Il calendario del 13 Settembre
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Eventi
▪ 533 - Belisario sconfigge Gelimero e i Vandali nella battaglia di Ad Decimum
▪ 1541 - Giovanni Calvino si stabilisce definitivamente a Ginevra
▪ 1743 - Inghilterra, Austria e Regno di Sardegna firmano il trattato di Worms
▪ 1759 - Battaglia della piana di Abraham: gli inglesi sconfiggono i francesi nei pressi di Quebec, strappando il Canada alla Francia (Guerra dei sette anni, nota in America come la Guerra Franco-Indiana)
▪ 1788 - La convenzione costituzionale degli Stati Uniti stabilisce la data per la prima elezione presidenziale, e New York diventa la capitale temporanea degli USA
▪ 1791 - Re Luigi XVI di Francia accetta la nuova costituzione
▪ 1813 - I britannici falliscono il tentativo di catturare Baltimore (Maryland). È il punto di svolta della Guerra del 1812
▪ 1847 - Il generale statunitense Winfield Scott conquista Città del Messico, nel corso della Guerra Messicano-Americana
▪ 1898 - Hannibal Williston Goodwin brevetta la pellicola fotografica in celluloide
▪ 1906 - Primo volo aereo in Europa
▪ 1908 - Perù: si inaugura la ferrovia del Cuzco
▪ 1922 - Disastro di Smirne, detto anche "genocidio dei greci d'Asia Minore": i turchi di Kemal appiccano il fuoco al quartiere cristiano di Smirne e sterminano i greci che abitavano la città sin dalla sua fondazione; migliaia saranno i morti e più di un milione i profughi che fuggiranno alla volta di Atene.
▪ 1940
- - Bombe tedesche colpiscono Buckingham Palace
- - L'Italia invade l'Egitto
▪ 1943 - Chiang Kai-shek viene eletto presidente della Repubblica Cinese
▪ 1944 - Seconda guerra mondiale: le truppe tedesche arrestano il questore di Fiume Giovanni Palatucci, per aver salvato quasi cinquemila ebrei falsificandone i documenti
▪ 1953 - Nikita Khruščёv viene nominato segretario generale dell'Unione Sovietica
▪ 1955 - Viene scarcerato Totò Riina
▪ 1956 - Viene chiusa la diga attorno al polder olandese di East Flevoland
▪ 1968
- - La magistratura romana sequestra il film di Pierpaolo Pasolini Teorema per oscenità: il film era stato premiato dall'OCIC (Office catholique international cinématographique).
- - L'Albania esce dal Patto di Varsavia
▪ 1970 - Prima edizione della Maratona di New York
▪ 1971 - La polizia di stato e la Guardia Nazionale fanno irruzione nella prigione di Attica per porre fine ad una rivolta. L'assalto provocherà 42 vittime
▪ 1979 - Il Sudafrica concede l'indipendenza all'"homeland" di Venda (non riconosciuta al di fuori del Sud Africa)
▪ 1982 - Ginevra: viene arrestato il venerabile Licio Gelli, Gran Maestro della loggia massonica P2
▪ 1987 - Incidente di Goiânia: Un oggetto radioattivo viene rubato da un ospedale abbandonato di Goiânia, in Brasile, contaminando diverse persone nelle settimane successive. Alcune moriranno per avvelenamento da radiazioni
▪ 1988 - L'uragano Gilbert è il più forte uragano registrato nell'emisfero occidentale (in base alla pressione barometrica)
▪ 1989 - Desmond Tutu guida la più grande marcia anti-Apartheid svoltasi in Sudafrica
▪ 1993 - Primo accordo Israele-Palestina. Ai palestinesi viene concesso un autogoverno limitato nella Striscia di Gaza e a Gerico
▪ 1994 - La sonda Ulisse oltrepassa il polo sud del Sole
Anniversari
* 81 - Tito Flavio Vespasiano (latino: Titus Flavius Vespasianus; Roma, 30 dicembre 39 – Aquae Cutiliae, 13 settembre 81) è stato un imperatore romano della dinastia dei Flavi.
Prima di salire al trono, Tito fu un abile e stimato generale che si distinse per la repressione della ribellione in Giudea del 70, durante la quale venne distrutto il secondo tempio di Gerusalemme. Fu considerato un buon imperatore da Tacito e da altri storici contemporanei; è noto per il suo programma di opere pubbliche a Roma e per la sua generosità nel soccorrere la popolazione in seguito a due eventi disastrosi: l’eruzione del Vesuvio del 79 e l’incendio di Roma dell’80. Celebre è la definizione che diede di lui lo storico Svetonio: Amor ac deliciae generis humani, ovvero "amore e delizia del genere umano", per celebrare i vari meriti di Tito e del suo governo.
▪ 1506 - Andrea Mantegna (Isola di Carturo, 1431 – Mantova, 13 settembre 1506) è stato un pittore e incisore italiano.
«Scolpì in pittura.» (Ulisse degli Aleotti)
Si formò nella bottega padovana dello Squarcione, dove maturò il gusto per la citazione archeologica; venne a contatto con le novità dei toscani di passaggio in città quali Fra Filippo Lippi, Paolo Uccello, Andrea del Castagno e, soprattutto, Donatello, dai quali imparò una precisa applicazione della prospettiva. Mantegna si distinse infatti per la perfetta impaginazione spaziale, il gusto per il disegno nettamente delineato e per la forma monumentale delle figure.
Il contatto con le opere di Piero della Francesca, avvenuto a Ferrara, marcò ancora di più i suoi risultati sullo studio prospettico tanto da raggiungere livelli "illusionistici", che saranno tipici di tutta la pittura nord-italiana. Sempre a Ferrara, poté conoscere il patetismo delle opere di Rogier van der Weyden rintracciabile nella sua pittura devozionale; attraverso la conoscenza delle opere di Giovanni Bellini, di cui sposò la sorella Nicolosia, le forme dei suoi personaggi si addolcirono, senza perdere monumentalità, e vennero inserite in scenografie più ariose. Costante in tutta la sua produzione fu il dialogo con la statuaria, sia coeva sia classica.
Origini
Andrea Mantegna nacque nel 1431. La data si ricava dall'iscrizione: "ANDREAS MANTINEA PAT. AN. SEPTEM ET DECEM NATUS SUA MANU PINXIT M.CCCC.XLVIII" ("Andrea Mantegna, diciassettenne, mi dipinse nel 1448") copiata nel 1560 da Bernardino Scardeone sulla pala, perduta, di un altare della chiesa padovana di Santa Sofia) da Biagio, falegname e originario di Isola di Carturo, un borgo nei pressi di Padova, ma che all'epoca era sotto il contado vicentino. Le poche notizie sulle sue origini le definiscono "d'umilissima stirpe". Da giovanissimo si sa che Andrea fece il guardiano di bestiame nella campagna attorno al suo paese.
Formazione a Padova
Giovanissimo, già nel 1441 è citato nei documenti padovani come apprendista e figlio adottivo dello Squarcione; verso il 1442 si iscrive alla fraglia padovana dei pittori, con l'appellativo di "fiiulo" (figlio) di Squarcione. Il trasferimento venne sicuramente facilitato dalla presenza in città di Tommaso Mantegna, fratello maggiore di Andrea, che aveva fatto una discreta fortuna come sarto, ed abitava nella contrada Santa Lucia, dove visse anche Andrea[1]. Successivamente il pittore iniziò ad abitare presso la bottega di Squarcione, lavorando esclusivamente per il padre adottivo, che con l'espediente dell' "affiliazione" era solito garantirsi una manodopera fedele e a basso costo.
Secondo i contratti stipulati da Squarcione con i suoi allievi, nella sua bottega si impegnava a insegnare: costruzione prospettica, presentazione di modelli, composizione di personaggi e oggetti, proporzionamento della figura umana, e altro. Probabilmente il suo metodo d'insegnamento consisteva nel far copiare frammenti antichi, disegni e quadri di varie parti d'Italia soprattutto toscani e romani, raccolti nella sua collezione, come dice il Vasari nella vita del Mantegna: «lo esercitò assai [a Mantegna] in cose di gesso formate da statue antiche, et in quadri di pitture, che in tela si fece venire di diversi luoghi, e particolarmente di Toscana e di Roma». Di questa collezione non si sa niente, ma si può presumere che ne facessero parte medaglie, statuette, iscrizioni antiche, calchi in gesso e qualche pezzo di statue forse direttamente dalla Grecia (dove il maestro si era forse recato di persona negli anni venti), tutte opere frammentarie che venivano prese singolarmente per il loro vigore, decontestualizzandole e riaccostandole arbitrariamente.
A Padova Mantegna trovò inoltre un vivace clima umanistico e poté ricevere un'educazione classica, che arricchì con l'osservazione diretta di opere classiche, delle opere padovane di Donatello (in città dal 1443 al 1453) e la pratica del disegno con influssi fiorentini (tratto deciso e sicuro) e tedeschi (tendenza alla rappresentazione scultorea). La sensibilità verso il mondo classico e il gusto antiquario divennero presto una delle componenti fondamentali del suo linguaggio artistico, che si portò dietro durante tutta la carriera.
Nel 1447 visitò Venezia con lo Squarcione.
L'indipendenza
La permanenza di Mantegna presso la bottega dello Squarcione durò sei anni. Nel 1448 si liberò definitivamente della tutela del padre adottivo, intentando anche una causa contro di lui, per avere un risarcimento in denaro per opere eseguite per conto del maestro.
In quello stesso anno si dedicò a una prima opera indipendente: la pala, andata distrutta nel XVII secolo, destinata all'altare maggiore della chiesa di Santa Sofia. Si trattava di una Madonna col Bambino in sacra conversazione tra santi, probabilmente ispirata all'altare della basilica del Santo di Donatello. Di quei primi anni ci è pervenuto un San Marco, firmato e datato 1448, e un San Girolamo, del quale restano anche alcuni studi su carta. [..]
La Camera degli Sposi
Nel 1465 Mantegna iniziò una delle sue imprese decorative più complesse, alla quale è legata la sua fama. Si tratta della cosiddetta Camera degli Sposi, chiamata nei resoconti dell'epoca Camera picta, cioè "camera dipinta", terminata nel 1474. L'ambiente di dimensioni medio-piccole occupa il primo piano della torre nord-orientale del Castello di San Giorgio ed aveva la duplice funzione di sala delle udienze (dove il marchese trattava affari pubblici) e camera da letto di rappresentanza, dove Ludovico si riuniva coi familiari.
Mantegna studiò una decorazione ad affresco che investiva tutte le pareti e le volte del soffitto, adeguandosi ai limiti architettonici dell'ambiente, ma al tempo stesso sfondando illusionisticamente le pareti con la pittura, che crea uno spazio dilatato ben oltre i limiti fisici della stanza. Motivo di raccordo tra le scene sulle pareti è il finto zoccolo marmoreo che gira tutt'intorno nella fascia inferiore, sul quale poggiano i pilastri che suddividono le scene. Alcuni tendaggi di broccato affrescati svelano le scene principali, che sembrano svolgersi oltre un loggiato. La volta è affrescata come se fosse sferoidale e presenta centralmente un oculo, da cui si sporgono fanciulle, putti, un pavone ed un vaso, stagliati sul cielo azzurro.
Il tema generale è una straordinaria celebrazione politico-dinastica dell'intera famiglia Gonzaga, con l'occasione della celebrazione dell'elezione a cardinale di Francesco Gonzaga. Sulla parete nord è ritratto il momento in cui Ludovico riceve la notizia dell'elezione: grande è l'attenzione ai particolari, alla verosimiglianza, all'esaltazione del lusso della corte. Sulla parete ovest è rappresentato l'incontro, avvenuto nei pressi della città di Bozzolo, tra il marchese e il figlio cardinale; la scena ha una certa fissità, determinata dalla staticità dei personaggi ritratti di profilo o di tre quarti per enfatizzare l'importanza del momento; sullo sfondo è presente una Roma idealizzata, come augurio per il Cardinale. […]
Le grisaglie
Dal 1495 circa Mantegna avviò una prolifica produzione di dipinti di soggetto biblico a grisaglia, cioè imitanti la scultura monocromatica. Si confrontò probabilmente anche alla produzione di scultori come i Lombardo o l'Antico.
La produzione estrema
La produzione estrema di Mantegna è quella del 1505-1506, legata ad opere dal sapore amaro e malinconico, accomunate da uno stile diverso, legato a toni bruni e un innovativo uso della luce e del movimento. Sono attribuite a questa fase le due tele destinate alla sua cappella di sepoltura nella basilica di Sant'Andrea, il Battesimo di Cristo e la Sacra Famiglia con la famiglia di Giovanni Battista, e l'amaro San Sebastiano, dove un cartiglio riflette sulla caducità della vita.
La morte
Il 13 settembre 1506 Andrea Mantegna moriva a 75 anni. L'ultimo periodo della sua vita fu funestato da difficoltà economiche pressanti e da una visione sempre più malinconica del suo ruolo di artista, ormai scalzato dalle nuove generazioni che proponevano un classicismo più morbido ed accattivante.
La scomparsa del maestro generò molti attestati di stima e rincrescimento, tra cui resta quello di Albrecht Dürer, che dichiarò di aver provato "il più grande dolore della sua vita". Il maestro tedesco era infatti a Venezia ed aveva in programma un viaggio a Mantova proprio per conoscere il tanto stimato collega.
L'ammirazione per la sua figura non si tradusse però, in generale, in un seguito artistico, essendo la sua arte austera e vigorosa ormai considerata sorpassata dalle incalzanti novità dell'inizio del secolo, ritenute più adatte ad esprimere i moti dell'anima in quell'epoca[8]. Forse l'unico, grande maestro a seguire echi di Mantegna nell'illusionismo poderoso delle pitture fu Correggio, che si formò in gioventù proprio a Mantova.
Le fattezze di Mantegna
Di Mantegna si conoscono alcuni presunti autoritratti: i più antichi si trovano nella Cappella Ovetari e sono costituiti da una figura nel Giudizio di san Giacomo (la prima a sinistra) e in una testa gigantesca nell'arcone, che faceva pendant con quella del suo collega Nicolò Pizzolo; un terzo è forse nel medaglione a destra del pulpito nella Predica di san Giacomo. Un altro autoritratto giovanile è indicato nella figura e destra del gruppo sacro nella Presentazione al Tempio; due si trovano poi abilmente celati nella camera degli Sposi, in un mascherone a grisaille e in una vaporosa nube, dove è appena visibile un profilo maschile somigliante al personaggio nella Presentazione[9].
Un perduto ritratto di Mantegna anziano venne disegnato da Leonardo da Vinci durante il soggiorno a Mantova tra il 1499 e il 1500. Dell'opera si conoscono alcune presunte derivazioni, come un'incisione di Giovanni Antonio da Brescia, conservata al British Museum e raffigurante un uomo con copricapo.
Il ritratto più conosciuto di Mantegna è comunque quello effigiato nel busto clipeato posto all'entrata della sua cappella funebre nella chiesa di Sant'Andrea a Mantova, a cui si rifece ad esempio l'incisore che curò l'edizione del 1558 delle Vite di Giorgio Vasari. Si tratta di un ritratto ideale che riprende il modello romano di intellettuale coronato d'alloro, ma che ha anche una certa profondità fisiognomica, ritraendo il pittore sui cinquant'anni e caratterizzandolo con un'espressione nobile e austera.
▪ 1592 - Michel Eyquem de Montaigne (Bordeaux, 28 febbraio 1533 – Saint-Michel-de-Montaigne, 13 settembre 1592) fu un filosofo, scrittore e politico francese.
Più conosciuto con il semplice appellativo di Montaigne, nacque da una famiglia di mercanti di Bordeaux nobilitata due generazioni prima. Il suo bisnonno Ramon Eyquem aveva acquistato nel 1477 un castello del XIV secolo a Saint-Michel-de-Montaigne nel Périgord, e in questo modo acquisì il titolo di "Seigneur de Montaigne", che trasmise a figli e nipoti.
Tra costoro, Pierre Eyquem fu il primo a installarsi in modo permanente nel castello, che fece ristrutturare e fortificare. Aveva combattuto in Italia e sposato nel 1528 Antoinette de Louppes, figlia di un mercante di Tolosa d'origine marrana. Pierre Eyquem ricevette il titolo nobiliare nel 1511 e venne eletto sindaco della stessa Bordeaux nel 1554.
Michel fu il primo figlio della coppia a sopravvivere, e divenne il maggiore di sette tra fratelli e sorelle. Suo padre gli offrì un'educazione secondo i principi dell'umanesimo del XVI secolo. Secondo lo stesso Montaigne, venne inviato a balia in un povero villaggio perché si abituasse « al modo di vivere più umile e comune » (Saggi, III, 13). Ritornò al castello all'età di tre anni, e gli venne dato come precettore un medico tedesco di nome Hortanus, che ebbe per ordine di parlargli solo in latino, come anche il resto della famiglia. A tredici anni Michel, conoscendo solo il latino, viene inviato al collegio della Guyenne a Bordeaux, luogo insigne dell'umanesimo bordolese, dove impara il francese, il greco antico, la retorica e il teatro.
Non si sa se fu a Tolosa o a Parigi che compì, probabilmente tra il 1546 e il 1554, gli studi di diritto indispensabili alle sue attività future. Nel 1557 divenne consigliere alla "Cour des Aides" (Corte degli Aiuti) di Périgueux che venne in seguito unita al Parlamento di Bordeaux. Lì esercitò le sue funzioni per tredici anni, con diverse missioni alla corte di Francia. Dal 1561 al 1563 fece parte della corte di Carlo IX.
Nel 1558 incontrò Étienne de La Boétie, suo collega in parlamento, di tre anni più anziano, con cui strinse un'affettuosa ed intensa amicizia e del cui pensiero, intriso di stoicismo, subì l'influenza.
Il 23 settembre 1565, sposò Françoise de La Chassaigne, figlia di Joseph de La Chassaigne (1515-1572) signore di Javerlhac, consigliere del re e presidente del Parlamento di Bordeaux nel 1569. Di dodici anni più giovane, con Françoise ebbero sei figlie, di cui una sola — Léonor de Montaigne — sopravvisse. Sembra che il matrimonio non avesse una grande importanza nella vita affettiva di Montaigne. I coniugi dormivano separati, cosa frequente all'epoca, e Montaigne, impegnato da altre attività, lasciava volentieri la gestione delle sue proprietà alla moglie.
Lo segnò profondamente invece la sua amicizia con Étienne de La Boétie, iniziata nel 1558. La prematura morte dell'amico, quattro anni dopo, lasciò un vuoto incolmabile in Montaigne, come risulta dalle espressioni commoventi contenute nel saggio De l'amitié:
«[...] se paragono tutta la mia vita rimanente a questi quattro anni che egli mi ha regalato, essa non è altro che fumo, null'altro che una notte oscura e noiosa [...] gli stessi piaceri che mi si offrono, invece di consolarmi, raddoppiano il rimpianto della sua perdita [...]»
Nel 1568 morì il padre, al quale Michel era stato molto legato. La prima opera pubblicata da Montaigne (1568-1569), composta per accontentare un desiderio del padre, fu la "Teologia naturale di Raymond Sebond", nella quale tenta di "dimostrare la verità della fede cristiana e cattolica", utilizzando un espediente letterario consistente nel lasciar credere che di trattasse di una traduzione dal latino al francese.
Il ritiro a vita privata e la stesura dei "Saggi"
Dal 1570, ritiratosi nelle sue terre, si dedicò agli studi, alla meditazione. Ammiratore di Virgilio e di Cicerone, come si conviene a un umanista scelse l'uomo, e sé stesso in particolare, come oggetto di studio nella sua opera principale: i Saggi, a cui lavora a partire dal 1571. Commentando i classici, come Plutarco, Seneca e Lucrezio, Montaigne analizzò la condizione umana e la quotidianità, con una rara capacità d'introspezione libera da pregiudizi. Il suo progetto era quello di togliere le maschere e gli artifici per rivelare il vero sé. Opera senza precedenti per sincerità e introspezione, è il ritratto di uno scettico per il quale sono da condannare le dottrine troppo rigide e le certezze cieche. La sua influenza fu colossale sulla filosofia francese e occidentale.
Durante le guerre di religione, Montaigne, cattolico, agì come moderatore, rispettato sia dal cattolico Enrico III che dal protestante Enrico di Navarra, a cui lo legava una solida amicizia. Nel 1577, quest'ultimo, diventato re di Navarra, lo nominò gentilhomme de sa Chambre.
Un diario di viaggio
Nel 1580 e nel 1581 effettuò un lungo viaggio in Francia, Svizzera, Germania ed Italia, nella speranza di trovare beneficio nelle acque termali per combattere la calcolosi renale di cui soffriva. Dopo aver sostato brevemente a Verona ed a Venezia, fu a Roma, dove rimase fino all'aprile del 1581, ricevuto con tutti gli onori. A maggio ripartì e visitò più approfonditamente la Toscana (passando per le Marche dove fu impressionato favorevolmente dalla città di Macerata), che aveva già attraversato nell'autunno dell'anno precedente. Rimase favorevolmente impressionato da Lucca, Pistoia e altri centri minori, ma non da Firenze che trovò incomparabilmente meno bella di Venezia. Si trattenne lungamente a Bagni di Lucca, per sottoporsi alla cura delle acque.
A settembre dello stesso anno, ebbe notizia della sua nomina a sindaco di Bordeaux e prese la via del ritorno. Le annotazioni sul lungo viaggio furono da lui raccolte nel Journal du voyage en Italie par la Suisse et l'Allemagne - Diario del viaggio in Italia attraverso la Svizzera e la Germania - pubblicato soltanto due secoli dopo, nel 1774. Rimane essenzialmente un libro di straordinario interesse contenente varie notizie sull'Italia (usi, costumi, tradizioni) che l'autore ammirava moltissimo.
Ritorno alla vita politica
Rientrato in patria, il filosofo svolse con competenza il suo biennio di sindaco, e venne rieletto per altri due anni. In quest'ultimo periodo, ebbe modo di dimostrarsi abile diplomatico, mediando fra il capo protestante Enrico di Navarra (futuro re col nome di Enrico IV), il capo cattolico Enrico di Guisa ed il maresciallo de Matignon, al fine di evitare che la città di Bordeaux venisse coinvolta nella guerra civile scoppiata nel 1584 a seguito della morte dell'erede designato duca d'Angiò.
Alla scadenza del mandato (1585), nella regione di Bordeaux, scoppiò un'epidemia di peste. Montaigne dovette allontanarsi dalle sue terre, e passata l'epidemia, si ritirò nel suo castello ed iniziò l'elaborazione del terzo libro dei Saggi, che sarebbe stato pubblicato nel 1588.
La "Tour de la librairie"
La "Tour de la librairie" (torre della biblioteca), al terzo piano della quale Montaigne si ritirava ad elaborare i suoi lavori letterari, era un edificio cilindrico, e resta ancor oggi l'unica parte conservata del Castello di Montaigne a Saint-Michel-de-Montaigne. Nel 1587 fu assalito e derubato in viaggio verso Parigi, ed arrivato nella città, venne imprigionato per qualche ora, in seguito ai tumulti scoppiati. Nel 1588 il filosofo conobbe Marie de Gournay, un'appassionata ammiratrice delle sue opere. La morte lo sorprese nel 1592, mentre lavorava ai suoi Saggi. La ricchezza e la varietà di esperienze della sua vita ed il ruolo importante ricoperto danno un valore particolare alle sue osservazioni psicologiche ed alle sue incantevoli riflessioni morali.
L'importanza del pensiero di Montaigne
Lo scopo dichiarato della sua opera è "descrivere l'uomo, e più particolarmente se stesso".
«L'argomento del mio libro sono io»
scriverà nelle prime pagine dei Saggi.
Ed in essi parlerà a lungo delle sue caratteristiche fisiche, del suo temperamento, dei suoi sentimenti, delle sue idee e degli avvenimenti della sua vita. Il suo fine è quello di conoscersi e di conquistare la saggezza. Il sentimento di una vita pienamente accettata e quindi goduta, la serena attesa della morte, considerata un evento naturale da attendere senza timore, rendono questo libro estremamente umano.
Montaigne stima che la variabilità e l'incostanza sono due delle sue caratteristiche principali. Egli descrive la sua debole memoria, la sua capacità di sciogliere i conflitti senza farvisi implicare emotivamente, il suo disgusto per gli uomini che inseguono la celebrità e i suoi tentativi per distaccarsi dalle cose del mondo per prepararsi alla morte. Il suo celebre motto: "Che cosa conosco ?" appare come il punto di partenza di tutto il suo stupore filosofico.
L'opera del filosofo dà al lettore l'impressione che l'attività pubblica abbia impegnato l'autore esclusivamente nel tempo libero, ossia la sola cosa essenziale per Montaigne rimane la conoscenza di sé e la ricerca della saggezza. Nei Saggi viene raffigurato un uomo in tutta la sua complessità, consapevole delle sue contraddizioni, animato da due sole passioni: la verità e la libertà.
«[...] sono così assetato di libertà che mi sentirei a disagio anche se mi venisse vietato l'accesso ad un qualsiasi angolo sperduto dell'India [...]»
Il filosofo fu tra i pionieri del pensiero moderno. Studiando se stesso, giunse all'accettazione della vita con tutte le sue contraddizioni. La condizione umana ideale è per Montaigne l'accettazione di se stessi e degli altri con tutti i difetti e con tutti gli errori che la natura umana comporti. Gli ultimi anni dello scrittore furono confortati dall'affettuosa presenza di Marie de Gournay, che egli volle come figlia adottiva. E fu proprio Maria a curare - assieme a Pierre de Brach - un'edizione delle opere di Montaigne, apparsa postuma nel 1595.
L'influenza dello scrittore è stata grandissima per tutta la letteratura europea. I Saggi vengono considerati una delle opere più significative ed originali del rinascimento. Sostanzialmente sono passi di varia lunghezza, struttura, soggetto ed umore. Taluni sono di estrema brevità, mentre altri - più estesi - affrontano problemi specifici di quel tempo come, ad esempio, l'uso della tortura come mezzo di prova.
Lo stile di Montaigne è allegro e spregiudicato: passa velocemente da un pensiero all'altro. Le sue considerazioni sono costantemente puntellate con citazioni di classici greci e latini. Giustifica questa abitudine con l'inutilità di "ridire peggio qualcosa che un altro è riuscito a dire meglio prima".
Mostra la sua avversione per la violenza e per i conflitti fratricidi tra cattolici e protestanti (ma anche tra Guelfi e Ghibellini) che avevano cominciato a massacrarsi nello stesso periodo in cui appariva il Rinascimento, deludendo le speranze che gli umanisti avevano riposto in esso. Per Montaigne, bisogna evitare la riduzione della complessità a opposizioni nette, all'obbligo di schierarsi, e privilegiare la ritirata scettica come risposta al fanatismo.
Dice di lui Stefan Zweig:
«Che malgrado la sua lucidità infallibile, malgrado la pietà che lo sconvolgeva fino in fondo all'animo, egli ha dovuto assistere a questa spaventosa ricaduta dell'umanesimo nella bestialità, a uno di quegli eccessi sporadici di follia che prendono a volte l'umanità (...) è questa la vera tragedia della vita di Montaigne.»
Gli umanisti avevano creduto di ritrovare nel Nuovo Mondo l'Eden, mentre Montaigne deplora che la sua conquista porti sofferenze a coloro che si tenta di ridurre in schiavitù. Egli provava più orrore per la tortura che i suoi simili infliggevano a degli esseri viventi che per il cannibalismo di quegli Indiani d'America che si chiamavano "selvaggi", e che ammirava per il privilegio che riservavano al loro capo di "marciare verso la guerra per primo".
Come molti uomini del suo tempo (Erasmo, Tommaso Moro, Guillaume Budé) Montaigne constatava un relativismo culturale, riconoscendo che le leggi, le morali e le religioni delle differenti culture, anche se spesso molto diverse e distanti, hanno tutte qualche fondamento.
Soprattutto Montaigne è un grande sostenitore dell'umanesimo. Se crede in Dio, si sottrae a qualsiasi speculazione sulla sua natura, e poiché il sé si manifesta nelle contraddizioni e nelle variazioni, pensa che debba essere spogliato delle credenze e dei pregiudizi che lo impacciano.
Scetticismo e animalismo
Gli scritti di Montaigne sono contrassegnati da un pessimismo e da uno scetticismo rari al tempo del Rinascimento. Citando il caso di Martin Guerre, egli pensa che l'umanità non possa raggiungere la certezza e rigetta le proposizioni assolute e generali. Secondo Montaigne, non possiamo prestar fede ai nostri ragionamenti perché i pensieri ci appaiono senza atto di volontà: non sono in nostro controllo. Perciò, nell'Apologia di Raymond Sebond, egli afferma che noi non abbiamo ragione di sentirci superiori agli animali. D'altra parte, l'affermazione che l'uomo non è superiore agli animali non è unicamente strumentale alla demolizione delle certezze della ragione. Montaigne, così come tocca il tema della schiavitù ribaltando e negando la tesi aristotelica dello "schiavo naturale", ribalta anche la tradizionale concezione antropocentrica che pone l'uomo al vertice della natura e – ispirandosi alle critiche di Plutarco alle crudeltà sugli animali – nega che l'uomo abbia il diritto di opprimere gli animali, dato che essi, come lui, soffrono e provano sentimenti. Inoltre Montaigne deplora, nel saggio Della crudeltà, la barbarie della caccia, esprimendo la sua compassione nei confronti degli animali innocenti e senza difese verso i quali, anziché esercitare una «sovranità immaginaria», l'uomo dovrebbe riconoscere un dovere di rispetto.
L'Educazione
Tra i temi trattati di maggior interesse ci sono l'educazione, l'amicizia, la virtù, il dolore, la morte. Nell'Educazione, Montaigne aborrisce i castighi e la costrizione in tutte le sue variegate forme. Il metodo seguito nell'esposizione, che tende a toccare più temi contemporaneamente, rende talvolta laborioso seguire la linea di sviluppo del suo profondo pensiero.
Ogni problema viene analizzato con grande acume ed introspezione. Ad esempio, Montaigne si pone domande sulla morte e sul modo migliore di prepararsi ad essa. Illustra poi il suo metodo per affrontare il dolore della malattia, ed afferma l'esigenza di un sistema educativo che privilegi l'intelligenza e non la memoria - sapere a memoria non significa sapere - presupponendo la formazione di un uomo di sano giudizio, dotato di spirito critico che gli permetta di reagire adeguatamente in tutte le circostanze. Inoltre, ammira gli indigeni americani per la loro lealtà e semplicità di costumi, indi analizza la vera e la falsa amicizia affidandosi all'esperienza umana più che alle teorie astratte.
Numerosi lettori rimasero considerevolmente affascinati dall'autoritratto dell'autore che il libro traccia. Montaigne non rifugge dal descriversi pieno di paradossi e di contraddizioni. I Saggi rappresentano il primo autoritratto della letteratura europea ed hanno avuto un influsso decisivo su scrittori, letterati e filosofi successivi come Blaise Pascal, Jean-Jacques Rousseau e Marcel Proust.
Da un punto di vista strettamente filosofico, si può osservare che il pensiero di Montaigne resti troppo sfumato per poter rientrare in un sistema filosoficamente rigido, attraversato una fase stoica (1572-1573) ed una fase scettica nel 1576, prima di raggiungere una posizione autonoma. Per l'esistenza e la natura di Dio, si affida alla rivelazione, ma il suo pensiero si colloca molto vicino all'agnosticismo, ed infatti più della fede pone in rilievo il dubbio, che considera un incentivo che mantiene il giudizio sempre attento ed ancestralmente vivido.
Eredi di Montaigne
Nella storia della filosofia, i principali eredi dell'opera di Montaigne sono Rousseau, Pascal, Ralph Waldo Emerson, Friedrich Nietzsche e Edgar Morin.
▪ 1598 - Filippo II d'Asburgo (in spagnolo Felipe II de España; Valladolid, 21 maggio 1527 – El Escorial, 13 settembre 1598) fu il primo Re di Spagna (intesa come l'intera penisola iberica) dal 1556 al 1598, re di Napoli e di Sicilia dal 1554 al 1598 e diciottesimo re del Portogallo e Algarve, come Filippo I (in portoghese Filipe I) dal 1581 al 1598.
▪ 1872 - Ludwig Andreas Feuerbach (Landshut, 28 luglio 1804 – Rechenberg, 13 settembre 1872) è stato un filosofo tedesco tra i più influenti critici della religione ed esponente della sinistra hegeliana.
Se l’essere umano è per l’uomo l’essere sommo anche nella pratica la legge prima e suprema sarà l’amore dell’uomo per l’uomo. "Homo homini deus est": questo è il nuovo punto di vista, il supremo principio pratico che segnerà una svolta decisiva nella storia del mondo. (L'Essenza del Cristianesimo).
Con Ludwig Feuerbach si verificò un vero e proprio ribaltamento delle posizioni di Hegel. Nato nel 1804 a Landshut, in Baviera, Feuerbach studiò teologia a Heidelberg, ma nel 1824 si recò a Berlino, dove subì l'influenza di Hegel, sicché nel 1825 abbandonò la teologia per la filosofia. L'anno successivo andò a completare gli studi a Erlangen, dove nel 1828 ottenne la laurea e la libera docenza in Filosofia.
Dal 1829 al 1836 tenne saltuariamente corsi presso l'università di Erlangen, ma non ebbe successo il suo tentativo di esservi nominato professore straordinario. Già nel 1830, infatti, egli aveva pubblicato anonimi i Pensieri sulla morte e l'immortalità , che lo avevano reso sospetto alle autorità accademiche e religiose del regno di Baviera. Nel 1837 egli si ritirò pertanto a Bruckberg, dove visse fino al 1860 grazie soprattutto ai proventi di una fabbrica di porcellane, di cui la moglie era comproprietaria. In quello stesso anno Feuerbach, che già aveva pubblicato tra l'altro una Storia della filosofia moderna da Bacone di Verulamio a Spinoza (1833), alla quale facevano seguito volumi su Leibniz (1837) e su Bayle (1838), fu invitato da Ruge a collaborare agli "Annali di Halle". Nel 1839 Feuerbach, pubblica il saggio Per la critica della filosofia hegeliana , che dà inizio alla serie dei suoi scritti più noti, comparsi nell'arco di pochi anni: L'essenza del Cristianesimo (1841), Tesi provvisorie per la riforma della filosofia (1843), Princìpi della filosofia dell'avvenire (1843), L'essenza della religione (1845).
Nell'anno della rivoluzione, il 1848, gli studenti lo chiamano a tenere un corso a Heidelberg, ma nel 1849 egli torna a Bruckberg; di qui egli si trasferisce nel 1860, dopo un dissesto finanziario, a Rechenberg, presso Norimberga dove vive in miseria i suoi ultimi anni sino alla morte avvenuta nel 1872. All'inizio Feuerbach si colloca nel solco della filosofia hegeliana, anche se già pone l'accento su elementi che lo allontaneranno da Hegel. Così, nei Pensieri sulla morte e l'immortalità, egli afferma con forza la connessione tra l'individualità e la sensibilità, propria di un corpo legato allo spazio e al tempo, e su questa base giunge a negare "l'immortalità" individuale. Progressivamente egli matura la convinzione che la filosofia abbraccia tutti coloro che si sono impegnati nella lotta per la libertà di pensiero, da Bruno a Spinoza a Fiche, e non ha il suo compimento in Hegel. Nello scritto del 1839, Per la critica della filosofia hegeliana , egli afferma che non è possibile considerare come assoluto un singolo sistema, neppure quello hegeliano, nonostante la sua rigorosa scientificità, universalità e ricchezza, perché questo significherebbe arrestare il tempo e portare gli uomini a rinunciare alla libera ricerca. A questa conclusione Feuerbach perviene partendo dal presupposto hegeliano che ogni filosofia è il proprio tempo espresso in concetti, ma applicandolo alla stessa filosofia hegeliana. Se il tempo non si arresta anche la filosofia hegeliana non può non essere una filosofia particolare e determinata : anch'essa infatti non rappresenta un inizio assoluto privo di presupposti, ma è sorta in un'epoca determinata e, in quanto ne è l'espressione anch'essa parte da presupposti legati a tale epoca. L'epoca futura non potrà non rendersi conto di questo fatto, cosicché anche la filosofia hegeliana apparirà allora una filosofia del passato. In qualche modo l'unica filosofia che inizia senza presupposti è quella che ha libertà e il potere di mettere in dubbio anche se stessa. La filosofia, in quanto libertà che vuole costruirsi da se e non soltanto come erede della tradizione, deve dunque procedere oltre Hegel, che non critica mai la realtà di fatto, ma si preoccupa soltanto di comprenderla nella sua razionalità e quindi giustificarla. Il compito dell'uomo pensante, consiste invece, nell'anticipare con la ragione gli effetti necessari e inevitabili del tempo. Attraverso la negazione del presentesi costituisce la forza per creare qualcosa di nuovo. 'Io sulla religione ho dedicato tutta la mia vita' dirà Feuerbach; partendo dalla riflessione sul cristianesimo , Feuerbach giunge a comprendere che la filosofia di Hegel è in realtà teologia filosofica. Lo scopo di Feuerbach nell' Essenza del cristianesimo non è di condurre una critica al cristianesimo di tipo illuministico, ossia di ridurlo a un cumulo di errori e superstizioni. Egli invece ritiene che la religione, in particolare quella cristiana, abbia un contenuto positivo che consente di scoprire quale sia l'essenza dell'uomo.
Dalle tesi di Schleiermacher, secondo cui la religione consiste nel sentimento dell'infinito, egli trae la conclusione che tale infinito non esprime altro che l'essenza dell'uomo. Nessun individuo singolo contiene in sé quest'essenza nella sua compiutezza, ma ogni uomo ha il sentimento dell'infinità del genere umano. La religione ha un origine pratica: l'uomo avverte la propria insicurezza e cerca la salvezza in un essere personale, infinito immortale e beato, cioè in Dio. Ma, secondo Feuerbach, quando un soggetto entra in un rapporto essenziale e necessario con un oggetto, questo significa che questo oggetto è la vera e propria essenza del soggetto. Con Dio il sentimento umano è in un rapporto necessario: Dio dunque non è altro che l'essenza oggettivata dell'uomo .
La religione è appunto l'oggettivazione dei bisogni e delle aspirazioni dell'uomo, la proiezione di essi in un ente, che viene considerato indipendente dall'uomo e nel quale tali aspirazioni si trovano pienamente realizzate. Nella religione è l'uomo a fare Dio a propria immagine e somiglianza, non viceversa ('Non è Dio che crea l'uomo, ma l'uomo che crea l'idea di Dio' afferma Feuerbach): quando a Dio si attribuiscono la conoscenza o l'amore infinito, in realtà si intende esprimere l'infinità delle possibilità conoscitive e dell'amore propri dell'uomo. In Dio e nei suoi attributi l'uomo può quindi scorgere oggettivati i suoi bisogni e i suoi desideri e, dunque, conoscerli. Feuerbach ne conclude che la "religione è la prima, ma indiretta coscienza che l'uomo ha di sé". La conoscenza che l'uomo ha di Dio non è altro, allora, che la conoscenza che l'uomo ha di se stesso, ma nella religione l'uomo non si rende conto che è la propria essenza a trovarsi oggettivata in Dio. Solo con la filosofia ciò può giungere a piena consapevolezza. Questo spiega, tra l'altro perché nella storia dell'umanità e degli individui la religione proceda ovunque la filosofia: l'uomo pone la propria essenza fuori di sé prima di riconoscerla come propria. Nella proiezione della propria essenza in Dio, l'uomo non possiede più tale essenza, che ha sede in un altro mondo, cosicché per riconquistarla l'uomo deve negare il mondo terreno. Qui si annida secondo Feuerbach, la vera colpa del cristianesimo nei confronti del genere umano l'aver condotto all'ascetismo, alla fuga dal mondo, al sacrificio e alla rinuncia, in ultima analisi alla spogliazione delle qualità umane a favore di Dio. Rispetto al cristianesimo, il panteismo ha il merito di aver riconosciuto che il divino non è un'entità personale, ma è il mondo stesso. Lo sviluppo della religione consiste dunque in una progressiva negazione di Dio da parte dell'uomo, la quale va di pari passo con la consapevole riappropriazione della propria essenza umana. Quanto c'è di vero e di essenziale nel cristianesimo deve quindi essere negato come teologia per essere conservato come Antropologia. In quanto antropologia, la filosofia si assume il compito di liberare l'essenza dell'uomo e delle sue infinite possibilità dalla sua alienazione religiosa in un ente estraneo. Secondo Feuerbach è ateo non chi elimina Dio, il soggetto dei predicati religiosi, bensì chi elimina i predicati con i quali Dio è designato nell'esperienza religiosa, come bontà o saggezza o giustizia. Anche quando si è riconosciuta la non esistenza di Dio come entità separata, questi predicati infatti permangono nella loro verità, ma come possibilità e prerogative dell'essenza umana. Il compito dell'età moderna è consistito secondo Feuerbach, nella trasformazione e dissoluzione della teologia in antropologia. Già il protestantesimo, secondo Feuerbach, è originariamente antropologia religiosa: in esso, infatti, è rilevante ciò che Dio è per gli uomini, non tanto ciò che egli è in sé, anche se in teoria gli è riconosciuta esistenza indipendente. Come si colloca la filosofia hegeliana rispetto a questa antropologia? Per Feuerbach essa non è altro che teologia filosofica: la filosofia speculativa, il cui culmine è rappresentato da Hegel, ha identificato ciò che nella teologia è concepito come oggetto ossia Dio come ente indipendente, con il soggetto, il pensiero o lo spirito assoluto. In tale filosofia Dio diventa l'essenza della ragione stessa, non è più rappresentato come essenza autonoma, distinta dalla ragione, e anzi, le determinazioni di Dio, per esempio l'infinità sono riconosciute come proprie della ragione stessa. Ma secondo Feuerbach ciò significa soltanto che, mentre nella teologia, l'essenza umana è alienata in Dio, nella filosofia speculativa essa è alienata nello spirito assoluto, ossia nel pensiero. Nelle Tesi provvisorie per la riforma della filosofia e nei Princìpi della filosofia dell'avvenire , Feuerbach mostra che Hegel ha commesso lo stesso errore della teologia, in quanto di fatto ha ricavato le determinazioni dell'infinito dalla realtà finita, ma ha preteso di dedurre il finito dall'infinito, considerando il finito soltanto un momento negativo dell'infinito. Secondo Feuerbach invece, è nel finito che deve essere ritrovato l'infinito , non viceversa; l'infinito stesso è pensabile soltanto attraverso il finito e la negazione del finito. L'inizio della filosofia non è dunque Dio o l'Assoluto, ma ciò che è finito, determinato e reale. La filosofia dell'avvenire, in quanto antropologia, riconoscendo il finito come infinito, deve partire, non da come aveva fatto Hegel, dal pensiero autosufficiente, inteso come soggetto capace di costruirsi con le sue proprie forze, bensì dal vero soggetto, di il cui pensiero è soltanto un predicato. Esso è l'uomo in carne e ossa, mortale dotato di sensibilità e bisogni: in questo consiste l'umanesimo di Feuerbach. Occorre dunque partire da ciò che dà valore al pensiero stesso, ossia dall'intuizione sensibile perché veramente reale è soltanto ciò che è sensibile . Solo attraverso i sensi un oggetto è dato come immediatamente certo: il sensibile infatti non ha bisogno di dimostrazione, perché costringe subito a riconoscere la sua esistenza. In questa prospettiva, la natura non si trova più ridotta a semplice forma estraniata dello spirito, come avveniva in Hegel, ma diventa la base reale della vita dell'uomo. Si apre così la possibilità di una nuova filosofia, il sensualismo , che è la risoluzione compiuta della teologia in antropologia: in essa è superata ogni scissione tra uomo e mondo, corpo e spirito. Solo dalla sensibilità deriva il vero concetto dell'esistenza: infatti, solo ciò che è piacevole o doloroso modifica lo stato dell'uomo e mostra che qualcosa esiste o manca. Passione, amore, fame sono dunque la prova ontologica dell'esistenza di qualcosa: solo esse, infatti, hanno interesse all'esistenza o meno di qualcosa. La corporeità, diversificandosi come maschio o femmina, conduce al riconoscimento dell'esistenza di un essere differente dall'io, che tuttavia è essenziale per la determinazione della esistenza. Il vero principio della vita e del pensiero non è dunque l'io, ma l'io e tu, il cui rapporto più reale si configura come amore, interesse per l'esistenza dell'altro. E Feuerbach afferma che "la vera dialettica non è un monologo del pensiero solitario con se stesso, ma un dialogo tra l'io e tu".
L'uomo singolo non ha in sé l'essenza totale dell'uomo, come unità di vita, cuore e ragione; tale essenza è contenuta solo nella comunità, ossia nell'unità dell'uomo con l'uomo, fondata sulla realtà della differenza tra io e tu. In questa prospettiva, l'amore diventa la realizzazione dell'unità del genere umano. Il fenomeno religioso continuerà a rimanere al centro delle riflessioni di Feuerbach. Nell' Essenza della religione , egli prende in considerazione non soltanto il cristianesimo, ma la religione in generale: essa ha la sua matrice nel sentimento di dipendenza dell'uomo dalla natura. Contrariamente a quanto pensava Stirner, Feuerbach considera l'individuo un'entità non assolutamente autonoma, ma dipendente da una realtà oggettiva: la natura. Per natura Feuerbach, in questa fase del suo pensiero, non intende più in primo luogo la natura dell'uomo, che si esprime sotto forma di sensibilità. La natura è più in generale il mondo da cui l'uomo dipende: tale dipendenza si manifesta all'uomo sotto forma di bisogno. Proprio dalla difficoltà di soddisfarlo nasce la religione. Di fronte al carattere illimitato dei propri desideri e delle proprie aspirazioni l'uomo si rende conto del carattere limitato dei suoi poteri. In questa situazione Dio viene immaginato come l'essere nel quale tutti questi desideri sono realizzati: a Dio, infatti, nulla è impossibile. Ma questa concezione della divinità rappresenta soltanto la forma più sviluppata di religione. All'origine, infatti, ciò che l'uomo divinizzò fu una natura non addomesticata, anche ostile, solo successivamente egli attribuì a questa natura caratteri simili all'uomo, sino a ravvisare nella natura stessa un ordine dovuto a Dio, inteso come principio ordinatore. Solo per quest'ultima fase dello sviluppo della religione vale la tesi secondo cui Dio e i suoi attributi non sono altro che la proiezione di sentimenti e desideri umani. Ma così facendo si è dimenticata la dipendenza essenziale dell'uomo dalla natura: questo è l'errore della forma più avanzata di religione, soprattutto del cristianesimo, che è dunque il più lontano dall'origine naturale della religione. Nella sua ultima produzione teorica Feuerbach insisterà sull'importanza della conoscenza della natura e di un rapporto armonizzato dell'uomo con la natura stessa. Ciò lo condurrà a guardare con interesse agli sviluppi di concezioni materialistiche nelle indagini scientifiche della metà del secolo e a continuare nella sua polemica antireligiosa. Nel 1850 egli recensisce favorevolmente uno scritto di Moleshott sull'alimentazione, interpretata come la base che rende possibile il costituirsi e perfezionarsi della cultura umana: un popolo può migliorare migliorandone l'alimentazione. Significativo è il titolo di uno scritto del 1862: Il mistero del sacrificio o l'uomo è ciò che mangia : cioè esiste un'unità inscindibile fra psiche e corpo, per pensare meglio dobbiamo alimentarci meglio. Dio è l'eco del nostro grido di dolore, Dio è una lacrima dell'onda versata nel più profondo dolore della miseria umana. Il cristiano vede nel miracolo l'opera di Dio, ma il miracolo è detto così perché non conosciamo le leggi fisiche che hanno prodotto il fenomeno. Tutti i popoli in principio sono religiosi, ma poi acquistano coscienza e si disalienano. Il compito degli scritti di Feuerbach, come egli stesso afferma, é di abbattere le illusioni e i pregiudizi del presente, traendo la filosofia da quello che egli chiama il 'regno delle anime morte' per reintrodurla nel dominio delle anime vive, radicalmente legate al corpo e alla sensibilità. Per ora il problema é di trarre l'uomo 'fuori dal pantano in cui era sommerso', non ancora di 'rappresentare l'uomo quale é'. Si tratta in altre parole di dedurre dalla teologia la necessità di una filosofia dell'uomo, di un'antropologia: a questa operazione Feuerbach provvede con i suoi scritti. Egli é infatti convinto, come dice nella premessa dei Princìpi della filosofia dell'avvenire, che ' solo alle future generazioni sarà concesso di pensare, parlare e agire in modo puramente ed autenticamente umano'.
In una delle sue ultime opere, Spiritualismo e materialismo (1866), Feuerbach ribadisce la sua concezione dell'individuo come organismo sensibile caratterizzato da bisogni, polemizza contro il dualismo di anima e corpo e, facendo proprio un punto di vista deterministico, nega l'esistenza del libero arbitrio.
Per molti aspetti le tesi di Feuerbach saranno uno spunto per il lavoro di Marx, che comunque non tarderà a criticare il lavoro di Feuerbach nelle Tesi su Feuerbach; nei Manoscritti del 1844 Marx definirà Feuerbach 'il solo che sia in un rapporto serio e critico con la dialettica hegeliana'.
▪ 1928 - Italo Svevo, pseudonimo di Aron Hector Schmitz - nome poi italianizzato in Ettore Schmitz - (Trieste, 19 dicembre 1861 – Motta di Livenza, 13 settembre 1928), è stato uno scrittore e drammaturgo austriaco naturalizzato italiano. Fu autore di romanzi, racconti brevi e opere teatrali in lingua italiana.
«La salute non analizza se stessa e neppure si guarda allo specchio. Solo noi malati sappiamo qualche cosa di noi stessi.» (La coscienza di Zeno)
* 1966 - Delio Cantimori (Russi, 30 agosto 1904 – Firenze, 13 settembre 1966) è stato uno storico e politico italiano.
Delio Cantimori fu il primogenito dei tre figli di Carlo e Silvia Sintini. Frequentò il ginnasio a Forlì e il liceo "Dante Alighieri" a Ravenna, dove ebbe per insegnante di filosofia Galvano Della Volpe, conseguendovi la maturità nel 1924. Nel novembre di quello stesso anno vinse il concorso per allievo interno alla Scuola Normale Superiore di Pisa, iscrivendosi alla facoltà di lettere e filosofia. Cantimori vi stabilì duraturi rapporti di amicizia con molti normalisti e professori, tra i quali Aldo Capitini, Umberto Segre e il gentiliano Giuseppe Saitta, suo insegnante di storia della filosofia.
Dal mazzinianesimo familiare, Cantimori aderì in questi anni a un fascismo di impronta repubblicana e anticlericale, rappresentate dal mensile, fondata da Saitta e Leandro Arpinati, «Vita Nova», al quale collaborò dal 1927 al 1932. Il fascismo corporativista gli appariva la sintesi tra le due estreme esigenze del comunismo e della reazione, e lo Stato autoritario fascista, considerato rivoluzionario in quanto anti-capitalista, era visto essere il coronamento della vicenda risorgimentale italiana, secondo le tesi svolte da Gentile, da Volpe e dal Saitta.
Si laureò il 21 giugno 1928 discutendo col Saitta la tesi Ulrico di Hutten e le relazioni tra Rinascimento e Riforma, che pubblicò nel 1930 con qualche rimaneggiamento e con il titolo Ulrich von Hutten e i rapporti tra Rinascimento e Riforma. Rappresentava il deciso virare degli interessi del Cantimori allo studio del Rinascimento, già annunciato nel 1927 con Il caso Boscoli e la vita del Rinascimento, pubblicato nel «Giornale critico della filosofia italiana», e alle ricerche sul movimento ereticale sviluppatosi nel Rinascimento italiano, espressione della complessità conflittuale del rapporto che univa nel Cinquecento la cultura alla società civile. Nello stesso segno vanno le sue Osservazioni sui concetti di cultura e di storia della cultura (1928), il Bernardino Ochino, uomo del Rinascimento e riformatore (1929), e il saggio Sulla storia del concetto di Rinascimento (1932).
Nel 1929 vinse il concorso per la cattedra di storia e filosofia per i licei e divenne insegnante al liceo classico Dettòri di Cagliari, dove ha, tra i suoi allievi, il futuro romanziere Giuseppe Dessì. Nel 1931 prende la seconda laurea in Letteratura tedesca presso l'Università di Pisa, e si trasferì al liceo classico "Ugo Foscolo" di Pavia. Ottenuta una borsa di studio, si trasferì a Basilea per studiarvi teologia all'Università, dove conobbe tra gli altri il teologo protestante Karl Barth. Tornò in Italia nel luglio del 1932 e, grazie a un'altra borsa di studio, nel 1933 partì per un soggiorno di un anno in Svizzera, in Austria, in Germania, in Polonia e in Inghilterra, raccogliendo molto materiale documentario per il suo progetto di uno studio sugli eretici italiani del Cinquecento.
Nel 1934 Giovanni Gentile gli offrì il posto di assistente all'Istituto italiano di Studi germanici di Roma, come redattore della rivista dell'Istituto e direttore della biblioteca. Nel 1939 vince il concorso alla cattedra di Storia Moderna al Magistero di Messina; nel 1940 infine torna alla Normale chiamato da Gentile. Verso la fine degli anni '30 si avvicina al Partito Comunista Italiano, anche per l'influenza della moglie Emma Mezzomonti, militante comunista.
Interrotto l'insegnamento nel periodo della Repubblica di Salò, riprende il suo posto alla Normale nel 1944, con la nomina di Luigi Russo a direttore della Scuola. Nel 1948 si iscrive al PCI, da cui esce nel 1956 in seguito ai fatti d'Ungheria. In questo periodo è consulente editoriale per Einaudi, scrive sul "Politecnico" e su "Società". Tra il 1951 e il 1952 traduce con la moglie il primo libro del Capitale di Karl Marx. Dopo l'uscita dal PCI i suoi interessi si allontanano dall'attualità e si orientano di nuovo allo studio del '500.
▪ 1971 - Lin Biao; Wade-Giles: Lin Piao, in Italia meglio noto come Lin Piao (Wuhan, 5 dicembre 1907 – Öndörkhaan, 13 settembre 1971), è stato un rivoluzionario cinese. Leader militare e politico del Partito Comunista, alleato di Mao Zedong, ne fu nominato successore, ma morì in circostanze oscure e fu poi dichiarato traditore.
Il rivoluzionario
Nato a Wuhan nella provincia del Hubei in una famiglia di piccoli proprietari terrieri, Lin si unì alla Lega della Gioventù Socialista nel 1925 e si iscrisse all'Accademia Militare di Whampoa all'età di diciotto anni. In accademia si unì alla fazione che faceva capo a Zhou Enlai e al generale sovietico Vasilij Konstantinovič Bljucher. Poco dopo la sua iscrizione partecipò come comandante di plotone alla Spedizione a Nord e divenne comandante di battaglione dell'Esercito Rivoluzionario Nazionale in pochi mesi. Lin si diplomò all'Accademia Whampoa nel 1925 e nel 1927 era già colonnello.
Con la rottura tra il Kuomintang e il Partito Comunista Cinese Lin scappò nel soviet del Jiangxi alla repressione e nel 1928 riuscì ad unirsi a Mao Zedong e Zhu De. Lin si dimostrò un brillante comandante nelle tattiche di guerriglia e, nelle battaglie di accerchiamento del 1934, comandò il Primo Corpo d'Armata dell'Armata Rossa. Rimase al comando per tutta la durata della Lunga Marcia fino a che, nel dicembre 1936, prese Yan'an destinata a diventare la "capitale rossa" fino alla fine della seconda guerra mondiale. Nel settembre del 1937, come comandante della 115 divisione dell' Ottava Armata Lin pianificò la battaglia di Pingxingguan, una delle poche rilevanti vinte dai cinesi contro i giapponesi nel corso della guerra sino-giapponese. Nel 1938 Lin fu seriamente ferito e gli fu data la carica di comandante dell'Accademia Militare Comunista a Yan'an, che ricoprì fino alla fine della seconda guerra mondiale tranne i tre anni (1939-1942) trascorsi a Mosca.
Con lo scatenarsi della guerra civile Lin fu promosso segretario dell'Ufficio per la Cina Nordorientale e comandante militare delle forze impegnate a combattere nelle province dell'ex Manciuria. Dopo aver preso il totale controllo delle campagne, con una serie di assedi, riuscì a sopraffare le truppe del Kuomintang aiutate logisticamente dagli Stati Uniti d'America e concentrate nelle principali città mancesi. Quindi partecipò alla presa della restante Cina settentrionale ricongiungendosi con il resto dell'Armata Rossa, rinominata Esercito di Liberazione del Popolo.
Il politico
Nel 1950 Lin fu uno dei molti generali che si opposero ai piani di Mao per una partecipazione cinese alla Guerra di Corea. Il risultato di compromesso fu che le truppe cinesi che vi parteciparono lo fecero senza appoggi logistici e con lo status di "volontari"
Nel 1955 fu nominato maresciallo e nel 1958 fu eletto al Politburo o Comitato Politico Permanente del Partito Comunista Cinese. Lavorò strettamente con Mao, che nel frattempo aveva perso il controllo del partito a causa delle politiche economiche sbagliate, pubblicando come manuale di istruzione politica per l'esercito il Libretto rosso, un volumetto che raccoglieva alcune citazioni dagli scritti di Mao. Iniziava così il culto della personalità che sarebbe stato determinante per scatenare la rivoluzione culturale contro le strutture del partito comunista stesso.
Dopo la caduta di Liu Shaoqi il 1 aprile del 1969 IX Congresso del Partito Comunista Cinese, Lin Biao fu in grado di controllare l'intero Esercito di Liberazione del Popolo e fu secondo solo a Mao Zedong nel partito. La costituzione stessa del partito fu modificata per indicare espressamente in Lin Piao il successore di Mao. Dato il susseguirsi di scontri tra il partito comunista e le Guardie Rosse fu deciso che ogni organo dirigenziale a qualsiasi livello fosse posto sotto il controllo di un organo collegiale che avesse rappresentanti sia del partito comunista, che delle guardie rosse che dell'esercito. In questo modo il potere dell'esercito nella società cinese divenne determinante, e Lin Piao ne era a capo.
Il traditore
Lin scomparve nel 1971 in circostanze che rimangono misteriose. Alcuni storici ritengono che Mao abbia pianificato di eliminare Lin Piao e per questo Lin e quanti erano legati a lui abbiano pianificato un colpo di stato preventivo. La spiegazione ufficiale fu che Lin Piao, con l'aiuto di suo figlio Lin Liguo abbia pianificato di assassinare Mao tra l'8 settembre e il 10 settembre 1971 ma che la figlia di Lin Piao Lin Liheng (Doudou) abbia rivelato il complotto. Una volta scoperto, Lin e la sua famiglia (sua moglie Ye Qun e i suoi figli) e molti altri suoi aiutanti personali tentarono una fuga in Unione Sovietica ma l'aereo su cui si erano imbarcati si schiantò, per cause mai precisate, in Mongolia il 13 settembre 1971. Rimane però un mistero se l'intera storia sia vera o meno.
Dopo questi eventi in poche settimane molti dei più alti ufficiali dell'esercito furono soggetti a purghe. Le celebrazioni per la fondazione della Repubblica Popolare Cinese del 1 ottobre del 1971 furono misteriosamente cancellate. Le notizie del tentato colpo di stato furono rivelate solo quasi un anno dopo. Le immagini di Lin Piao, presenti in tutte le edizioni del libretto rosso, furono distrutte.
Anni dopo la morte di Lin Piao la moglie di Mao, Jiang Qing, iniziò la campagna politica nota per il suo slogan critichiamo Lin Biao critichiamo Confucio che aveva come scopo di unire all'obiettivo della rivoluzione culturale, l'eliminazione del pensiero feudale, una critica ai nemici politici di Mao e in questo modo attaccare Zhou Enlai che fino ad allora era rimasto inattaccabile.
In seguito alla caduta della cosiddetta Banda dei quattro, che di fatto aveva usato la figura di Lin Piao per attaccare Zhou Enlai, Lin Piao fu nuovamente usato per attaccare gli eccessi della rivoluzione culturale in quanto propugnatore del culto della personalità di Mao. A tuttora la sua figura non è mai stata riabilitata.
Citazioni
"Studiare gli scritti del Presidente Mao, seguire i suoi insegnamenti e agire in accordo con le sue istruzioni." - Prefazione di suo pugno che apriva il Libretto Rosso
▪ 1990 - Giancarlo Pajetta (Torino, 24 giugno 1911 – Roma, 13 settembre 1990) è stato un politico e partigiano italiano.
La vita e la politica
Nato in una famiglia benestante da genitori che, pur non essendo iscritti al partito, si dichiaravano comunisti (il padre Carlo era avvocato e la madre Elvira Berrini era maestra elementare), fin da giovane espresse le sue idee antifasciste frequentando il Liceo Classico Massimo D'Azeglio di Torino e si iscrisse al Partito Comunista d'Italia. Per questo fu espulso per tre anni da tutte le scuole d'Italia nel 1927 e condannato a due anni di reclusione, che rappresentarono per lui, ancora minorenne, una prova durissima.
Pajetta, da giovane, si formò intellettualmente leggendo i classici del movimento operaio ed alcuni autori anarchici. Nei soggiorni di prigionia studiò le lingue, lesse Einaudi, Gaetano De Sanctis, Gentile, Croce, Volpe, oltre a Verga ed i romanzieri francesi e russi dell'Ottocento.[1]
Nel 1931 andò in esilio in Francia e con lo pseudonimo di "Nullo" divenne segretario della federazione giovanile comunista, direttore di Avanguardia e rappresentante italiano nell'organizzazione comunista internazionale.
Nel 1933 fu inviato in missione segreta a Parma con l'obiettivo di convincere alcuni membri del fascismo ad abbandonare il regime, ma fu scoperto dalla polizia fascista il 17 febbraio dello stesso anno: fu quindi condannato a ventun anni di carcere per "attività eversiva". Dopo alcuni trasferimenti carcerari, venne liberato a seguito della caduta del fascismo il 23 agosto del 1943 e, successivamente, prese parte alla Resistenza partigiana, entrando a far parte, con Luigi Longo, Pietro Secchia, Giorgio Amendola e Antonio Carini, del Comando generale delle brigate d’assalto Garibaldi.
Nel 1944 fu nominato, insieme a Ferruccio Parri ed Alfredo Pizzoni, presidente del Comitato di Liberazione Nazionale dell'alta Italia: da questa posizione intavolò trattative diplomatiche con gli alleati anglo-americani e con il futuro Presidente del Consiglio dei ministri Ivanoe Bonomi. Divenne anche Capo di stato maggiore (ovvero vice-comandante nazionale) delle forze militari partigiane.
Nel 1948 entrò nella segreteria nazionale del partito, del quale fu il responsabile esteri (membro, tra l'altro, del Consiglio di Presidenza del Comitato Italia-Vietnam), e ne fece parte fino al 1986, anno in cui fu destinato all'incarico, molto più defilato, di presidente della commissione di garanzia.
Fu deputato al Parlamento nazionale dal 1946 fino alla morte, e al Parlamento europeo dal 1984. Morigerato nella vita privata (viveva in un piccolo appartamento di un anonimo condominio di via Monteverde), in Parlamento e sui giornali dell'epoca, Pajetta era noto per la veemenza e la causticità dei suoi discorsi: fu lui che nella primavera del 1953 - durante la discussione della cosiddetta legge truffa - entrò a Montecitorio con una riga di sangue che scorreva dal capo, lamentando che un cordone di "celerini di Scelba schierato davanti alla Standa di via del Corso" aveva impedito il passaggio di alcuni deputati socialisti e comunisti verso la Camera, e che alla sua esibizione del tesserino di parlamentare avevano risposto manganellandolo. Fino agli anni sessanta capitò spesso che alla Camera, nella foga della discussione, saltasse fuori dal suo banco per andare ad "invadere" le postazioni altrui ed era perciò considerato anche una figura "pittoresca" della politica italiana di allora. Grande fu anche la sua capacità oratoria che gli permetteva, con una sola battuta, di mettere in ridicolo il discorso degli avversari politici. Per questo fu l'uomo di punta del PCI durante le tribune politiche, alle quali parteciperà assiduamente, contribuendo a rendere celebri alcune puntate di quella trasmissione.
Nel 1956 fu inviato dal partito a Mosca insieme a Celeste Negarville. Qui, come Negarville, rimase scosso dal racconto compiaciuto che Nikita Khruščёv fece loro riguardo alle modalità con cui Beria era stato eliminato fisicamente, dopo la morte di Stalin, dalla nuova dirigenza sovietica.
Fu più volte direttore de L'Unità e, per breve tempo, del periodico politico-culturale Rinascita
Esponente della corrente riformista rappresentata da Giorgio Amendola prima e Giorgio Napolitano poi, fu uomo di vivace intelligenza, di grande abilità dialettica e molto amato dai militanti (come si vide, da ultimo, nella grande partecipazione di popolo al suo funerale). Fu sempre assolutamente leale verso il partito, inteso come entità collettiva rappresentata dai suoi dirigenti, anche quando le sue opinioni personali divergevano dalla linea politica espressa dai segretari, prima Palmiro Togliatti e poi Enrico Berlinguer: di quest'ultimo tenne comunque l'orazione funebre, quando la sua morte improvvisa lasciò il partito stordito e in angoscia (i militanti erano allora milioni), proprio perché universalmente riconosciuto come l'uomo che in quel momento ne rappresentava meglio la storia e l'unità.
Nella sua veste di responsabile delle relazioni estere con i "partiti fratelli", fu inviato al congresso del PCUS del 1980 a Mosca ad esprimere il dissenso del PCI dalla politica di Breznev in Afghanistan ed in Polonia, ed in quella circostanza la sua allocuzione fu fatta tenere non nella sala del Congresso al Cremlino bensì nella Casa del Sindacato, dinanzi ad una gelida platea che non applaudì.
Fu lui ad accogliere il segretario del MSI Giorgio Almirante a Botteghe Oscure quando il leader missino volle andare a rendere omaggio alla camera ardente di Berlinguer, provocando una certa sorpresa tra l'immensa folla che attendeva di entrare.
Quattro anni dopo, alla morte di Almirante nel 1988, fu lui stesso a rendere omaggio alla camera ardente dello storico avversario politico, suscitando anche in questo caso una certa sorpresa.
Al momento della scelta del successore di Berlinguer, Pajetta era considerato ormai troppo anziano per partecipare alla guerra di successione (ed inoltre egli era molto caro al popolo del PCI ma pochissimo al suo gruppo dirigente) ed inutile fu la sua opposizione al progetto di Achille Occhetto, ovvero la trasformazione del PCI in Partito Democratico della Sinistra.
Morì all'improvviso la notte del 13 settembre del 1990 nella sua casa di Roma, di ritorno da una Festa dell'Unità, prima di vedere la fine del suo amatissimo partito.
Il suo funerale (al quale parteciparono circa 200.000 persone, tra cui pure il suo tradizionale rivale, anche nel campo della politica estera, Giulio Andreotti) fu accompagnato dalle note de L'Internazionale e di Bandiera Rossa e la sua bara fu seguita da una bandiera rossa con falce e martello, proprio come lui stesso aveva sempre immaginato.
Controversie
Fu tra gli intellettuali che firmarono un manifesto, pubblicato su L'espresso con cui accusarono il commissario Calabresi di essere un torturatore e di essere responsabile della morte dell'anarchico Pinelli.
Nel 1947 fu il protagonista dell'occupazione della Prefettura di Milano in seguito alla rimozione del prefetto Ettore Troilo, da parte del ministro degli interni Mario Scelba.
▪ 2000 - Giorgio Fuà (Ancona, 19 maggio 1919 – Ancona, 13 settembre 2000) è stato un economista italiano.
Fondatore della facoltà di economia dell'Università Politecnica delle Marche di Ancona, che è oggi a lui intitolata, e dell'ISTAO, Istituto Adriano Olivetti di studi per la gestione dell'economia e delle aziende, sempre ad Ancona.
Nato da una famiglia borghese di Ancona, frequenta le scuole nel capoluogo dorico per proseguire alla scuola Normale Superiore di Pisa. Riesce a conseguire la laurea all'università di Pisa in scienze politiche, ma non a concludere gli studi come normalista, costretto a lasciare a causa delle leggi razziali, poiché ebreo. Fugge in Svizzera dove, nel 1940, consegue il Doctorat en Droit - mention en économie politique all'Università di Losanna. Dal 1941 inizia a lavorare per Adriano Olivetti e nel 1943 si sposa con Erika Rosenthal. Per un breve periodo (1947-1950) ritorna all'università di Pisa come professore, poi viene chiamato a Ginevra come consulente della Commissione Economica per l'Europa delle Nazioni Unite presieduta da Gunnar Myrdal. Nel 1955 entra all'ENI come consigliere economico di Enrico Mattei.
Decisivo il suo impegno per la costituzione di una facoltà di economia nella sua città natale. Anche grazie ai suoi contatti con Carlo Bo, allora rettore dell'università di Urbino, nel 1959 riesce ad aprire questa facoltà come sede distaccata di Urbino, che dopo alcuni anni (1969) si unisce alla facoltà di ingegneria creando la "liberà università di Ancona". Dalla sua istituzione fino al 1997 insegna in questa facoltà, coinvolgendo molti altri esperti italiani. Il 26 gennaio 2002 l'università dedica la facoltà di economia e commercio a Fuà.
Nel 1967 fonda, sempre ad Ancona, l'ISTAO (Istituto Adriano Olivetti di studi per la gestione dell'economia e delle aziende) con l'obbiettivo di creare una scuola di alta specializzazione post-laurea; ora ha sede a Villa Favorita.
Dal 1983 al 1986 è presidente della società italiana economisti, e dal 1986 è socio dell'accademia dei Lincei. Nel 1988 fonda l'associazione italiana per la collaborazione tra gli economisti di lingua neolatina, di cui è presidente fino al 1994. Riceve la laurea honoris causa dall'università di Camerino (1993) e dall'università autonoma di Madrid (2000).