La flagellazione di Gesù
Piero della Francesca, La flagellazione di Gesù- Autore:
- Curatore:
- Fonte:

Se la preghiera di Cristo nell'orto degli ulivi è l'immagine di tutte le agonie della storia, di tutti i dolori dell'anima dell'umanità, la flagellazione del Signore Gesù alla colonna del Pretorio ha spesso rappresentato, per la tradizione cristiana, i dolori della Chiesa, corpo mistico di Cristo.
Testimonianza misteriosa e sublime di questa rilettura dei dolori della Chiesa alla luce dei dolori di Cristo è La Flagellazione di Piero della Francesca, una tavoletta di piccole dimensioni (59 x 81,5) che rappresenta ancora oggi un enigma per gli studiosi di storia dell'Arte.
Noi qui non prenderemo in esame neppure una minima parte delle interpretazioni date circa il significato iconografico che il grande Piero (e con lui probabilmente il colto committente) ha voluto conferire alla sua opera, interpretazioni che per essere compiutamente illustrate richiederebbero, del resto, un intero volume, ma ci accontenteremo di fare solo alcune considerazioni di ordine spirituale, partendo dalle interpretazioni più accreditate.
La tavola si divide in due scene: a sinistra, lontano dall'osservatore, la scena che titola il quadro ossia la Flagellazione del Signore; a destra, in primo piano, si vedono due personaggi illustri impegnati in un dialogo, mentre un terzo personaggio, vestito con grande semplicità e scalzo, sta nel mezzo e parrebbe essere del tutto ignorato dagli altrui due.
Il luogo della flagellazione di Cristo dovrebbe essere, stando al Vangelo, il Pretorio di Pilato, Piero però adornandolo di luminose colonne in marmo bianco con capitelli corinzi (e capitello ionico per la colonna della flagellazione) rimanda chiaramente alle architetture di Leon Battista Alberti, conosciuto a Rimini nel 1451. La scala sullo sfondo è poi, per alcuni studiosi, un'allusione alla Scala santa venerata a Roma, nel Palazzo Lateranense e conosciuta all'epoca come "scala di Pilato
Elementi che fanno chiaramente intendere la volontà dell'artista e dell'ignoto committente di rileggere l'episodio della flagellazione alla luce della storia loro contemporanea.
Lo stesso Pilato non veste i panni di un amministratore romano, né siede su un trono ma, accomodato in un faldistorio, veste i panni di un sovrano orientale e abbandona le mani in grembo, quasi sconsolato. Ad assistere alla flagellazione, non ancora in atto, di spalle vediamo un turco la cui partecipazione emotiva all'evento è sottolineata dal gesto della mano sinistra e dal movimento del panneggio.
Una tra le tante ipotesi sembra collocare l'opera tra il 1460 e il 1470 e riconosce nel Pilato di Piero, Giovanni VIII Paleologo il quale vide impotente la Chiesa d'oriente soccombere sotto l'invasione dei turchi (Costantinopoli cadrà nelle loro mani nel 1453).
Tale sembra essere l'argomento che impegna la conversazione dei due personaggi in primo piano, a destra della tavola. Molto si è discusso circa l'identificazione di questi ultimi (nonché del loro terzo misterioso compagno) è comunque certo che Piero abbia voluto rappresentare, più o meno simbolicamente, precisi avvenimenti di attualità.
Il personaggio di sinistra è vestito chiaramente all'orientale, porta lo stesso copricapo di un'analoga figura dipinta da Piero in un episodio della Legenda di Santa Croce di Arezzo. L'uomo è colto nell'atto di parlare. Oggetto della conversazione sembra essere il mistero raffigurato alle sue spalle, dal momento che la posizione della mano di quest'ultimo rimanda al gesto del turco che guarda la flagellazione.
L'altro personaggio è indubbiamente un uomo potente, oppure un gran principe del mondo occidentale, la sua altissima carica è testimoniata dalla fascia rossa che tiene sulla spalla destra e che gli giunge fino ai piedi. Singolare è il tessuto del suo prezioso abito: un broccato non comune in Italia, molto presente invece nella pittura fiamminga. L'uomo è in attento ascolto del suo interlocutore pur mantenendo, come consono a un uomo di potere, un certo distacco.
Tra i due si intravede un giovane, la cui presenza però non sembra essere notata dai due potenti. Questo giovane è stato identificato spesso con Oddantonio di Montefeltro, fratellastro di Federico, perito in una congiura - detta dei "serafini"- nel 1444, ( i due uomini ai lati sarebbero così i cattivi consiglieri del giovane). Altri, che mettono in relazione la scena della flagellazione con la sofferenza della Chiesa cristiana a causa delle vessazioni mussulmane, riconoscono nel giovane Buonconte da Montefeltro figlio di Federico, morto a soli diciassette anni. (Il greco sarebbe allora il cardinal Bessarione, mentre il nobile a destra Giovanni Bacci, committente degli affreschi di Arezzo).
L'ipotesi più interessante e sulla quale vorremmo soffermarci, rimane sul piano simbolico e vede nel giovane un personaggio misterioso di cui parla la letteratura bizantina. A partire, infatti, dal X secolo, ebbero un'ampia diffusione in Occidente dei testi profetici bizantini, tra cui la Visio Danielis che preconizzava, (come riferisce la studiosa Chiara Pertusi) un periodo di grandi sconvolgimenti in cui la città di Costantinopoli sarebbe stata preda dei nemici. Secondo questa visione i cittadini troveranno però nella parte destra della città un uomo di aspetto mite e povero, che verrà incoronato imperatore e al quale quattro angeli daranno una spada per sconfiggere i nemici. Quest'uomo, secondo un'altra versione di detta Visio, apparirà come risorto dai morti.
Il giovane biondo dall'aspetto angelico sarebbe dunque quest'uomo sconosciuto, la sua veste è difatti povera come quella di un uomo modesto, ma è di color rosso porpora, il colore del potere imperiale. I suoi piedi scalzi e lo sguardo fisso, lontano, sottolineerebbero la sua provenienza dal regno dei morti.
Inutile sottolineare l'attualità di quest'opera di Piero che contiene per noi un insegnamento profondo. Anzitutto ci offre l'invito a rileggere la storia tormentata del nostro tempo alla luce della passione di Cristo. Contemplare i misteri della passione del Signore, tra cui appunto la flagellazione, non è mero esercizio di pietà, ma è penetrazione del senso ultimo della storia e delle sofferenze della Chiesa nel mondo.
Pilato, uomo politico, seduto sul faldistorio, sedile liturgico, dice come sempre le trame del male tendano a mescolare sacro e profano, facendo passare per "religioso" ciò che religioso non è. L'irruzione del sacro nel profano, propria della fede cristiana, non è mescolanza, ma è l'irrompere di un orizzonte di salvezza entro anguste prospettive umane.
Così il notturno in cui, secondo i Vangeli, si svolse la flagellazione del Signore per Piero è inondato di luce. Una luce della quale non si individua la provenienza e che sembra addirittura (a giudicare dal soffitto fortemente illuminato del Pretorio) provenire dalla statua del Sol Invictus posta in cima alla colonna del supplizio, chiaro riferimento alla risurrezione di Cristo. È, questa, la luce della speranza che ci viene dalla vittoria di Cristo sul dolore e sulle tragedie umane, più intensa e più forte della luce solare che risplende nella scena di destra. Solo a partire da questa luce può essere interpretata la storia.
Anche il giovane misterioso, che appare tra i due personaggi intenti a discutere sulla situazione "internazionale", ci ammonisce a non guardare la realtà con occhi troppo umani, come gli occhi degli uomini di potere, ma a porci di fronte alla realtà come vivi tornati dai morti. Insegna ad avere pensieri semplici, come è semplice il suo abito, ma profondi e nobili come è nobile il color della porpora.
Il credente che medita la passione di Cristo sa che esiste una vittoria misteriosa sul male: la vittoria dell'amore, la quale scaturisce non già da strategie umane, ma dalla logica del chicco di grano che marcendo dà frutto. Nel giovane si può ravvisare quel "resto" di cui si parla lungo tutta la rivelazione che, proprio perché nella sofferenza e nell'ingiustizia continua ad amare e a far affidamento sull'intervento divino, ottiene alla fine il potere e la grazia per condurre il mondo alla salvezza.