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Il calendario del 15 Agosto

Fonte:
CulturaCattolica.it

Eventi

▪ 778 - Battaglia di Roncisvalle: la retroguardia dell'esercito di Carlo Magno è attaccata e sconfitta a Roncisvalle dai Baschi. Nello scontro restano uccisi tre dignitari dei Franchi: Anselmo, Eggiardo e Orlando, duca della Marca di Bretagna, le cui imprese saranno immortalate nella Chanson de Roland

▪ 927 - Distruzione di Taranto: i saraceni guidati dallo slavo Sabir distruggono la città di Taranto, deportando come schiavi in Africa tutti i sopravvissuti

▪ 982- L'imperatore del Sacro Romano Impero, Ottone II viene sconfitto dai saraceni nella battaglia di Capo Colonna, in Calabria

▪ 1067 - Battaglia di Lumphanan: sconfitto e ucciso Macbeth, re di Scozia, da Malcom III alleato degli inglesi

▪ 1096 - Inizia ufficialmente la Prima Crociata. Il vescovo Ademaro de Monteuil è capo spirituale della spedizione in Terrasanta per la quale vengono inviate quattro armate

▪ 1097 - Prima crociata: i crociati giungono a Iconium (oggi Konya, in Turchia), dove sostano per una settimana di riposo prima di riprendere il viaggio verso la Terra Santa per la Prima Crociata

▪ 1248 - Viene posata la prima pietra del Duomo di Colonia, sul luogo dove sorgeva la vecchia cattedrale, distrutta da un incendio il 30 aprile dello stesso anno. La costruzione venne completata 632 anni dopo, nel 1880

▪ 1309 - I Cavalieri di Malta, dopo due anni di assedio, conquistano l'isola di Rodi che scelgono come nuova patria dell'Ordine

▪ 1328 - I Gonzaga prendono il potere nella città di Mantova

▪ 1430 - Francesco Sforza conquista Lucca

▪ 1483 - Roma: papa Sisto IV consacra la Cappella Sistina e la dedica all'Assunta

▪ 1501 - Federico d'Aragona concede alla "fedelissima" città di Ischia il diritto di proprietà sull'intero litorale dell'isola e su una fascia di mezzo miglio di mare

▪ 1517 - Primo legame europeo con la Cina: sette vascelli armati portoghesi, comandati da Fernao Pires de Andrade incontrano degli ufficiali cinesi sull'estuario del Fiume delle perle

▪ 1519 - Fondazione della Città di Panama: Pedrarias Dávila fonda la città di Panama

▪ 1534 - Nella Chiesa di Montmartre a Parigi, Ignazio di Loyola, Francesco Saverio e Pietro Favre pronunciano i voti di povertà, di castità e di peregrinare in Terra Santa. Viene così fondata la Compagnia di Gesù "che ebbe come padre sant'Ignazio di Loyola e come madre Parigi come si legge nella lapide ancora oggi apposta all'esterno di quella chiesa

▪ 1535 - Fondazione di Asuncion (Paraguay) a opera di Juan de Salazar e Gonzalo de Mendoza

▪ 1620 - Dal porto di Plymouth parte la Mayflower, la nave con a bordo William Brandford e il gruppo dei Padri Pellegrini diretti in America del Nord

▪ 1769 - Nasce ad Ajaccio Napoleone Bonaparte

▪ 1799 - Si svolge la battaglia di Novi tra i francesi comandati dal generale Joubert (che morirà in principio di scontro) e gli austro-russi guidati dal feldmaresciallo russo Suvorov. La vittoria austro-russa determina la ritirata generale delle forze francesi presenti in Italia

▪ 1801 - Napoleone I firma un concordato con la Chiesa cattolica nel quale si afferma che "la religione cattolica, apostolica e romana è la religione della maggioranza dei francesi. Il concordato resta in vigore fino al 1905

▪ 1805 - Roma: Simón Bolívar durante il suo viaggio a Roma, si trova a sostare nella zona di Monte Sacro. Qui ascolta commosso il racconto della tragica vicenda dei Tribuni della Plebe e pronuncia il solenne giuramento di consacrare la propria vita alla conquista della libertà per i Paesi dell'America meridionale oppressi dal dominio spagnolo

▪ 1806 - Grazie a Napoleone Bonaparte il Liechtenstein ottiene la propria sovranità

▪ 1812

  1. - Nella Plaza Mayor di Madrid viene solennemente proclamata la Costituzione spagnola, promulgata a Cadice il 19 marzo.
  2. - Entra in uso la prima bandiera nazionale del Paraguay dai colori ispirati al tricolore francese: farà da modello alla bandiera oggi in uso, adottata nel 1842

▪ 1832 - Vaticano: papa Gregorio XVI pubblica la Lettera Enciclica Mirari vos, sulla condanna delle tendenze novatrici all'interno della Chiesa, delle richieste di abolizione del celibato del clero, delle richieste di divorzio, dell'indifferentismo, della libertà di coscienza, della libertà di stampa, della libertà politica come ribellione contro i principi

▪ 1867 - Italia: vengono soppressi gli enti ecclesiastici e messi in liquidazione i loro beni

▪ 1877 - Thomas Edison effettua la prima registrazione sonora - "Mary Had a Little Lamb"

▪ 1914
  1. - Il Canale di Panama apre al traffico con il passaggio della nave da carico statunitense Ancon.
  2. - Prima guerra mondiale: la Prima Armata russa comandata dal generale Pavel Rennenkampf penetra nella Prussia Orientale.
  3. - Prima guerra mondiale: Esce il n.16 di Lacerba a partire dal quale la rivista futurista assume ufficialmente una linea di deciso interventismo rispetto alla guerra

▪ 1915 - Prima guerra mondiale: Il Giappone entra in guerra contro la Germania

▪ 1940 - Seconda guerra mondiale: il vecchio incrociatore posamine greco Helli viene affondato da un sommergibile italiano. L'Italia respinge l'accusa di aver aggredito proditoriamente un paese neutrale

▪ 1943 - Seconda guerra mondiale: il Feldmaresciallo Erwin Rommel è nominato comandante delle truppe tedesche in Italia

▪ 1944
  1. - Seconda guerra mondiale: forze alleate sbarcano in Provenza, nel sud della Francia (Operazione Incudine, Anvil-Dragoon)
  2. - Seconda guerra mondiale: a Bovegno (BS) i nazifascisti passano per le armi 14 persone

▪ 1945
  1. - Seconda guerra mondiale: L'imperatore Hirohito annuncia la resa incondizionata del Giappone ponendo fine alla guerra.
  2. - Seconda guerra mondiale: la Corea viene liberata dopo che il governo dell'Impero giapponese ha accettato i termini di resa dettati dagli Alleati.
  3. - Seconda guerra mondiale: proclamazione d'indipendenza dell'Indonesia dai Paesi Bassi. Achmad Sukarno diventa il primo Presidente

▪ 1947 - L'India e il Pakistan, pur rimanendo associati al Commonwealth, dichiarano l'indipendenza, solennemente proclamata in due cerimonie svoltesi a Nuova Delhi e a Karachi con le quali ha ufficialmente termine il dominio britannico su quelle nazioni e nascono la Repubblica islamica del Pakistan e l'Unione Indiana

▪ 1948 - La Repubblica di Corea viene stabilita a sud del 38º parallelo

▪ 1949 - Nelle prime elezioni democratiche dopo la caduta del nazismo per l'elezione del Bundestag della Germania Federale Tedesca la CDU emerge come il più forte partito

▪ 1954 - Alfredo Stroessner Matiauda prende il potere in Paraguay sostituendosi a Tomás Romero Pereira; resterà presidente e dittatore del paese fino al 3 febbraio 1989

▪ 1960 -
  1. - La Repubblica del Congo (Brazzaville) dichiara l'indipendenza dal Belgio.
  2. - Dopo 82 anni di dominio britannico l'isola di Cipro si proclama indipendente

▪ 1961 - Guerra fredda: l'esercito della Repubblica Democratica tedesca inizia la costruzione del muro di Berlino

▪ 1962 - A Kingston hanno inizio i IX Giochi centramericani e caraibici, con 1559 atleti provenienti da 15 paesi

▪ 1968
  1. - A Città del Messico 40.000 manifestanti protestano contro la repressione in atto nel Paese.
  2. - Il capo di stato della Romania, Nicolae Ceauşescu, si reca in visita a Praga manifestando il proprio sostegno al Nuovo corso. Nell'occasione viene rinnovato il Trattato di cooperazione tra i due Paesi

▪ 1969 - Primo giorno del Festival di Woodstock che riunirà 400.000 spettatori

▪ 1971- Il Presidente statunitense Richard Nixon pone fine alla convertibilità del dollaro statunitense con l'oro (cancellando gli effetti degli accordi sanciti alla Conferenza di Bretton Woods nel 1944).

▪ Il Bahrein conquista l'Indipendenza dal dominio britannico

▪ 1973 - Cessano i bombardamenti statunitensi sulla Cambogia

▪ 1974 - Yook Young-soo, first lady della Corea del Sud, viene assassinata nel corso di un tentativo di uccisione del presidente sudcoreano Park Chung-hee, da parte di una spia nordcoreana, durante la cerimonia dell'anniversario del giorno della liberazione

▪ 1975 - Colpo di stato militare in Bangladesh; il Primo Ministro Mujibur Rahman viene ucciso

▪ 1977
  1. - Roma: Herbert Kappler criminale di guerra nazista fugge dall'ospedale militare del Celio, a Roma, dove si trova ricoverato.
  2. - Ohio: Il radiotelescopio Big Ear, dell'Ohio State University, riceve dallo Spazio un forte segnale che sembra potersi collegare a una intelligenza extraterrestre. Il segnale è denominato wow signal con riferimento al commento scritto lasciato dal tecnico in servizio. L'episodio è rimasto poi senza un seguito

▪ 1988 - Vaticano: papa Giovanni Paolo II pubblica la lettera apostolica Mulieris Dignitatem sulla dignità e vocazione della donna in occasione dell'anno mariano

▪ 1989 - Vaticano: papa Giovanni Paolo II pubblica l'Esortazione apostolica Redemptoris Custos sulla figura e la missione di San Giuseppe nella vita di Cristo e della Chiesa

▪ 1994 - Ilich Ramirez Sanchez, il terrorista noto come "Carlos", viene catturato

▪ 1997 - Papa Giovanni paolo II pubblica la lettera apostolica Laetamur Magnopere con la quale viene promulgato in modo ufficiale il Catechismo della Chiesa Cattolica

▪ 1998
  1. - Una bomba della Real IRA a Omagh in Irlanda del Nord causa 29 morti
  2. - Paraguay: Raúl Cubas Grau diviene presidente della Repubblica succedendo a Juan Carlos Wasmosy

▪ 2000 - Iniziano a Roma le celebrazioni della Giornata mondiale della Gioventù

▪ 2001 - Alla luce delle annunciate proteste anti-globalizzazione e nel timore di violenze come quelle di Genova, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale abbreviano le riunioni autunnali del 2001 a Washington

▪ 2004 - Venezuela: gli elettori venezuelani tramite referendum respingono la proposta di revoca del mandato del presidente Hugo Chavez: il risultato vede il 59,2% dei contrari alla revoca affermarsi sul 40,74% dei favorevoli.

▪ 2005
  1. - Scosse di terremoto a Roma e Catania.
  2. - Sgombero dei coloni israeliani dalla Striscia di Gaza

▪ 2006 - i Queen annunciano che torneranno ad incidere

▪ 2007 - 2007, una fortissima scossa di terremoto 7,9 colpisce il centro sud del Perù, causando decine di morti e lasciando senza tetto migliaia di persone specialmente nelle città di Pisco, Ica e Chincha.

▪ 2009 - Il passaggio del tifone Morakot sull'isola di Taiwan provoca centinaia di vittime.

▪ 2009- i sette comuni di Casteldelci, Maiolo, Talamello, San Leo, Pennabilli, Sant'Agata Feltria e Novafeltria passano dalla regione Marche provincia di Pesaro-Urbino alla regione Emilia-Romagna provincia di Rimini, questo è il primo caso in Italia

Anniversari

▪ 1038 - Stefano I d'Ungheria, o santo Stefano d'Ungheria (ungherese: István király, "re Stefano", o Szent István, "santo Stefano"; Strigonio, 969 – 15 agosto 1038), venerato come santo dalla Chiesa cattolica e ortodossa, è stato il primo re ungherese, fondatore dello Stato e della Chiesa ungheresi. Il luogo della morte è incerto, Székesfehérvár, Szentkirály (Esztergom) o Buda, secondo le varie fonti.
In suo ricordo, nel 1764, l'imperatrice Maria Teresa, che era anche regina d'Ungheria, istituì l'Ordine Reale di Santo Stefano d'Ungheria.
Figlio del capotribù magiaro Géza, ancora essenzialmente pagano (sua madre era pecenega, uno dei vari popoli di lingua "turca"), e di Sarolta, figlia di Gyula, reggente della Transilvania, nacque nella città di Strigonio (Esztergom). Alla nascita ebbe il nome di Vajk (la cui radice, di origine turca[senza fonte], in ungherese riconduce al significato di burro, quindi ricco), ma all'età di 10 anni, gli venne imposto un nuovo nome cristiano, Stefano (in onore del protomartire santo Stefano, patrono della chiesa di Passavia), al momento del battesimo, prerequisito per l'accettazione della corona giunta da Roma per il tramite di Adalberto di Praga.
Secondo lo storico Gyula László, sostenitore in passato anche della teoria della "doppia conquista della patria", Stefano sarebbe appartenuto ad una etnia turca (e avrebbe quindi parlato anche una lingua turca).
Intorno al 995 sposò Gisella di Baviera, figlia di Enrico II il litigioso e di Gisella di Borgogna. Stefano e Gisella ebbero almeno tre figli: due maschi, Imre (poi canonizzato come sant'Emerico) e Otto, e una femmina, Edvige. Stefano sopravvisse a tutti i suoi figli.
Tra il 995 e il 997, Stefano (che si faceva ancora chiamare "Vajk") fu principe di Nitra (nell'odierna Slovacchia).
Stefano riuscì ad imporre la propria supremazia su tutti gli altri nobili magiari, primo fra tutti suo zio Koppány, potente guerriero e secondo la tradizione erede legittimo di Géza, che era rimasto pagano. La vittoria di Stefano su Koppány fu possibile anche grazie ai rinforzi dati dai Germani. In quell'occasione Stefano, solitamente mite, mostrò la sua ferocia, facendo squartare lo zio sconfitto. Stefano divenne principe degli Ungheresi in Transdanubia nel 997, alla morte del padre e riuscì a portare a compimento l'unificazione, sotto di sé, di praticamente tutte le tribù ungheresi nel 1006. La tradizione ungherese vuole che Stefano sia stato elevato al rango di re il 20 agosto 1000. Per l'occasione papa Silvestro II inviò a Stefano una magnifica corona d'oro e pietre preziose, accompagnadola con la croce apostolica ed una lettera di benedizione, riconoscendo così ufficialmente Stefano come il re cristiano d'Ungheria. L'incoronazione ebbe luogo il 1 gennaio 1001, (altre fonti datano l'evento al Natale del 1000). L'ascesa al rango reale furono anche favoriti dall'imperatore Ottone III del Sacro Romano Impero nel suo disegno di costituzione di un grande impero cristiano.
Stefano avrebbe voluto abdicare per ritirarsi ad una vita di contemplazione spirituale affidando il regno nelle mani dell'unico figlio ancora vivente, Imre, tuttavia nel 1031 questi venne ferito a morte in un incidente di caccia. Dall'elogio funebre per il figlio:
«Per un imperscrutabile disegno divino la morte lo ha preso,
così che la malvagità non possa corromperne l'anima
e che ingannevoli pensieri non possano deviarne la mente –
come il Libro della Sapienza insegna per le morti premature.» (Stefano I d'Ungheria)
Portò il lutto per la morte del figlio Imre (che era il principe ereditario e, per quanto si sa, l'unico dei tre figli ad aver raggiunto l'età adulta) per moltissimo tempo, il che finì per influire negativamente sulla salute di Stefano. Quando si riprese, non riuscì più a tornare al precedente vigore. Senza più figli, non gli riuscì neppure di trovare tra i suoi consanguinei qualcuno che fosse contemporaneamente in grado di governare con capacità il paese e desideroso di preservare la fede cristiana nel regno. Senza aver scelto un erede, Stefano morì ad Albareale (Székesfehérvár) (una città da lui fondata nell'Ungheria centrale) nel giorno della festa dell'Assunta e là fu sepolto.
Non essendovi discendenti diretti a reclamare il trono alla sua morte, avvenuta nel 1038, il nipote Pietro Orseolo (suo erede nominato, figlio di Maria, sorella di Stefano, e del doge di Venezia Ottone) e il cognato Samuele Aba (marito della sorella minore di Stefano) si contesero la corona. Seguirono nove anni di instabilità finché il cugino di Stefano, Andrea I venne incoronato re d'Ungheria nel 1047.

Il governo
Stefano suddivise l'Ungheria in 40-50 unità amministrative e continuò l'opera del padre applicando il sistema di organizzazione decimale. Organizzò l'Ungheria in dieci diocesi, imponendo che ogni dieci villaggi fosse eretta una chiesa il cui parroco era mantenuto a spese dei villaggi medesimi. A Stefano si debbono le cattedrali di Albareale e di Strigonio, il convento di Veszprém, l'abbazia benedettina di Pannonhalma (oggi riconosciuta come patrimonio dell'umanità dall'UNESCO) e il monastero dei Santi Pietro e Paolo ad Óbuda. All'interno delle abbazie e dei monasteri trovarono sede le scuole che presto divennero importanti centri culturali. Alla corte di Stefano operarono, tra gli altri, sant'Astrico come consigliere e san Gerardo Sagredo come tutore per il figlio Imre.
Stefano contrastò le usanze pagane, mise fine all'ancestrale nomadismo degli Ungari, e favorì la diffusione del Cristianesimo con numerose leggi, tra cui quella che aboliva l'antico alfabeto runico magiaro e rendeva il latino lingua ufficiale. Stefano « proibì i riti tradizionali e il culto degli idoli, fondò monasteri ed episcopati e cristianizzò interamente il sistema politico e la struttura della società»; fece inoltre generose offerte alle chiese, visitandole spesso di persona e sovraintendendo alla loro costruzione. Per compiere il suo disegno di cristianizzazione dell'Ungheria, «non si fece scrupolo di ricorrere a battesimi forzati». Secondo la tradizione devozionale, non di rado si travestiva da contadino quando era in viaggio ed offriva denaro ai poveri che incontrava; in un'occasione, sempre secondo la leggenda, venne picchiato e derubato da un gruppo di questuanti a cui stava versando un obolo, tuttavia li perdonò e risparmiò loro la vita.
Invitò all'apertura verso gli stranieri e - diremmo oggi - al multiculturalismo, infatti, nei suoi avvertimenti al figlio Imre, così scriveva:
«Gli ospiti e gli stranieri devono occupare un posto nel tuo regno. Accoglili bene e accetta i lavori e le armi che possono recarti; non aver paura delle novità; esse possono servire alla grandezza e alla gloria della tua corte. Lascia agli stranieri la loro lingua e le loro abitudini, giacché il regno che possiede una sola lingua e da per tutto i medesimi costumi è debole e caduco ("unius linguae, uniusque moris regnum imbecille et fragile est"). Non mancare giammai di equità né di bontà verso coloro che sono venuti a stabilirsi qui, trattali con benevolenza, affinché essi si trovino meglio presso di te che in qualsiasi altro paese.» (Stefano I d'Ungheria)

Il culto - La canonizzazione
Poco dopo la morte di Stefano, iniziarono le segnalazioni di miracoli di guarigione che sarebbero accaduti nei pressi della sua tomba. Stefano venne canonizzato da papa Gregorio VII nel 1083 come santo Stefano d'Ungheria. I cristiani lo venerano come santo patrono d'Ungheria, dei re, dei morti prematuri, dei lavoratori edili, degli scalpellini e dei muratori. La sua festa liturgica ricorre il 20 agosto, giorno in cui le sue spoglie furono trasferite a Buda, ma anche il giorno in cui sarebbe stato eletto re. Questo giorno in Ungheria è festa nazionale.
Nel 2000 Stefano è stato canonizzato anche dalla Chiesa ortodossa, primo nuovo santo ad essere dichiarato tale da Cattolici e Ortodossi dopo lo scisma delle due chiese.

Le reliquie
La principale reliquia è la mano destra (o, per i devoti, "la sacra destra") che viene portata in processione in occasione della festa del 20 agosto. La storia della mano destra ebbe inizio quando un monaco la trafugò nel proprio monastero, dopo averla amputata e sottratta dalla tomba di pietra in cui le spoglie del re erano state trasferite per maggiore sicurezza durante il periodo di rivolte seguito alla sua morte. Durante il periodo di dominazione turca si persero le tracce della mano. Secoli dopo venne ritrovata nella città dalmata di Ragusa, e poté tornare in Ungheria grazie all'imperatrice Maria Teresa che la affidò ad un convento. In seguito fu traslata nella basilica di Santo Stefano a Budapest, dove ancora oggi è custodita.
Frammenti ossei sono custoditi in numerose chiese ungheresi.

La corona
Secondo alcuni sarebbe infondata la tradizione che identifica la corona ricevuta a Roma con la corona di Santo Stefano (o sacra corona d'Ungheria) oggi custodita nel parlamento ungherese[senza fonte]. Secondo questa teoria, sul letto di morte Stefano affidò la nazione alla Vergine Maria dichiarandola patrona dell'Ungheria e al fine di rappresentarne la devota sottomissione rimandò la corona a Roma. La corona rimase custodita nei sotterranei del Vaticano fino all'inizio del XVI secolo quando se ne perse definitivamente traccia. A rafforzare l'interpretazione che le due corone siano oggetti distinti, vi è sia il fatto che si hanno notizie sull'uso dell'altra corona solo a partire dal XIII secolo, sia la fattura di quest'ultima non esattamente in linea con i canoni sacri (la croce che sormonta la corona é fissata con un chiodo che trafigge la figura del Cristo e gli apostoli non sono disposti nel corretto ordine). A questa disputa non sarebbero nemmeno estranee ragioni politiche, in quanto, secondo un'antica legge ungherese, è re colui che possiede fisicamente la corona.
La parte più antica della corona conservata a Budapest, probabilmente di fabbricazione bizantina, fu donata dall'imperatore romano d'Oriente "al nostro fedele alleato Géza, re di Turchia", come recita la scritta in greco che sta sulla corona stessa (da notare che per lungo tempo l'Ungheria venne anche chiamata "Turchia")

Riconoscimenti
Considerato un eroe nazionale ungherese una sua statua è stata posta nel colonnato della Piazza degli Eroi in Budapest.

▪ 1799 - L'abate Giuseppe Parini (Bosisio, 23 maggio 1729 – Milano, 15 agosto 1799) è stato un poeta, librettista e traduttore italiano. Membro dell'Accademia dell'Arcadia, fu uno dei massimi esponenti del Neoclassicismo e dell'Illuminismo italiano.

▪ 1936 - Grazia Deledda nome completo Maria Grazia Cosima Deledda (Nuoro, 27 settembre 1871 – Roma, 15 agosto 1936) è stata una scrittrice italiana, nata in Sardegna e vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1926.
Nacque a Nuoro, penultima di sei figli, in una famiglia benestante. Il padre, Giovanni Antonio, era un imprenditore e agiato possidente, fu poeta improvvisatore e sindaco di Nuoro nel 1892; la madre, Francesca Cambosu, era una donna religiosissima e allevò i figli con estremo rigore morale. Dopo aver frequentato le scuole elementari venne seguita privatamente da un professore ospite di una sua parente che le impartì lezioni di italiano, latino e francese; i costumi del tempo non consentivano alle ragazze una istruzione completa oltre quella primaria e in generale degli studi regolari. Successivamente approfondì, da autodidatta, gli studi letterari. Importante per la formazione letteraria di Grazia Deledda, nei primi anni della sua carriera da scrittrice, fu l'amicizia con lo scrittore sassarese Enrico Costa che per primo ne comprese il talento.
Esordì come scrittrice con alcuni racconti pubblicati sulla rivista "L'ultima moda" quando affiancava ancora alla sua opera narrativa quella poetica.
Nell'azzurro, pubblicato da Trevisani nel 1890 può considerarsi la sua opera d'esordio. Ancora in bilico tra l'esercizio poetico e quello narrativo si ricorda, tra le prime opere, Paesaggi edito da Speirani nel 1896.
Nel 1900, sposò Palmiro Madesani, funzionario del Ministero delle Finanze conosciuto a Cagliari nell'ottobre del 1899 la scrittrice si trasferì a Roma e in seguito alla pubblicazione di Anime oneste del 1895 e di Il vecchio della montagna del 1900, oltre alla collaborazione sulle riviste "La Sardegna", "Piccola rivista" e "Nuova Antologia", la critica inizia ad interessarsi alle sue opere, che vantano prefazioni di nomi quali Ruggero Bonghi e Luigi Capuana.
Nel 1903 pubblica Elias Portolu che la conferma come scrittrice e la avvia ad una fortunata serie di romanzi e opere teatrali: Cenere (1904), L'edera (1908), Sino al confine (1911), Colombi e sparvieri (1912), Canne al vento (1913), L'incendio nell'oliveto (1918), Il Dio dei venti (1922). Da Cenere fu tratto un film interpretato da Eleonora Duse.
La sua opera fu stimata da Capuana e Verga oltre che da scrittori più giovani come Enrico Thovez, Pietro Pancrazi e Renato Serra. La sua casa natale, nel centro storico di Nuoro (Santu Predu), è adibita a museo. Grazia Deledda fu anche traduttrice, sua infatti una versione di Eugénie Grandet di Honoré de Balzac.

Poetica
La narrativa della Deledda si basa su forti vicende d'amore, di dolore e di morte sulle quali aleggia il senso del peccato, della colpa, e la coscienza di una inevitabile fatalità.
È stata ipotizzata una somiglianza con il verismo di Giovanni Verga ma, a volte, anche con il decadentismo di Gabriele D'Annunzio, oltre alla scrittura di Lev Nikolaevič Tolstoj e di Honoré de Balzac di cui tra l'altro la Deledda tradusse in italiano l'Eugenia Grandet. Tuttavia la Deledda esprime una scrittura personale che affonda le sue radici nella conoscenza della cultura e della tradizione sarda, in particolare della Barbagia.
«Intendo ricordare la Sardegna della mia fanciullezza, ma soprattutto la saggezza profonda ed autentica, il modo di pensare e di vivere, quasi religioso di certi vecchi pastori e contadini sardi (...) nonostante la loro assoluta mancanza di cultura, fa credere ad una abitudine atavica di pensiero e di contemplazione superiore della vita e delle cose di là della vita. Da alcuni di questi vecchi ho appreso verità e cognizioni che nessun libro mi ha rivelato più limpide e consolanti. Sono le grandi verità fondamentali che i primi abitatori della terra dovettero scavare da loro stessi, maestri e scolari a un tempo, al cospetto dei grandiosi arcani della natura e del cuore umano...» (Discoteca di Stato: parole registrate nella serie "La Voce dei Grandi", anche in "Il Convegno", Omaggio alla Deledda (N. Valle), 1959.)
La critica in generale tende a incasellare la sua opera di volta in volta in questo o in quell'-ismo: regionalismo, verismo, decadentismo... Altri critici invece preferiscono riconoscerle, com'è dovuto ai grandi autori, l'originalità della sua poetica: per quanto ben inserita nel contesto del Novecento europeo, essa tutto sfiora, senza a niente appartenere. Nonostante la grande autrice abbia scritto in italiano si potrebbe tuttavia dire che appartiene alla letteratura sarda.
Il sapore vagamente verista della sua produzione le procurò le antipatie degli abitanti di Nuoro, in cui le storie erano ambientate. I suoi concittadini erano infatti dell'opinione che descrivesse la Sardegna come terra grezza ed arretrata. In realtà non era intenzione della Deledda assumersi un impegno sociale come quello che spesso caratterizzò il Verismo.

La Deledda e la critica
Il primo a dedicare a Grazia Deledda una monografia critica a metà degli anni trenta fu Francesco Bruno. Nella storia letteraria di Attilio Momigliano, in quella di Francesco Flora e in quella di Natalino Sapegno, negli anni quaranta-cinquanta, probabilmente ancora sessanta, nelle storie e nelle antologie scolastiche della letteratura italiana, la presenza della Deledda aveva grande rilievo critico e numerose pagine antologizzate, specialmente dalle novelle. In una antologia, di Sapegno per il ginnasio, era pubblicato uno dei suoi capolavori: la novella di Cristo mietitore.
E tuttavia i critici si trovavano in difficoltà nel collocarla storicamente tra Verismo o Decadentismo. La sua opera finiva per non collimare mai né coi loro parametri né sulla "carta millimetrata del Novecento". Si pretese di giudicarla sulla base di schemi che non superavano la barriera del Naturalismo e di una teoria della lingua e dell'arte che non poteva comprendere la complessità del sistema letterario in Sardegna. Probabilmente devono essere state queste le ragioni, insieme alla concezione dell'arte come rispecchiamento della realtà, che ne determinarono l'eclissi, presso i critici, non presso il grande pubblico.
E tuttavia le spetta indubbiamente un posto da comprimaria nel primo novecento, insieme a Pirandello, anche lui Premio Nobel, a distanza di appena dieci anni:
«Per la sua ispirazione idealistica, scritta con raffigurazioni di plastica chiarezza della vita della sua isola nativa, con profonda comprensione degli umani problemi» (Motivazione del Premio Nobel)
I critici italiani giudicavano in ogni caso la sua opera astrusa e cerebrale. E proprio Pirandello, anche lui del gruppo della Nuova Antologia, nutriva rispetto e considerazione per la Deledda, ne intuiva il talento, capiva che scriveva per rappresentare l'essenza della vita nella sua tragicità. Come i veri, grandi narratori, quelli russi in particolare.
I primi a non comprendere la Deledda furono tuttavia i suoi conterranei, escludendo naturalmente quei pochi, che la compresero subito: Ruju, Biasi e altri che facevano parte di quel clima. Molti degli intellettuali sardi del suo tempo si sentirono traditi e non accettarono la sua operazione letteraria.
L'attività di Grazia Deledda nell'ambiente dei pittori della Secessione nell'arte e della Secessione romana è una questione poco indagata nel Novecento. Il rapporto tra la Deledda del periodo romano e gli artisti suoi contemporanei resta legata tanto all'immagine etnografica, quanto alle domande importanti sull'arte in generale che i movimenti della Secessione ponevano sia in pittura che in letteratura. Quella poca attenzione per il versante pittorico-letterario ha spinto i critici a lasciare che la Deledda, restasse per abitudine inclusa nella cultura del Verismo. Eppure la Deledda nel periodo romano aveva adeguato la sua formazione ai livelli alti dell'arte europea. Frequentava non solo Plinio Nomellini che la ritrasse in un dipinto, ma anche altri artisti della Secessione romana (Cambellotti, Prini, Antonio Maraini, che curava le Biennali d'arte di Venezia, Dazzi, Viani, i Cascella). Il suo interesse per la pittura e per l'arte era autentico, si teneva al corrente delle esposizioni, scriveva i testi per le presentazioni di mostre. Abitava, insieme ad altri artisti e giornalisti, in un quartiere sulla Nomentana dove aveva il suo grande studio Ettore Ximenes, scultore di gruppi marmorei dell'Altare della Patria.

Lingua e stile
Molte considerazioni suscitano ancora oggi le scelte stilistiche che riguardano più direttamente la lingua e i linguaggi nella prosa narrativa di Grazia Deledda. È stata la stessa Deledda a chiarire più volte, nelle interviste e nelle lettere, la distanza tra la cultura e la civiltà sarda e la cultura e la civiltà italiana. Ma anche questo suo parlare liberamente del proprio stile e delle proprie lingue ha suscitato e suscita soprattutto oggi interpretazioni fuorvianti, e tuttavia ripropone senza posa l'intenso rapporto tra civiltà-cultura-lingua come una equazione mal risolta.
In una sua lettera scrive: "Leggo relativamente poco, ma cose buone e cerco sempre di migliorare il mio stile. Io scrivo ancora male in italiano - ma anche perché ero abituata al dialetto sardo che è per se stesso una lingua diversa dall'italiana". La lingua italiana è quindi, per lei sardofona, una lingua non sua, una lingua che deve conquistarsi. La composizione in lingua italiana, per uno scrittore che assuma la materia della narrazione dal proprio vissuto e dal proprio universo antropologico sardo, presenta numerose e sostanziali difficoltà e problemi. Né il dibattito recente sul bilinguismo è riuscito ancora a chiarire questo rapporto di doppia identità. Doppia identità per questa specie particolare di bilinguismo, e di diglossia che è stata per secoli la "condizione umana degli scrittori italiani non toscani; ma anche dei toscani, quando non componevano in vernacolo".
L' attività epistolare e autocorrettoria di Grazia Deledda è ben ponderata, cosa che non le impedì di scrivere in lingua italiana questa lettera del 1892 sull'italiano: "Io non riuscirò mai ad avere il dono della buona lingua, ed è vano ogni sforzo della mia volontà". Dall'epistolario e dal suo profilo biografico si evince un distinto senso di noia per quei manuali di "lingua" italiana che avrebbero dovuto insegnarle lo stile e che sarebbero dovuti esserle di aiuto nella formazione della sua cultura letteraria di autodidatta, di contro emerge una grande abitudine alla lettura e una grande ammirazione per i maestri narratori attraverso la lettura dei loro romanzi.
Quella della Deledda era una scrittura moderna che ben si adattava alla narrazione cinematografica, infatti dai suoi romanzi vennero tratti diversi film già nei primi anni Dieci del XX secolo. Nel 1916 il regista Febo Mari aveva iniziato a girare Cenere con l'attrice Eleonora Duse, purtroppo a causa della guerra il film non fu mai concluso.
Nel più recente dibattito sul tema delle identità e culture nel terzo millennio, il filologo sardo Nicola Tanda ha scritto: "la Deledda, agli inizi della sua carriera, aveva la coscienza di trovarsi a un bivio: o impiegare la lingua italiana come se questa lingua fosse stata sempre la sua, rinunciando alla propria identità o tentare di stabilire un ponte tra la propria lingua sarda e quella italiana, come in una traduzione. Comprendendo però che molti di quei valori di quel mondo, di cui avvertiva imminente la crisi, non sarebbero passati nella nuova riformulazione. La presa di coscienza, anche linguistica, della importanza e dell'intraducibilità di quei valori, le consente di recuperare termini e procedimenti formali del fraseggio e della colloquialità sarda che non sempre trovano in italiano l'equivalente e che perciò talora vengono introdotti e tradotti in nota.
Nei dialoghi domina meglio l'ariosità e la vivacità della comunicazione orale, di cui si sforza di riprodurre l'intonazione, di ricalcare l'andamento ritmico. Accetta e usa ciò che è etnolinguisticamente marcato, imprecazioni, ironie antifrastiche, risposte in rima, il repertorio di tradizioni e di usi, già raccolto come materiale etnografico per la Rivista di tradizioni popolari, che ora impiega non più come reperto documentario o decorativo ma come materiale estetico orientato alla produzione di senso. Un'operazione tendenzialmente espressionistica che la prosa italiana, malata di accademismo con predilezione per la forma aulica, si apprestava a compiere, per ricavarne nuova linfa, tentando sortite in direzione del plurilinguismo o verso il dialetto."
La Deledda, mettendo in comunicazione due sistemi linguistici e letterari diversi, inaugura una nuova, grande stagione narrativa. Di questa partecipano grandi scrittori che, pur appartenendo a piccole comunità locali, riescono a stabilire una comunicazione con il resto del mondo. Sono quegli scrittori che non accettando l'omologazione ma mantenendo fortissima l'appartenenza alla cultura originaria, valorizzano la propria lingua non come un dialetto di ambiente domestico ma come un veicolo di conoscenza e di elevazione culturale. La lingua sarda è per Grazia Deledda condicio sine qua non per la nuova scrittura in italiano, è coscienza della propria lingua, è conoscenza del mondo, è percezione e anima perché è la lingua della madre: la lingua materna.

La Deledda e i narratori russi
È noto che la giovanissima Grazia Deledda, quando ancora collaborava alle riviste di moda, si rese conto della distanza che esisteva tra la stucchevole prosa in lingua italiana di quei giornali e la sua esigenza di donna sardofona di impiegare una lingua italiana più vicina alla realtà antropologica della società dalla quale proveniva. Si era proposta perciò di costruire una letteratura sarda, cioè una letteratura sarda anche in lingua italiana che rispondesse a quello sguardo antropologico col quale gli scrittori guardavano il loro popolo e costruivano le grandi letterature nazionali.
E gli anni degli inizi della Deledda erano già quelli nei quali gli scrittori di nazioni più piccole e minoritarie si adattavano a creare un ponte, un diasistema tra il sistema linguistico e letterario dal quale provenivano e il sistema letterario alto e nobile di arrivo delle grandi letterature europee. Essi, come del resto avevano fatto i grandi scrittori russi lungo il Settecento, volevano trasferire l’universo antropologico dei loro popoli in una scrittura russa profondamente influenzata da ormai quasi due secoli di europeizzazione. La Sardegna, tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento, tenta come l’Irlanda di Oscar Wilde, di Joyce, di Yeats o la Polonia di Conrad, un dialogo alla pari con le grandi letterature europee e soprattutto con la grande letteratura russa.
La popolarità degli scrittori russi in Italia e in Sardegna alla fine dell'Ottocento è ben documentata e non ha bisogno di conferme. In materia di comparazioni la Sardegna rappresenta certamente un caso singolare e per la recente comparsa nella letteratura della Nuova Italia dopo i quattro secoli di appartenenza all’universo della letteratura iberica e anche per la scelta della letteratura di un popolo come quello russo antropologicamente più affine a quello sardo. È questa la singolarità dalla quale si deve partire se si vuole dare senso retrospettivo ad entrambi i termini del paragone. Nella sua immaginazione di un progetto letterario narrativo, in lingua italiana la Deledda si prepara a riprodurre un modello esterno collaudato, ma distante e perciò spesso inafferrabile, per riconoscere una propria identità. È probabilmente questa una tra le spiegazioni per rendere conto della difficoltà che i critici hanno riscontrato nel volerla collocare. Poco inquadrabile e maneggevole secondo il canone corrente e quindi poco studiata e poco compresa sia in Russia, sia in Italia.
Eppure il mondo ad est, raramente nominato, veniva visto in modo astratto come un mondo letterario immenso - modello narrativo del grande romanzo dell'Ottocento -, il quale si incontra e si materializza nell'isola insieme a quello francese e inglese, ma che viene ancora oggi stranamente allineato, nell'immaginario collettivo e nella critica con la gallomania, l'anglofilia e la germanofilia degli scrittori italiani.
Ritornando ai rapporti tra la Sardegna e la Russia di cui si è fatto cenno e all'immaginario letterario, bisogna dire che aveva trovato consistenza nelle Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna di Grazia Deledda. Quelle pagine recano, nell'epigrafe, le parole di Tolstoj: «Le espressioni popolari usate sole non hanno alcun valore, ma collocate a proposito colpiscono per la loro profonda saggezza. Leone Tolstoj».
Nicola Tanda nel saggio, La Sardegna di Canne al vento scrive che, in quell’opera della Deledda, le parole evocano memorie tolstojane e dostoevskiane, parole che possono essere estese a tutta l'opera narrativa deleddiana: «L'intero romanzo è una celebrazione del libero arbitrio. Della libertà di compiere il male, ma anche di realizzare il bene, soprattutto quando si ha esperienza della grande capacità che il male ha di comunicare angoscia. Il protagonista che ha commesso il male non consente col male, compie un viaggio, doloroso, mortificante, ma anche pieno di gioia nella speranza di realizzare il bene, che resta la sola ragione in grado di rendere accettabile la vita».
L'opera deleddiana, sulle prime, sembrerebbe porre una equazione che potrebbe imparentare la Sardegna e la Russia, la cultura rurale e contadina russa (quella dei possidenti terrieri che erano proprietari e amministratori di villaggi e dei loro contadini che venivano contati in anime) e in lingua russa, isolata ad Est, entra velocemente in meno di cento anni nel sistema letterario europeo attraverso un processo di occidentalizzazione che viene definito: europeizzazione e modernizzazione. Pietroburgo, la città edificata dagli architetti italiani, dichiara l’accettazione di un modello e di una rappresentazione dell'Occidente che, in meno di cinquant'anni determina l’istituzione di Università, giornali, teatri, editoria, tecnologia e una lingua letteraria moderna. La nuova creatività letteraria non è nata solo da questo processo di modernizzazione perché parla la lingua della poesia che era del neoclassicismo settecentesco e ottocentesco in un russo appena formalizzato.
Negli anni di apprendistato letterario di Grazia Deledda la lingua letteraria russa, sia pure tradotta, che arriva ad Occidente e in Italia non è più la lingua della poesia classicista ma è quella lingua (romantica) che si è impiantata e diffusa agli inizi dell'Ottocento e che prepara già in prosa la voce del grande romanzo russo. Il romanzo della seconda metà dell'Ottocento che ha trasformato però ogni cosa, celebra la nascita di una corrente di pensiero nuova che secondo la definizione della critica letteraria russa contemporanea viene chiamata: corrente tolstojana. Ma questa conserva già, rispetto alla narrativa occidentale, lo sguardo antropologico che ricorda i saperi del popolo russo e del suo rapporto con la natura e con le stagioni.
La lingua attraverso la quale Grazia Deledda entra in contatto con la letteratura russa è l'italiano. La lingua italiana domina nel processo di acculturazione unitaria della Nuova Italia. Questa lingua rappresentava un limite e produceva distorsioni del messaggio, intanto perché dovendo lei sardofona tradurre dal sardo la metteva di fronte ad una alternativa, o quella che avrebbe potuto allontanarla nel tradurre dal suo universo antropologico oppure quella che avrebbe potuto, al contrario, offrirle la soluzione. Ed era in fondo quella impiegata già dagli scrittori russi nel tradurre nella lingua russa l’universo antropologico delle lingue dei loro popoli.
Negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, quelli in cui la scrittrice si dedica alla ricerca di un proprio stile, concentra la sua attenzione, sull'opera e sul pensiero di Tolstoj. Ed è questo incontro che sembra aiutarla a precisare sempre meglio le sue predilezioni letterarie. In una lettera in cui comunicava il progetto di pubblicare una raccolta di novelle da dedicare a Tolstoj, Deledda scriveva: «Ai primi del 1899 uscirà La giustizia: e poi ho combinato con la casa Cogliati di Milano per un volume di novelle che dedicherò a Leone Tolstoi: avranno una prefazione scritta in francese da un illustre scrittore russo, che farà un breve studio di comparazione fra i costumi sardi e i costumi russi, così stranamente rassomiglianti». La relazione tra la Deledda e i russi è ricca e profonda, e non è legata solo a Tolstoj ma si inoltra nel mondo complesso degli altri contemporanei: Gor'kij, Anton Čechov e quelli del passato più recente, Gogol', Dostoevskij e Turgenev.
La lettura dei russi trova la Deledda predisposta già dal suo intento letterario narrativo a trovare conferma che anche la Sardegna (così come avevano fatto i russi con la lingua e la tradizione orale russa in meno di un secolo) potesse entrare nella circolazione letteraria nazionale ed europea. Dalle sue lettere si ricavano i fili di un ordito che lei tesse pazientemente in ogni luogo o occasione in cui può aprirsi uno spiraglio per introdurre le sue opere che veramente hanno già in sé una straordinaria vocazione europea. Una voce nuova come era stata quella degli scrittori russi, quella degli scrittori di frontiera che doveva poi esplodere nel Novecento.
I russi per Grazia Deledda sono solo un esempio, ma sono un esempio determinante. Essi vengono percepiti ovunque la scrittrice dia corpo e animazione a dei personaggi, che sono tragicamente turbati da una realtà oggettiva nella quale si realizzano il bene e il male, il delitto e il castigo, nella quale il travaglio generazionale tra padri e figli diventa materia narrativa, e il conflitto tra il vecchio e il nuovo, tra la tradizione e il progresso produce degli eroi che appaiono ancora oggi vivi e inquietanti. I russi sono solo un esempio un modello inimitabile. La sostanza, gli arredi, il contenuto antropologico, il paesaggio e la storia, la psicologia, i linguaggi degli eroi nei suoi romanzi sono un affare della propria casa ed essi non si possono né imitare, né mutuare.

Riconoscimenti
Le è stato dedicato un cratere di 32 km di diametro sul pianeta Venere. Un traghetto porta il suo nome, Deledda. Il compositore nuorese Ignazio Pes le ha dedicato varie composizioni vocali e strumentali, ispirate ad alcuni romanzi e poesie.

▪ 1952 - Armida Barelli (Milano, 1 dicembre 1882 – Marzio, 15 agosto 1952) è stata una attivista italiana, cofondatrice dell'Università Cattolica del Sacro Cuore e considerata venerabile dalla Chiesa cattolica.
Nata da una famiglia della borghesia milanese, si avvicina alla religione in età scolare, nel collegio svizzero dove studia per cinque anni. Sceglie di dedicarsi ai ragazzi abbandonati e poveri, rinunciando a creare una propria famiglia. Tra le persone importanti del suo cammino spirituale, c’è Padre Agostino Gemelli.

La fondazione dell'Università Cattolica
Nel 1921, mentre ricopre la carica di amministratore unico dell’Editrice “Vita e Pensiero”, raccoglie da Giuseppe Toniolo (figura storica del movimento cattolico italiano), l'impegno di fondare, insieme a padre Gemelli, Francesco Olgiati e Ludovico Necchi, "una Università dei cattolici italiani". Dopo soli tre anni vengono aperte a Milano le prime due facoltà (Scienze sociali e Filosofia) dell'Università Cattolica del Sacro Cuore.
Armida Barelli è la tesoriera dell'Università; ed è lei a fondare, nel 1924, la prima «Giornata universitaria», volta alla raccolta fondi per l'ateneo.

Impegno ecclesiale
Armida Barelli si è sempre profondamente impegnata per l’affermazione dei diritti delle donne e per lo sviluppo di politiche per il lavoro e la formazione.
Nel 1910 conosce padre Agostino Gemelli, che la convince ad entrare, nello stesso anno, nel Terz'ordine Francescano.
Il 17 febbraio del 1917 fonda la Gioventù Femminile Cattolica Milanese, analoga a quella maschile già esistente, con il sostegno del Cardinale Ferrari.
Su scelta di Papa Benedetto XV, nel 1918 la Barelli diviene Presidente Nazionale della Gioventù Femminile, con il compito di diffondere il movimento in tutte le diocesi italiane.
Nel 1919, ad Assisi, fonda, insieme a padre Gemelli, un Pio sodalizio, le Terziarie Francescane del Regno Sociale del Sacro Cuore, che diventerà l’ Istituto Secolare delle Missionarie della Regalità di Nostro Signore Gesù Cristo, di ispirazione francescana, che oggi conta circa 2400 consacrate. L'Istituto rappresentava una decisa novità. Infatti, nel 1889, con l'Ecclesia Cattolica di papa Leone XIII, erano state ufficialmente riconosciute "pie unione" di laici consacrati non legate ad ordini religiosi, ma solo nel 1947, con la Provida Mater Ecclesia di papa Pio XII, verranno creati gli Istituti secolari.
Nel 1922 fondò, con la Gioventù Femminile, in Cina settentrionale l' Istituto Benedetto XV, con il compito di assicurare una dote alle fanciulle cinesi povere che avevano la vocazione religiosa, per aprire un orfanotrofio ed un dispensario per i poveri. Dall'Istituto nasceranno le Terziarie Francescane del Sacro Cuore - Benedetto XV.
Nel 1929 fonda, sempre con il Gemelli, l' Opera della Regalità, con il compito di avvicinare il laicato cattolico alla liturgia. L'importanza di quest'iniziativa va colta nel fatto che si era ben lontani dal clima del Concilio Vaticano II e, quindi, ai laici era riconosciuto pochissimo spazio nell'azione liturgica della Chiesa.
Nel 1946 è nominata Vice Presidente generale dell’Azione Cattolica per un triennio, da Papa Pio XII.
Dal 1920 al 1950, gira, nonostante l'ostilità del regime fascista, l’Italia per promuovere la Gioventù Femminile, che arriverà a contanre 1.500.000 iscritte, organizzando Convegni, Pellegrinaggi e Settimane Sociali.
Nel 1946 è in prima linea nella battaglia per il voto alle donne. Nel frattempo, le sue fondazioni, tese a valorizzare e promuovere la personalità della donna, si estendono anche in Venezuela, Australia, Bulgaria, Stati Uniti d'America, Cina.
Nel 1948 si impegna nella campagna elettorale a favore della DC, per impedire la vittoria dei social-comunisti del Fronte Democratico Popolare.

La malattia
Dal 1949, nella lunga infermità (soffre di paralisi bulbare) vive in spirito di penitenza, nella preghiera e nell’offerta, in particolare, per la costruzione della Facoltà di Medicina e del Policlinico Gemelli di Roma.
«Accetto la morte, quella qualsiasi che il Signore vorrà, in piena adesione al volere divino, come ultima suprema prova d’amore al Sacro Cuore, di cui mi sono fidata in vita e voglio fidarmi in morte; e come ultima suprema preghiera per ciò che nella mia vita fu il sogno costante: l’avvento del Regno di Cristo quaggiù»

Culto
Il 17 luglio 1970 la Curia arcivescovile di Milano ha aperto il processo diocesano per la sua beatificazione, che dopo la conclusione, prosegue a Roma presso la Congregazione competente.
Il 1 giugno 2007 è stata dichiarata venerabile da papa Benedetto XVI che ha autorizzato il decreto di promulgazione delle sue virtù eroiche.
Riconoscimenti
▪ Cavalese, le ha dedicato il centro di formazione professionale Opera Armida Barelli,
▪ Marzio in provincia di Varese, le ha dedicato una mostra nel 50° dalla morte[6]
▪ Rovereto il precedente istituto Opera per l'assistenza e la preparazione professionale della donna ha preso la denominazione Opera Armida Barelli Formazione in opera "Opera
▪ Acireale (CT), Bergamo, Vermezzo (MI), Milano le hanno intitolato "Via Armida Barelli"

▪ 1981 - Roberto Mazzetti (Loiano, 8 novembre 1908 – Salerno, 15 agosto 1981) è stato un pedagogista italiano.
Roberto Mazzetti nacque a Roncastaldo, frazione di Loiano, provincia di Bologna, il 6 novembre del 1908 da Luciano e Romana Bacci ed è lì sepolto dal 1981. Frequentò le scuole elementari nel borgo natio distinguendosi come alunno dotato e volonteroso, tale che la maestra suggerì caldamente ai genitori di consentirgli di proseguire gli studi. Fu perciò mandato a Bologna dove, nell’Istituto dei Padri Salesiani frequentò la scuola media, allora chiamata ginnasio, e nel 1928 conseguì l’abilitazione magistrale. Si iscrisse quindi all’Istituto Superiore di Magistero di Firenze.
Durante il periodo degli studi universitari ottenne, mediante concorso, l’incarico per l’insegnamento nella scuola elementare di Brescia dove rimase in servizio per due anni. Nell’ultimo anno di insegnamento a Brescia ottenne il comando presso il Magistero di Firenze così che potè frequentare regolarmente le lezioni universitarie, sostenere tutti gli esami e, nel luglio del 1932, laurearsi in Filosofia e Pedagogia con voti 70/70 e lode. Nell’anno 1932-33 prestò servizio, in qualità di supplente per l’insegnamento di Filosofia e Pedagogia, presso l’Istituto Magistrale “Vittoria Colonna” di Arezzo.
Nell’anno 1933-34 fu alla Scuola Allievi Ufficiali di Spoleto e nel 1934-35 prestò il servizio di prima nomina, come sottotenente di complemento, nell’arma di fanteria a Parma. Durante il servizio militare sostenne l’esame di concorso per l’insegnamento di Lingua e letteratura italiana e Storia per le Scuole Medie Superiori. Vincitore di concorso ottenne la cattedra nell’Istituto Tecnico “Barozzi” di Modena dove si insediò dopo il congedo. Nel 1937-38 ottenne il trasferimento presso l’Istituto Tecnico “Piercrescenzi” di Bologna.
Nel 1940 fu nominato Provveditore agli Studi per la provincia di Pesaro. Nel 1942 fu trasferito a dirigere l’attività scolastica nella provincia di Modena e nel 1943 fu richiamato alle armi. Dopo un breve periodo fu esonerato e nominato Provveditore agli Studi per la provincia di Trapani, sede che gli fu impossibile raggiungere perché, nel frattempo, la Sicilia occidentale era stata dichiarata zona di guerra. Fu quindi riconfermato nella sede di Modena. Durante il periodo della Repubblica Sociale fu sospeso dalle sue attività perché si rifiutò di collaborare e di raggiungere Trieste, la nuova sede che gli era stata assegnata. Reintegrato nel suo grado nel 1946, fu Provveditore prima a Trapani poi a Reggio Calabria dove rimase fino al 1951. Durante questo periodo fu anche incaricato dell’insegnamento di Pedagogia presso l’Università di Messina.
Nel 1952 fu trasferito a Parma e fu provveditore in questa provincia fino al 1956, anno in cui passò al Provveditorato di Cremona. Nel 1957, in seguito alla vittoria conseguita nel concorso per cattedre universitarie, fu nominato professore presso l’Istituto Superiore di Magistero di Salerno. Qui svolse la sua attività, ininterrottamente fino al 1978, quale professore di Pedagogia e di Storia della Pedagogia e tenne per un periodo il Rettorato dell’Università salernitana. In seguito, pur avendo maturato gli anni necessari per il conseguimento della pensione continuò la sua attività come Direttore dell’Istituto di Pedagogia fino al 1981, anno della sua scomparsa. Dal 1961 al 1968 fu inoltre consulente psico-pedagogico per le Scuole dell’Infanzia presso l’Assessorato alla Pubblica Istruzione del Comune di Bologna.

Pensiero pedagogico
Formatosi inizialmente alla scuola della corrente neoidealista italiana, Mazzetti trova un valido punto di riferimento in Giuseppe Lombardo Radice, che egli presenta come colui che ha chiarito le istanze costruttrici delle nuova educazione. Successivamente partecipa all’elaborazione della Carta della Scuola del Ministro Bottai, con cui si cerca di riformare l’istruzione pubblica in Italia. Già da allora Mazzetti evidenzia la necessità di porre l’attivismo pedagogico al centro dei suoi interessi. Si intende per attivismo pedagogico quando si pone il soggetto da educare al centro del progetto educativo.
Viva esigenza presente in questo periodo da parte del nostro autore è la necessità di far convivere una visione di umanesimo teorico-culturale con l’umanesimo del lavoro per contenere forme di eccessiva astrazione della filosofia educativa neo idealista. Questa prospettiva di vedere la scuola come una palestra di vita porta Mazzetti, già dal 1942, a studiare con partecipazione e adesione l’opera di Maria Montessori, da lui considerata la voce più universale della pedagogia italiana. Giunto alla cattedra universitaria, dopo quindici anni di sforzi volti alla intelligente sperimentazione in qualità di Provveditore agli Studi, contribuisce validamente al progresso degli studi pedagogici nella cultura italiana con una notevole produzione di scritti di risonanza nazionale.
Mazzetti attraversa quasi mezzo secolo di esperienze storiche, sociali e culturali della vita italiana, che passano attraverso il fascismo, la guerra, il dopoguerra e il nostro tempo, maturando una visione di radicale problematicità della conoscenza umana, che vede nell’educazione lo strumento più idoneo per rendere l’uomo, pur in una situazione così umanamente disorientante, più creativo e più morale possibile.
Il suo pensiero pedagogico attraversa diverse fasi:
▪ dagli anni ’30 alla fine degli anni 40; Mazzetti, mediando Gentile e Labriola, Lombardo Radice e l’attivismo pedagogico, contribuisce in maniera innovativa al discorso sulla scuola, maturando prospettive quali l’umanesimo della cultura del lavoro, la pedagogia del lavoro, la scuola vista dagli scolari;
▪ dalla fine della II guerra mondiale al ’66; il Mazzetti cerca di operare una sintesi tra le posizioni di Lombardo Radice, quella dell’attivismo e quelle della Montessori, che gli fornisce la legittimazione teorica dell’idea del fanciullo come padre dell’uomo, tematica che affronta il problema della gioventù nell’educazione nel diritto, sviluppata già in uno scritto del 1951. In questo stesso periodo per cercare le radici della scuola democratica e della pedagogia del lavoro, Mazzetti inizia una ricerca sulla pedagogia socialista che porta da Owen a Saint-Simon, da Fourier a Proudhon;
▪ dal 1967 al 1970 si colloca una fase di passaggio e di transizione critica e di rilettura del passato, che vede da una parte un’analisi della dimensione rivoluzionaria del discorso pedagogico di Don Lorenzo Milani nelle sue luci e nelle sue ombre e dall’altra l’inserimento nella cultura pedagogica italiana del pensiero del pedagogista-psicologo Jerome Bruner, che pone l’accento sul primato del pensare sul fare e sulla prima e seconda infanzia come momenti cruciali della crescita umana cognitiva ed affettiva;
▪ l’ultimo periodo del pensiero di Mazzetti inizia già dal 1968 e arriva alla fine degli anni ’70; allora, contestando la visione del mondo nata nel 1968, esamina le ragioni e l’ideologia della contestazione globale, finendo per sposare, in maniera contrapposta alle idee dominanti, le scelte etico-politico-pedagogiche del socialismo utopistico contro il marxismo. Il suo pensiero molto spesso contro corrente lo porta, in un’epoca in cui si butta volentieri alle ortiche il passato, a farsi paladino della tradizione da lui difesa come l’autentica matrice da cui deve partire un discorso socio-educativo veramente innovatore. Da qui la sua strenua difesa della famiglia come soggetto educativo difficilmente eludibile.

▪ 1992 - Giorgio Perlasca (Como, 31 gennaio 1910 – Padova, 15 agosto 1992) è stato un funzionario e commerciante italiano.
Divenne famoso quando fu reso noto che aveva salvato la vita di oltre cinquemila ebrei ungheresi durante la seconda guerra mondiale, strappandoli alla deportazione nazista, fingendosi un diplomatico spagnolo.
Da giovane, Giorgio Perlasca aderì in modo convinto al Partito Fascista e combatté come volontario prima in Africa orientale e poi nella guerra civile di Spagna in appoggio alle truppe nazionaliste del generale Francisco Franco, dove rimase come artigliere fino al 1939.
Al principio della seconda guerra mondiale, Perlasca si trovò a lavorare prima in Jugoslavia e, dal 1942, in Ungheria a Budapest, in qualità di agente per una ditta di Trieste, la SAIB (Società Anonima Importazione Bovini).
Il giorno dell'armistizio tra l'Italia e gli Alleati (8 settembre 1943) si trovava ancora nella capitale ungherese e, prestando fedeltà al giuramento fatto al Re, rifiutò di aderire alla Repubblica Sociale Italiana. Per questo motivo si trovò ad essere ricercato dai tedeschi, che intendevano arrestarlo per tradimento, e fu costretto a trovare rifugio presso l'ambasciata spagnola.
Ottenuti dall'ambasciata una cittadinanza fittizia e un passaporto spagnoli, si trasformò in «Jorge Perlasca» e fu impiegato dall'ambasciatore Ángel Sanz Briz nel tentativo di salvare gli ebrei di Budapest, ospitati in apposite «case protette» dietro il rilascio di salvacondotti. Tale operazione era stata organizzata con la collaborazione di alcune ambasciate di altre nazioni.
Quando nel novembre 1944 Sanz Briz decise di lasciare Budapest e l'Ungheria per non riconoscere il governo filonazista ungherese, Perlasca decise di restare e spacciarsi come sostituto del console partente, redigendo di suo pugno la nomina ad ambasciatore con tanto di timbri e carta intestata.
Da quel momento Perlasca si trovò a gestire il "traffico" di migliaia di ebrei, nascosti nell'ambasciata e nelle case protette sparse per la città, unendosi agli sforzi compiuti con gli stessi mezzi e con gli stessi obiettivi dal diplomatico svedese Raoul Wallenberg e dal nunzio apostolico Mons. Angelo Rotta. Tra il 1º dicembre 1944 e il 16 gennaio 1945 Perlasca rilasciò migliaia di finti salvacondotti che conferivano la cittadinanza spagnola agli ebrei, arrivando più volte a strappare letteralmente dalle mani delle Croci Frecciate i deportati sui binari delle stazioni ferroviarie.
Si calcola che grazie all'opera di Perlasca circa 5.200 ebrei furono salvati dalla deportazione.
Dopo l'entrata a Budapest dell'Armata Rossa, Perlasca dovette abbandonare il suo ruolo di ambasciatore spagnolo, in quanto filo-fascista e perciò ricercato dai sovietici. Tornato in Italia, riprese la sua vita di prima senza troppi clamori. Dai pochi a cui tentò di raccontare la sua vicenda non fu creduto. Soltanto nel 1987, oltre quarant'anni dopo, alcuni ebrei ungheresi residenti in Israele rintracciarono finalmente Perlasca (reputato da molti un cittadino spagnolo) e divulgarono la sua storia di coraggio e solidarietà. Perlasca ha ricevuto per la sua opera numerose medaglie e riconoscimenti.
Il 23 settembre 1989 fu insignito da Israele del riconoscimento di Giusto tra le Nazioni. Al museo Yad Vashem di Gerusalemme, nel vialetto dietro al memoriale dei bambini è stato piantato un albero a lui intitolato. Anche a Budapest, nel cortile della Sinagoga, il nome di Perlasca appare in una lapide che riporta l'elenco dei giusti. È morto a Padova all'età di 82 anni. È sepolto a Maserà di Padova.

Onorificenze
Medaglia d'oro al merito civile
«Nel corso del 2° conflitto mondiale, con coraggio non comune e grave rischio personale assumeva la falsa identità di Console spagnolo per salvare migliaia di persone ingiustamente perseguitate, impedendone la deportazione nei campi di sterminio e riuscendo, poi, a trovar loro una provvisoria sistemazione, malgrado le notevolissime difficoltà. Nobile esempio di elette virtù civiche e di operante umana solidarietà. Budapest 1944 - 1945.»
— 25 giugno 1992.

Grand'Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana
— Roma, 7 ottobre 1991. Di iniziativa del Presidente della Repubblica.[3]
▪ Giusto tra le Nazioni (Israele)
▪ Stella al Merito (Ungheria)
* Grand Cruz dell'Ordine di Isabella la Cattolica (Spagna) (1991)

Bibliografia
▪ Giorgio Perlasca, L'impostore, Il Mulino
▪ Enrico Deaglio, La banalità del bene. Storia di Giorgio Perlasca, Feltrinelli ISBN 88-15-06089-8
▪ Teresio Bosco, I novanta giorni di Giorgio Perlasca, salvatore di ebrei, Elledici editore ISBN 88-01-02351-0
▪ Dalbert Hallenstein - Carlotta Zavattiero , Giorgio Perlasca, un italiano scomodo, Chiare Lettere

Filmografia
La RAI il 28 e 29 gennaio 2002, in occasione del giorno della memoria, ha mandato in onda il film TV Perlasca. Un eroe italiano, nel quale il ruolo di Perlasca è stato interpretato da Luca Zingaretti. Nel film viene raccontata la vita di Perlasca dal suo lavoro a Budapest fino al suo ritorno in Italia dopo la fine della guerra.

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