Società “Amici del pensiero” 11 – Commenti 9: il Tribunale Freud

Terzo derivato di tale Ordine: il Tribunale Freud
Fonte:
CulturaCattolica.it
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C’è una Costituzione in virtù di un Principio, “l’albero si giudica dai frutti”. Essa può essere definita Rettitudine del pensiero, pensiero di natura, ortodossia del soggetto, come legge di moto del corpo nell’universo dei corpi. La sua sede è individuale (52). Res cogitans sì ma extensa, e come tale Istituzione del pensiero (distinta dalla contrapposta Istituzione dell’Oggetto).
Agli uomini è tradizionalmente attribuita sì una Costituzione, ma naturale-biologica, non una Costituzione giuridica (a parte il pallido tentativo del “Diritto naturale”, sempre senza copertura economica come d’altronde i “Diritti umani”).
Di questo Principio può venire posta una legislazione giuridica, positiva per atti positivi del pensiero. La sua Carta semper condenda ha ricevuto il nome Ordinamento giuridico del linguaggio, come nomi di atti prima che di cose.
Vero che incontriamo il pensiero e il suo Ordinamento nell’esautorazione e nella derivante patologia (sono qui da richiamare le due parole freudiane Vernichtung-annullamento e Zerstörung-distruzione): ma ciò malgrado il pensiero resta in-domito - è ciò che bene o male è stato chiamato “inconscio” da Freud -, lasciando traccia e testimonianza di sé, attuale e non solo archeologica, e non sempre virtuosa. L’esiliato picchia, non bussa, anche facendosi male alle mani.
La triplice Norma fondamentale (53) (3° Articolo) si pone tra la Costituzione e il suo Ordinamento: essa designa l’amicizia del pensiero (genitivo soggettivo) costituendosi, secondariamente e realisticamente, come amicizia del pensiero (genitivo oggettivo), come Amicizia per esso o alleanza con esso.
Questa si costituisce (nel senso di “costituirsi parte civile” motu proprio) come giudizio su ostilità e indifferenza (omissione con sistematizzazione) per il pensiero, ambedue imputabili come forme di avversione al pensiero stesso.
Il “Tribunale Freud” è nato diversi anni fa per rispondere a queste due specie dell’imputabilità (anche nel caso della patogenesi).
Esso corrisponderebbe al Tribunale penale, la materia del suo giudizio essendo l’illecito nei riguardi del pensiero con effetto di danno: ma resta da cogliere il privilegio dato da un tale Tribunale al giudizio come esso stesso sanzione (rispetto alla pena come sanzione), e sanzione non vendicativa né correttiva né educativa.
Per non dire della desiderabile mancanza, nell’Ordinamento che promuove questo Tribunale, di quel “monopolio - e comunque esercizio - della violenza legittima” che è proprio dell’Ordinamento statuale. Ma nulla a che vedere con l’esecrabile “La Bontà”, uno dei tanti Oggetti presupposti del cielo infernale.
Questa esclusività del giudizio come sanzione, rivisita il “perdono” non come esenzione dalla sanzione, ma come giudizio (in sé pubblico) rinforzato proprio perché unica sanzione, ed esaltato dal suo brillare per l’assenza di sanzione penale.
Non c’è classe di atti, né di individui “eccellenti” nella Storia del pensiero, che goda dell’immunità dal giudizio di un tale Tribunale: ogni pensiero e discorso è riconoscibile come atto al pari dell’azione motoria. Del resto il parlare è la più eminente delle azioni motorie, anche nella varietà di muscolatura implicata, e implicata nella premeditazione.
La psicoanalisi, come applicazione dell’Ordinamento della rettitudine del pensiero alla cura della psicopatologia, è quel caso di un tale Tribunale in cui il malato è invitato al passaggio del costituirsi come giudice dell’imputabilità nella propria patogenesi. La psicoanalisi è un caso di habeas corpus
nei confronti di una detenzione patologica senza giudizio. La diagnosi stessa è recuperata al giudizio.
Resta da indagare l’estendibilità di un tale Tribunale a materie contenziose.
E anche, se non anzitutto, a materie la cui imputabilità sia premiale (e non necessariamente, ci si augura, post mortem).

NOTE
52. E’ anzitutto a questo proposito che ho chiamato I. Kant “il mio migliore nemico”. Mi ha incoraggiato, infatti, la sua concezione dell’individuo come la sede motrice, e unica sede, della legislazione universale. Gli devo anche il vero significato del “superio” come legge morale (lo ha riconosciuto per primo Freud con sicuro “istinto”): al punto che, nella mia riedizione del lessico freudiano, non ho neppure più bisogno della parola “superio”., mi basta in meglio “legge morale” kantiana. Certo, poiché assumo il superio come imperativo “osceno e feroce” secondo la definizione lacaniana, non posso definire la sede kantiana come san(t)a sede: non è né sana né santa.
53. Va ripresa qui la distinzione kelseniana tra Norma fondamentale (Grundnorm) e Costituzione, la prima essendo formulata come “Bisogna obbedire alla Costituzione”, e definita come “presupposta”. Questa definizione è stata molto discussa. Di essa osservo soltanto la congenita debolezza, che si trasmette alla Costituzione stessa (la sanguinaria storia politica novecentesca lo dice a sufficienza). Così come osservo che la nostra Norma fondamentale è non presupposta ma posta, come la Costituzione stessa.
La critica kelseniana al “Diritto naturale”, medioevale o moderno, resta ineccepibile. Ma ciò non fa che rinforzare la scoperta che ho potuto fare nella “Dottrina [non ‘Teoria’ !] pura del diritto”: questa lascia tutto il posto per il Primo diritto che sviluppiamo anche nell’ordine della conoscenza (conoscenza per fructus cioè la giurisprudenza dell’imputabilità), ossia per la vita psichica o del pensiero come vita giuridica.
Sul “Diritto naturale” resta qualcosa da aggiungere. Il tentativo sempre risorgente come araba fenice di asserirlo, va riconosciuto come tentativo di asserire che c’è pur sempre posto per due diritti, uno dei quali ha sede o posto individuale (nella “natura” o nel “cuore” dell’individuo). La nostra asserzione è che per esservi posto deve esserne posto: osserviamo dunque l’antica “esigenza” (non antigonea) di una duplicità giuridica.