Le nozze di Cana

Giotto, Le nozze di Cana, Padova, Cappella degli Scrovegni
Autore:
Sr. M. Benedetta dell'Unità
Fonte:
CulturaCattolica.it ©
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Due parole su Giotto…


Giotto può certamente essere considerato come il fondatore del linguaggio pittorico del '300.
Nato, secondo il Vasari, nel 1276 - ma molto più probabilmente nel 1267, dal momento che il Pucci ne attesta la morte nel gennaio 1337, all'età di 70 anni, a Firenze: fonte storica, questa, attendibile -, a Colle, borgo del Mugello; apprende il mestiere e inizia a dipingere tra la fine degli anni '70 e gli anni '80 del '200 nella bottega di Cimabue; da questo insigne maestro impara a impiegare un'astratta, netta scansione delle ombre e delle luci, distribuite in modo convenzionale, impara a far uso di sigle grafiche stereotipate per indicare le parti del corpo umano, impara a ricorrere a tipi iconografici fissi per rendere riconoscibili i protagonisti delle narrazioni, impara a mettere in scena architetture fantasiose che nulla hanno a che fare con la realtà. Giotto, insomma, muove i suoi primi passi all'interno della tradizione. Subito, però, egli cerca di modificarla, con uno sforzo di personalizzazione già chiaramente individuabile nelle opere della giovinezza, come la "Madonna" di S. Giorgio alla Costa o la "Croce" di S. Maria Novella a Firenze. E' la creazione della terza dimensione alla rappresentazione pittorica, la creazione illusionistica di uno spazio credibile, l'elemento tipico del linguaggio grottesco, ed è esattamente questa la "rivoluzione" che porta nel linguaggio pittorico, facendo di lui il fondatore della pittura del '300.
Intorno al 1290 Giotto è ad Assisi, al fianco di Cimabue, nella decorazione della Basilica superiore di S. Francesco. Opera sua è il ben noto ciclo di affreschi sulla vita del Santo assisiate, ma non pochi sono i critici d'arte che sostengono una sua partecipazione anche alle parti alte delle pareti della navata, ove sono presentate storie dell'Antico e del Nuovo Testamento. In particolare pare di poter riconoscere i suoi tratti nelle due "Storie di Isacco", nella "Storia di Giuseppe ebreo", nella "Risurrezione" e nel "Pianto sul Cristo morto".
Fin da questi suoi inizi si delinea la caratteristica di questo artista, che abbiamo detto essere fondatore di un nuovo linguaggio pittorico. Al bizantinismo fino a quel momento imperante egli infatti reagisce proponendo una visione non più contemplativa e corale, ma pacatamente drammatica e certamente più individualmente umana. Un esempio per tutti lo stesso S. Francesco, non più presentato come asceta, emaciato da digiuni e mortificazioni, ma come un'immagine forte, virile, dignitosa ed eroica; anche il contesto naturalistico è secondo questi nuovi canoni, non indugiando più esso nel particolare e nell'episodico, ma esprimendosi con una formulazione direttamente ed essenzialmente drammatica. Le stesse scene sono colte tutte nel loro momento culminante di tensione patetica. Come fa notare C. Argan, "Giotto ricollega l'arte alla fonte classica, i cui contenuti essenziali erano la natura e la storia. […] La naturalezza di Giotto non nasce dall'osservazione diretta del vero, ma è recuperata dall'antico attraverso il processo intellettuale del pensiero storico. […] Per Giotto l'antico non è sopravvivenza, evocazione né modello, ma esperienza storica da investire nel presente. […] Giotto trasforma l'immobilità iconica in imponenza monumentale, la tragedia in dramma; la misura da cui non esce è la misura morale per cui il sentimento non si esaspera, ma si traduce in azione".
Nel 1300 l'artista lascia Assisi, chiamato a Roma da Papa Bonifacio VIII con l'incarico di celebrare pittoricamente il Giubileo.
Si reca successivamente a Firenze, ove dipinge il "Polittico di Badia", per poi andare a Rimini; di questo periodo romagnolo però non ci restano opere.


…e la Cappella degli Scrovegni


Nel 1305 approda a Padova, chiamato dal ricco e potente banchiere Enrico Scrovegni, per affrescare le pareti e la volta del sacello che il suddetto aveva fatto costruire per sé e per la propria famiglia. A Giotto la Cappella si presenta come un vano rettangolare, coperto a botte, con pareti assolutamente prive di membrature architettoniche. Mentre ad Assisi le figurazioni potevano essere inquadrate in figurazioni architettoniche prestabilite, qui la definizione dello spazio viene completamente affidata alla pittura. Giotto opta per dei fregi piatti monocromi, con piccoli medaglioni colorati. (Figura 1)
Dedica la Cappella alla Vergine e al Cristo.
Nel registro superiore delle due pareti sono rappresentati quadri della preistoria, noti come "Storia di Gioacchino e di Anna e di Maria"; nel registro sottostante invece le "Storie di Gesù", dall'infanzia alla Risurrezione.
Nello Zoccolo sono le allegorie delle "Virtù" e dei "Vizi", mentre sull'arco trionfale l' "Annunciazione" è sormontata - quasi prologo in cielo - dalla "Missione dell'Angelo Gabriele". Sulla parete d'ingresso invece è il "Giudizio universale".
Nota l'Argan: "La continuità […] di Antico e Nuovo Testamento è espressa nella storia vissuta del rapporto affettivo ed umano tra la Madonna e il Cristo. E' anche, per Giotto, il punto culminante e cruciale della storia dell'umanità, a cui la presenza reale di Cristo pone con estrema chiarezza l'alternativa morale del bene e del male".
Mentre ad Assisi la determinazione dello spazio è definito dalla dislocazione delle masse e dai gesti delle figure, qui emergono dei contorni che impediscono alle prime di estendersi oltre le ultime. In questo modo viene come impedito il crearsi di una relazione tra lo spazio e la figura, cosicché ad essere espressa non è più tanto l'azione, il movimento esteriore, corporeo, ma il sentimento, che è moto interiore.


E' in questo contesto che trova collocazione l'affresco "Le nozze di Cana", che ora prendiamo in particolare considerazione. Protagonisti sono Gesù e Maria, posti l'uno all'estrema sinistra della rappresentazione, l'altra decisamente verso destra; sono, insieme a S. Pietro, gli unici personaggi ritratti con l'aureola. Tra il primo degli apostoli e il Maestro S. Giovanni. Sulla destra invece l'attenzione è decisamente catturata dall'obeso, intento ad assaggiare il "vino nuovo". Proprio questo personaggio testimonia il fatto che Giotto rinnova il modo di ritrarre le figure umane, perché raffigura spesso, specie nei personaggi secondari, vere e proprie "istantanee" della vita del suo tempo.
Il pittore ha vivo il senso della realtà delle cose e dei fatti, ma sottopone d'istinto la realtà ad un processo di semplificazione e di sintesi, proiettando così il racconto in un'atmosfera rarefatta che lo carica di un significato trascendente. Tutto ciò che accade è sottratto al capriccio del caso e alla volontà dei personaggi, ed appare invece determinato dalla continua, vigile presenza di una legge suprema e trascendente. È questa segreta onnipresenza di Dio che conferisce significato religioso all'arte di Giotto, non già l'indulgenza verso atteggiamenti ed espressioni di devozione esterna e chiesastica. A questo proposito è forse utile osservare che Giotto arriva ad intuire quelle leggi della prospettiva lineare che troveranno soltanto nei primi decenni del Quattrocento le loro formulazioni teoriche.
Proprio questo atteggiamento di Giotto di fronte al reale ci permette di analizzare il passo giovanneo da lui rappresentato a due livelli: uno più legato al testo e uno dai tratti più legati al simbolo. (Figura 2)



Quale lettura ?


Il miracolo della trasformazione dell'acqua in vino è il primo "segno" (v.11) che illustra il vero carattere della figura di Cristo: esso è infatti il primo, nel Vangelo di Giovanni, di una serie di sette miracoli che rivelano, in progressione, chi è Gesù. Esso è la prima rivelazione della "gloria" di Gesù attraverso i temi del compimento delle promesse messianiche e del banchetto escatologico.
Altro particolare degno di nota è che l'acqua mutata in vino è quella destinata ai riti di purificazione dei Giudei (v.6), quasi a dire che Gesù, con la nuova alleanza porta a pieno compimento le istituzioni giudaiche, proprio come il suo comandamento nuovo compendia e supera quelli affidati da Dio a Mosè sul Sinai.
Un'ultima sottolineatura è il contesto, cioè un banchetto nuziale. Un autore ebreo sottolinea che laddove il testo greco del Vangelo di Giovanni dice "tre giorni dopo", si potrebbe leggere più correttamente in ebraico, "il terzo giorno", cioè il martedì, tradizionalmente riservato dagli ebrei alla celebrazione delle nozze. Si celebra qui dunque il banchetto nuziale annunziato dai profeti per i tempi messianici.
Non si può non pensare a Osea, il cantore dell'amore tra Dio-Sposo e Israele-sposa. Un passo tra molti:
"Ti farò mia sposa per sempre,
ti farò mia sposa
nella giustizia e nel diritto,
nella benevolenza e nell'amore,
ti fidanzerò con me nella fedeltà
e tu conoscerai il Signore" (Osea 2, 21-22).
L'alleanza che Dio ha stabilito con Israele suo popolo ha infatti i caratteri della nuzialità, i caratteri dell'amore intimo, geloso ed esclusivo come è quello di uno sposo. Dice infatti Isaia:
"Sarai una magnifica corona nella mano del Signore, un diadema regale nella palma del tuo Dio.
Nessuno ti chiamerà più Abbandonata, né la tua terra sarà più detta Devastata,
ma tu sarai chiamata Mio compiacimento e la tua terra, Sposata,
perché il Signore si compiacerà di te e la tua terra avrà uno sposo.
Sì, come un giovane sposa una vergine, così ti sposerà il tuo architetto;
come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te" (Is. 62, 3-5).
E il Cantico dei cantici:
"Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l'amore, tenace come gli inferi è la passione:
le sue vampe son vampe di fuoco, una fiamma del Signore!
Le grandi acque non possono spegnere l'amore né i fiumi travolgerlo.
Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell'amore, non ne avrebbe che dispregio" (Ct. 8, 6-7).
Questo miracolo in questo contesto sembra dire che l'"ora" attesa dai profeti delle nozze di Dio con l'umanità è finalmente e decisamente giunta in Gesù di Nazaret. Lo conferma lo stesso Giovanni Battista quando lo indica come Sposo e partecipa alla gioia della festa nuziale: "Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l'amico dello sposo, che è presente e l'ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta" (Gv. 3, 29).
Anche Gesù non esita a proclamarsi "sposo": "Allora gli si accostarono i discepoli di Giovanni e gli dissero: "Perché, mentre noi e i farisei digiuniamo, i tuoi discepoli non digiunano?". E Gesù disse loro: "Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto mentre lo sposo è con loro? Verranno però i giorni quando lo sposo sarà loro tolto e allora digiuneranno"" (Mt. 9, 14-15).
Questa "ora di "gloria" trova però piena manifestazione sulla croce, quando sarà reso evidente a tutti la "misura" dell'amore di Dio per la sua sposa, Sposa spesso infedele, ma che egli purifica e con la quale stabilisce una nuova alleanza, stipulata nel sangue del Figlio, come dice l'Apocalisse: "Poi venne uno dei sette angeli che hanno le sette coppe piene degli ultimi sette flagelli e mi parlò: "Vieni, ti mostrerò la fidanzata, la sposa dell'Agnello"" (Ap.21, 9).
Un'ultima sottolineatura: dopo la chiamata del popolo eletto (vd. Mt. 22, 1-10), tutti gli uomini sono chiamati a rivestire l'abito nuziale (vd. Mt. 22, 11-15), abito costituito dalla fede e dalle opere.
Fin da questa terra abbiamo la possibilità di partecipare alla vita dello Sposo: uniti a Lui infatti diventiamo figli di Dio, siamo introdotti nella vita trinitaria, viviamo in piena comunione con i Tre. Nozze nella storia, già piene di gioia e di letizia, in attesa di quelle escatologiche, come dice l'Apocalisse:
""Alleluia.
Ha preso possesso del suo regno il Signore, il nostro Dio, l'Onnipotente.
Rallegriamoci ed esultiamo, rendiamo a lui gloria,
perché son giunte le nozze dell'Agnello; la sua sposa è pronta,
le hanno dato una veste di lino puro splendente".
La veste di lino sono le opere giuste dei santi" (Ap. 19, 6-8).


Questa lettura "simbolica" delle nozze di Cana, questo "rimandare ad altro", a un movimento interiore - come anche lo stesso Giotto ci ha suggerito - è quella fatta da sempre dai Padri della Chiesa, fondamento della nostra Tradizione.
Scrive ad esempio Fausto di Riez, vescovo:
"Come sposo che esce dalla stanza nuziale (cfr.Sal 18, 6) Cristo è disceso sulla terra per unirsi alla Chiesa mediante la sua incarnazione. A questa Chiesa radunata tra le genti pagane, egli diede pegni e promesse. In pegno la sua redenzione, come promesse la vita eterna. Tutto questo, perciò, era miracolo per chi vedeva e mistero per chi comprendeva. Se, infatti, riflettiamo profondamente, comprenderemo che nell'acqua stessa viene presentata una
certa quale immagine del battesimo e della risurrezione. Quando una cosa scaturisce per processo interno da un'altra o quando una creatura inferiore viene portata per una segreta conversione ad uno stato superiore, ci troviamo di fronte ad una seconda nascita. Le acque sono improvvisamente trasformate ed esse più tardi trasformeranno gli uomini. In Galilea, dunque, per opera di Cristo, l'acqua diventa vino; scompare la legge, succede la grazia; fugge l'ombra, subentra la realtà; le cose materiali vengono messe a confronto con quelle spirituali; la vecchia osservanza cede il posto al Nuovo Testamento. Il beato Apostolo afferma: "Le cose vecchie sono passate, ecco, ne sono nate di nuove" (2 Cor 5, 17). Come l'acqua contenuta nelle giare non perde nulla
di quello che era e comincia ad essere quello che non era, così la Legge non è stata sminuita dalla venuta di Cristo ma avvantaggiata, perché da essa ha ricevuto il suo completamento" (Disc.5 sull'Epifania).


Una via tra molte…


Come far sì che anche la nostra vita si fondi "sull'acqua e sul vino"?
Infinite sono le possibilità, perché infinita è la fantasia dello Spirito che suggerisce e propone alla Chiesa, attraverso i santi, vie di cammino e di sequela.
Siamo nell'Ottavario di preghiera per l'Unità dei cristiani. Proprio per questo motivo scegliamo di guardare a un autore spirituale appartenuto alla Chiesa indivisa, ma certamente molto più conosciuto, venerato e preso a maestro dai nostri fratelli ortodossi. Anche questo può essere un mezzo, pur piccolo e modesto, per accogliere l'invito del Santo Padre a che la Chiesa torni a respirare con entrambi i suoi polmoni, quello dell'Occidente e quello dell'Oriente.
Colui al quale volgiamo lo sguardo è uno scrittore anonimo dell'inizio del V secolo, vissuto molto probabilmente o in Mesopotamia o in Asia Minore, generalmente conosciuto come Pseudo -Macario o Macario/Simeone (questo per distinguerlo dal grande Macario l'Egiziano, monaco del deserto di Sceti in Ergitto, di cui possediamo alcuni "Detti" riportati nella serie alfabetica degli apoftegmi); di lui possediamo diversi scritti, tra cui i più celebri sono "La grande lettera", i "Dialoghi" e le "Omelie".
Macario guarda all'uomo come a un'unità psicosomatica destinata alla "deificazione": la sua antropologia è di tipo biblico (a differenza, ad esempio, del suo contemporaneo Evagrio, il cui sguardo è fortemente dipendente dalla visione origeniana e perciò platonica), in cui è assolutamente impensabile poter separare l'intelletto e l'anima dell'uomo dal corpo, sia nel contingente sia nella prospettiva della vita futura e del destino finale. Diretta conseguenza è perciò una spiritualità fortemente basata sulle realtà del Battesimo e dell'Eucaristia intesi come mezzi per realizzare l'unione con Cristo e per la "deificazione" dell'intera esistenza umana in tutti i suoi aspetti, ivi incluso quello corporeo.
Il fondamento della mistica macariana è l'incarnazione del Verbo. In una sua Omelia afferma:
"Nella sua bontà il Dio infinito e ineffabile si è rimpicciolito, si è rivestito con le membra di questo corpo e si è raccolto lontano dalla sua gloria. Nella sua dolcezza e nella sua amicizia per l'uomo si è trasformato, si è incarnato; si mescola con le anime credenti, sante e a lui gradite e, secondo l'espressione dell'apostolo Paolo, diventa "un solo Spirito" con esse (1 Cor 6, 17). L'anima diventa per così dire anima, l'essenza diventa essenza, perché l'anima possa camminare nella vita nuova e sentire la vita immortale" (Omelia 4, 10).
Se però da un lato, Dio "esce fuori di sé", si "rimpicciolisce" per proporzionarsi alla statura dell'uomo, dall'altro lato è necessario che l'uomo rompa i limiti della sua propria natura e, come dice nell'Omelia 47, 2, "accolga le ali dello Spirito per spiccare senza impedimenti il volo nell'atmosfera divina". Secondo Macario infatti l'uomo tutto intero - corpo, anima e spirito - è stato creato a immagine e somiglianza di Dio e perciò tutto intero per Cristo, nello Spirito, è chiamato alla gloria divina.
Il Battesimo e l'Eucaristia, come abbiamo già accennato, sono i mezzi per essere uniti a Cristo e con Lui deificati; la reintegrazione in Cristo è però opera peculiare dello Spirito Santo. Il battezzato può, fin da questa terra sperimentare con piena coscienza e consapevolezza la partecipazione alla potenza purificatrice e santificatrice dello Spirito, che in pienezza sarà resa evidente anche nel corpo il giorno della risurrezione.
Come, però, rendersi consapevoli della presenza del Regno di Dio nel cuore di ogni uomo e nel mondo visibile? Come far risplendere ogni cosa, come per anticipazione, della luce del secolo futuro?
Come percepire il mistero cristiano come una realtà sponsale, un continuo incontro e scambio tra Cristo e l'anima, sua sposa?
Per Macario è la preghiera che opera tutto ciò, perché l'incontro sponsale tra Cristo e l'anima avviene nel cuore.
Esso è considerato come il centro della vita psicosomatica dell'organismo umano, è il luogo per eccellenza della grazia e dunque tutta l'economia della salvezza compiuta dal Padre in Cristo nello Spirito non può compiersi che nel cuore di ogni battezzato, cuore credente, amante e colmo di speranza.
La preghiera è il mezzo che il cristiano ha a sua disposizione per appropriarsi, in modo personale, dell'esperienza di fede. Dice infatti in un'altra Omelia:
"Nel Cristianesimo è possibile gustare la grazia di Dio. È scritto infatti: "Gustate e vedete quanto è buono il Signore" (Sal. 34, 9). L'esperienza di questo gusto è una potente operazione dello Spirito che si manifesta nel cuore, con un sentimento di certezza. I figli della luce, ministri della nuova alleanza nello Spirito Santo, non hanno nulla da imparare dagli uomini. Perché "essi sono istruiti da Dio" (Gv. 6, 4-5). La grazia stessa inscrive nei loro cuori le leggi dello Spirito… Il cuore, infatti, è il signore ed il re di tutto l'organismo corporeo e quando la grazia si impadronisce dei pascoli del cuore, regna su tutte le membra e su tutti i pensieri; perché là è l'intelligenza, là si trovano tutti i pensieri dell'anima ed è di là che essa si volge al bene. Ecco perché la grazia penetra in tutte le membra del corpo" (Omelia 15, 20).
Con il peccato originale, in realtà, il cuore dell'uomo è divenuto una sorta di "terra incolta", circondata da un velo tenebroso che impedisce l'incontro con lo Sposo. Con l'incarnazione però Cristo stesso è venuto come mistico agricoltore per ridonare all'uomo la dignità perduta, piantando nel suo cuore una pianta nuova, lo Spirito Santo, che permette al cristiano di tornare in possesso del suo proprio cuore. L'acqua del Battesimo è l'elemento che rende attuale per ogni anima l'incarnazione, la morte e la risurrezione di Gesù. Con questo Sacramento perciò all'uomo viene affidato un compito: custodire, nello Spirito, il suo cuore. Il dono gratuito di Dio lo chiama e lo abilita a diventare collaboratore attivo e responsabile.
Cosa significa però concretamente "custodire il cuore"?
Macario afferma che la prima custodia del cuore si attua mediante l'osservanza dei comandamenti, "lavorando ai comandamenti" (Discorso 3, 3), ma poi anche, di nuovo, percorrendo il sentiero della preghiera. Dice infatti:
"Il peccato ha il potere e l'impudenza di entrare nel cuore… L' Apostolo dice: "Voglio che gli uomini preghino senza collera e senza cattivi pensieri" (1 Tm 2, 8). Ora è dal cuore che escono i cattivi pensieri secondo il Vangelo. Avvicinati dunque alla preghiera, scruta il tuo cuore ed il tuo spirito (nous), abbi la volontà di inviare la tua preghiera pura a Dio ed esamina con cura se c'è qualche ostacolo a ciò, se la tua preghiera è pura, se il tuo spirito è occupato dal Signore come l'operaio dal suo lavoro, lo sposo dalla sua sposa" (Omelia 15, 13).
E la preghiera perseverante conduce all'amore e alla comunione con Dio, attratta dentro un abisso divino dal quale mai vorrebbe andarsene:
"Pietra angolare di ogni sollecitudine buona e vertice delle opere rette è la preghiera perseverante, per mezzo della quale ogni giorno possiamo acquisire anche le altre virtù chiedendole a Dio. Infatti, grazie all'energia dello Spirito, nasce in coloro che ne sono reputati degni, attraverso la preghiera una mistica comunione di santità nei confronti di Dio solo, una pura disposizione della mente, con indicibile amore verso il Signore; ogni giorno, colui che costringe se stesso a perseverare nella preghiera è tratto verso l'amore di Dio e il desiderio infuocato della carità spirituale, e ognuno riceve da Dio, grazie alla propria scelta, il dono della perfezione" (Discorso 4, 1).
Il dono dei due sacramenti, il cammino della preghiera e la lotta per la pratica dei comandamenti sono opera dello Spirito e fatica dell'uomo, "sinergia" tra Dio e il battezzato.
La grazia, cioè l'energia dello Spirito Santo riversata in noi per Cristo morto e risorto, partecipata nel Battesimo e in ogni Eucaristia ricevuta, fatta fruttificare - come abbiamo appena detto - nella preghiera, nella custodia del cuore e nella pratica dei comandamenti, conduce il cristiano nella sua totalità di corpo, anima e spirito verso la luce inaccessibile che brilla nella camera nuziale, nella dimora dove si consumano, fin da questa terra, le nozze tra l'anima-sposa e Gesù-Sposo.
Dice Macario:
"L'anima che è stata giudicata degna di partecipare dello Spirito nella sua luce, e che è stata illuminata dalla bellezza della sua gloria ineffabile, quando lo Spirito ha fatto di essa la propria dimora e il proprio trono, diventa tutta luce, tutta volto, tutta occhio. E non rimane più di lei parte alcuna che non sia piena di occhi spirituali e di luce. Vale a dire che essa non ha più niente di tenebroso, ma è tutta luce e Spirito, tutta piena di occhi non avendo più un rovescio, ma essendo viso da tutti i lati, essendo venuta in lei e risiedendo in lei la bellezza indescrivibile della gloria e della luce di Cristo.
Come il sole è tutto quasi simile a se stesso, non avendo alcun rovescio, alcun luogo inferiore, ma risplende interamente della sua luce... così l'anima che è stata illuminata dall'ineffabile bellezza della gloria luminosa del volto di Cristo, e colmata di Spirito Santo, che è stata degna di divenire dimora e tempio di Dio, è tutta occhio, tutta luce, tutta viso, tutta gloria e tutta Spirito, poiché in questo modo Cristo la adorna, la trasporta, la dirige, la sostiene e la conduce, e in tal maniera la illumina e la decora di spirituale bellezza" (Omelia 1, 2).
Dunque l'anima si riempie della luce di Cristo, luce che quasi si identifica con lo Spirito Santo stesso (è questa la "deificazione" cui si accennava all'inizio). Un'anima "tutta occhio", quindi "tutto viso": è esattamente questo il segno dell'incontro con Dio, quel Dio che per noi, con l'Incarnazione, si è fatto Volto.
L'esperienza di chi accetta di compiere questo cammino di preghiera è dunque duplice: da un lato è soprannaturale, perché impara a ricevere il divino che, gratuitamente, gli si dona, dall'altra è naturale, perché impara, attraverso il sentimento di confidenza nel Signore suscitato in lui dallo Spirito, ad affidarsi a Dio in assoluta pace del cuore.
Non rimane allora altro da fare che, come dice sempre Macario, continuamente alimentare il nostro desiderio di Dio:
"Togliamo via dal nostro cuore tutto ciò che vi è di tenebra, affinché la nostra lampada arda e possiamo entrare nella stanza nuziale, celeste. Cerchiamo continuamente lo sposo ed il suo volto, affinché la nostra lampada brilli, e possiamo entrare nel talamo. Se in noi vi sono i frutti d'amore, provenienti da un cuore puro, queste sono le armi del Signore, cioè la lampada. Grazie a questa lampada vediamo il talamo dello sposo, e se lui stesso non brilla nei nostri cuori, lui che è lampada e luce, non possiamo entrare nel talamo e vederlo.
Cacciamo via i frutti di Satana dal nostro cuore, perché la nostra lampada risplenda e possiamo vedere lo sposo con gli occhi del nostro cuore" (Discorso 7, 18).
Solo così infatti "lo Spirito e l'anima diventano un solo spirito" (Omelia 16, 2) e il banchetto si fa veramente "banchetto nuziale", Cana continuamente in compimento.