Ave, sorella
di Gabriele D’Annunzio- Autore:
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Ave, sorella
Quando in terra a le soglie umili venne
Gabriele (d’intorno anche fiorìa
la terra al novel tempo?) udì la pia
Donna, tremando, il rombo de le penne.
Ma quel Messo, in un dolce atto e solenne
a l’Eletta parlò:- Bene ti sia;
il Signore sia teco; ave, Maria. –
E il fremito de l’alte ali contenne.
Non io vengo su alte ali recando
divin messaggio. Ahi troppo io feci schiava
l’anima e troppo il mio servire è antico!
Ma pur, tese le mani come quando
ne la serena puerizia orava,
io dolcemente - Ave, sorella - dico.
II
Ave dico. -Per quante volte il mite
lume de li occhi suoi misericordi
ne’ miei torbidi spiriti discordi
ridusse in pace ogni più trista lite;
(deh come belli su da le ferite
non anche chiuse i fiori de’ ricordi
balzan fiammando! Tremano i precordi
in gran dolcezza. O fiori, aulite, aulite!)
per quante volte a la soave nostra
madre ella terse con man leniente
le lacrime ch’io feci a lei versare;
per quante volte seppe addormentare
ne le sue braccia il mio figliuol dolente,
Ave dico, ave dico; e il cuor si prostra.
III
O sorella, felice sposa uscendo
da la mia casa che di pianti suona,
volgi la faccia sotto la corona
tu lacrimosamente sorridendo.
Io muto dietro a te le braccia tendo,
o mia sorella, o mia sorella buona;
la man ben usa al gesto che perdona,
la cara man che mi sanava io prendo.
Ti volgi tu, ne’ veli; e mi conforti
porgendomi tra i fior la bianca fronte
ove già luce il sogno de ‘l futuro.
Quindi varchi la soglia. E teco porti
quel ch’era in me, sopra le glorie e l’onte,
più sereno più giovine e più puro!
Come tutti sanno, D’Annunzio non può certo essere annoverato tra i poeti cristiani.
Ciò nonostante, se è vero che la fede non illuminò la sua vita, è pur vero anche che, il pungolo della fede, intaccò ed accompagnò tutta la sua esistenza, esistenza che fu caratterizzata da un’ansiosa e vana ricerca della felicità.
Alcune note biografiche ci aiuteranno a capire maggiormente la figura di questo grande poeta, la cui tormentata vita fu spesso “bollata” come “immorale” e le cui opere furono inizialmente “messe all’indice”.
C’è da notare, innanzitutto, che, vita ed opera, azione e pensiero, in D’Annunzio furono un’unica cosa e la sua “filosofia di vita”, concretizzata in un’esistenza vissuta all’insegna “dell’eccesso” e definita in vari modi (“neopaganesimo”, “niccianesimo fuori stagione”…) fece di lui il poeta del “Memento audere semper “ (“ricordati di osare sempre” – è uno dei motti dannunziani più noti) e del “Mori citius quam deserere” (“morire piuttosto che rinunciare” – motto che egli rivolse ai legionari abruzzesi nel Novembre 1920, quando la situazione a Fiume era diventata ormai insostenibile)
Se da una parte, tali definizioni colgono, senza ombra di dubbio, un aspetto rilevante del nostro autore (almeno per ciò che riguarda il suo “modus vivendi”), dall’altra è pur vero che, nella sua eclettica e vastissima produzione, si riscontrano anche pagine in cui fanno capolino sentimenti struggenti ed arcane tensioni le quali, anche se spesso solo “inconsciamente”, rimandano il pensiero alla possibile esistenza di un “Oltre”.
D’Annunzio, dapprima, cercò la felicità in un estetismo esasperato, in un esaltazione sfrenata dei sensi e del piacere, ma, il piacere, idolatrato e portato all’eccesso, lo deluse, lasciando in lui “un immensa tristezza”, quell’ “ oscura tristezza - per dirla con il protagonista de “Il Piacere” – che è infondo a tutte le felicità umane, come alla foce di tutti i fiumi è l’acqua amara”.
Così D’Annunzio, come “Andrea Sperelli, ammalato di egoismo estetico…, del Piacere… intende la vanità e la miseria e si sente attratto verso la grande salvezza” Ma, anche in questa situazione interiore di “disagio intimo”, il poeta, come il personaggio del suo romanzo, anziché volgersi alla fede, si lascia nuovamente ammaliare da un’ulteriore chimera e si volge “verso la vita multipla e multiforme, vibrante, sonante, trascinante e verso la grande Arte rispecchiatrice dei fenomeni e delle passioni del mondo”.
È questo il periodo in cui D’Annunzio fa suo l’ideale nicciano del Superuomo.
Anche qui, però, nell’esaltazione incondizionata dell’ “io”, il poeta non trova la serenità desiderata ed incorre in una nuova delusione: il suo animo tormentato non raggiunge la pace desiderata, non ottiene l’appagamento agognato. Dopo la fugace illusione, portatagli dal mito superomistico, il poeta si ritrova di nuovo “triste ed infelice”.
Attraversa, allora, una fase di “nostalgici rimpianti” intessuti di un certo “naturalismo panico” misto a riflessione interiore.
Sebbene l’idealità filosofica, insita nel mito del superuomo, non abbandoni mai completamente il nostro autore, ora, egli si volge, per così dire, verso una maggior “interiorità”. Ne sono un esempio le sue opere “La figlia di Iorio” (1904) e “La nave” (1906) dove D’Annunzio è convinto - parole sue - di aver “creato la tragedia cattolica e celebrato nell’una e nell’altra il trionfo della fede”.
Effettivamente – come nota il Vicinelli - la storia di “Mila di Codro (ne “la figlia di Iorio”) si trasfigura quasi in un popolare mistero sacro nella condanna corale che il popolo infligge al parricida, nei lamenti delle donne in quel senso diffuso di religiosità primitiva e di sacrificio istintivo che si conclude nell’eroica esaltazione di Mila”.
Si presenta, così, al poeta la possibilità di aprirsi alla fede, l’opportunità di poter arrivare a credere.
D’Annunzio stesso, in “Contemplazione della morte” (1912) confessa che, leggendo ad un amico una scena de “Le martyre de Saint Sébastien” (opera da lui scritta in francese durante il suo “volontario esilio” a Parigi) sentiva crescere in lui una commozione religiosa e dice: “Credo che in quel punto la voce mi si spegnesse perché mi si serrava la gola. E allora un sentimento mai provato mi scrollò le radici dell’essere, perché ad un tratto udii il suono di un pianto umanissimo che non avevo udito mai; tra quelle quattro mura deserte e lontanissime da ogni rumor del secolo udii il profondo singhiozzo del “consumato amore” che cantò Jacopone, scorsi le medesime lacrime che avevano rigato il viso di Francesco in ginocchio dinanzi al Crocifisso di S. Damiano o errante intorno alle mura della Porziuncola”.
Ma la volontà e l’intelligenza del poeta non riuscirono a cooperare con la Grazia divina che faceva capolino nella di lui esistenza e poiché, “Credere è un atto dell’intelligenza che, sotto la spinta della volontà mossa da Dio per mezzo della grazia, dà il proprio consenso alla verità divina” (S.Tommaso)” e, come insegna la Chiesa” Per essere umana la risposta della fede data dall’uomo a Dio deve essere volontaria” (C.C.C. N° 160), senza la partecipazione attiva della volontà umana di D’Annunzio di “arrendersi” al divino, “la porta della fede” restò chiusa: il poeta non giunge ad aprirla e tutto si condensò nel tragico verso “O secca anima mia, / che non puoi lacrimare”.
Passiamo, ora, all’analisi vera e propria, del testo poetico presentato.
Le prime strofe sono, per così dire, di “ambientazione”: D’Annunzio presenta la scena dell’Annunciazione e, partendo da essa e prendendo “spunto” dall’Ave del saluto angelico (che però, è da notarsi, il poeta non riporta se non “in seconda battuta” mentre “traduce” il primo “Ave” angelico con “ben ti sia”), dipana tutto il resto del testo poetico.
In questa commovente “confessione”, che caratterizza la parte introspettiva della poesia scelta, d’Annunzio esprime il suo “non sum dignus”, il riconoscimento delle sue molteplici colpe, ma anche, nondimeno, la fiduciosa speranza nella misericordiosa compassione della Vergine Santa verso tutti i suoi mali interiori.
D’Annunzio si rivolge alla Madonna chiamandola “confidenzialmente” “sorella” poiché la sente amabilmente vicina alle sue miserie e in lei spera –ci si passi il termine- un’intercedente “raccomandazione” presso il trono dell’Altissimo a cui, probabilmente, non osa neppure rivolgersi consapevole, com’è, del “disordine interiore” proprio della sua vita licenziosa dato che dice: “Ahi troppo io feci schiava l’anima e troppo il mio servire è antico!
Possiamo ravvisare, qui, quasi un’eco di una bellissima preghiera della liturgia bizantina che, invocando la Vergine, dice: “Madre di Dio, avendo in te sicura speranza, sarò salvato. Godendo della tua protezione, o Purissima, non avrò timore. … Supplicando il tuo aiuto che tutto può, a te grido: “Salvami, Signora, per la tua intercessione e concedimi di alzarmi dal sonno tenebroso”“.
È perciò alla benevolenza materna di Maria, alla di Lei dolce umanità pietosa, che il poeta guarda per chiedere, a Colei che sola può soccorrerlo, pietà e conforto nel “mare periglioso di sua vita”.
È così, “tese le mani come quando ne la serena puerizia orava” dice: “Ave, sorella”.
Una recente rilettura della produzione dannunziana ha portato parte della critica a ritenere che l’autenticità della vena poetica di D’Annunzio non stia tanto nelle “sgargianti” ed altisonanti pagine inneggianti all’estetismo più disinibito o all’egocentrico mito del superuomo, quanto piuttosto in quelle “dimesse” che, tra le righe, lasciano intravedere l’animo profondo e nostalgico del poeta, ricco di velate e segrete zone d’ombra, un animo sensibile ed insaziabile che non riesce a risolvere il suo dramma interiore e restò così inquieto e senza pace, poiché, come insegna S. Agostino, “il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Dio”.
Ma la conferma più eloquente di questo suo animo tormentato che giunge alle soglie della fede (senza purtroppo giungervi) ce la fornisce D’Annunzio stesso nel “Poema Paradisiaco”, in “Contemplazione della morte” in cui, rivolto alla madre dice: “Non pianger più: torna il diletto figlio alla sua casa. È stanco di mentire” (dove il termine “mentire” possiamo leggerlo come la consapevolezza che D’Annunzio stesso avvertiva – e, parlando con la madre, in tutta sincerità ammetteva - dell’intima dissonanza tra la sua vita esteriore e l’interiore, inconscio, anelito del suo cuore).
Il poeta, nella seconda parte del testo, esprime, poi, un triplice (seppure indiretto) “mea culpa”: “Ave dico per …”.
È il ricordo degli “interventi buoni” di Maria che, apportatrice di pace, si fa presente nella vita tormentata e dolorosamente piagata del poeta per porgergli la possibilità di una vita migliore e, portandogli soccorso, fargli balenare, dinanzi agli “occhi del cuore”, la possibile gioia proveniente da un vivere “più sereno, più giovine, più puro”.
Questa seconda parte è composta da tre quadri, ciascuno di una bellezza unica ed incomparabile. In esse, l’animo del poeta, abbandonati gli atteggiamenti altisonanti del suo usuale agire, “si prostra”, riconoscente e mesto, dinanzi alla Vergine santa.
Il poeta è grato a Maria, innanzitutto, “per quante volte il mite lume de li occhi suoi misericordi ridusse in pace ogni più trista lite” nei suoi “ torbidi spiriti discordi”.
Di una struggente dolcezza è anche l’inciso (che D’Annunzio mette tra parentesi) “Deh come son belli su da le ferite non anche chiuse i fiori de’ ricordi balzan fiammando!”, in cui la nostalgia del ricordo allevia e, possiamo dire, in parte “deterge” il “nero” delle “ ferite non anche chiuse” in modo tale che “Tremano i precordi in gran dolcezza”. Di questo benefico influsso, i fiori stessi, simbolo forse della semplicità naturale perduta dal poeta nello svolgersi della sua vita mondana, sono chiamati ad esserne testimoni e araldi: “O fiori, aulite, aulite!”
Poi il pensiero si volge alla madre e sorge, nell’animo del poeta, la consapevolezza che, il suo modo di vivere, ha causato molteplici sofferenze alla pia madre ed allora, spontanea si leva la gratitudine a Maria “per quante volte a la soave … madre ella terse con man leniente le lacrime”.
Ma D’annunzio, in questo testo, si mostra non solo “figlio”, ma anche “padre” ed è proprio l’amore paterno che innalza alla Vergine l’ultimo “Ave” in “rendimento di grazie” “per quante volte seppe addormentare ne le sue braccia il figliuol dolente” e, grazie a questo, il poeta, commosso, nell’intimo del suo “ cuor si prostra”.
In “Contemplazione della morte” quasi “si confessa” e dice: “Amico ho avuto molte primavere travagliate … So quel che significa la dimanda dei vostri occhi buoni, ma non so che rispondere. Non dimeno mai, da che vivo, non ebbi un istinto e un bisogno di mutazione tanto profondi e agitati … “Mutar d’ale” … Mai Gesù mi fu più vicino, e mai n’ebbi un senso tanto tragico. Certo, da una limitazione può nascere la più vasta vita; e una mutilazione può moltiplicare la potenza, come sa il potatore …”.
D’Annunzio vorrebbe, dunque, “mutar d’ali” -e a ciò sembra aspirarvi sinceramente- ma si sente, al contempo, anche ancora profondamente “invischiato”nel suo disordine interiore. In cuor suo, potrebbe anche far sue, almeno a livello di desiderio, le parole di M. M. Maddalena dell’Incarnazione che, nel suo “Atto di umiltà e contrizione” così si esprime: “Mio Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, abbi pietà di me, perché mi riconosco veramente indegna di comparire davanti a Te per i molti peccati che ho commesso e ancor più di avvicinarmi a questo santo luogo. Mio Dio, non respingermi dalla presenza del tuo Divin Figlio” … “Perdonami, mio Signore; purifica l’anima mia con l’infusione della tua grazia e rendila tale ai tuoi purissimi occhi”.
Ma, per giungere a questa “purificazione”, necessita la personale e volontaria adesione a quella “limitazione” da cui “può nascere la più vasta vita” e l’accettazione di quella “mutilazione” che “può moltiplicare la potenza”. Ma questo, esteriormente (poiché l’animo umano resta, sempre e comunque, un “mistero insondabile”), nella vota del poeta, –come nota Giuseppe Deferenza- non venne mai, e così il fortunoso Ulissìde non condusse in porto la nave del suo inutile viaggio”, almeno, non su questa terra.
Sotto molti punti di vista, la vita di D’Annunzio, può essere vista come un’interminabile “Odissea”. Il nostro poeta, infatti, nonostante la sua apparente vita “dissoluta” era dotato, come abbiamo già avuto occasione di rilevare, oltre che di un’intelligenza acutissima, di un animo sensibilissimo che lo spingeva al desiderio di vivere ogni cosa ed ogni evento “in pienezza”, con tutto sé stesso: “anima e corpo”. In D’Annunzio, perciò, nonostante tutto, restò sempre e comunque insopprimibile un’inconscia tensione verso una certa interiorizzazione e, di conseguenza, un insaziabile “desiderio d’Infinito”.
Ma, come dicevamo, il poeta, irretito nelle maglie dei piaceri sensibili, peregrinò senza posa in mari “estranei” a questo suo desiderio e completamente diversi dal mare tranquillo della fede cui la madre, nella fanciullezza, l’aveva iniziato: la “patria beata”, sede della pace e della tranquillità interiore cui tanto anelava, poté solo desiderarla e “sognarla” e così, anch’egli come il Foscolo, avrebbe potuto dire: “Tu non altro che il canto avrai del figlio o materna mia terra” (cfr.: Foscolo: “A Zacinto”)
L’ultima parte della poesia, infine, ci rileva la presenza di Maria nella stessa casa del poeta “che di pianti suona”.
Il poeta la vede mentre, “lacrimosamente sorridendo”, è in procinto di uscire dalla triste abitazione. Ella lo fa, però, quasi indugiando, poiché, nel varcare la soglia, volge “la faccia sotto la corona”.
Ed è grazie a questo “indugiare” della Madre Santa che l’animo di D’Annunzio riprende coraggio e, rivivendo in lui la speranza, “muto dietro a te le braccia tendo” -dice il poeta a Maria- e, dopo una pudica pausa (che possiamo ravvisare nell’’invocazione “o mia sorella, o mia sorella buona”) aggiunge “la man ben usa al gesto che perdona, la cara man che mi sanava io prendo”.
Maria, allora, si volge a rincuorare il poeta, porgendogli “tra i fior la bianca fronte ove già luce il sogno de ‘1 futuro”.
E chissà che, anche solo questo semplice desiderio di poter essere “più sereno, più giovine, più puro”, unito all’intercessione della Vergine, la cui “benignità - come ci ricorda Dante - non pur soccorre a chi domanda, ma … liberamente al dimandar precorre”, non sia stato sufficiente, nella sconfinata e misericordiosa bontà divina, a far sì che, anche il nostro tormentato “poeta”, abbia potuto raggiungere, almeno “post mortem”, la felicità eterna e sedere “a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel regno dei cieli” (Mt. 8, 11).
Ma forse, un “briciolo di pace”, la Vergine Santa, seppe infonderlo, nel cuore del poeta, fin da questa vita, almeno per alcuni momenti, poiché, conclude D’Annunzio “Quindi varchi la soglia. E teco porti quel ch’era in me, sopra le glorie e l’onte, più sereno più giovine e più puro!”
Il “non sum dignus” di D’Annunzio si accosta a quello del centurione romano e, in un certo qual modo li accomuna: entrambi “estranei” alla fede, entrambe “esclusi” dall’appartenenza ufficiale al “popolo di Dio”, … entrambi “soccorsi” dalla bontà misericorde del Signore (sebbene il funzionario romano lo sia stato direttamente da Gesù mentre il nostro poeta “tramite” l’intervento della sua Ss.ma Madre).
Possiamo, infatti, pensare e perciò anche sperare, che, l’ausilio di Maria, abbia ottenuto da Dio il “miracolo” della “purificazione interiore” nell’animo angustiato di D’Annunzio, rendendolo degno di accostarsi alla mensa del banchetto celeste, negli angeli e dei santi.