La Domenica del Buon Pastore

Gesù Buon Pastore, Catacombe
Autore:
Riva, Gloria
Fonte:
CulturaCattolica.it ©
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La liturgia di questa quarta domenica di Pasqua presenta, per tutti e tre i cicli (A-B-C), la figura di Gesù, Buon Pastore.
E' questo un tema da sempre assai caro alla tradizione biblica, come anche tutta la tradizione del popolo di Israele dimostra.
Iahvé infatti si mostra praticamente da subito al suo popolo non solo come il suo creatore, ma anche come il suo pastore, colui che lo guida nel pellegrinaggio della storia.
Riferendosi all'esperienza dell'esodo ad esempio il salmo 77 canta:
"Fece partire come gregge il suo popolo
e li guidò come branchi nel deserto.
Li condusse sicuri e senza paura
e i loro nemici li sommerse il mare"
(vv.52-53).
Fa eco il profeta Isaia:
"Come un pastore egli fa pascolare il gregge
e con il suo braccio lo raduna
porta gli agnellini sul petto
e conduce pian piano le pecore madri"
(40,11).
Anche dopo la punizione dell'esilio, Iahvé guida Israele alle sorgenti delle acque ("Non soffriranno né fame né sete e non li colpirà né l'arsura né il sole, perché colui che ha pietà di loro li guiderà, li condurrà alle sorgenti di acqua", Is 49,10) e raccoglie i dispersi (Oracolo del Signore Dio che raduna i dispersi di Israele: "Io ancora radunerò i suoi prigionieri, oltre quelli già radunati", Is 56,8); Egli resta il pastore dietro cui nulla hanno da temere, come canta il salmo 22:
"Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla;
su pascoli erbosi mi fa riposare
ad acque tranquille mi conduce.
Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino,
per amore del suo nome.
Se dovessi camminare in una valle oscura,
non temerei alcun male, perché tu sei con me.
Il tuo bastone e il tuo vincastro
mi danno sicurezza.
Davanti a me tu prepari una mensa
sotto gli occhi dei miei nemici;
cospargi di olio il mio capo.
Il mio calice trabocca.
Felicità e grazia mi saranno compagne
tutti i giorni della mia vita,
e abiterò nella casa del Signore
per lunghissimi anni".
Iahvé però, molto spesso, per guidare il suo popolo non interviene direttamente, ma attraverso persone a cui ha affidato il popolo: tali sono Mosè e Aronne (cfr. Ps 77,21), Giosuè (Num 27,15-22), Davide (Ps 78,70-72) e gli stessi giudici. Non sempre però tali pastori-vicari si sono mostrati all'altezza del compito loro affidato: spesso infatti, anziché prendersi cura del gregge, hanno pascolato se stessi, come dice Ezechiele al cap. 34 del suo libro:
"Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell'uomo, profetizza contro i pastori d'Israele, predici e riferisci ai pastori: Dice il Signore Dio: Guai ai pastori d'Israele che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso la forza alle pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e son preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate. Vanno errando tutte le mie pecore in tutto il paese e nessuno va in cerca di loro e se ne cura. Perciò, pastori, ascoltate la parola del Signore: Com'è vero ch'io vivo, - parla il Signore Dio - poiché il mio gregge è diventato una preda e le mie pecore il pasto d'ogni bestia selvatica per colpa del pastore e poiché i miei pastori non sono andati in cerca del mio gregge - hanno pasciuto se stessi senza aver cura del mio gregge - udite quindi, pastori, la parola del Signore…" (vv.1-9).
Non diversamente dice Geremia al cap. 23, versetto1 e seguenti.
Iahvé però non resta spettatore di questa dolente situazione del suo popolo; al contrario, Egli interviene, punisce coloro a cui aveva affidato le sue pecore, riprende Egli stesso la guida e, soprattutto, promette una nuova guida, il messia - novello Davide:
"Susciterò per loro un pastore che le pascerà, Davide mio servo. Egli le condurrà al pascolo, sarà il loro pastore; io, il Signore, sarò il loro Dio e Davide mio servo sarà principe in mezzo a loro: io, il Signore, ho parlato" (34,23-24).
L'attesa di Israele è perciò molto chiara e ben definita: è quella di un messia--pastore che, invece di pascere se stesso, prende le difese delle pecore, regnando su di esse con mansuetudine.

Al popolo Gesù si presenta come il pastore atteso, l'unico (cfr. Gv 10,11 ss), quello perfetto, che dà la vita per le sue pecore (cfr. Gv 10,15.17-18). Gesù-Pastore è colui che offre spontaneamente se stesso per amore dei suoi, affinché essi conoscano l'amore del Padre (cfr. Gv 14,20; 15,10). Egli si identifica con il servo di Iahvé che giustifica le pecore disperse mediante il suo sacrificio:
"Noi tutti eravamo sperduti come un gregge, ognuno di noi seguiva la sua strada;
il Signore fece ricadere su di lui l'iniquità di noi tutti.
Maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca;
era come agnello condotto al macello,
come pecora muta di fronte ai suoi tosatori, e non aprì la sua bocca (…).
Dopo il suo intimo tormento vedrà la luce e si sazierà della sua conoscenza;
il giusto mio servo giustificherà molti, egli si addosserà la loro iniquità.
Perciò io gli darò in premio le moltitudini, dei potenti egli farà bottino,
perché ha consegnato se stesso alla morte ed è stato annoverato fra gli empi,
mentre egli portava il peccato di molti e intercedeva per i peccatori"
(53,6-7.11.12).
E' proprio per questo amore senza misura che le pecore riconoscono in Lui il messia-pastore promesso e lo seguono.

La Chiesa ha fatto subito sua l'immagine di Gesù Buon Pastore, recependola come particolarmente espressiva dell'esperienza di fede che la primitiva comunità cristiana andava facendo; prova ne è la comparsa di questo soggetto nella prima iconografia dell'era cristiana, quella legata alle catacombe.
Essa si pone al crocevia di tre diverse correnti artistico-religiose: quella giudaica, quella greca e quella romana.
Per meglio inquadrare la peculiarità dell'arte catacombale, val forse la pena spendere due parole circa le altre tre appena citate.

Per quanto riguarda l'atteggiamento del giudaismo verso l'arte figurativa, è luogo comune il pensiero di una posizione totalmente negativa, a causa di quanto espresso nella Torà. In Es 20,2-6 si dice infatti: "Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me. Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra. Non ti prostrerai davanti a loro e non li servirai. Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, per coloro che mi odiano, ma che dimostra il suo favore fino a mille generazioni, per quelli che mi amano e osservano i miei comandi". Es.20,23 e Dt 27,15 però limitarono in modo preciso questa proibizione, vietando la rappresentazione degli dèi, cioè degli idoli. A conferma sono numerose pagine dello stesso AT, quali quelle dell'episodio del serpente di bronzo (Nm 21,4-9), quelli circa i cherubini dell'Arca (Es 25,18), quelli circa il Tempio di Salomone (1Re 6,23), ecc. Mai però venne rappresentata la figura umana e questo per un preciso motivo teologico: essa infatti non può essere ritenuta "immagine sacra" perché, per il peccato di Adamo, l'uomo si è separato dal suo creatore. L'immagine di Dio in lui è dunque mutilata (a differenza di quella dei cherubini). In questo stato di separazione perciò l'immagine umana esprime una realtà falsa e diviene perciò un idolo, soggetto quindi a proibizione.
Questa può essere considerata come la prima fase della relazione giudaica con le arti figurative.
Cambiò però lo scenario al tempo dei Maccabei, quando il rifiuto di tutte le immagini diviene sistematico: a essere utilizzata ora è la pura ornamentazione, escludendo ogni raffigurazione. Questo atteggiamento sembra avere non tanto una base teologica, quanto piuttosto un fondamento politico, legato alla difesa della cultura nazionale da ogni influenza romana. Tale rigorismo tuttavia non pare essere stato così assoluto, essendo stata scoperta a Beit Alpha una sinagoga del VI secolo decorata con mosaici rappresentanti l'Arca e perfino il sacrificio di Isacco. Atteggiamento ancora più conciliante fu poi quello degli ebrei della diaspora, come dimostra la sinagoga di Dura Europos (Mesopotamia, III secolo), in cui sono rappresentati interi cicli, come le storie di Mosè, di Elia, di Daniele, ecc.

Per quanto riguarda l'arte greca, il suo sviluppo fu enorme, come le innumerevoli opere giunte fino a noi ci dimostrano. Le radici affondano certamente nei culti orientali più antichi, ma hanno subito evoluzioni e personalizzazioni notevoli. Nessun soggetto fu praticamente escluso dalla rappresentazione, sia essa pittorica sia essa scultorea.

Per quanto riguarda la tradizione romana, pare che al suo nascere la religione fosse priva di rappresentazioni plastiche o figurative. Fu solo al contatto con la cultura greca che si sviluppò un'arte religiosa, restandone tra l'altro non solo influenzata, ma praticamente sempre dipendente.
Peculiarità del mondo latino fu però quella di annodare strettamente il fattore religioso con quello politico, al punto che si arrivò a ritenere l'immagine dell'imperatore soggetto giuridico, presenza dell'imperatore stesso. Evidenti furono le conseguenze anche in campo religioso, soprattutto se si pensa al "culto dell'imperatore" del periodo post-augusteo.

E' in questo crocevia che trova la sua culla l'arte cristiana.
In realtà la sua non fu per nulla una nascita facile e scontata. I primi cristiani infatti erano di origine giudaica e perciò, proprio per formazione culturale, dovevano ritenere l'immagine come una forma di idolatria. Il contatto con il mondo romano poi acuì questo loro istintivo sentire, facendo loro apparire la rappresentazione di Dio come un ritorno al paganesimo. Altri fattori poi entrarono in gioco:



le primitive comunità cristiane erano costituite da un esiguo numero di fedeli, che si riunivano generalmente presso case private: ancora lontano era il bisogno di edifici vasti e appositi


esse erano composte di gente fondamentalmente povera, certamente non in grado di permettersi di pagare artisti


non potevano essere ingaggiati pagani se essi prima non interrompevano i loro rapporti con l'ambiente d'origine…ma questo significava per loro perdere i mezzi di sussistenza


le persecuzioni lasciavano pochi tempi di pace e di libertà, essenziali per lo sviluppo di qualunque forma d'arte.


Nel II secolo però lo scenario cambiò radicalmente.
Al classicismo dell'età degli Antonini, ove l'artista cerca di esprimere le forme e i volumi del corpo umano, subentrò il tentativo di dare forma all'interiorità dell'uomo. L'arte non fu più monumentale, ma attinse al popolare e al simbolico. Questo, unito al fatto che i cristiani non furono più provenienti solo dalla tradizione giudaica, ma furono spesso anche pagani romani convertiti - e dunque con altro retroterra culturale e altra sensibilità, all'arte figurativa inclusa - permise all'arte cristiana finalmente di nascere.
In un primo tempo i cristiani adottarono i simboli pagani, attribuendo però a essi un significato molto più profondo.
Esempi sono il giardino e il pavone per dire il paradiso terrestre, la nave per dire la Chiesa, o il porto per dire la pace eterna; persino simboli a carattere erotico come Amore e Psiche vennero assunti e trasformati, per dire la sete dell'anima e l'amore di Dio, rivelatosi in Gesù.
Altri simboli invece furono coniati "ex novo", come la moltiplicazione dei pani per dire il banchetto eucaristico, la vigna per dire la vita di Dio nei battezzati, o il pesce per dire "Gesù - Cristo - Figlio di Dio - Salvatore" (simbolo questo non del tutto originale, essendo già presso i Giudei espressione del nutrimento messianico).
La particolarità rispetto al mondo pagano fu però che questi simboli non furono delle semplici decorazioni, ma un insegnamento di fede, capaci di condurre i fedeli a una maggiore conoscenza del cristianesimo: una sorta di "catechesi per immagini".
Non solo i simboli vennero mutuati dal paganesimo, ma anche figure umane, come quel Giona che ricorda Endimione o quel Mosè tratto da una scena del Mitridate.
Tra le immagini dirette di Cristo c'è quella "tipo" del Buon Pastore.
Un esempio tra molti è quella delle catacombe di San Callisto a Roma, del III secolo.
Tale immagine è strettamente connessa a quella dell'agnello, che si basa sui testi biblici già precedentemente citati, in particolare il Sl 22 ed Ez 34.
Il cristianesimo adottò questo tipo iconografico e gli conferì un preciso senso dogmatico: il buon Pastore - Dio incarnato, Gesù - prende su di sé la pecora perduta, cioé l'umanità decaduta e la unisce alla sua gloria divina.
In questa scena viene messo in luce il gesto salvifico di Cristo, non il suo sembiante storico.
L'immagine è eseguita con mezzi molto semplici, la gamma dei colori è ristretta, la luce è diretta e non crea ombre. L'essenziale è espresso con estrema sobrietà, quasi a voler sottolineare la ricerca del mondo spirituale, distaccandosi in modo deciso dalla estetica naturalistica del tempo; ancora, l'immagine è ridotta al minimo nei dettagli, ma perché a essere esaltata al massimo possa essere l'espressione: sono presenti solo i dettagli significativi.
La simbologia è abbondante.
Il Buon Pastore ha occhi grandi, aperti (come i ritratti delle mummie del Fayum), che indicano comunione con il Regno dei Cieli; la natura, compromessa anch'essa a causa del peccato di Adamo, partecipa della redenzione operata da Cristo e torna a riallacciarsi al suo Creatore.
La luce riverbera su chi guarda: la scelta di non voler dare profondità alla scena vuole far sì che lo spettatore non resti semplice ammiratore della scena, quasi fosse cosa esterna a lui, ma lo irraggia, lo coinvolge, lo fa partecipe suo malgrado. Il pittore cristiano rinuncia, per così dire, alla rappresentazione realistica dello spazio perché per lui più importante dell'azione raffigurata è la comunione con lo spettatore; il buon pastore, le piante, gli animali non sono solo legati tra loro dal significato generale dell'immagine, ma sono collegati al fedele che guarda, quasi a volergli comunicare l'esperienza spirituale sottesa.
E' presente dunque, in questa come in tutta l'arte catacombale, un vero e proprio sistema espressivo coerente e profondo, dominato nel suo insieme e in ciascun particolare dall'annuncio del mistero della salvezza.
Infine non può non essere sottolineato il fatto che questa, come tutte le altre opere della prima arte cristiana, è di autore ignoto. Non è fatto casuale, ma precisa scelta: il pittore cristiano infatti purifica la sua arte da ogni elemento individuale, sceglie di rimanere anonimo, rinuncia al godimento estetico fine a se stesso perché è anzitutto preoccupato di trasmettere la Verità, il Fatto cristiano, la Tradizione, al di là e al di sopra di se stesso, della sua personale esperienza e della sensibilità. Questo fa sì che l'arte cristiana dei primi secoli sia fondamentalmente un'arte dogmatica e liturgica, ontologicamente bisognosa della guida precisa della Chiesa e del controllo serrato del lavoro degli artisti, perché nulla sia lasciato al caso o al "sentire" del pittore, ma tutto sia espressione del Dato rivelato; una posizione, questa, certamente molto lontana dalla nostra sensibilità occidentale (come attesta del resto gran parte dell'arte religiosa del secondo millennio dell'era cristiana), ma non da quella orientale, come le forme classiche dell'iconografia ortodossa anche contemporanea dimostrano: semplicemente modi diversi, forse complementari, certamente non escludentesi vicendevolmente, per dire con linee, forme e colori l'esperienza di sequela di Gesù Buon Pastore, pastore di ogni uomo di ogni tempo e di ogni luogo.