell'emigrazione e soprattutto dalle rimesse che i migranti italiani inviavano ai propri parenti rimasti in patria. Non a caso il triennio 1906-1909, e più in generale l'arco di tempo che arriva fino alla vigilia del primo conflitto mondiale, è ricordato come il periodo nel quale "la lira faceva aggio sull'oro".
Le parentesi di Sonnino e Luzzatti
Nel 1909 si tennero le elezioni, da cui uscì una maggioranza giolittiana. Nonostante ciò, con una manovra tipica, Giolitti lasciò che fosse nominato presidente del consiglio Sidney Sonnino, di tendenze conservatrici; in questo modo Giolitti voleva proporsi come alternativa per un governo progressista; Sonnino si appoggiava su una maggioranza estremamente eterogenea e instabile e dopo soli tre mesi dovette dimettersi e gli successe Luigi Luzzatti, di fede giolittiana.
Nel frattempo il dibattito politico italiano aveva preso a concentrarsi sull'allargamento del diritto di voto. I socialisti, infatti, ma anche radicali e repubblicani, da tempo chiedevano l'introduzione, in Italia, del suffragio universale: cardine di una moderna liberaldemocrazia. Il ministero Luzzatti elaborò una proposta moderata la cui finalità, attraverso un allargamento dei requisiti in base ai quali si aveva il diritto di voto (età, alfabetizzazione ed imposte annue pagate), era quella di un progressivo ampliamento del corpo elettorale, senza però arrivare al suffragio universale.
Colto il vento, Giolitti, intervenendo in Aula, si dichiarò a favore del suffragio universale, superando di slancio le posizioni del governo, che da molti erano ritenute troppo a sinistra. L'intento, pienamente raggiunto, era quello di provocare la caduta del ministero, realizzare una nuova svolta politica e conquistare, definitivamente, la collaborazione dei socialisti al sistema parlamentare italiano.
Molti storici, in realtà, ravvisano in questa mossa di Giovanni Giolitti un gravissimo errore. Il suffragio universale, infatti, venne concesso prima e senza alcuna gradualità rispetto a tutte le altre liberaldemocrazie europee. Le condizioni sociali, inoltre, erano tali da far sì che gran parte dei nuovi votanti avesse più interesse a rovesciare l'ordine costituito piuttosto che conservarlo. Quando nell'autunno del 1911 alcune zone d'Italia vennero colpite da lievi epidemie di colera, ci furono manifestazioni nelle quali si gridava contro "gli spargitori del colera": qualche acuto intellettuale rimase sbalordito nel constatare l'ignoranza delle masse alle quali ci si apprestava a concedere il voto.
Il suffragio universale, contrariamente alle opinioni di Giolitti, avrebbe destabilizzato l'intero quadro politico: se ne sarebbero avvantaggiati, infatti, i partiti di massa che erano o stavano per sorgere (partito socialista, partito popolare e, in seguito, partito fascista). Ben presto il carrozzone politico dell'illuminata borghesia liberale italiana sarebbe stato rovesciato e distrutto.
Quarto governo Giolitti
Il quarto governo Giolitti durò dal 30 marzo 1911 al 21 marzo 1914. Nacque come il tentativo probabilmente più vicino al successo di coinvolgere al governo il Partito Socialista, che infatti votò a favore. Il programma prevedeva la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita e l'introduzione del suffragio universale, progetti di considerevole valenza "sociale" e entrambi immediatamente realizzati (dal suffragio erano comunque ancora escluse le donne). L'approvazione del provvedimento relativo alle assicurazioni sulla vita fu, secondo molti studiosi, uno degli ultimi eventi che segnarono la vittoria della stato nel confronto con i privati (vedi ad esempio l'opinione dello storico Carocci). L'intervento pubblico nel settore assicurativo portò durante il primo anno di governo, su spinta anche del Ministro dell'Agricoltura, Industria e Commercio Francesco Saverio Nitti, alla nascita dell'Istituto Nazionale delle Assicurazioni. A capo di questo ente fu posto il giovane socialista Alberto Beneduce, futuro padre dell'Iri. [3]
Il presidente del Consiglio spinse, inoltre, la maggioranza ad approvare il provvedimento che prevedeva la corresponsione di un'indennità mensile ai deputati. Bisogna ricordare, infatti, che all'epoca i parlamentari non avevano alcun tipo di stipendio e/o indennità: ricevere denaro come retribuzione per l'attività politica svolta era considerato degradante in quanto irrispettoso dei cittadini e della cosa pubblica. L'unico "privilegio" concesso ai deputati era la tessera gratuita per le ferrovie.
In questa situazione era evidente la difficoltà degli elettori di scegliere i propri rappresentanti fra le classi meno abbienti. Giolitti stesso amava ricordare che, se non fosse stato nominato dal re membro del Consiglio di Stato (con relativo stipendio), ben difficilmente avrebbe potuto permettersi di intraprendere la carriera politica con le spese che questa comportava. Tale problema divenne più acuto sul finire dell'Ottocento in seguito alla comparsa del partito socialista sulla scena politica italiana: era arduo per alcuni esponenti di tale partito, specie i sindacalisti e coloro che non svolgevano una libera professione, accettare una candidatura.
Spinto dall'ondata di sciovinismo che aveva preso a soffiare anche in Italia, Giolitti, nel settembre 1911, diede inizio alla conquista della Libia. Alcuni pensano che tale scelta dello statista piemontese tendesse a riequilibrare la concessione del suffragio universale. La guerra, però, si prolungò oltre le aspettative: per costringere la Turchia alla resa fu necessario richiamare alle armi quasi mezzo milione di uomini ed occupare militarmente, con una serie di sbarchi, le isole del Dodecaneso.
Questa nuova guerra coloniale creò nel Paese un clima di mobilitazione militante che, lungi dall'appagarsi della conquista della Libia, come Giolitti aveva sperato, continuò a surriscaldare gli animi e a fomentare le correnti nazionaliste. Il conflitto, inoltre, destabilizzò il già fragile equilibrio politico: nel partito socialista prevalse la fazione massimalista e qualunquista capitanata da Benito Mussolini. Ogni possibilità di collaborazione tra riformisti e Giolitti era ormai definitivamente tramontata. Secondo molti storici un accordo tra liberali di Giolitti e socialisti moderati avrebbe potuto risparmiare il fascismo all'Italia nel 1922.
Le elezioni vennerono indette per il 26 ottobre 1913 (ballottaggi il 2 novembre). Contrariamente alle aspettative dello statista piemontese, la maggioranza governativa subì una drastica riduzione: da 370 a 307 seggi (secondo altri computi la maggioranza contava appena 291 deputati su 508 seggi in palio). I socialisti raddoppiarono, arrivando a 52 seggi. Anche i radicali ottennero un ottimo risultato: passarono, infatti, da 51 a 73 seggi e, sia pure gradualmente, cominciarono a maturare una posizione più critica nei confronti del presidente del Consiglio, facendogli rilevare, già in sede di voto di fiducia (362 voti favorevoli, 90 contrari e 13 astensioni), di essere determinanti, quanto ad apporto numerico, per le sorti dell'esecutivo.
Alla riapertura della Camera Giolitti dovette difendere l'operato del governo relativamente alla guerra in Libia. Chiese, inoltre, (4 marzo 1913), lo stanziamento di cospicui fondi per promuovere lo sviluppo della colonia. Il governo ottenne ancora una volta un trionfo (363 voti favorevoli, 83 contrari), ma i radicali annunciarono la loro uscita dalla maggioranza: il 7 marzo, di conseguenza, Giolitti si dimise.
Dietro raccomandazione dello stesso Giolitti, il sovrano incaricò l'onorevole Antonio Salandra di formare il nuovo ministero e presentarlo alle Camere. Ben presto Salandra, pur provenendo dalla maggioranza giolittiana, avrebbe saputo dimostrarsi un giocatore molto ambizioso: pur di rendersi autonomo dal Giolitti egli non avrebbe esitato, pochi mesi dopo, a impegnare il Paese nella prima guerra mondiale senza informare non solo il Parlamento, ma nemmeno la maggioranza ed i membri del governo (nel gabinetto, infatti, erano a conoscenza del Patto di Londra solo Salandra ed il suo ministro degli Esteri, Sonnino).
La Prima guerra mondiale
L'assassinio dell'arciduca d'Austria, Francesco Ferdinando, fu la miccia che innescò la prima guerra mondiale. La Germania dichiarò la guerra a Russia e Francia; la notizia colse Giolitti in visita privata a Londra: questi si precipitò all'ambasciata per inviare un telegramma all'inesperto Salandra. Il vecchio statista piemontese scrisse al governo italiano che non c'era obbligo alcuno ad intervenire a fianco degli Imperi Centrali. Nel 1913, infatti, egli era venuto a conoscenza delle intenzioni aggressive dell'Austria nei confronti della Serbia: egli aveva ammonito severamente il governo austriaco, l'Italia non avrebbe seguito gli altri membri della Triplice Alleanza in guerre d'aggressione.
Inoltre il trattato prevedeva che, nel caso in cui uno degli alleati avesse dovuto scendere in guerra contro un altro stato, gli alleati avrebbero dovuto esserne informati preventivamente e ricevere adeguati compensi territoriali: l'Austria non aveva adempiuto a questi due obblighi e pertanto per l'Italia non c'era obbligo alcuno di intervenire nella conflagrazione europea. Il governo italiano dichiarò la sua neutralità.
In Italia si scatenò subito un forte dibattito fra interventisti e neutralisti. I primi, sostenitori di un rovesciamento delle alleanze e di un'entrata in guerra a fianco di Francia e Gran Bretagna, erano presenti in tutto lo schieramento politico. Essi erano però un'esigua minoranza (il radicale Giuseppe Marcora, deciso interventista, aveva calcolato che i deputati a favore della guerra non superavano la sessantina su un totale di oltre cinquecento componenti della Camera). Godevano però dell'appoggio dei più importanti giornali e dei politici in quel momento al timone: Salandra ed il suo ministro degli esteri, Sonnino. A favore dell'intervento era anche il sovrano, sia pure con una posizione più sfumata.
Questa situazione paradossale, nella quale gli interventisti, pur essendo netta minoranza, davano, per gli appoggi di cui godevano, un'apparenza di forza e risolutezza, spinse Salandra ed il suo ministro degli esteri ad una scelta di grande doppiezza politica. Mentre il governo chiedeva all'Austria, che aveva annesso la Serbia, di discutere i compensi territoriali ai quali l'Italia aveva diritto in base al trattato d'alleanza, venne inviato in segretezza un corriere a Londra con il quale si faceva sapere alla Triplice Intesa che l'Italia era interessata a conoscere eventuali proposte degli Alleati, in cambio di un intervento italiano contro gli imperi centrali.
Senza che il Parlamento ed il resto del governo fossero informati, complice il sovrano, Salandra firmò il Patto di Londra il 26 aprile. Con esso, impegnava l'Italia a scendere in guerra contro gli imperi centrali nell'arco di un mese. Poiché in aprile c'erano state alcune vittorie russe sugli austriaci, e temendo che la guerra finisse a breve, Salandra e Sonnino trascurarono di disciplinare nel trattato una serie di aspetti che si sarebbero rivelati decisivi: venne chiesto agli Alleati solo un minimo contributo finanziario in quanto era opinione comunque che la guerra sarebbe finita entro l'inverno, la questione dei compensi coloniali era trattata genericamente: veniva detto che l'Italia avrebbe ricevuto "adeguati compensi coloniali", ma nel trattato non si precisava quali e in quanta estensione. Inoltre l'assetto della frontiera orientale non contemplava Fiume italiana, e soprattutto non teneva in debito conto un dato esiziale: era evidente che, a guerra finita, gli iugoslavi avrebbero voluto formare uno stato indipendente.
Fu così che l'Italia si ritrovò, per una settimana, alleata di entrambi gli schieramenti. Se il Patto di Londra venne firmato il 26 aprile, fu solo il 4 maggio che il governo della penisola denunciò la Triplice Alleanza (1882). E non pubblicamente, ma con semplice comunicazione scritta ai firmatari. In seguito Salandra avrebbe arrogantemente definito questo gesto come il primo atto compiuto dal Paese in piena libertà.
Salandra che, per sua stessa ammissione, si rendeva conto che i neutralisti erano in netta maggioranza e divenivano sempre più forti, prorogò l'apertura della Camera dal 12 al 20 maggio. Messi a conoscenza dell'impegno assunto anche i comandi militari si allarmarono: l'improvviso rovesciamento di alleanze richiedeva i necessari preparativi. Mentre le manifestazioni interventiste, fomentate ad arte dal governo, si intensificavano, Salandra rassegnò le dimissioni nelle mani del re. La posizione neutralista di Giolitti era nota e questi, una volta giunto a Roma, ricevette in segno di solidarietà quasi quattrocento biglietti da visita dei deputati che da soli costituivano la maggioranza assoluta della Camera e che sarebbero senza dubbio aumentati il giorno della convocazione dell'Aula, convergendo tutti i parlamentari nella Capitale. Dimettendosi, Salandra volle lasciare al sovrano il compito di conciliarsi Giolitti.
Contro lo statista venne montata una violenta campagna di stampa, a Roma vennero affissi sui muri manifesti che lo ritraevano di spalle al momento della fucilazione: come i disertori. In un comizio delirante D'Annunzio incitò la folla ad invadere l'abitazione privata dello statista e ad uccidere quel "boia labbrone le cui calcagna di fuggiasco sanno le vie di Berlino". La folla invase con violenza lo stesso edificio della Camera: chiara intimidazione nei confronti della maggioranza neutralista. Il questore di Roma avvertì Giolitti che non era in grado di garantire la sua incolumità: un'offesa senza precedenti alla libertà e al diritto, lo stato abdicava al suo ruolo. Francesco Saverio Nitti, ricordando molti anni dopo quei giorni, disse che quello fu il momento nel quale la Costituzione venne calpestata e la libertà conculcata.
Durante le consultazioni Giolitti ammonì il sovrano che la maggioranza era contraria all'intervento, che l'esercito non era pronto (lui stesso se ne era reso conto durante l'impresa di Libia) e che la guerra avrebbe potuto portare un'invasione e persino una rivoluzione. Ma quando il sovrano illustrò allo statista piemontese la novità ed il contenuto del Patto di Londra, Giolitti comprese che ormai il danno era fatto: non adempiere all'impegno preso con tanto di firme equivaleva a compromettere il buon nome del Paese e avrebbe implicato, tra l'altro, l'abdicazione del re. Giolitti non ebbe la forza di portare a fondo la sua sfida, anzi raccomandò come presidenti del Consiglio Marcora e Carcano, peraltro interventisti convinti. Resosi ormai conto della gravità degli impegni assunti, bersaglio di manifestazioni ostili scatenate dal governo nei suoi confronti, Giolitti decise di ripartire per il Piemonte senza attendere la riapertura della Camera.
In questa situazione fu facile per il re respingere le dimissioni di Salandra e confermarlo nell'incarico: veniva così alla luce una grave lacuna dello Statuto Albertino che conferiva al sovrano, e non al Parlamento, il potere di dichiarare la guerra. Alla riapertura della Camera fu subito evidente che la maggioranza aveva modificato in maniera sorprendente il suo atteggiamento: abbandonata dal suo capo, pressata da minacce ed intimidazioni, messa finalmente al corrente del Patto di Londra, trasse le sue conclusioni. I pieni poteri al governo "in caso di guerra" furono approvati con 407 voti favorevoli contro 74 contrari (i socialisti e qualche isolato). Il 24 maggio entrò in vigore lo stato di guerra con l'Austria.
Va riconosciuto che Giolitti subì la sua prima, grande sconfitta politica mentre conduceva una nobile battaglia in difesa del Parlamento e della libertà: quasi unanimemente la storiografia riconosce allo statista piemontese il merito di aver difeso, alla vigilia del primo conflitto mondiale, le prerogative dello Stato di diritto e quindi, in ultima analisi, di aver combattuto per una vera democrazia moderna. Democrazia nella quale un monarca non può che avere funzioni puramente simboliche ed onorifiche: solo il Parlamento, organo che rappresenta la volontà popolare, può prendere decisioni gravi e dense di implicazioni come una dichiarazione di guerra.
Quinto governo Giolitti
L'ultima permanenza al governo di Giolitti iniziò nel giugno del 1920, durante il cosiddetto biennio rosso (1919-1920).
Nei confronti delle agitazioni sociali, Giolitti, ancora una volta, attuò la tattica da lui sperimentata con successo quando era alla guida dei precedenti ministeri: non accettò le richieste di agrari e imprenditori che chiedevano al governo di intervenire con la forza. Alle lamentele di Giovanni Agnelli, che descriveva, con toni volutamente drammatici ed esagerati, la situazione della Fiat occupata dagli operai, Giolitti rispose: "Benissimo, darò ordine all'artiglieria di bombardarla". Udita la risposta ironica e beffarda del primo ministro, Agnelli decise che era meglio lasciar fare alla politica e partì per le vacanze. Dopo pochi giorni gli operai cessarono spontaneamente l'occupazione. Il presidente del Consiglio era consapevole che un atto di forza avrebbe soltanto aggravato la situazione ed inoltre, sospettava che in molti casi gli imprenditori non fossero del tutto estranei all'occupazione delle fabbriche da parte dei lavoratori.
Del resto la situazione socio-politica era comunque più complessa rispetto agli scioperi che avevano interessato il Paese ai primi del novecento. Ora, infatti, complice il dissesto economico e sociale seguito al primo conflitto mondiale, non tutti i disordini avevano alla base pure motivazioni economiche. Durante questa grave crisi economica post-bellica si acuivano infatti i contrasti politici, radicalizzando le diverse posizioni. Da una parte le istanze socialiste e dall'altra quella della borghesia imprenditoriale. Alcune delle proteste sviluppatesi durante il cosiddetto biennio rosso, e, successivamente, i torbidi crescenti a partire dalla seconda metà del 1920, ad opera di agrari e fascisti, avevano esplicitamente di mira la sovversione delle istituzioni statali.
Giolitti si concentrò sulla questione di Fiume; prese contatti con la Jugoslavia e fu firmato il trattato di Rapallo nel novembre 1920, dove fu deciso che Fiume sarebbe diventata città libera; l'Italia inoltre oltre a rinunciare alle dirette pretese su Fiume, avrebbe rinunciato ad ogni rivendicazione sulla Dalmazia, ad eccezione della città di Zara, che sarebbe passata all'Italia. Fu uno smacco grave per il governo illegale che nel frattempo si era instaurato per opera di Gabriele D'Annunzio e del movimento irredentista nella città in nome dell'Italia; qui ci fu il rifiuto di riconoscere il trattato di Rapallo. Giolitti allora mandò contro la città ribelle il regio esercito, guidato da Enrico Caviglia; dopo una simbolica resistenza Gabriele D'Annunzio firmò la resa il 31 dicembre 1920, nacque lo stato libero di Fiume e la questione di Fiume si avviò al suo definitivo epilogo.
Già dal discorso di insediamento alla Camera, Giolitti annunciò l'intenzione di voler modificare l'articolo 5 dello Statuto, la norma che aveva consentito al sovrano di dichiarare la guerra all'Austria senza il preventivo consenso del Parlamento. Dai banchi della destra, in particolare dalle file dei nazionalisti, alcuni gridarono ironicamente al presidente del Consiglio: "Come per l'impresa di Libia!". E Giolitti, senza scomporsi, rispose: "Appunto, correggiamo!". Ed effettivamente la Camera approvò la modifica della Carta fondamentale proposta dal Presidente del Consiglio; si narra che in seguito a tale scelta, non gradita dalla Corona, si guastarono irrimediabilmente i rapporti fra Giolitti e Vittorio Emanuele III.
Giolitti era preoccupato soprattutto per le disastrose condizioni in cui versavano le finanze dello stato. Rispetto all'anteguerra il potere d'acquisto di una lira si era ridotto a 23 centesimi, il prezzo politico del pane, che i governi precedenti non avevano voluto abolire temendo proteste ed impopolarità, comportava un onere che avrebbe portato il Paese al fallimento economico. Lo statista piemontese propose una manovra finanziaria, rimasta in larga parte inattuata per la breve durata del suo governo, di portata innovativa.
Fu immediatamente abolito il prezzo politico del pane. Giolitti, inoltre, presentò una riforma del prelievo fiscale che avrebbe introdotto la progressività delle imposte, si pronunciò a favore di un inasprimento della tassa di successione e della nominatività dei titoli. Era, insomma, un risanamento che premeva sulle classi più agiate del paese. La presentazione di tali provvedimenti stupì inizialmente tutti: la borsa iniziò a recuperare e la lira a rivalutarsi nelle quotazioni giornaliere. L'entusiasmo però finì quando fu ben chiaro che il governo non avrebbe avuto vita lunga e pertanto non avrebbe potuto dare seguito a gran parte di queste misure.
Per porre freno alle sempre più frequenti agitazioni socialiste, Giolitti tollerò o, secondo altri, appoggiò le azioni delle squadre fasciste, credendo che la loro violenza potesse essere in seguito riassorbita all'interno del sistema democratico. Pensando che la popolazione fosse tornata a dare l'appoggio ai liberali, sciolse il parlamento e indisse nuove elezioni per maggio 1921. Il panorama politico che ne uscì non era cambiato di molto, i liberali avevano ancora il governo, mentre i socialisti e i cattolici rimanevano forti; l'unica novità rilevante fu l'entrata alla camera di 35 deputati fascisti.
Giolitti aveva pensato di poter "costituzionalizzare", come aveva fatto con Turati, i fascisti che si sarebbero lasciati assimilare dal sistema liberale. Scrisse lo storico Angelo Tasca che questo fu il primo «gesto di suicidio» dello Stato liberale.
L'avvento del fascismo
Dopo la caduta del suo quinto governo, mentre acquisivano sempre più importanza partiti non integrabili nel sistema liberale, come i partiti di massa (il PSI e il PPI) da un lato e il fascismo dall'altro, il "partito liberale" era sempre più diviso; Giolitti appoggiò il governo Bonomi, che includeva anche un ministro popolare, oltre a diversi giolittiani. Alla caduta di Bonomi, mentre la situazione nel paese era sempre più grave a causa del clima da guerra civile e dell'ascesa del fascismo, il nome di Giolitti fu nuovamente quello più speso per indicare il nuovo capo di governo. Su di esso però arrivò il veto del Partito Popolare (anche a causa del provvedimento sulla nominatività dei titoli azionari del precedente governo Giolitti, fortemente avversato dal Vaticano); la crisi di governo si trascinò a lungo e infine il giolittiano Luigi Facta formò il suo dicastero, che comprendeva giolittiani, popolari e esponenti della destra costituzionale.
Nelle ore cruciali della marcia su Roma, Giolitti era nella sua casa di Cavour, da dove si era posto come possibile riserva per formare un nuovo governo, anche comprendente i fascisti; tuttavia ricevette poche e contraddittorie informazioni riguardo alla crisi sia da Facta che dal re, e fu sostanzialmente tenuto fuori gioco.
Gli ultimi anni. L'opposizione al fascismo
Giolitti votò a favore del primo governo Mussolini, nel 1922. Questo governo era ancora formalmente nella legalità dello Statuto albertino e ottenne un ampio voto di fiducia da parte della Camera eletta nel 1921, dove siedevano solo 40 deputati fascisti su 535. Votò inoltre a favore della legge Acerbo. Tuttavia, alle successive elezioni del 1924, mentre molti dei politici liberali si facevano inserire nel "listone" del governo fascista, Giolitti presentò una propria lista, detta Democrazia, in Piemonte; altre liste con lo stesso nome furono presentate in Liguria e Lazio-Umbria. Giolitti risultò eletto insieme a due suoi seguaci, Marcello Soleri e Egidio Fazio.
Dopo la scomparsa di Matteotti, Giolitti criticò fortemente la "secessione dell'Aventino", sostenendo che la Camera era il luogo dove occorreva fare opposizione. Nel 1924 votò per la prima volta contro il governo in seguito alla legge sulla limitazione della libertà di stampa. Nel dicembre 1925 il consiglio provinciale di Cuneo, che ad agosto aveva rieletto come di consueto Giolitti alla presidenza, votò una mozione che gli chiedeva l'adesione al fascismo. Giolitti rassegnò quindi le dimissioni sia da presidente che da consigliere.
Nel 1926 e 1927 si appartò sempre più dalla vita politica, anche a causa delle sempre più rade convocazioni della Camera; compì diversi viaggi in Europa. Nel 1928 tornò alla Camera per prendere parola contro la legge che di fatto aboliva le elezioni, sostituendole con la ratifica delle nomine governative, contestando che con questo provvedimento il governo si poneva al di fuori dello Statuto.
Morì improvvisamente il 17 luglio 1928 all'1:35 del mattino nella sua villa di Cavour, e venne sepolto nel cimitero comunale. Il nipote Antonio Giolitti, che sarebbe poi diventato partigiano e politico del PCI, a proposito delle circostanze della morte del nonno disse:
«...Andammo, nella casa di Cavour. Lui giaceva su un grande letto di ferro, ci benedisse. Fuori c'era una gazzarra di giovani fascisti che stazionavano sotto le finestra, in attesa: "Quel vecchiaccio non si decide a morire".»(Antonio Giolitti su la Stampa)
L'ideologia politica
Come neo-presidente del Consiglio si trovò a dover affrontare, prima di tutto, l'ondata di diffuso malcontento che la politica crispina aveva provocato con l'aumento dei prezzi. Ed è questo primo confronto con le parti sociali che evidenzia la ventata di novità che Giolitti porta nel panorama politico dei cosiddetti "anni roventi": non più repressione autoritaria, bensì accettazione delle proteste e, quindi, degli scioperi purché non violenti né politici (possibilità, fra l'altro, secondo lui ancora piuttosto remota in quanto le agitazioni nascevano tutte da disagi di tipo economico). Come da lui stesso sottolineato in un discorso in Parlamento in merito allo scioglimento, in seguito ad uno sciopero, della Camera del lavoro di Genova, sono da temere massimamente le proteste violente e disorganiche, effetto di naturale degenerazione di pacifiche manifestazioni represse con la forza: «Io poi non temo mai le forze organizzate, temo assai più le forze disorganiche perché se su di quelle l'azione del governo si può esercitare legittimamente e utilmente, contro i moti inorganici non vi può essere che l'uso della forza».
Contro questa sua apparente coerenza si scagliarono critici come Gaetano Salvemini che sottolinearono come invece nel Mezzogiorno d'Italia gli scioperi venissero sistematicamente repressi. L'intellettuale meridionale definì Giolitti un "ministro della malavita" proprio per questa sua disattenzione riguardo ai problemi sociali del Sud, che avrebbe provocato un'estensione del fenomeno del clientelismo di tipo mafioso e camorristico.
Inoltre Giolitti fu accusato di essere un "dittatore liberale". Celebri sono le parole dell'accanito interventista Gabriele D'Annunzio secondo il quale per il neutralista «mestatore di Dronero [...] la lapidazione e l'arsione, subito deliberate e attuate, sarebbero assai lieve castigo». Giolitti quindi venne apostrofato come il "teorico del parecchio" dalla propaganda interventista (in riferimento a una sua presunta affermazione che dalla neutralità si sarebbe potuto ottenere, appunto, "parecchio").
Giolitti si può definire un liberale progressista o un conservatore illuminato, sapeva adattarsi, cercando di padroneggiarla, alla variegata realtà politica italiana. Egli disse che il suo era come il mestiere di un sarto che dovendo confezionare un vestito per un gobbo deve fare la gobba anche al vestito. Egli dunque era convinto di dover governare un paese "gobbo" che non aveva intenzione di "raddrizzare" ma realisticamente governare per quello che era.
La sua attenzione si rivolse al partito socialista, per trasformarlo da avversario a sostegno delle istituzioni ed allargare nello stesso tempo le basi dello stato, e ai cattolici, che volle fare rientrare nel sistema politico.
Dopo i disgraziati avvenimenti che avevano caratterizzato l'ultimo governo Crispi e quello di Pelloux, Giolitti era convinto che, se lo stato liberale avesse voluto sopravvivere, doveva tener conto delle nuove classi emergenti. Nelle "Memorie della mia vita" [11] egli si pone sulla stessa via del suo grande predecessore Cavour e quasi ne ripete le espressioni. Come Cavour sosteneva, seguendo il modello liberale inglese, che bisognasse realizzare tempestive riforme per prevenire le agitazioni socialiste («L'umanità è diretta verso due scopi, l'uno politico, l'altro economico. Nell'ordine politico essa tende a modificare le proprie istituzioni in modo da chiamare un sempre maggior numero di cittadini alla partecipazione al potere politico. Nell'ordine economico essa mira evidentemente al miglioramento delle classi inferiori, ed a un miglior riparto dei prodotti della terra e dei capitali») allo stesso modo sembrava dire Giolitti: «Io consideravo che, dopo il fallimento della politica reazionaria, noi ci trovavamo all'inizio di un nuovo periodo storico [...] Il moto ascendente delle classi operaie si accelerava sempre più ed era moto invincibile perché comune a tutti i paesi civili e perché poggiava sui principi dell'eguaglianza tra gli uomini [...]. Solo con una [diversa] condotta da parte dei partiti costituzionali verso le classi popolari si sarebbe ottenuto che l'avvento di queste classi, invece di essere come un turbine distruttore, riuscisse ad introdurre nelle istituzioni una nuova forza conservatrice e ad aumentare grandezza e prosperità alla nazione.» (dalle Memorie della mia vita di G. Giolitti).
È innegabile la tendenza, sfondo di tutta la sua attività politica, di spingere il parlamento ad occuparsi dei conflitti sociali al fine di comporli tramite opportune leggi. Per Giolitti, infatti, le classi lavoratrici non vanno considerate alla stregua di una pura opposizione allo Stato - come fino ad allora era avvenuto - ma occorre riconoscere loro la legittimazione giuridica ed economica. Compito dello stato quindi è quello di porsi come mediatore neutrale tra le parti, poiché esso rappresenta le minoranze ma soprattutto la moltitudine di quei lavoratori vessati fino alla miseria dalla legislazione fiscale e dello strapotere degli imprenditori nell'industria. Un aspetto della sua attenzione alle classi popolari può essere considerata anche la innovazione della corresponsione di una indennità ai parlamentari che sino ad allora avevano svolto la loro funzione a titolo gratuito. Questo avrebbe consentito, almeno in linea teorica, una maggiore partecipazione dei meno abbienti alla carica di rappresentante del popolo.
▪ 1944 - Bruno Fanciullacci (Pieve a Nievole, 13 novembre 1919 – Firenze, 17 luglio 1944) è stato un partigiano italiano.
È una delle figure di partigiano operativo più note e discusse della Resistenza italiana. Noto per il coraggio, che si spingeva al limite dell'incoscienza, e discusso per la complicità nell'assassinio di Giovanni Gentile. Fu un episodio che divise lo stesso fronte antifascista e che ancora oggi è al centro di polemiche non sopite venendo infatti già all'epoca disapprovato dal CLN toscano con la sola esclusione del Partito Comunista. http://www.anpi.it/libri/mandarano.htm
Gli è stata conferita la Medaglia d'Oro al Valor Militare alla memoria e il comune di Pontassieve (Firenze) gli ha intitolato una via, così come quello di Firenze gli ha dedicato lo slargo di via Bolognese, posto davanti a Villa Triste, il luogo dove egli trovò la morte.
Nato in una famiglia di tradizioni socialiste che si trasferì a Firenze nel 1934, il giovane Bruno trovò lavoro come garzone di bottega e, poi, come inserviente d'albergo.
In seguito alle sue frequentazioni di personaggi della Firenze antifascista, venne arrestato nel luglio 1938 per essere, l'anno seguente, condannato a sette anni di reclusione per attività antifascista. Parte della pena gli fu condonata e all'inizio del 1943 venne assunto come operaio alla Fiat di Firenze.
Dopo l'8 settembre, il Partito Comunista Italiano promosse i GAP (Gruppi d'Azione Patriottica), formazioni ristrette di combattenti irregolari, con compiti di sabotaggio e guerriglia nei confronti delle forze nazi-fasciste. Fanciullacci, che era stato contattato in carcere dall'apparato clandestino del PCI, si unì ad una di queste formazioni, con il nome di battaglia "Maurizio", distinguendosi subito per animosità e coraggio. Ben presto gli venne affidato il comando del "gruppo B", uno dei quattro che formavano l'unità operativa dei GAP di Firenze.
Partecipò a numerose azioni contro installazioni e uomini della Repubblica di Salò o ritenuti collaborazionisti, fino all'eclatante, quanto discussa, uccisione del filosofo Giovanni Gentile, avvenuta il 15 aprile 1944 nel quartiere Salviatino. Per compiere quell'azione, Bruno Fanciullacci e Antonio Ignesti, si appostarono verso le 13,30 nei pressi della villa del filosofo. Allorché questi giunse in auto, gli si avvicinarono tenendo sotto braccio dei libri per camuffarsi da studenti. Giovanni Gentile abbassò il vetro per prestare ascolto, fu colpito da una raffica.
Dopo appena sei giorni (21 aprile), in via Santa Maria, due gappisti ferirono Bruno Landi, un noto esponente fascista fiorentino conosciuto come il "Pollastra", soprannome probabilmente dovuto al suo luogo di provenienza sito nei pressi del torrente Pollastra-Nocella. Gli autori dell'agguato sono rimasti ignoti, ma la vox populi del tempo indicava l'esecutore in Fanciullacci, probabilmente per il fatto che il ferimento era avvenuto nella stessa via ove abitava "Maurizio".
Il 23 aprile, mentre passeggiava in Piazza Santo Spirito, Fanciullacci venne affrontato da alcuni parenti del "Pollastra", capeggiati da un certo Lisi intenzionati a chiedergli conto dell'atto a lui attribuito. Dopo un'animata discussione, Fanciullacci cercò di fuggire, ma venne raggiunto. Arrestato e condotto a Villa Triste, fu sottoposto ad interrogatorio, dal quale uscì con numerose ferite di pugnale alla mano sinistra, alle natiche e ai testicoli.
Sommariamente medicato nell'infermeria di Villa Triste, il gappista fu ricoverato all'ospedale "San Gallo" e poi trasferito al "Santa Maria Nuova", piantonato dai fascisti. I suoi compagni del "Gruppo B", con un colpo di mano, riuscirono a prelevarlo, trasferendolo in casa del pittore Ottone Rosai, per la convalescenza. Bruno tornò presto in azione e il 9 luglio partecipò, con una decina di compagni, all'irruzione nel carcere femminile di Santa Verdiana che porterà alla liberazione di 17 detenute.
Il clamoroso blitz suscitò una grande impressione in tutta Firenze e le forze nazi-fasciste intensificarono le operazioni di repressione, riuscendo a infliggere una serie di colpi durissimi ai partigiani fiorentini, tanto da comprometterne seriamente l'organizzazione. Fanciullacci, ormai braccato, aveva caparbiamente rifiutato di obbedire all'ordine del partito di trasferirsi in altra città, tentando di ricostituire il gruppo. Fu arrestato in piazza Santa Croce, il 14 luglio. Le modalità della cattura, avvenuta ad opera di alcuni militi improvvisamente sbucati da un'ambulanza, fanno pensare ad una trappola ordita in seguito a delazione.
Nuovamente ricondotto a Villa Triste per essere interrogato dai membri della Banda Carità, Fanciullacci tentò di fuggire durante una pausa dell'interrogatorio che si stava svolgendo ai piani superiori della villa. Lanciatosi da una finestra, con le mani legate dietro la schiena e inseguito dai colpi sparati dal piantone, cadde rovinosamente al suolo. Venne trasportato al comando cittadino delle SS e curato dal dottor Italo Piazzola che ne certificò il decesso, avvenuto tre giorni dopo, citando la frattura mortale alla base cranica, le fratture al polso e al femore, oltre a una ferita per arma da fuoco.
In suo onore fu denominata la Brigata Garibaldi "Bruno Fanciullacci", operante sul Monte Morello, che partecipò alla liberazione della città di Firenze.
* 1959 - Billie Holiday (pseudonimo di Eleanor Fagan Gough, nota anche come Lady Day; Baltimora, 7 aprile 1915 – New York, 17 luglio 1959) è stata una cantante statunitense, fra le più grandi di tutti i tempi nei generi jazz e blues.
In realtà, il suo vero nome era Eleanora Fagan Gough (Fagan era il cognome della madre). Quando scelse il suo nome d'arte volle prendere quello del padre, Holiday. Scelse di chiamarsi "Billie" perché la madre, riferendosi scherzosamente ai suoi atteggiamenti da maschiaccio, la chiamava Billy, e come omaggio all'attrice Billie Dove, di cui era una grande ammiratrice.
* 1995 - Juan Manuel Fangio (Balcarce, 24 giugno 1911 – Buenos Aires, 17 luglio 1995) è stato un pilota automobilistico argentino.
È famoso non solo per i suoi 5 titoli iridati, di cui 4 consecutivi, ma soprattutto le sue rocambolesche vittorie: forse il suo record di primi posti in rapporto alle partecipazioni non sarà mai eguagliato.
▪ 2000 - Aligi Sassu (Milano, 17 luglio 1912 – Pollença, 17 luglio 2000) è stato un pittore e scultore italiano.
Aligi Sassu nacque a Milano, in Lombardia, da Lina Pedretti, originaria di Parma, e Antonio Sassu, sardo, che nel 1894 era stato uno dei fondatori del Partito Socialista Italiano a Sassari e che nel 1896 si era trasferito a Milano.
Il padre, legato da una forte amicizia a Carlo Carrà, lo condusse nel 1919, a soli sette anni, all'Esposizione Nazionale Futurista presso la Galleria Moretti di Palazzo Cova, che vedeva riuniti i più grandi futuristi e le giovani leve.
All'inizio del 1921 la famiglia Sassu si ritrasferì in Sardegna, a Thiesi in provincia di Sassari, dove Antonio aprì un negozio. Lì Aligi frequentò la scuola elementare e conobbe per la prima volta i cavalli, che diventeranno poi il suo marchio, ed i colori accesi della Sardegna che permeeranno la sua pittura.
Dopo una permanenza di tre anni, la famiglia ritornò a Milano e qui Aligi mostrò ancor più il suo interesse per la lettura e l'arte futurista.
Nel 1925, con la famiglia ormai in ristrettezze economiche, fu costretto a lasciare la scuola. In un primo tempo svolse il lavoro di apprendista presso la Pressa, un'officina litografica; l'anno successivo quello di aiutante di un decoratore murale; al contempo, frequentando i corsi serali, riuscì poi a concludere gli studi.
Insieme all'amico e designer futurista Bruno Munari, si presentò a Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del Futurismo. Questo incontro fu proficuo: nel 1928 fu invitato da Marinetti a partecipare con le sue opere alla Biennale di Venezia. Poco tempo dopo, insieme a Bruno Munari, definì il Manifesto della Pittura "Dinamismo e riforma muscolare" (che rimarrà inedito fino al 1977), assumendo come presupposto di base la rappresentazione di forme dinamiche anti-naturalistiche.
In quegli anni, grazie alle amicizie del padre, poté conoscere bene le opere di Boccioni e Carlo Carrà, di Gaetano Previati, Giandante X (così era noto Dante Persico) e Giuseppe Gorgerino, e a loro si ispirò talvolta nei suoi dipinti.
Studiò Picasso, Diego Velázquez ed il nudo plastico. Di questo periodo è L'Ultima cena, il dipinto che sintetizza l'arte di Aligi Sassu e, negli abiti moderni dei personaggi e l'ambientazione urbana, preannuncia quello che sarà il suo stile futuro.
Negli anni fra il 1927 e il 1929 dipinse in maggioranza quadri di piccole dimensioni, aventi spesso come soggetto lo sport, le industrie e le macchine; nascono così i Ciclisti, I minatori, L'operaio, Pugilatori e gli Uomini rossi.
Con Giacomo Manzù, Nino Strada, Candido Grassi, Giuseppe Occhetti, Gino Pancheri, nel 1930 riuscì ad allestire a Milano la sua prima mostra importante, recensita anche da Carlo Carrà.
Nel 1934 soggiornò per un periodo di tre mesi a Parigi [2] (in rue Elisée des Beaux Artes) studiando a fondo le opere di Matisse, Gericault, Delacroix, Cezanne ed i dipinti dei pittori dell'800 esposti al Louvre. In particolare, l'influenza di Delacroix e delle sue battaglie è chiaramente riscontrabile nei dipinti di Sassu. Ritornerà a Parigi l'anno successivo e poi agli inizi del 1936.
Nel 1935 formò il Gruppo Rosso con Nino Franchina, Vittorio Della Porta ed altri. Del 1936 è Il Caffè, uno dei suoi quadri più celebri che rappresenta la Coupole di Parigi, così pure I Concilii, visione satirica del clero di Roma.
Nel frattempo il suo impegno politico aumentò e, quando in Spagna scoppiò la Guerra civile, diventò un attivo antifascista. Antifranchista e simpatizzante dei partigiani spagnoli, dipinse la Fucilazione delle Asturie. Accusato di complotto, rinchiuso nel carcere di Regina Coeli a Roma, attraversò un periodo piuttosto problematico alla fine del quale riprese la pittura. Sono di questo periodo i disegni con soggetti mitologici e i ritratti dei carcerati.
Fu graziato nel luglio del 1938, rimanendo però un sorvegliato speciale. Solo nel 1941 poté esporre nuovamente: per la prima volta compaiono in pubblico gli Uomini rossi. L'esposizione avvenne nella "Bottega di Corrente". Pur partecipando da tempo in modo attivo a Corrente, il periodico di opposizione culturale al regime, Sassu preferì optare per una "personale", non aderendo alle mostre collettive degli artisti del tempo.
Nel 1943 illustrò i "Promessi sposi" del Manzoni con cinquantotto acquerelli[4]. Presenterà queste tavole successivamente, nel 1983, nella casa Manzoni a Milano.
Nel 1947, trasferitosi in provincia di Varese, lavorò alacremente dipingendo in particolare Caffè, reminiscenze di Parigi, e soggetti sacri. Poco tempo dopo si dedicò alla ceramica producendo circa un centinaio di pezzi.
Ritornato in Sardegna nel 1950, trasse ispirazione dai paesaggi che lo circondavano e dipinse scene della vita contadina e marinaresca, quali le Tonnare; studiò i murales e i muralisti Diego Rivera e José Clemente Orozco, e poi Vincent Van Gogh e Piero della Francesca. Notevole è di quel periodo La miniera, l'affresco nella foresteria delle miniere di Monteponi (Iglesias) e non solo per le dimensioni, m 3.50 per 12.
Con Mazzotti e Fabbri, nel 1954, a Vallauris incontrò per la prima volta Picasso. Due anni dopo, in un nuovo incontro a La Californie, Picasso gli mostrerà le sculture che esporrà successivamente al Museo di Antibes. Lo stesso anno espose alla Biennale di Venezia fra le altre opere I martiri di Piazzale Loreto, che Giulio Carlo Argan acquistò per la Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea di Roma.
Ad Albissola Marina dipinse il ciclo delle Cronache di Albisola, ben rappresentando la vita artistica della cittadina che vedeva allora riuniti ceramisti, poeti, scrittori, critici, e di cui Aligi Sassu era protagonista insieme a Lucio Fontana, a Salvatore Fancello e altri artisti. L'opera, eseguita su commissione del proprietario nella Trattoria Pescetto, occupava un'intera parete di trentacinque metri e, quando 14 anni dopo il locale fu chiuso, venne completamente smembrata. Oggi ne restano solo poche immagini fotografiche.
Dieci anni dopo iniziò il suo periodo spagnolo (nel 1963 alle isole Baleari), con le Tauromachie, presentate dal poeta spagnolo Rafael Alberti, i personaggi mitologici, le sue sperimentazioni sugli acrilici e sui colori sempre più accesi (il rosso sarà ancora più presente nella sua pittura).
Nel 1965 suoi disegni e sculture vengono esposti alla Galleria Civica di Monza; sarà poi la volta di una mostra antologica a Bucarest e, successivamente, alla Galleria d’Arte Moderna di Cagliari (dove, nel 1967, era presente anche Foiso Fois). È dello stesso anno il suo trasferimento a Monticello Brianza, durante il quale eseguirà soprattutto murales.
Al 1968 appartengono vari dipinti di grandi dimensioni, fra i quali il Che Guevara, donato al Museo de L'Avana. Nel 1969, alla Biennale, gli viene attribuito il 1° premio del muro dipinto.
Viaggiando fra Maiorca e l'Italia collaborò nel 1973 ai Vespri siciliani per la riapertura del Teatro Regio di Torino. Al Vaticano gli venne dedicata una sala nella Galleria dell'Arte moderna.
Tre anni dopo realizzò due mosaici per la parrocchia di Sant'Andrea a Pescara e l'anno successivo espose le sue opere nelle città di Rotterdam, Toronto e Mallorca.
È del 1984 una prima mostra antologica a Ferrara, al Palazzo dei Diamanti, e poi a Roma a Castel Sant'Angelo, a cui seguì quella di Milano, al Palazzo Reale [5]. Successivamente vennero allestite mostre a Siviglia, in Germania, a Madrid, a Toronto, Montreal e Ottawa.
Nel 1986 espone a Palma di Mallorca, alla XI Quadriennale di Roma, alla Triennale di Milano e alla Casa del Mantegna a Mantova e Monaco di Baviera, nello stesso anno completa le centotredici tavole sulla Divina Comedia [6].
Nel 1992 partecipa in Sud America al progetto espositivo Arte Italiana nel mondo esponendo a San Paolo, Bogotà e Buenos Aires.
A Bruxelles, nella nuova sede del Parlamento europeo, nel 1993 completò il murale in ceramica I Miti del Mediterraneo, che occupa 150 metri quadrati. Sono invece del 1994 le incisioni Manuscriptum per la mostra itinerante in Svezia "I ponti di Leonardo". È dell'anno successivo l'esposizione alla Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo e del 1999 la mostra antologica a Palazzo Strozzi[7]a Firenze.
Nel 1996 donò 356 opere, realizzate a partire dal 1927, alla città di Lugano: si ha così la nascita della Fondazione Aligi Sassu e Helenita Olivares che da allora ha allestito mostre tematiche con i suoi lavori.
Il 25 giugno 1999 nasce la Fondazione Aligi Sassu e Helenita Olivares a Mallorca per volontà dei coniugi Sassu.
Il 31 marzo del 2000 viene costituita a Besana in Brianza l'Associazione Culturale onlus Amici dell'Arte di Aligi Sassu.
Morì a Pollença il 17 luglio 2000, all'età di 88 anni, proprio il giorno del suo compleanno.
* 2006 - Frank Michael Morrison Spillane, conosciuto con lo pseudonimo di Mickey Spillane (New York, 9 marzo 1918 – Murrells Inlet, 17 luglio 2006), è stato un autore di fumetti, scrittore e sceneggiatore statunitense.
È considerato uno dei padri, assieme a Dashiell Hammett e Raymond Chandler, del genere hard-boiled.
Il suo personaggio più conosciuto, protagonista di molte avventure seriali, è stato l'investigatore privato Mike Hammer, caratterizzato da un'indole maschilista e violenta. Un altro personaggio di suoi racconti, sia pure di minore successo, fu Tiger Mann.
L'autorevole organizzazione dei Mystery Writers of America lo insignì nel 1995 del titolo di Gran Maestro. Molti dei suoi romanzi ebbero vita proprio fuori dalle pagine del libro, per essere o portati sullo schermo del cinema (con l'unico vero successo de Un bacio, una pistola, per la regia di Robert Aldrich), oppure letti alla radio o ridotti per la televisione o, infine, da lui sceneggiati per serie a fumetti.
Si vantava di essere l'autore più tradotto al mondo dopo Lenin, Tolstoj, Gor'kij e Verne (con la differenza che loro erano morti), e di non avere ammiratori ma solo clienti. Non fece della sua arte un titolo di merito ma ammise sempre di scrivere unicamente per guadagnare denaro.
Non fu molto stimato da alcuni suoi colleghi (Chandler, ad esempio, un po' ingenerosamente, lo definì un fumettaro) e la stessa critica non sempre fu benevola con la sua opera.
▪ 2009
- Walter Leland Jr. Cronkite (St. Joseph, Missouri, 4 novembre 1916 – New York, 17 luglio 2009) è stato un giornalista e personaggio televisivo statunitense.
Per vent'anni, dal 1962 al 1981, condusse il telegiornale della CBS, CBS Evening News; fu spesso citato nei sondaggi come "l'uomo più creduto d'America" per l'esperienza e il rigore professionale.
- Leszek Kołakowski (Radom, 23 ottobre 1927 – Oxford, 17 luglio 2009) è stato un filosofo e storico polacco noto soprattutto per l'analisi critica del marxismo, proposta nel saggio Main Currents of Marxism, e per aver vinto il Premio Erasmo nel 1983 e lo Jerusalem Prize nel 2007.
Biografia, opera e pensiero
Nato a Radom, nel Voivodato di Masovia, nel 1927, i studiò regolarmente sino all'invasione nazista della Polonia (1939), con la quale scoppiava la Seconda guerra mondiale. Durante l'occupazione nazista, lesse diversi libri e, occasionalmente, poté studiare con un insegnante privato. Terminata la Guerra, frequentò l'Uniwersytet Łódzki (Università di Łódź) e, successivamente, l'Università di Varsavia, dove si laureò in Filosofia nel 1953 con una tesi su Spinoza. Divenne dunque professore e dal 1959 al 1968 fu docente di Filosofia.
Approfondendo gli studi filosofici sulla Politica e sull'Economia, divenne un convinto comunista e dal 1947 al 1966 fu tra i più attivi e celebri membri del Partito Operaio Unificato Polacco (PZPR). Si recò anche a Mosca, in Unione Sovietica, e lì comprese che il sistema sovietico non rispecchiava la vera morale comunista perché servivano una revisione marxista e un'interpretazione più umana del pensiero di Karl Marx. Per queste dichiarazioni fu espulso dal Partito e perse il proprio lavoro. Kołakowski, nel libro Main Currents of Marxism (1976-1978), ha dichiarato che lo Stalinismo non è un'aberrazione, ma la logica del prodotto finale del marxismo.
Col passare degli anni entrò in maggior contatto con il Cristianesimo e la cultura occidentale, cercando di difendere il Modernismo e il ruolo che svolge nella nostra libertà di perseguire il trascendente. Nel 1968, infatti, era stato "professore in visita" presso la McGill University di Montreal (Canada) e nel 1969 presso la University of California di Berkeley. Nel 1970 è stato assunto come ricercatore dall'University of Oxford, nel Regno Unito, dove è rimasto da allora salvo alcune "trasferte" presso altre prestigiose università.
La Biblioteca del Congresso (Library of Congress) gli ha conferito nel 2003 il Kluge Prize, assegnato all'epoca per la prima volta - l'anno successivo lo hanno vinto Jaroslav Pelikan e Paul Ricoeur. Altro premio illustre conferitogli è il Jerusalem Prize, che tra i suoi vincitori annovera filosofi del calibro di Bertrand Russell e scrittori come Ignazio Silone e Jorge Luis Borges.