Il calendario del 10 Giugno

Fonte:
CulturaCattolica.it
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Eventi

▪ 1610 - I primi coloni olandesi si insediano sull'isola di Manhattan
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▪ 1692 - Processo alle streghe di Salem: Bridget Bishop viene impiccata come strega.

▪ 1745 - Papa Benedetto XIV pubblica la Lettera Enciclica Libentissime quidem, sui problemi sorti intorno alle disposizioni sul digiuno quaresimale.

▪ 1829 - Prima gara di canottaggio tra le università di Oxford e Cambridge.

▪ 1846 - Guerra Messicano-Americana: La California dichiara l'indipendenza dal Messico.

▪ 1848 - Attribuzione della Medaglia al Valor Militare alla città di Vicenza.

▪ 1854 - Primi laureati dell'Accademia Navale degli Stati Uniti di Annapolis (Maryland).

▪ 1886 - L'eruzione del Monte Tarawera in Nuova Zelanda, uccide 153 persone e distrugge le famose Pink and White Terraces.

▪ 1898 - Guerra Ispano-Americana: i Marines statunitensi sbarcano a Cuba.

▪ 1907 - Prende il via da Pechino il Raid Pechino-Parigi, 14.000 km a bordo delle prime automobili.

▪ 1914 - Viene fondato il Comitato Olimpico Nazionale Italiano (CONI).

▪ 1918 - Luigi Rizzo, della Regia Marina Italiana, compie l'Impresa di Premuda in cui viene affondata la corazzata SMS Szent István (Santo Stefano) della Imperial-Regia Marina militare austro-ungarica (Kaiserliche und Königliche Kriegsmarine).

▪ 1924 - Italia - Delitto Matteotti: Giacomo Matteotti viene assassinato da alcuni sicari fascisti.

▪ 1935 - A New York viene fondata l'associazione Alcolisti Anonimi.

▪ 1938 - USA - Sul numero 1 della rivista Action Comics appare la prima storia del personaggio a fumetti Superman.

▪ 1940

  1. - Seconda guerra mondiale:
  2. - L'Italia dichiara guerra a Francia e Regno Unito
  3. - Le forze tedesche guidate dal Generale Rommel raggiungono il Canale della Manica.
  4. - Il Canada dichiara guerra all'Italia

▪ 1944 - Seconda guerra mondiale:
  1. - Massacro di Oradour-sur-Glane, Francia, 642 uomini, donne e bambini vengono uccisi.
  2. - Il principale bombardamento alleato su Trieste provoca 378 vittime.

▪ 1947 - La Saab produce la sua prima automobile.

▪ 1956 - XVI Olimpiade: a causa della quarantena sugli animali vigente in Australia, le gare di Equitazione iniziano a Stoccolma, in Svezia.

▪ 1967 - Fine della Guerra dei Sei Giorni.

▪ 1981 - Alfredo Rampi, detto Alfredino, verso le ore 19:00 cade in un pozzo artesiano largo 30 cm e profondo 80 metri, nelle campagne della località di Vermicino (Frascati). Morirà, nonostante i diversi tentativi di soccorso verso le ore 6:30 del 13 giugno.

▪ 1987 - Strage di Ustica: Iniziano le operazioni di recupero del relitto del DC-9 esploso nei cieli di Ustica il 27 giugno 1980 a cura della ditta francese IFREMER.

▪ 2003 - Il lancio della navicella Spirit ad opera della NASA segna l'inizio del Mars Exploration Rover.

Anniversari

▪ 1190 - Federico III Hohenstaufen anche Federico I del Sacro Romano Impero, detto il Barbarossa (Waiblingen, 1122 – Saleph, 10 giugno 1190) fu imperatore del Sacro Romano Impero. Salì al trono di Germania il 4 marzo 1152 succedendo allo zio Corrado III, e fu incoronato Imperatore il 18 giugno 1155.

Le pretese sull'Italia
Alla dieta di Costanza, del marzo del 1153, avevano partecipato anche gli ambasciatori dei Comuni di Lodi, Pavia e Como, venuti ad implorare aiuto contro la prepotenza di Milano, che dopo aver distrutto Lodi e dopo aver vinto una guerra decennale contro Como (1127) ne limitava l'indipendenza e impediva lo sviluppo delle altre città.

Federico approfittò di queste richieste di aiuto per intervenire nella politica italiana: egli seguiva un ideale di impero universale; il controllo sia sui Comuni a nord sia sul Regno di Sicilia a sud era essenziale a questo scopo. L'Italia era per l'imperatore tedesco il contesto ideale per ottenere alcune prerogative essenziali per realizzare la costruzione dell'impero universale: la supremazia nella contesa col papato per la potestà civile universale, il legame con la tradizione dell'impero romano, cui Federico si ispirava, e la sovranità su Comuni e feudatari. A tal scopo dispose un saldo controllo su tutti i territori della Corona, utilizzando funzionari di umili origini e provata fedeltà, i ministeriales, e si pose l'obiettivo di recuperare gli iura regalia, le regalie, ossia gli inalienabili diritti del potere regio (amministrazione della giustizia, difesa del territorio, riscossione delle imposte), poiché il potere comunale in Italia si stava arrogando poteri propri del sovrano sia all'interno sia all'esterno del territorio urbano, come dimostrava l'esempio di Milano, che aveva apertamente aggredito altri sudditi dell'imperatore.
Dopo la dieta di Costanza le condizioni per scendere in Italia c'erano tutte: lo chiedevano le famiglie feudali per limitare il potere comunale, lo chiedevano i piccoli Comuni alleatisi contro Milano, lo chiedeva il papa stesso, Anastasio IV, che auspicava l'intervento di Federico contro il Comune di Roma, in cui a partire dal 1143 si era formato un regime capeggiato da Arnaldo da Brescia, un riformatore patarino contestatore del potere temporale dei papi, che aveva costretto papa Eugenio a ritirarsi ad Orvieto.

Le guerre in Italia
Nell'ottobre 1154 Federico partì dal Tirolo e scese in Italia alla testa di un piccolo esercito e, a novembre, convocò una dieta a Roncaglia (Piacenza) in cui revocò tutte le regalie usurpate dai Comuni sin dal tempo di Enrico IV.
Il 3 dicembre morì Anastasio IV e il 4 dicembre fu eletto il nuovo papa, Adriano IV.
Federico nel frattempo era passato all'azione di forza: distrusse alcune località minori come Galliate e alcuni Comuni maggiori come Asti e Chieri (consegnate poi al marchese di Monferrato, suo fedele vassallo, a cui si erano ribellate), poi fu messo l'assedio a Tortona, alleata di Milano (quest'ultima aveva rifiutato le decisioni dell'imperatore e non aveva agevolato il passaggio delle truppe imperiali sul suo territorio). Tortona, che si era arresa per sete dopo due mesi, nell'aprile del 1155, era stata rasa al suolo ed i suoi abitanti dispersi.
Dato che le mire di Federico erano riposte anche sul regno di Sicilia, in quello stesso anno, intavolò trattative anche col basileus Manuele I Comneno, che però non approdarono a nulla, in quanto Federico non poteva riconoscere i diritti che Manuele accampava sull'Italia meridionale, mentre portò avanti anche trattative con le repubbliche marinare -Venezia, Genova e Pisa- in vista di una spedizione contro il re di Sicilia.
Passata la Pasqua del 1155 a Pavia, Federico si mise in marcia verso Roma per cingere la corona di imperatore. Presso Siena Federico incontrò i cardinali inviati da Adriano IV, che gli chiesero di catturare Arnaldo da Brescia; cosa che l'imperatore fece e Arnaldo fu condannato a morte, dal prefetto di Roma, e mandato al rogo, molto probabilmente a Civita Castellana. Federico incontrò il papa nelle vicinanze di Sutri, dove il papa ebbe da ridire sull'accoglienza ricevuta[15], allora l'incontro fu ripetuto, due giorni dopo sulle sponde di un lago vicino a Nepi. Poi proseguirono per Roma, alle cui porte erano attesi dagli ambasciatori del senato e del popolo romano, che chiesero a Federico un giuramento e un tributo che Federico rifiutò di fare. Il 18 giugno 1155, papa Adriano incoronò Federico in San Pietro, nella città leonina, contro la volontà del senato romano, che, per quest'ultimo sgarbo, scatenò una serie di violenti tumulti contro le truppe tedesche e la curia. Federico col cugino, Enrico il Leone, accampato fuori le mura rientrarono in città e, dopo un'intera giornata di lotta ricacciarono i Romani al di là del Tevere. Dopo il bagno di sangue il papa e l'imperatore lasciarono la città ed ai primi di luglio erano a Tuscolo, dove Adriano chiese a Federico di marciare contro il re di Sicilia. Federico avrebbe voluto acconsentire, ma i suoi baroni laici furono contrari e lo convinsero a tornare verso l'Italia settentrionale. Federico lasciò il papa con la promessa di tornare per sottomettere Roma e la Sicilia. Sulla strada del ritorno saccheggiò Spoleto che gli si era opposta. Ad Ancona incontrò gli ambasciatore di Manuele Comneno, non aderendo alle loro richieste di attaccare subito il regno di Sicilia. Dovette ancora combattere a Verona e alle Gole dell'Adige e finalmente rientrò in Germania.
Papa Adriano, nel frattempo, per garantirsi comunque una protezione, venne a patti con i Normanni, la cui potenza un tempo era stata in realtà giudicata pericolosa dal pontefice, concedendo al re di Sicilia Guglielmo I il Malo l'investitura di tutto il regno, comprese Capua e Napoli. Questo accordo però veniva meno ai patti tra papa e imperatore, e d'altra parte non mancavano altri motivi di contrasto tra i due, a causa dell'eccessiva ingerenza di Federico nell'elezione dei vescovi in Germania.
Un conflitto vero e proprio scoppiò nella dieta di Besançon (1157), dove si scontrarono le due opposte concezioni del cesaropapismo imperiale e della teocrazia papale: la prima concezione vede il potere temporale dell'imperatore dotato di un'autorità e una libertà decisionale assolutamente superiori in ogni campo a qualsiasi altra autorità, anche quella sacra, mentre la seconda è la concezione del potere riassunta nel Dictatus Papae di Gregorio VII che vede l'indiscussa supremazia del potere spirituale del papa su quello dell'imperatore, anche in materia di concessione di autorità politiche, per cui il papa può perfino svincolare i sudditi dalla sovranità imperiale.
Comunque per il momento la questione fu ricomposta, anche perché il clero tedesco si espresse a favore dell'imperatore.
L'anno dopo (giugno 1158), alla luce di questi contrasti di natura ideologica col pontefice e dato che Milano aveva ripreso ad agire con una certa autonomia, provvedendo, per esempio, alla ricostruzione di Tortona, Federico decise per una seconda discesa in Italia, e, inviati Rainaldo di Dassel e Ottone I di Wittelsbach in avanscoperta, in luglio, accompagnato dal re di Boemia, Vladislao II, alla testa di truppe più numerose, entrò in Italia (è documentato il suo pernottamento alla torre di Maggiana, nel comune alleato di Mandello del Lario sul Lago di Como). Sottomessa Brescia, dato inizio alla ricostruzione di Lodi, assediò Milano, obbligandola dopo un mese a sottoporre all'approvazione imperiale la nomina dei suoi consoli.
A novembre dello stesso anno venne convocata la seconda, e più importante, dieta di Roncaglia, cui parteciparono importanti esperti di diritto dell'Università di Bologna che fornirono a Federico, su sua esplicita richiesta, l'elenco dei diritti regi, poi inserito nella Constitutio de regalibus: elezione di duchi, conti e marchesi, nomina dei consoli comunali e dei magistrati cittadini, riscossione delle tasse, conio delle monete, imposizione di lavori di carattere pubblico. Tutti questi diritti Federico era anche disposto a lasciarli ai Comuni, in cambio però di un tributo annuo e del riconoscimento che l'impero fosse la fonte di ogni potere.
In base a quest'ultimo principio Federico emanò anche la Constitutio de pacis con cui proibì le leghe fra città e le guerre private. Per quanto riguarda infine i beni fondiari, rivendicò per quelli pubblici (contee, ducati, ecc.) la dipendenza regia e per quelli allodiali il diritto dell'imperatore di dare o meno il proprio consenso a che un proprietario potesse esercitare diritti signorili: gli allodi diventarono quasi dei feudi a tutti gli effetti. Inviò ovunque propri funzionari che ricevessero l'omaggio vassallatico dai signori e controllassero in modo diretto, in qualità di podestà, i Comuni più riottosi.
Tutti questi diritti rivendicati dall'imperatore però cominciarono a scontentare anche le città filo-imperiali e Milano si ribellò apertamente e conquistò il comune di Trezzo, seguita dalle ribellioni di Brescia e di Crema. Vista la mala parata, Federico, che dopo Roncaglia aveva liberato parte delle sue truppe, chiese urgenti rinforzi, che arrivarono guidati da Enrico il Leone e dallo zio di entrambi Guelfo VI, che veniva a prendere possesso dei suoi domini in Italia. Erano accompagnati dall'imperatrice Beatrice di Borgogna. Nel marzo del 1159 Barbarossa entrò a Como accolto ancora trionfalmente dalla popolazione e dal vescovo Ardizzone che gli consegnò simbolicamente le chiavi della città, mentre in luglio mise l'assedio a Crema, che si arrese dopo sette mesi e fu rasa al suolo.
Intanto era ripresa la controversia col pontefice sulla questione del primato del papa, che aveva portato all'esasperazione Adriano IV, che pensava di scomunicare l'imperatore, quando il papa improvvisamente, il 1º settembre morì. Il 7 settembre, la maggioranza dei cardinali elesse papa Rolando Bandinelli col nome di Alessandro III, che rappresentava la continuità della politica di Adriano in appoggio ai Comuni, mentre la minoranza votò per il cardinale Ottaviano dei Crescenzi Ottaviani, buon amico di Federico[22], col nome di Vittore IV, che cercava una politica di intesa coll'imperatore.
Federico convocò un concilio a Pavia, nel febbraio 1160, a cui Alessandro rifiutò di comparirvi e, dato che risposero solo i vescovi tedeschi e del nord Italia, il sinodo riconobbe papa Vittore IV, che scomunicò Alessandro III che, a sua volta, scomunicò sia Vittore IV che l'imperatore.
Milano intanto continuava a rifiutare le direttive imperiali, la lotta infuriò, con alterne fortune, su tutta la pianura lombarda, che fu devastata. Nella primavera del 1161, ricevuti rinforzi da Germania e Ungheria, Federico poté porre l'assedio alla città. Gli assediati resistettero con ostinazione per circa un anno: il 10 marzo 1162 Milano fu costretta alla resa e subito dopo iniziò la sua distruzione ed i milanesi furono dispersi in quattro diverse località. Distrutte le mura di Brescia e Piacenza, che dovettero accettare i funzionari imperiali. Federico Barbarossa, all'apogeo della sua potenza, fece ritorno in Germania.
Alessandro III, ritirato nella campagna romana, sentiva però che la simpatia per lui era in crescita ovunque (anche presso l'impero d'Oriente), eccetto che in Germania. Data la scarsità di mezzi di cui disponeva decise di rifugiarsi in Francia e, nel corso del 1162, fu preso un accordo affinché il re di Francia, Luigi VII, e l'imperatore Federico, accompagnati dai rispettivi papi, si incontrassero a Saint-Jean-de-Losne su un ponte del fiume Saona, al confine tra Francia e Borgogna, dove avrebbero nominato una commissione che avrebbe dovuto fare chiarezza sulla validità della nomina. Alessandro III rifiutò di partecipare ma l'intervento del re d'Inghilterra, Enrico II a favore di Alessandro risolse la situazione.
Nell'ottobre 1163, Federico scese nuovamente in Italia, con un piccolo esercito perché già incalzava la riscossa dei comuni italiani, Verona, Padova e Vicenza si sollevarono, in ribellione congiunta, e rifiutarono le offerte di pace dell'imperatore, che non disponeva di forze sufficienti per domarle, nemmeno con l'aiuto di Pavia, Mantova e Ferrara; il 6 novembre 1163 è segnalata la sua presenza a Città di Castello con due atti in cui pone il Vescovo ed i canonici sotto la sua protezione.[23] Intanto Rainaldo di Dassel stava organizzando una campagna militare contro i Normanni di Sicilia, per la quale doveva avere l'appoggio di Pisa e Genova,che però erano impegnate in un'aspra contesa per il controllo della Sardegna, per cui alla fine avevano rinunciato alla spedizione.
L'imperatore, anche a causa di una malattia, dovette tornare in patria: la terza discesa in Italia di Federico era stata breve e si era conclusa quindi con un nulla di fatto.
Nell'aprile del 1164 era morto l'antipapa Vittore IV, e Federico aveva intenzione di rappacificarsi con Alessandro III, ma prima che potesse contattarlo, Rainaldo di Dassel si era premurato di fare eleggere un altro papa, Pasquale III (a cui poi, nel 1168, ne sarebbe seguito un altro, Callisto III), mentre papa Alessandro III, ricevuto ormai il riconoscimento della sua autorità dagli altri sovrani d'Europa, poteva tornare a Roma nel 1165.

La quarta discesa in Italia e la Lega Lombarda
L'assenza dell'imperatore rese più facile ai Lombardi di pervenire ad un accordo per organizzare una resistenza comune. Nelle città scoppiavano tumulti e a Bologna venne ucciso il podestà imperiale. In Sicilia a Guglielmo I il Malo era successo il figlioletto Guglielmo II e la madre, Margherita, che era reggente, continuava la politica del marito di alleanza col papa Alessandro, che aveva l'appoggio anche di Manuele Comneno e Venezia.
Federico doveva riconquistare l'Italia, formò un possente esercito e a ottobre 1166 partì e scese, per la quarta volta, in Italia; a novembre era in Lombardia, dove, alla dieta di Lodi, si rese conto che l'ostilità era maggiore che nel passato, le città filo-imperiali erano molto fredde, Pisa e Genova erano in disaccordo, per cui l'impresa siciliana era da rinviare. Federico avrebbe voluto dirigersi subito su Roma, ma dovette restare in Lombardia, combattendo nelle zone di Bergamo e Brescia, poi si diresse su Bologna da cui si fece consegnare degli ostaggi, quindi, inviato a Roma una parte delle truppe sotto il comando di Rainaldo di Dassel, marciò su Ancona, che oppose una resistenza ostinata. Rainaldo stava occupando la campagna romana ed era arrivato a Tuscolo, con forze esigue, quando i romani gli marciarono contro ma, il 29 maggio 1167, nella battaglia di Prata Porci subirono una disfatta perché nel frattempo erano arrivate le truppe dell'arcivescovo di Magonza che presero i Romani tra due fuochi. Il 24 luglio giunse anche l'imperatore e su Roma fu sferrato un attacco massiccio e il papa Alessandro, il 29, fuggì a Benevento coi pochi cardinali a lui fedeli. Federico era padrone di Roma dove si fece incoronare imperatore per la seconda volta dall'antipapa Pasquale (1º agosto 1167). Intanto era anche arrivata la flotta pisana per preparare l'attacco al regno di Sicilia. Ma pochi giorni dopo i suoi soldati cominciarono a morire colpiti da febbri, probabilmente malariche, e morirono anche i suoi comandanti, Rainaldo di Dassel, suo nipote il duca di Svevia, Federico IV, il duca di Toscana, Guelfo VII ed altri. Allora decise di riparare a Pavia, insieme a Como l'unica città rimastagli fedele, lasciando lungo la via una scia di morti. Dopodiché, con l'appoggio del marchese di Monferrato, Guglielmo V il Vecchio, gli fu possibile tornare in Germania, passando da Susa, che gli si ribellò e da cui dovette fuggire, con l'aiuto del conte di Moriana e Savoia, Umberto III.
Nel frattempo le città della marca veronese (Verona, Vicenza e Padova), ribellatesi nel 1164, a cui si era aggiunta Treviso, con l'appoggio di Venezia (che mirava però, più che al riconoscimento del regime comunale, all'ampliamento ulteriore della propria autonomia) avevano fondato la Lega veronese, venendo meno alla Constitutio de pacis, mentre anche in Lombardia la città di Cremona, da sempre fedele all'imperatore, gli si rivoltava contro, creando con Crema, Brescia, Bergamo, Mantova e Milano (o meglio i Milanesi, dato che non avevano più una città) la Lega cremonese, grazie al giuramento di Pontida del 7 aprile 1167. Il 27 aprile 1167, le forze alleate si presentarono di fronte alle rovine di Milano e iniziarono la ricostruzione, comprese opere di difesa per un eventuale attacco da parte di Pavia.
Il primo dicembre dello stesso anno dalla fusione delle due leghe nasceva la Societas Lombardiae, la Lega Lombarda. Ad essa si unirono subito Parma, Piacenza e Lodi, e anche papa Alessandro diede il proprio appoggio, mentre non lo fece il Regno di Sicilia, a causa del riassestamento dinastico come già detto; comunque la reggente Margherita, per contrastare il Barbarossa, versò dei denari a papa Alessandro III.
La Lega lombarda nel frattempo diventava sempre più potente, le città e perfino i signori feudali che vi aderivano erano sempre più numerosi e ora il Regno di Sicilia e perfino l'impero bizantino l'appoggiavano apertamente. Mentre Milano era stata ricostruita molto rapidamente, per neutralizzare la possibilità di intervento da parte di Pavia e del marchese del Monferrato la Lega fondò, alla confluenza del Bormida nel Tanaro una nuova[25] città, chiamata Alessandria in onore del papa (1168). Alla fine anche Pavia ed il marchesato del Monferrato aderirono alla Lega.

La battaglia di Legnano ed il tramonto del sogno imperiale
Rientrato in Germania, nel 1168, si dovette dedicare ai problemi tedeschi, specialmente le controversie tra Enrico il Leone e Alberto l'Orso. Nell'aprile del 1169 fece eleggere re dei Romani o di Germania, alla dieta di Bamberga, e quindi incoronare ad Aquisgrana il figlio, Enrico. Inoltre comprò, dal vecchio zio, Guelfo VI, che non aveva eredi, i possedimenti Svevi e Toscani.
Comunque Federico, nei sei anni che rimase in patria, pensava anche all'Italia, ed inviò a Roma il vescovo di Bamberga, Eberardo, in un tentativo di riconciliazione[26] con Alessandro III, che prese in considerazione le proposte, ma, alla fine, sia perché pressato dai Lombardi, sia perché di abdicare non ne voleva sapere, respinse le offerte di Federico.
Nel 1174, risolti i problemi in Germania, Federico radunò nuovamente un grosso esercito e scese per la quinta volta in Italia. Iniziò la sua campagna nel settembre 1174 vendicandosi di Susa, che distrusse, poi prese Asti che si era arresa, così come il marchese del Monferrato e le città di Alba, Acqui, Pavia e Como. Mosse contro Alessandria che resistette a un assedio di ben 7 mesi, interrotto solo dopo che gli assediati, con una sortita avevano distrutto, incendiandole, le migliori macchine da guerra di Federico.

Nel frattempo la Lega aveva approntato un imponente esercito che Federico riuscì a distogliere inviando una parte delle sue truppe a Bologna. Federico, tolto l'assedio ad Alessandria, nella primavera del 1175, si diresse contro l'esercito della Lega. I due eserciti si trovarono a fronteggiarsi nella zona di Pavia, ma prima di combattere furono aperti negoziati di pace, a Montebello, che però fallirono, e anche una tregua che sembrava a portata di mano saltò. Le ostilità ripresero, ma senza avvenimenti decisivi per tutto il 1175. Nella primavera del 1176, a Chiavenna, Federico ebbe un incontro con Enrico il Leone ed altri feudatari per ricevere truppe per proseguire la campagna d'Italia, ma quando i rinforzi militari arrivarono, sempre in primavera, Federico si accorse che non erano così numerosi come aveva sperato e soprattutto mancava il cugino Enrico.

E proprio mentre, aggregatesi le truppe di rinforzo, lasciate le vallate alpine, aveva ripreso la marcia verso sud, l'imperatore venne travolto a Legnano il 29 maggio 1176 dall'esercito della Lega, incappando in una disastrosa sconfitta, della quale massimi artefici furono non a caso i milanesi. Gli stessi, suddivisi in due compagnie, del Carroccio e nella compagnia della Morte, impedirono che si convertisse in fuga precipitosa il primo ripiegamento cui la cavalleria tedesca aveva costretto parte dell'esercito lombardo, dopodiché spinsero quest'ultimo al decisivo contrassalto.
L'esercito tedesco con difficoltà, trovò rifugio, ancora una volta, a Pavia, dopodiché Federico si affrettò a cercare di risolvere la questione con la diplomazia, avviando le trattative di pace direttamente col pontefice, con il quale si giunse ad un accordo: Federico disconobbe l'antipapa e restituì al Comune di Roma le sue regalie e i suoi territori, mentre Alessandro III garantì la propria mediazione con i Comuni (accordi preliminari di Anagni, novembre 1176), che però la rifiutarono, non gradendo il cambiamento di atteggiamento del pontefice.

La pace di Costanza
Si giunse così al nuovo tentativo di pacificazione che si svolse a Venezia nel luglio 1177, cui parteciparono papa, imperatore, Guglielmo II il Buono e delegati dei Comuni. Il 23 luglio fu confermata la pace col papa secondo gli accordi di Anagni, fu concordata una tregua col re di Sicilia di quindici anni e una, coi Comuni, di sei anni. Federico rimase in Italia sino alla fine dell'anno; poi nel 1178 tornò in Germania dove risolvette definitivamente i contrasti con i suoi feudatari, in modo particolare con il cugino, Enrico il Leone, reo di non aver sostenuto l'imperatore nel modo adeguato dal punto di vista militare.
In Italia la situazione per Federico andava migliorando, dal momento che la pace col regno di Sicilia reggeva e i principali alleati dei Comuni erano morti: Manuele Comneno il 24 settembre 1180, Alessandro III il 30 agosto 1181, ed inoltre la Lega si stava sfaldando a causa di contrasti e rivalità interne fra i Comuni. La "pace definitiva" fu negoziata a Piacenza e ratificata a Costanza, il 25 giugno 1183: l'imperatore riconosceva la Lega e faceva alle città che la componevano concessioni riguardanti tutti gli ambiti, amministrativo, politico e giudiziario, regalie comprese; rinunciava inoltre alla nomina dei podestà, riconoscendo i consoli nominati dai cittadini. I Comuni si impegnavano in cambio a pagare un indennizzo una tantum di 15.000 lire e un tributo annuo di 2.000, a corrispondere all'imperatore il fodro (ossia il foraggio per i cavalli, o un'imposta sostitutiva) quando questi fosse sceso in Italia, a concedere all'imperatore la prerogativa di dirimere in prima persona le questioni fra un Comune e l'altro.
Si trattava di un compromesso che segnava la rinuncia all'ormai anacronistico concetto di "impero universale" e, dunque, al piano di dominio assoluto di Federico, mentre i Comuni avrebbero mantenuto la loro larga autonomia.
Federico, durante i festeggiamenti per la pace, tenutisi a Magonza, nella primavera del 1184, propose un accordo matrimoniale tra suo figlio Enrico VI e Costanza d'Altavilla, ultima erede della dinastia normanna riuscendo finalmente a legare, col matrimonio, nell'aprile del 1186, l'Italia meridionale all'impero.
Nel settembre del 1184, Federico tornò per la sesta volta in Italia, ma questa volta senza esercito, ed ebbe un'ottima accoglienza da parte dei comuni lombardi. Federico ebbe poi un incontro a Verona con papa Lucio III per chiedergli l'incoronazione a imperatore del figlio Enrico VI, che gli fu negata anche in considerazione del futuro matrimonio di Enrico e Costanza[29], ma soprattutto per l'opposizione della nobiltà tedesca, che di fatto avrebbe reso la carica ereditaria. In occasione di quell'incontro, oltre che di alcune investiture vescovili (in special modo quella del vescovo di Treviri, che si trascinava da oltre un anno) e della situazione in Terra Santa, dove il Saladino passava di successo in successo, fu trattata inutilmente la questione dei feudi toscani di Federico[30], che la chiesa in parte reclamava, ed infine fu affrontato il problema degli eretici e venne stabilito che i vescovi dovevano avere grande cura di interrogare gli eretici e scomunicare gli ostinati e che le autorità civili dovevano fare in modo che venissero applicate le pene del bando imperiale, cioè l'esilio, la privazione dei diritti civili, la demolizione delle case contaminate e la confisca dei beni.
Il 25 novembre 1185, papa Lucio III moriva e gli successe papa Urbano III, che non aveva molta simpatia per l'imperatore Federico e che appoggiò la rivolta di Filippo di Heinsberg, arcivescovo di Colonia e duca di Vestfalia.

La terza crociata
Dopo la caduta di Gerusalemme, nel 1187, che sembra portò alla morte per il dolore provato Urbano III, il nuovo papa Gregorio VIII decise di preparare una nuova crociata: la Terza Crociata. Federico si fece crociato, il 27 marzo 1188 a Magonza, seguito dal figlio, il duca di Svevia Federico VI, dal duca d'Austria Leopoldo V e da altri nobili e vescovi. Federico, conscio che la seconda crociata, a cui aveva partecipato era stata condotta male, prese alcune precauzioni, accettando nel suo esercito solo chi si poteva mantenere per due anni e scrivendo al re d'Ungheria, all'imperatore di Bisanzio ed al sultano di Iconio, chiedendo ed ottenendo l'autorizzazione ad attraversare i loro possedimenti; infine scrisse al Saladino per avere restituite le terre di cui si era impadronito, altrimenti avrebbe usato la forza, a cui il Saladino rispose che accettava la sfida.
Federico, lasciato il figlio Enrico VI a governare l'impero, con circa 20.000 cavalieri, partì per primo da Ratisbona nel maggio del 1189, seguito poi dal re di Francia Filippo Augusto e dal nuovo re d'Inghilterra Riccardo I (noto anche come Riccardo Cuor di Leone).
Federico attraversò l'Ungheria sostando a Esztergom o Strigonio, alla corte ungherese del re Bela III. Dopo aver attraversato i Balcani, Federico, avvicinandosi ai domini dell'imperatore bizantino Isacco II Angelo, inviò ambasciatori per concordare il passaggio in Anatolia; ma Isacco, che temeva i Latini e si era accordato col Saladino, imprigionò gli ambasciatori. Allora Federico inviò un messaggio al figlio, Enrico VI che, con la flotta fornita dalle repubbliche marinare, col permesso del papa attaccasse Costantinopoli, mentre lui, occupata Filippopoli e poi la Tracia, si avviò verso Costantinopoli. Allora Isacco venne a patti, così nel febbraio del 1190 fu firmato il trattato di Adrianopoli, che permise alle truppe dell'imperatore Federico di attraversare l'Ellesponto. L'Ellesponto fu attraversato nel mese di marzo e, giunti in Asia Minore, dopo aver ricevuto i dovuti approvvigionamenti, iniziarono la marcia verso sud attraversando il sultanato d'Iconio, dove furono sottoposti a continui attacchi di bande di Selgiuchidi e furono tagliati i rifornimenti. Ridotto alla fame, l'esercito tedesco attaccò il sultano, Qilij Arslan II, occupando temporaneamente la sua capitale, Konya, ed obbligandolo a mantenere gli impegni presi: concedere loro libertà di transito, rifornirli dei necessari approvvigionamenti e poi, con l'aiuto di guide armene, guidarli attraverso il Tauro sino sulle sponde del fiume Saleph in Cilicia, nel Sud-Est dell'Anatolia, in prossimità della Terra Santa. Dove però, attraversando tale fiume, Federico affogò il 10 giugno 1190.
A Federico successe sul trono reale e imperiale il figlio Enrico VI.

La morte nel fiume Göksu in Turchia
Le esatte circostanze della morte di Federico sono sconosciute. È ipotizzabile che l'anziano imperatore sia stato disarcionato da cavallo, oppure che, stanco della marcia attraverso i monti e oppresso dalla calura, abbia voluto rinfrescarsi e lo shock dovuto all'acqua fredda gli abbia causato un arresto cardiaco, oppure che, appesantito dalla sua stessa armatura e fiaccato dall'intensa calura del giugno siriano, Federico I, data anche l'età, non abbia resistito all'impeto della corrente. Federico affogò nelle acque che a malapena arrivavano ai fianchi, secondo quanto riferisce il cronista arabo Ibn al-Athīr nel suo al-Kāmil fī taʾrīkh (La perfezione nella storia). Il peso dell'armatura di quel giorno, progettata per essere la più leggera possibile, fu tale comunque da trascinare con sé un uomo in salute in acque poco profonde.
La morte di Federico gettò il suo esercito nel caos. Senza comandante, in preda al panico e attaccati da tutti i lati dai turchi, molti tedeschi furono uccisi o disertarono. Il figlio del Barbarossa, Federico VI di Svevia, proseguì con i soldati rimasti, con l'obiettivo di dar sepoltura all'imperatore a Gerusalemme, ma gli sforzi per conservare il cadavere utilizzando l'aceto fallirono. Quindi le spoglie di Federico Barbarossa furono seppellite nella chiesa di San Pietro in Antiochia di Siria, le ossa nella cattedrale di Tiro e il cuore e gli organi interni a Tarso. Solo 5.000 soldati, una piccola frazione delle forze iniziali, arrivarono ad Acri, verso la fine del 1190. E all'assedio di San Giovanni d'Acri, nel 1191, perse la vita Federico VI.
L'improvvisa morte di Federico lasciò l'esercito crociato sotto il comando dei rivali Filippo II di Francia e Riccardo I d'Inghilterra che, giunti in Palestina separatamente via mare, lo portarono infine a dissoluzione. Riccardo Cuor di Leone continuò verso Est dove affrontò il Saladino con alterni esiti, ma senza raggiungere il suo obiettivo finale, la conquista di Gerusalemme.

Leggende
Federico è il protagonista di molte leggende ed era tenuto in grande onore dalle popolazioni germaniche sue contemporanee, che diffuse la leggenda che Federico, non fosse realmente morto ma si fosse nascosto ai suoi nemici per tornare più forte di prima.
Una versione più mitologica della sua morte è basata sull'ipotesi che fosse in possesso della leggendaria Lancia del Destino. Secondo il mito, chiunque possieda la lancia è imbattibile, ma se il portatore ne fosse privato, perderebbe la vita di lì a poco. Federico morì guadando un fiume e, in quel momento, alcuni resoconti dicono che la lancia cadde dalle sue mani.
Un'altra leggenda è quella dell'eroe dormiente, come le più antiche leggende britannico-celtiche di Artù e Bran il Benedetto. Tale leggenda vuole che egli non sia morto, ma addormentato coi suoi cavalieri in una caverna nelle montagne di Kyffhäuser in Turingia e che quando i corvi cesseranno di volare intorno alla cima, si desterà e porterà la Germania alla sua antica grandezza. Secondo la leggenda, la sua barba rossa sarebbe cresciuta attraverso il desco al quale siede. I suoi occhi sarebbero mezzi chiusi nel dormiveglia, ma di quando in quando alzerebbe la sua mano e manderebbe un fanciullo all'esterno per vedere se i corvi abbiano smesso di volare.
La saga di Kyffhäuser era nata per suo nipote Federico II, ma nel corso del secolo XIX, alcuni scrittori tra cui i fratelli Grimm, nell'opera le Saghe germaniche, ripresero la saga di Kyffhäuser, attribuendola al Barbarossa, dove egli è addormentato, seduto ad un tavolo e la sua barba rossa cresce smisuratamente e ha già fatto due giri intorno al tavolo. Quando si completerà il terzo giro, Federico si sveglierà e combatterà una straordinaria battaglia: sorgerà il giorno del giudizio.

▪ 1649 - Giulio Aleni o Alenio (Brescia, 1582 – Yanping, 10 giugno 1649) è stato un gesuita, missionario, astronomo, letterato, geografo e matematico italiano.

Prete missionario cattolico gesuita, viene inviato in Cina dove presta attività di missionario per circa quarant'anni. Sbarca a Macao nel 1610 e per tre anni si impegna nell'insegnamento della matematica, ritenendo che questa attività favorisca il suo inserimento nel mondo culturale e nella società cinese.
Adotta vesti e abitudini di vita cinesi ed impara la lingua, nella quale scriverà 25 libri, utili per la sua opera di missionario e per diffondere le conoscenze europee.
È il primo missionario cristiano nel Jiangsi, costruisce parecchie chiese nel Fujian; dal 1619 opera ad Hangzhou e Jiangzhou.
Rispettoso della cultura cinese, come missionario si preoccupa costantemente di presentare il messaggio evangelico in termini comprensibili ai suoi uditori. Scrive una vita di Gesù in 8 volumi, pubblicata a Pechino (1635-1637), ristampata varie volte, ad es. nel 1887 in 3 volumi, e utilizzata anche dai missionari protestanti.
Egli si mantiene in corrispondenza epistolare con l'astronomo Giovanni Antonio Magini e diffonde nel mondo cinese anche conoscenze astronomiche e matematiche. È autore di un mappamondo che riprende quello di Matteo Ricci e si intitola Wan-kuo ch'uan-t'u, (Mappa completa di tutte le Nazioni), pubblicato intorno al 1620.
È autore di un trattato di geografia, (Zhifang waiji, in sei volumi pubblicata nel 1623. .
Dai cinesi è conosciuto come 艾儒略, Ai Ru-lue, e soprannominato Confucio dell'Occidente.
Nel 1994 a Brescia dal 19 al 22 ottobre si è tenuto un - Convegno Internazionale intitolato "Giulio Aleni S.J. (1582-1649), Missionary in China"

▪ 1836 – André-Marie Ampère (Poleymieux-au-Mont-d'Or, Lione, 22 gennaio 1775 – Marsiglia, 10 giugno 1836) è stato un fisico francese.
L'unità di misura della corrente elettrica, l'ampere, porta il suo nome.

▪ 1899 - Carlo Francesco Maciachini (Induno Olona, 2 aprile 1818 – Varese, 10 giugno 1899) è stato un architetto italiano.
Nato da una famiglia contadina del varesotto, manifestò sin da giovane la sua attitudine per le opere di intaglio, pertanto nel 1838 si trasferì a Milano dove, dopo aver frequentato l'Accademia delle Belle Arti di Brera, ottenne il diploma di architetto.
La sua opera più famosa è senz'altro il Cimitero Monumentale di Milano, la cui costruzione gli venne affidata nel 1863; dopo il Monumentale continuò ad occuparsi della costruzione o della ristrutturazione di edifici funerari, ma anche di chiese, principalmente a Milano, ma anche nel resto della Lombardia, nel Veneto e nel Friuli-Venezia Giulia. Dopo la sua morte, avvenuta il 10 giugno 1899, venne sepolto nel Cimitero Monumentale da lui stesso edificato.
A Carlo Maciachini è stata dedicata una piazza sulla circonvallazione esterna di Milano, da cui prende anche nome una stazione della metropolitana (Maciachini M3).

▪ 1918 - Arrigo Boito (Padova, 24 febbraio 1842 – Milano, 10 giugno 1918) è stato un poeta, compositore e librettista italiano.
Fratello minore di Camillo, è noto soprattutto per i suoi libretti d'opera, considerati tra i massimi capolavori del genere, e per il suo melodramma Mefistofele.

▪ 1924 - Giacomo Matteotti (Fratta Polesine, 22 maggio 1885 – Roma, 10 giugno 1924) è stato un politico e antifascista italiano.
Il 30 maggio 1924 Matteotti prese la parola alla camera per contestare i risultati delle elezioni tenutesi il precedente 6 aprile. Mentre dai banchi fascisti si levavano contestazioni e rumori che lo interrompevano più volte Matteotti incalzava con un discorso che sarebbe rimasto famoso: «Contestiamo in questo luogo e in tronco la validità delle elezioni della maggioranza. L'elezione secondo noi è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni».
Matteotti continuò, denunciando una nuova serie di violenze, illegalità ed abusi commessi dai fascisti per riuscire a vincere le elezioni. Al termine del discorso, dopo le congratulazioni dei suoi compagni, rispose loro, con una quasi profetica premonizione, dicendo: «Io il mio discorso l'ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me».
In un'altra occasione aveva pronunciato una frase che si sarebbe rivelata profetica:
«Uccidete pure me, ma l'idea che è in me non l'ucciderete mai»
La proposta di Matteotti di far invalidare l'elezione almeno di un gruppo di deputati - secondo le sue accuse, illegittimamente eletti a causa delle violenze e dei brogli - venne respinta dalla Camera con 285 voti contro, 57 favorevoli e 42 astenuti.
Renzo De Felice ha definito "assurda" l'interpretazione di questo discorso come una richiesta di Matteotti basata su una realistica possibilità di ottenere un successo. Secondo De Felice, Matteotti non mirava realmente all'invalidamento del voto, bensì «il suo vero scopo era quello di inaugurare dalla tribuna più risonante d'Italia, dalla Camera, e fin dalle primissime battute della nuova legislatura, un nuovo modo di stare all'opposizione, più aggressivo, intransigente, violento, addirittura»
Il discorso di Matteotti è stato definito da Renzo De Felice "un discorso di doppia opposizione, contro il governo fascista, contro il fascismo tout court, ma anche e forse soprattutto, contro i collaborazionisti del proprio partito e della CGL".
Secondo lo storico reatino, infatti, Matteotti aveva già espresso in una lettera a Turati precedente alle elezioni la sua volontà di intransigenza verso il Fascismo:
«Innanzitutto è necessario prendere, rispetto alla Dittatura fascista, un atteggiamento diverso da quello tenuto fino qui; la nostra resistenza al regime dell'arbitrio dev'essere più attiva, non bisogna cedere su nessun punto, non abbandonare nessuna posizione senza le più decise, le più alte proteste. Tutti i diritti cittadini devono essere rivendicati; lo stesso codice riconosce la legittima difesa. Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all'Italia un regime di legalità e libertà, (...) Perciò un Partito di classe e di netta opposizione non può accogliere che quelli i quali siano decisi a una resistenza senza limite, con disciplina ferma, tutta diretta ad un fine, la libertà del popolo italiano.»
In questa sua intransigenza - tuttavia - Matteotti non riusciva a trovare un collegamento con l'operato e l'ideologia dei comunisti, che vedevano tutti i governi borghesi uguali fra loro e indifferentemente da combattere:
«Il nemico è attualmente uno solo, il fascismo. Complice involontario del fascismo è il comunismo. La violenza e la dittatura predicata dall'uno, diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura in atto dell'altro.»
Il discorso del 30 maggio - secondo lo storico Giorgio Candeloro - "diede a Mussolini e ai fascisti la sensazione precisa di avere di fronte in quella Camera un'opposizione molto più combattiva di quella esistente nella Camera precedente e non disposta a subire passivamente illegalità e soprusi".

Il rapimento e l'omicidio
Il 10 giugno 1924 Giacomo Matteotti fu rapito a Roma. Il suo corpo fu ritrovato in stato di decomposizione il 16 agosto alla macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano a 25 km da Roma.
A tutt'oggi il rapimento e il successivo assassinio di Matteotti presentano numerosi lati oscuri. Per quanto è stato possibile ricostruire - pur permanendo aspetti lacunosi - la dinamica dovrebbe essere stata la seguente: alle ore 16.15 del 10 giugno Matteotti uscì di casa a piedi per dirigersi verso Montecitorio. La giornata era lucida, di prima estate: la temperatura sfiorava i 29 gradi all'ombra. Fu proprio il clima da estate incipiente che probabilmente indusse il deputato unitario a variare il suo abituale percorso. Scelse, infatti, di percorrere il lungotevere Arnaldo da Brescia (per poi tagliare verso Montecitorio), piuttosto che incamminarsi lungo la via Flamina per poi raggiungere il Corso attraverso gli archi di Porta del Popolo. Sotto i platani era ferma un'auto con a bordo alcuni membri della polizia politica: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo, i quali, appena videro passare il parlamentare socialista, scesero dall'auto, gli balzarono addosso e lo caricarono velocemente a bordo.
Contrariamente agli auspici degli squadristi, molti testimoni assistettero alla furiosa colluttazione o, quantomeno, osservarono importanti dettagli. Alcuni di questi collaborarono successivamente alle indagini. In particolare, la macchina nera (una Lancia Kappa presa a noleggio) fu notata da due bambini che stavano giocando nelle vicinanze. Avvicinatisi al veicolo, vennero scacciati da alcuni componenti della banda con estrema durezza. Poco lontano, invece, alcuni impiegati stavano recandosi sulla riva del Tevere per potersi fare un bagno.
Matteotti riuscì nelle fasi convulse della lotta a gettare in terra la tessera da parlamentare, nella speranza che qualcuno vedendola potesse lanciare l'allarme. In macchina nel frattempo i sicari fascisti avrebbero sottoposto Matteotti ad un pestaggio. Giuseppe Viola, dopo qualche tempo, estrasse un coltello e colpì la vittima sotto l'ascella e al torace uccidendola.
Per sbarazzarsi del corpo i cinque girovagarono per la campagna romana, fino a raggiungere verso sera la Macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano a 25 km da Roma. Qui, servendosi del cric dell'auto, seppellirono il cadavere piegato in due.
Il corpo di Matteotti fu ritrovato dal cane di un guardiacaccia il 16 agosto. Sul luogo del ritrovamento è stato eretto un monumento in ricordo del politico.

Procedimenti giudiziari
Riguardo al delitto Matteotti furono intentati tre procedimenti giudiziari.
Il procedimento principale si ebbe dal 16 marzo al 24 marzo 1926 a Chieti (ma istruito già fra 1925 e 1926), contro gli squadristi materialmente responsabili del rapimento e dell'omicidio: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. Di questi, Dumini, Volpi e Poveromo furono condannati per omicidio preterintenzionale alla pena di anni 5, mesi 11 e giorni 20 di reclusione, nonché all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, mentre per Panzeri, che non partecipò attivamente al rapimento, Malacria e Viola ci fu l'assoluzione. Il collegio di difesa degli imputati, a seguito di richiesta di Dumini, venne guidato da Roberto Farinacci, a quel tempo segretario nazionale del Partito Nazionale Fascista, l'enfasi che Farinacci mise nella difesa degli imputati fu tale da indurre Mussolini, che viceversa aveva chiesto invano un processo senza molto clamore, a costringerlo alle dimissioni dalla carica nazionale una settimana dopo la sentenza del processo.
Già nel 1924 tuttavia era stato intentato un procedimento davanti dall'Alta Corte di Giustizia del Senato nei confronti dell'allora capo della Pubblica Sicurezza e della MVSN, il quadrumviro Emilio De Bono, per il quale fu ravvisato il non luogo a procedere.
Nel 1947, in seguito al Decreto Luogotenenziale del 27.7.1944 n.159 (che rendeva potenzialmente nulle le condanne avvenute in epoca fascista superiori ai tre anni), la Corte d'Assise di Roma reistituì il processo nei confronti di Giunta, Rossi, Dumini, Viola, Poveromo, Malacria, Filippelli, Panzeri. Dumini, Viola e Poveromo furono condannati all'ergastolo (poi commutato in 30 anni di carcere), mentre per gli altri imputati ravvisò il non luogo a procedere a causa dell'amnistia disposta dal Dpr 22.6.1946 n.4.
In nessuno dei tre processi venne mai accertata alcuna responsabilità diretta di Mussolini.

Le accuse a Mussolini
Fin dai primissimi momenti del sequestro e quindi ancor più dopo la scoperta che il rapimento era degenerato in omicidio, nella convinzione della pubblica opinione la responsabilità fu attribuita a Mussolini, come testimonia una canzonetta dell'epoca:
«Or, se a ascoltar mi state,
canto il delitto di quei galeotti
che con gran rabbia vollero trucidare
il deputato Giacomo Matteotti,
Erano tanti:
Viola Rossi e Dumin,
il capo della banda
Benito Mussolin.»
(Anonimo, 1924[12])
Rimase anche famosa una vignetta del giornale satirico "il Becco Giallo" nella quale un truce Mussolini siede sulla bara di Matteotti.
Alcuni squadristi, infuriati di essere stati usati come capri espiatori, avevano scritto vari memoriali nei quali asserivano che, quali che fossero le loro responsabilità per l'attività del gruppo di squadristi a cui veniva affidata l'esecuzione di rappresaglie e di vendette politiche, spesso chiamato Ceka, come la polizia politica sovietica, Mussolini aveva approvato e spesso ordinato direttamente i delitti perpetrati da quella organizzazione.
Mussolini stesso, il giorno seguente al discorso del deputato socialista, scrisse sul "Popolo d'Italia" che la maggioranza era stata troppo paziente e che la mostruosa provocazione di Matteotti meritava qualcosa di più concreto di una risposta verbale.
Secondo una delle ricostruzioni, pare che il presidente del Consiglio, rientrato a palazzo Chigi dopo il famoso discorso del deputato socialista si sia rivolto a Giovanni Marinelli (capo della polizia segreta fascista) urlandogli: «Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell'uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare...». Questo sarebbe bastato a Marinelli per ordinare al suo sicario Dumini di uccidere Matteotti. Fu lo stesso Marinelli ad ammetterlo a Cianetti e Pareschi vent'anni più tardi quando si trovò con loro e gli altri traditori del 25 luglio 1943 nel carcere di Verona per essere processato.

Altre ricostruzioni della vicenda di Matteotti
Carlo Silvestri — giornalista al tempo in forza al Corriere della Sera, di fede socialista e amico fraterno di Filippo Turati — fu uno fra i grandi accusatori di Benito Mussolini in rapporto al delitto Matteotti, ma successivamente, riavvicinatosi a Mussolini, durante la Repubblica Sociale Italiana (al punto da esserne definito come l'ultimo suo amico) disse di aver accentuato le proprie accuse per fini di convenienza politica. Silvestri ebbe infatti accesso privilegiato alle carte che Mussolini conservava circa l'omicidio dell'esponente socialista. Secondo quanto raccontato da Silvestri, la visione della documentazione lo convinse dunque dell'estraneità di Mussolini al delitto.
«Erroneamente, nel 1924, Mussolini era stato ritenuto il mandante dell'omicidio di Giacomo Matteotti (...) erroneamente era stato ritenuto che la causale del delitto fosse da ricercarsi nella lotta condotta dall'onorevole Matteotti contro il governo fascista. La soppressione di Matteotti fu voluta e decisa da esponenti di un putrido ambiente di finanza equivoca e di capitalismo corrotto e corruttore, cui il Governo era del tutto estraneo» (Carlo Silvestri, Matteotti, Mussolini e il dramma italiano, pag. XXIII)
Secondo Renzo De Felice - in una ipotesi ripresa da Marcello Staglieno, Fabio Andriola, Matteo Matteotti e (con maggior prudenza) Guglielmo Salotti - le carte del dossier Matteotti, che sarebbero state gelosamente custodite da Mussolini e consultate da Silvestri - nonché inventariate fra quelle sequestrate a Dongo dai partigiani il 28 aprile 1945 - non sarebbero giunte mai a Roma, all'Archivio Centrale dello Stato cui sarebbero state destinate. De Felice, in Mussolini il fascista afferma la consegna da parte della prefettura partigiana di Milano liberata dei fascicoli alle autorità centrali. Tuttavia di questi fascicoli, quelli di Matteotti e Cesare Rossi sono andati perduti, e ogni sforzo di De Felice di recuperarli presso gli Archivi o il ministero degli Interni è stato vano. Nell'ambito del suo lavoro sui carteggi sequestrati a Dongo dai partigiani, Andriola cita anche un'intervista rilasciata al rotocalco Epoca nel 1991 da Renzo De Felice secondo la quale tali carte sarebbero state forse fatte distruggere per ordine di Palmiro Togliatti. Guglielmo Salotti - nella sua biografia di Nicola Bombacci - afferma che l'anziano rivoluzionario (in seguito avvicinatosi al fascismo), avrebbe passato molto tempo nella spasmodica ricerca delle prove dell'innocenza di Mussolini. Bombacci non fece mai nomi sui mandanti dell'omicidio, ma confidò a Silvestri che "purtroppo gli imputati non sono qui. Magari dopo essere stati manutengoli dei tedeschi saranno oggi al servizio degli inglesi o meglio ancora degli americani". Salotti ritiene invece del tutto "fantascientifica" la tesi secondo cui nell' affaire Matteotti sarebbero stati implicati i servizi segreti sovietici.
La versione tradizionalmente accettata, per cui Matteotti sarebbe stato ucciso a causa del discorso di denuncia tenuto alla Camera, è stata recentemente messa in discussione anche dalle ricerche di Mauro Canali che fanno risalire direttamente a Mussolini l'ordine di assassinare il deputato socialista. Secondo queste ricostruzioni il capo del fascismo intendeva impedire che Matteotti denunciasse alla Camera un grave caso di corruzione che avrebbe riguardato lo stesso Mussolini (oltre a diversi gerarchi fascisti ed esponenti dei Savoia), il quale, pochi mesi prima, avrebbe concesso alla società petrolifera americana Sinclair Oil (al tempo una controllata della Standard Oil), in cambio di tangenti, l'esclusiva per la ricerca e lo sfruttamento di tutti i giacimenti petroliferi presenti nel sottosuolo italiano e in quello delle colonie. In alternativa la Sinclair chiedeva di tenere nascosto agli italiani il ritrovamento di giacimenti in Libia, in modo che essi non entrassero in concorrenza con i propri. Difatti la presenza di giacimenti di petrolio (rivelatisi poi enormi) in Libia sarebbe stata rivelata pubblicamente dal governo solo nel 1939.[24] In realtà almeno la parte finale di questa ricostruzione è inverosimile in quanto l'ente petrolifero dello stato italiano AGIP (al tempo Azienda Generale Italiana Petroli), iniziò una campagna di ricerca di idrocarburi in Libia solamente nel 1938 non rinvenendo nulla nel periodo prebellico, essendo necessarie tecniche sismiche esplorative non disponibili a quel tempo alla compagnia italiana.
«I familiari di Matteotti hanno sempre sospettato che mandante dell'omicidio fosse re Vittorio Emanuele, secondo loro proprietario di quote della Sinclair. Invece, io sono giunto alla conclusione che fu proprio Mussolini, che aveva intascato tangenti direttamente da questa operazione, a ordinare l'eliminazione del suo avversario politico. Il fatto che gli americani avessero individuato nella Ipsa la società con la quale Mussolini gestiva i profitti dell'estrazione del petrolio conferma un dato importante del consolidamento della sua posizione personale e del movimento fascista.» (Mario Canali, intervista ad Oggi 2000 n° 51 di Gennaro De Stefano)
Secondo lo studio di Canali, il Fascismo avrebbe anche comprato il silenzio della vedova, Velia Matteotti, e dei figli Giancarlo e Matteo, i quali in effetti non accusarono mai Mussolini neppure dopo la sua uccisione e la caduta del regime nel 1945.
Dubbi sulla teoria di Canali emergono anche dallo studio di Enrico Tiozzo, La giacca di Matteotti e il processo Pallavicini. Una rilettura critica del delitto, secondo il quale il ritrovamento degli indumenti di Matteotti - una delle prove chiave della tesi di Canali - sarebbe stato realmente casuale e non orchestrato.
Secondo altre ricostruzioni, fermo restando il movente della denuncia delle tangenti Sinclair Oil - della quale (secondo Staglieno sulla base di una dichiarazione/intervista a lui rilasciata da Matteo Matteotti per "Storia illustrata", novembre 1985, Vittorio Emanuele III era divenuto azionista - i mandanti dovrebbero essere cercati negli ambienti massonici filo-monarchici, direttamente minacciati più che Mussolini da uno scandalo di questo genere.
Anche il figlio del deputato, Matteo, avallò nella suddetta intervista a Staglieno tali accuse al sovrano Vittorio Emanuele III. Assieme all'intervista, a sostegno di questa tesi di Matteo Matteotti, ci sono, consegnati da questi a Staglieno alcuni documenti:
1) un articolo di Giorgio Spini (Quel patto segreto con Sinclair, pp.58-59) inviato, in forma di lettera, nel gennaio 1978 a La Stampa ma mai pubblicato: esso commentava un articolo di Giancarlo Fusco ( su Stampa Sera, Torino, 2 gennaio 1978), con circostanziate accuse a Vittorio Emanuele III quale principale mandante del delitto;
2) un articolo di Carlo Rossini (Il delitto Matteotti e la pista economico-finanziaria. Il caso è ancora aperto, p.60), autore del fondamentale saggio Il delitto Matteotti fra il Viminale e l’Aventino, Bologna, Il Mulino, 1968); una breve intervista (siglata p.g.) a Franco Scalzo (Intrigo internazionale, pp.59-60), autore del saggio Matteotti. L’altra verità, Milano, Savelli, 1985. Su consiglio dell’editore Rusconi jr, Matteo Matteotti ( ma poi se ne pentì) evitò di pubblicare in Appendice al proprio volume ( Matteo Matteotti, Quei vent’anni. Dal fascismo all’Italia che cambia, Milano, Rusconi, 1985) sia l’articolo di Giancarlo Fusco, sia quello di Spini. Sostanzialmente, le affermazioni di Matteo Matteotti smentiscono quelle di Mauro Canali che sostiene che il Fascismo avrebbe comprato il silenzio della vedova e dei figli di Matteotti. Il fatto che tutti loro, come ipotizza Canali, non accusarono mai Mussolini neppure dopo la sua uccisione e la caduta del regime nel 1945, non sarebbe sinonimo della colpevolezza di lui, ma al contrario, dimostrerebbe che l’intera famiglia Matteotti, che pure fu aiutata economicamente da Mussolini, non credette mai che fosse stato il mandante del delitto. Si rileva inoltre che – a parte le comprensibili violentissime accuse a Mussolini da parte delle opposizioni – le più alte personalità del Parlamento, a partire da Giovanni Giolitti a Luigi Einaudi a Benedetto Croce, mai ritennero Mussolini quale mandante. Subito dopo un discorso di Mussolini (26 giugno 1926) alla Camera fu anzi lo stesso senatore Croce, a Palazzo Madama, a favore del governo Mussolini a farsi promotore di un ordine del giorno e, una volta che esso fu approvato attraverso il voto, definì «prudente e patriottico», quel voto.
Mussolini ebbe a dire del rapimento e poi del delitto che era «una bufera che mi hanno scatenato contro proprio quelli che avrebbero dovuto evitarla» (alla sorella Edvige) in chiaro riferimento ad alcuni suoi collaboratori (De Bono, Marinelli, Finzi e Rossi, quasi tutti legati alla massoneria).
In un'altra occasione ebbe a definire il delitto «un cadavere gettato davanti ai miei piedi per farmi inciampare». Nel discorso alla Camera del 13 giugno Mussolini aveva gridato:
«Solo un nemico che da lunghe notti avesse pensato a qualcosa di diabolico contro di me, poteva effettuare questo delitto che ci percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione.»
Al di là del mandante diretto, una tra le interpretazioni accreditate in ambito storiografico è che fra le motivazioni del rapimento o comunque fra gli strascichi del delitto vi fosse il tentativo degli estremisti fascisti di colpire direttamente Mussolini e la sua politica di apertura a sinistra e di parziale legalità parlamentare, impedendogli un riavvicinamento con i sindacalisti di sinistra (Mussolini aveva appena chiesto ad Alceste De Ambris di assumere incarichi di governo, ottenendone rifiuto) e perfino coi socialisti e la Confederazione Generale del Lavoro (CGL).
De Felice, infatti, dedica numerose pagine alle aperture mussoliniane verso sinistra prima e dopo le contestate elezioni del 1924, e bruscamente interrotte dal delitto Matteotti. In particolare al discorso parlamentare del 7 giugno 1924 (tre giorni prima del rapimento di Matteotti), nel quale lo storico individua fra le righe l'offerta "ai confederali di entrare nel governo". De Felice prosegue anche nel notare che erano proprio i socialisti più intransigenti (Matteotti, Turati, Kuliscioff etc.) i più preoccupati (oltre, ovviamente, all'ala destra del fascismo) da questo possibile "spostamento a sinistra" di Mussolini.
Tuttavia, quanto alla non intenzionalità del delitto, il figlio Matteo Matteotti nella suddetta intervista (su "Storia Illustrata") a Staglieno sostenne il contrario. Affermando cioè che il fatto che i rapitori non avessero con sé né una pala né un piccone per seppellire il corpo una volta consumato il delitto, non bastava a provare che esso non fu premeditato. A sapere che Matteotti doveva essere ucciso, sempre secondo Matteo Matteotti, erano Dumini e Poveromo. Ad assassinare il padre, precisò a Staglieno lo stesso Matteo, furono ripetuti colpi di lima vibrati da Poveromo (dichiarò lo stesso Matteo Matteotti in tale intervista;" Me lo confessò, piangente e pentito, Poveromo in persona nel carcere di Parma dov'ero andato a trovarlo nel gennaio 1951, poco prima della morte di lui") Il quale Poveromo, dopo aver chiesto a Dumini, che era al volante dell’auto, di uscire da Roma, con i suoi complici seppellì sommariamente il cadavere nel bosco della Quartarella (dove il 16 agosto verrà ritrovato da un brigadiere dei carabinieri) presso la via Flaminia, a 23 chilometri dalla città. Fu,volontariamente, un seppellimento sommario: nell’auto non c’erano per l’appunto né una pala né una zappa perché (secondo Matteo Matteotti questo lo sapevano a priori soltanto Dumini e Poveromo), nel caso d’un loro arresto, l’assassinio doveva apparire preterintenzionale. Al pari degli altri imputati Dumini confermò nel processo, mentendo, questa tesi, già sostenuta nell’istruttoria iniziata a Roma il 14 giugno 1924.Sempre mentendo, sostenne che lo stesso sequestro – sulla base di quanto suggeritogli da De Bono al momento dell’arresto, quindi dal difensore, Roberto Farinacci - non era stato premeditato. Disse che il gruppo, in giro per Roma, incontrato casualmente il deputato socialista, aveva deciso, all’istante, di punirlo per la sua attività antifascista, ovvero per stabilire se fosse in contatto con elementi di sinistra francesi responsabili, nel loro Paese, dell’assassinio di fascisti (Gino Jeri, Nicola Bonservizi): ma senza l’intenzione di ucciderlo. Nulla disse della borsa di Matteotti (quella con dentro i documenti sul rapporti tra il sovrano e la petrolifera Sinclair) che, al momento dell’arresto, gli venne sequestrata, pervenendo poi a De Bono(che l’avrebbe consegnata a Mussolini nel vano tentativo di sfuggire alla condanna a morte nel Processo di Verona: borsa che poi Mussolini portò con sé a Dongo e che, come sopra spiegato da De Felice, sparì con i documenti contro il Vittorio Emanuele III già sottratti a Matteotti).

Il discorso di Mussolini
Circa sei mesi dopo la morte di Matteotti, Mussolini, in un noto discorso tenuto alla Camera il 3 gennaio 1925, respinse ogni accusa di un suo coinvolgimento nel delitto Matteotti, sfidando anzi i Deputati a tradurlo davanti alla Suprema Corte in forza dell'articolo 47 dello Statuto Albertino. Nel discorso, articolato con varie argomentazioni e con frasi dalla possibile duplice interpretazione Mussolini iniziò rigettando ogni addebito sulla creazione di una "Ceka" e accusò le opposizioni e i giornali d'aver speculato sui fatti precedenti le elezioni e sul caso Matteotti. Quindi con un improvviso cambio di tono, minacciò le opposizioni di scatenare il fascismo "finora tenuto compresso", le accusò di fomentare la violenza politica, assumendosi personalmente, in due vicini passaggio del suo discorso, la responsabilità sia dei fatti avvenuti (tuttavia senza specificarli) e sia di aver creato il clima di violenza in cui tutti i delitti politici compiuti in quegli anni, erano maturati, trovando anche parole per riaffermare, (di fronte ad alleati ed avversari), la sua posizione di capo indiscusso del fascismo: «Ma poi, o signori, quali farfalle andiamo a cercare sotto l'arco di Tito?
Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto.
Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda!
Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! 
Se il fascismo è stato un'associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere!
Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi.»

Infine Mussolini denunciò l'Aventino come sedizioso e concluse con una dichiarazione, minacciosa verso l'opposizione, affermando che all'Italia che chiedeva tranquillità:
«Noi, questa tranquillità, questa calma laboriosa gliela daremo con l'amore, se è possibile, e con la forza, se sarà necessario. State certi che entro quarantott'ore la situazione sarà chiarita su tutta l'area.»
Alcuni deputati giolittiani volevano presentare una mozione di sfiducia nei confronti del governo ma, sentendosi isolati, la ritirarono.
Nella notte l'on Federzoni, ministro dell'Interno, inviò ai prefetti due telegrammi riservati che traducevano in pratica i propositi autoritari di Mussolini. Le disposizioni invitavano, in particolare, le autorità ad esercitare la sorveglianza più vigile su circoli, associazioni, esercizi pubblici che potessero costituire pericolo per l'ordine pubblico e, se del caso, ad attuarne la chiusura forzata. Le autorità erano altresì autorizzate ad avvalersi senza scrupoli del fermo temporaneo nei confronti degli oppositori politici. Inoltre i prefetti venivano invitati ad applicare con rigore assoluto il decreto legge atto a "reprimere gli abusi della stampa periodica", approvato durante il Consiglio dei ministri del 7 luglio 1924, ma fino a questo momento usato quasi esclusivamente nei confronti della stampa di ispirazione comunista. Il decreto conferiva ai prefetti, ossia al governo, il potere di diffidare o addirittura sequestrare, il giornale che diffondesse "notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico". Una successiva circolare interpretativa del ministro Federzoni aveva subito sgombrato il campo dagli equivoci: il giornale poteva essere sequestrato anche se la notizia pubblicata si fosse rivelata vera. Era evidente, pertanto, lo scopo illiberale e dittatorio che il provvedimento doveva raggiungere: l'annientamento, grazie ai continui sequestri, di tutta la stampa d'opposizione.
Nell'arco di una settimana il Ministro dell'Interno poté illustrare in sede di Consiglio dei ministri i risultati raggiunti dai provvedimenti adottati nella notte fra il 3 ed il 4 gennaio: i prefetti si avvalevano senza esitazione dei poteri che gli erano stati attribuiti, centinaia di persone erano state arrestate. Lunga era anche la lista di locali ed associazioni che erano stati chiusi usando qualsiasi pretesto.
Il 14 gennaio la Camera approvò in blocco e senza discussione migliaia di decreti legge emanati dal governo: la dittatura era iniziata.
Il discorso di Mussolini costituì un atto di forza, con cui convenzionalmente si fa iniziare la fase dittatoriale del fascismo


▪ 1926 - Antoni Plàcid Guillem Gaudí i Cornet (Reus, 25 giugno 1852 – Barcellona, 10 giugno 1926) è stato un architetto spagnolo di origine catalana, massimo esponente dell'architettura modernista di quest'area, noto soprattutto per il suo stile d'avanguardia e per avere concepito il tempio della Sagrada Familia.
Le sue opere sono state inserite nella lista dei patrimoni dell'umanità dell'UNESCO nel 1984.
Antoni Plàcid Guillem Gaudí i Cornet nacque il 25 giugno 1852 nella provincia di Tarragona, nella Catalogna meridionale. Benché il suo luogo di nascita sia disputato, i documenti ufficiali lo stabiliscono nella cittadina di Reus, mentre altri rivendicano la sua nascita a Riudoms, un piccolo villaggio a 3 km di distanza; certo è che fu battezzato a Reus un giorno dopo la nascita. I genitori Francesc Gaudí Serra e Antònia Cornet Bertran provenivano entrambi da famiglie di artigiani calderai.
Si diplomò nel 1878 alla Scuola Superiore di Architettura di Barcellona, ma già prima di diplomarsi riuscì a lavorare con i migliori architetti del tempo. Nello stesso anno a Parigi durante l'Esposizione Universale avvenne l'incontro fondamentale, quello con l'industriale catalano Eusebi Güell i Bacigalupi, che divenne il suo principale mecenate commissionandogli alcune delle sue più famose opere.
Nel 1883 Gaudí ottenne la direzione dei lavori del Tempio Espiatorio della Sagrada Familia, una costruzione monumentale e molto complessa, che assorbì le sue energie fino al giorno della sua morte ed è tuttora in fase di costruzione. La caratteristica principale di Gaudì, era associare l'architettura con l'arte definendole un'unica cosa.
Trascorse gli ultimi anni della sua vita nell'enorme cantiere della Sagrada Familia, in una solitudine quasi da eremita.
Il 7 giugno del 1926 fu investito da un tram. Il suo miserevole aspetto ingannò i soccorritori, i quali lo credettero un povero vagabondo e lo trasportarono all'ospedale della Santa Croce, un ospizio per i mendicanti fondato dai ricchi borghesi della Catalogna. Fu riconosciuto soltanto il giorno successivo dal cappellano della Sagrada Familia e morì il 10 giugno.
Nonostante questa fine quasi miserabile, al suo funerale parteciparono migliaia di persone. I Barcellonesi lo soprannominarono da quel momento "l'architetto di Dio". È sepolto nella cripta della Sagrada Familia.

Opere
Quasi tutta l'opera del maestro è legata alla capitale catalana, la sola città spagnola in cui a cavallo tra XIX e XX secolo si fosse manifestato un principio di sviluppo industriale, padre di quel modernismo di cui Gaudí si rivelò essere il principale esponente in patria.
La sua carriera di architetto è caratterizzata dall'elaborazione di forme straordinarie e imprevedibili ed oniriche, realizzate utilizzando i più diversi materiali (mattone, pietra, ceramica, vetro, ferro), da cui Gaudí seppe trarre le massime possibilità espressive.
La profonda fede cattolica di Gaudí, la sua spiritualità ed il suo peculiare misticismo permeano tutte le sue opere, costellate di motivi simbolici complessi, ricorrenti e spesso non immediatamente evidenti.
Non di secondaria importanza è anche la sua convinta appartenenza al movimento indipendentistico catalano, radicalmente contrapposto al centralismo linguistico e ideologico castigliano. La pretesa di Madrid d'imporre uno sviluppo urbanistico ortogonale alla città di Barcellona, coerente coi dettami del razionalismo dominante nel vecchio continente, portò gli architetti catalani a percorrere una via decisamente divergente: linee oblique che alteravano e dissestavano la visione geometrica razionalistica e le sue pretese di ordine non veramente urbanistico. Gli edifici eretti dai modernisti catalani, le vie da essi tracciate con l'uso di un po' tutti gli stilemi architettonici furono il più appariscente modo di contestare il centralismo madrileno e la sua pretesa di imporre un ordine architettonico e urbanistico ispirato ai dettami d'un razionalismo che stava affermandosi in varie parti del mondo.
Tra le opere più importanti di Gaudí si ricordano:
▪ Casa Vicens (1883-1888, Barcellona)
▪ Il Capriccio (1883-1885, Comillas)
▪ Padiglioni Güell (1884-1887, Barcellona)
▪ Palazzo Güell (1886-1888, Barcellona)
▪ Collegio Teresiano (1888-1890, Barcellona)
▪ Palazzo episcopale (1889-1893, Astorga)
▪ Casa Botines (1892, León)
▪ Cantine Güell (1895-1901, Garraf)
▪ Casa Calvet (1898-1900, Barcellona)
▪ Bellesguard (1900, Barcellona)
▪ Parco Güell (1900-1914, Barcellona)
▪ Restauro della Cattedrale di Santa Maria di Palma di Maiorca (1904-1914, Palma di Maiorca)
▪ Casa Batlló (1904-1907, Barcellona)
▪ Casa Milà (detta La Pedrera) (1906-1912, Barcellona)
▪ Cripta della Colonia Güell (1898-1915, Santa Coloma de Cervelló)
▪ Sagrada Familia (1883-1926, Barcellona), il suo capolavoro

Processo di beatificazione
In tempi recenti ha preso corpo l'iniziativa di proporre l'architetto catalano per la beatificazione e la canonizzazione, promossa da un comitato di 30 ecclesiastici, accademici, designer e architetti. È l'arcivescovo di Barcellona, cardinale Ricardo María Carles Gordó, a sostenere all'interno della Santa Sede il movimento per la beatificazione di Gaudí, che egli ha definito "un laico mistico".
L'opposizione all'iniziativa proviene dalla lunga tradizione di anticlericalismo degli intellettuali catalani della sinistra, i quali accusano la Chiesa di appropriarsi di una figura rivoluzionaria che dovrebbe essere ricordata per le sue opere e per la sua influenza artistica.
Uno dei rappresentanti di tale tendenza è l'architetto Pet Angli, che sostiene che il movimento pro-santità è una reminiscenza della Spagna confessionale del generale Francisco Franco. Monsignor Lluis Bonet i Armengol, vice-postulante (cioè responsabile della preparazione delle prove per la candidatura alla santità) di Gaudí, ribatte che le prime richieste di beatificazione di Gaudí sono state avanzate in occasione della sua morte, nel 1926, tutte basate sulla sua vita austera e cristianamente coerente.

Opere pubblicate
Mercader L. (a cura di), Antoni Gaudí. Scritti, Electa, Milano 2006

Influenza culturale
Nel 1987 il gruppo musicale britannico The Alan Parsons Project ha dedicato un intero album all'architetto catalano dal titolo Gaudi, in cui la canzone La Sagrada Familia è un omaggio alla sua opera principale.

▪ 1930 - Adolf Harnack, dal 1914 von Harnack (Dorpat oggi Tartu - in Estonia, allora parte della Russia zarista, 7 maggio 1851 – Heidelberg, 10 giugno 1930), Prof. D.theol. Dr.jur., med. et phil., è stato uno dei più rilevanti teologi protestanti e storici della Chiesa della fine del XIX ed inizio del XX secolo.
Al termine dell'Università, Harnack divenne, nel 1874, docente a Lipsia, dove assunse, grazie allo studio della teologia di Albrecht Ritschl, una prospettiva critica nei confronti della storia dei dogmi. I suoi primi corsi sull'Apocalisse e sullo Gnosticismo suscitarono molta attenzione, tanto che, già nel 1876, fu nominato professor extraordinarius. Peraltro, anche in seguito, quando insegnò all'Università Humboldt di Berlino, le sue sedici lezioni su Das Wesen des Christentums ("L'essenza del cristianesimo"), erano seguite da più di 600 studenti di tutte le facoltà.
Nello stesso anno egli iniziò la pubblicazione, insieme a Oscar Leopold von Gebhardt e Theodor Zahn, della Patrum apostolicorum opera, opera dedicata ai Padri apostolici.
Tre anni dopo, Harnack fu chiamato all'Università di Giessen come professore ordinario di storia della Chiesa; qui collaborò, sempre con Gebhardt, alla pubblicazione di Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Litteratur, una rivista contenente articoli sul Nuovo Testamento e sulla Patristica. Nel 1881, pubblicò un'opera sul monachesimo (Das Mönchtum — seine Ideale und seine Geschichte) e divenne con Emil Schürer editore della Theologische Literaturzeitung.
La sua opera maggiore (il Lehrbuch der Dogmengeschichte in tre volumi), manuale di storia dei dogmi pubblicato fra il 1886 e il 1890, dovette essere ripubblicato più volte. In quest'opera, Harnack evidenziò il sorgere del dogma, concetto con il quale egli intende il sistema dottrinale autoritativo del IV secolo e i suoi sviluppi fino alla Riforma protestante. Egli sottolineò che, alle origini, la fede cristiana e la filosofia greca erano così intrecciati che molti elementi non essenziali al cristianesimo penetrarono nella dottrina cristiana. Secondo Harnack, dunque, i protestanti non soltanto sono liberi di criticare i dogmi (in questo senso, per essi, il dogma neppure esiste) ma devono criticare ogni concezione dogmatica.
Nel 1886, Harnack è chiamato all'Università di Marburgo e, due anni dopo, a Berlino, malgrado la forte opposizione delle Autorità conservatrici della Chiesa luterana. Qui il conflitto con la Chiesa si accentua per il fatto che Harnack è coinvolto in una controversia sul Credo apostolico. Egli ritiene che il Credo sia un testo che, al contempo, contenga troppo e troppo poco per essere un testo soddisfacente per i candidati all'ordinazione, come egli scrive nella sua opera del 1892 Das Apostolische Glaubensbekenntnis.
Nel periodo berlinese Harnack continuò a pubblicare diverse opere: nel 1893 una storia dell'antica letteratura cristiana fino a Eusebio di Cesarea (Geschichte der altkirchlichen Literatur bis Eusebius); nel 1900, apparve il testo delle sue lezioni sul Das Wesen des Christentums; nel 1902, apparve Die Mission und Ausbreitung des Christentums in den ersten drei Jahrhunderten, opera sulla missione e l'espansione del cristianesimo nei primi tre secoli. Oltre a ciò, vanno ricordati tre saggi sul Nuovo Testamento.

▪ 1944 - Luigi Morandi (Firenze, 26 gennaio 1920 – Firenze, 10 giugno 1944) è stato un militare e partigiano italiano, Medaglia d'oro al valor militare alla memoria. Studente d'Ingegneria, fece parte del servizio Radio CORA.

Piazza d'Azeglio
Nella casa di Piazza d'Azeglio a Firenze, nel momento in cui Luigi Morandi stava trasmettendo da Radio CORA notizie militari agli Alleati, fecero irruzione alcuni tedeschi. Il Morandi fu scoperto, insieme ad Enrico Bocci e a Italo Piccagli, si difese, ma riportò delle ferite che lo condussero alla morte dopo pochi giorni.

Onorificenze
Medaglia d'oro al valor militare
«Studente universitario, fin dai primi giorni della lotta dedicò la sua attività quotidiana ed instancabile ad uno dei più delicati settori della vita clandestina, trasmettendo per radio importanti notizie agli alleati. Benché continuamente braccato dal nemico che cercava con ogni mezzo di stroncare le informazioni sulla propria attività militare e di individuare la fonte rivelatrice, rimaneva impavidamente al suo posto di combattimento per adempiere, tra i più gravi rischi e le più dure difficoltà, il compito che aveva volontariamente assunto. Sorpreso dalle SS. tedesche mentre trasmetteva messaggi segreti, riusciva con mirabile sangue freddo a distruggere i cifrari e a dare l’allarme alla stazione ricevente. Sparava, quindi, fino all’ultimo colpo, contro i nemici finché, dopo averne uccisi tre ed essere stato più volte colpito, cadeva sopraffatto, salvando il servizio, che egli stesso aveva organizzato col proprio eroico sacrificio.»
— Firenze, 7 giugno 1944.

Monumento all'ultima sede di Radio CORA
Luigi Morandi. Enrico Bocci ed Italo Piccagli sono ricordati nella lapide del monumento situato davanti al palazzo in cui avvenivano le trasmissioni di Radio CORA, in Piazza d'Azeglio. Sulla lapide si leggono le parole: Il 7 giugno 1944 convenuti nella casa di fronte a concordarvi l'ultima battaglia della nostra liberazione Enrico Bocci avvocato Italo Piccagli capitano dell'A.A.R.S. Luigi Morandi studente solo armati di costanza fede sapere sorpresi con i compagni dai nazifascisti dopo resistenza torture inumane coraggio dettero la vita per gli ideali fino all'ultimo vivi di giustizia e di libertà - medaglie d'oro al valor militare per una civile pace tra i popoli".

▪ 1967 - Spencer Bonaventure Tracy (Milwaukee, 5 aprile 1900 – Los Angeles, 10 giugno 1967) è stato un attore statunitense. Nato a Milwaukee, nello stato del Wisconsin, secondogenito di un venditore di camion, apparve in settantaquattro film, dal 1930 fino al 1967, poche settimane prima della morte.
È ricordato per alcune magistrali interpretazioni - fra le quali quella nel film Indovina chi viene a cena? - e per il suo lungo sodalizio, artistico e sentimentale, con l'attrice Katharine Hepburn.
Tracy è tuttora considerato uno dei migliori attori del suo tempo. Era in grado di interpretare l'eroe, il contadino o ruoli comici ed era in grado di far credere al pubblico che quello fosse realmente il personaggio che interpretava.
Fu uno dei primi attori realistici, le sue interpretazioni hanno superato la prova del tempo, cosa che non è successa con altri attori sopravvalutati suoi contemporanei.

▪ 1982 - Rainer Werner Fassbinder (Bad Wörishofen, 31 maggio 1945 – Monaco di Baviera, 10 giugno 1982) è stato un attore, regista, sceneggiatore e drammaturgo tedesco, uno dei maggiori esponenti del Nuovo cinema tedesco degli anni Settanta-Ottanta.

▪ 1991 - Ambrogio Donini (Lanzo Torinese, 8 agosto 1903 – Rignano Flaminio, 10 giugno 1991) è stato uno storico marxista italiano.
Titolare della cattedra di Storia del Cristianesimo dal 1926 al 1928 all'Università di Roma e dal 1960 al 1971 a quella di Bari, insegnò anche in diverse università degli Stati Uniti. Ambasciatore italiano in Polonia nel 1947, fu senatore della Repubblica dal 1953 al 1963, eletto nelle liste del Partito comunista italiano.

▪ 1995 - Mikel Dufrenne (Clermont, 9 febbraio 1910 – Parigi, 10 giugno 1995) è stato un filosofo francese.
È una tra le massime figure del pensiero fenomenologico francese e si è occupato soprattutto di tematiche estetiche; è stato, inoltre, docente all'Università di Poitiers e di Paris X: Nanterre.

Gli studi
Mikel Dufrenne è nato in Francia, precisamente a Clermont-Oise, il 9 febbraio del 1910. La madre veniva da Sault, un comune francese dell’alta Provenza «in mezzo ad una natura più che mai dolce e felice», per usare le parole di Formaggio, mentre il padre era un Ispettore scolastico di Parigi. La famiglia, a causa del lavoro del padre, si stabilisce a Clermont, dove lo stesso Mikel nasce e vive fino agli studi superiori, in un luogo anch’esso ameno, «una cittadina ancora una volta affondata nel respiro di una delle più dolci campagne di Francia». Compiuti i sedici anni Mikel si trasferisce a Parigi per frequentare una scuola prestigiosa, il Lycée Henri IV, dove, dal 1926 al 1929, ha come professore Alain. Come presupponeva il suo corso di studi, si è in seguito iscritto all’École Normale Superieure, una delle più rinomate istituzioni scolastiche parigine ad indirizzo pedagogico, finalizzata alla preparazione degli insegnanti, alla quale, qualche anno prima, si erano già iscritti anche Sartre e Merleau-Ponty.

L'insegnamento e la Guerra
Consegue dunque la laurea in filosofia nel 1932 e incomincia ad insegnare nei licei: a Thionville (1933-1934), a Vesul (1934-1935) e infine a Sens (1936-1939). Si sposa nel 1938 con Madeleine Rossel e l'anno successivo viene arruolato nell'esercito francese, impegnato nella Seconda guerra mondiale. Nel 1940 viene catturato dall'esercito tedesco e rimane prigioniero in Pomerania per cinque anni; durante questo periodo di prigionia inizia il suo rapporto di amicizia con il filosofo Paul Ricœur, il quale serberà di lui questo ricordo: «tout commença entre nous parmi les baraques d'un camp des prisonniers de guerre en Poméranie. Et tout commença sous le signe de la poésie: Valéry et Claudel – dont bien rares sont les admirateurs communs! – nous ont ressemblés au hazard d'un rencontre. Ainsi commença un long échange, qui, d'abord, nous conduisit à la lecture côte à côte de l'œuvre alors publiée de Karl Jaspers». Infatti, in seguito, Mikel pubblica a Parigi nel 1947 quella che sarà la sua prima opera, scritta proprio con l'amico: Karl Jaspers et la philosophie de l'existence (Seuil).

La fine della Guerra e le maggiori pubblicazioni
Terminata la guerra torna a insegnare nei licei, fino a quando, nel 1952, viene scelto come supplente di Raymond Bayer[7] alla Sorbona. Nel 1953 esce la sua prima più importante opera di Estetica, la Phénomenologie de l'expérience esthetique (PUF, Parigi), che «est la dernière grande esthétique classique», a detta di Maryvonne Saison[8]. Nel frattempo, nel 1955, riceve la nomina ad ordinario di Filosofia all'Università di Poitiérs, da dove viene trasferito, nel 1964, alla nuova sede a Nanterre, Paris X. In questi anni, precisamente dal 1960, vista la sua fama ormai internazionale, diventa co-direttore della «Revue d'esthétique», inizialmente insieme a Étienne Souriau e dal 1978 con Olivier Revault d'Allones, fino al 1994. Contemporaneamente pubblica una serie di studi: a partire da La Notion d'a priori (PUF, Parigi) nel 1959, per continuare nel 1963 con Le Poétique (PUF, Parigi), libro molto importante che verrà tradotto in moltissime lingue, «in cui si designa il progetto di questa uscita attraverso una metafisica, o filosofia prima, della presenza […] fondata su di una ritrovata fondazione del senso e dell'essenza del poetico nella Natura naturante, così come si prolunga ed attua nel mondo e nell'arte». Nel 1967 esce il primo di tre volumi dell'Esthétique et philosophie (Klincksieck, Parigi; gli altri due usciranno rispettivamente nel 1976 e nel 1981) composto da una serie di articoli sui maggiori temi della sua fenomenologia dell'esperienza estetica; l'anno dopo sarà la volta di Pour l'homme (Seuil, Parigi), opera «che si propone esplicitamente di “evocare l'antiumanesimo proprio della filosofia contemporanea, e di difendere contro di esso l'idea di una filosofia che potrebbe avere cura dell'uomo”», e, nel maggio francese del 1974, Art et politique (U.G.E., Parigi), che «costituisce il libro che fa dell'arte l'atto della contestazione permanente di ogni potere costituito e di una perenne rivoluzione utopica radicale e popolare contro l'istituzione». Durante quest'anno, tra l'altro, si congeda da Paris X per andare in pensione.
Naturalmente le sue pubblicazioni non si concludono: nel 1977 esce Subversion, perversion (PUF, Paris), seguito nel 1981 da L'Inventaire des a priori (Bourgois, Paris), testo che il filosofo aveva già iniziato negli anni 1965-1967 e che ha portato a termine solo nel 1977-1979. A detta di Formaggio, quest'ultima è «l'opera che Dufrenne dedica come il suo “testamento filosofico” […] veramente l'opera sua fondamentale», con cui il suo pensiero «ha segnato in modo decisivo il terreno estremamente complesso e irto di difficoltà di ogni genere dell'Estetica del ventesimo secolo». Nonostante ciò, la sua vera ultima opera, cronologicamente parlando, è L'Œil et l'oreille (L'Hexagone, Montréal) edita nel 1987.

Gli ultimi anni
Purtroppo, a partire dal 1988 inizia a soffrire di insufficienza respiratoria, dovuta ad un enfisema contratto, e si vede costretto a ridurre drasticamente le sue attività. Nel 1991, all'età di 81 anni, si sposa, per la seconda volta, con Marcelle Brisson (Montréal 1929). Il 10 giugno del 1995 muore in piena lucidità e viene cremato a Père Lachaise.