Cristo vite

Fonte:
CulturaCattolica.it
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Io sono. Ego eimi. Una rivelazione. Io sono Dio. Io e il Padre siamo una cosa sola. 'ehjeh 'asher 'ehjeh Io sono qui, io sono l'Essente. Il Presente. Io sono la vera vite perché Vite eterna, sussistente.
Anche il Lotto concepisce così l'impatto del visitatore con il "suo" Cristo. Un Cristo vite, statuario e immenso come la vite cosmica cantata dal salmista (cfr. sal 80, 9-12), che pare andare incontro all'ignoto visitatore offrendo rifugio e sicurezza, misericordia e orientamento certo per la vita. Egli è Colui che venuto, viene e verrà. Egli è, appunto, la vera vite: io sono la vera vite e il padre mio è il vignaiolo. L'iconografia del Cristo vera vite era nata - in oriente - nel XV secolo, allorché dopo la caduta di Costantinopoli (1453), molti artisti si rifugiarono sul monte Athos e nell'isola di Creta. Si presenta però molto diversa dalla ideazione del Lotto: Cristo è seduto al centro della biforcazione del tronco di una vite che s'innalza maestosa. Si diramano da essa 12 tralci sopra i quali siedono gli apostoli.
Il testo a cui ci si riferisce è quello Giovanneo: Cristo nel corso dell'ultima cena attorniato dai dodici si manifesta quale vera vite. Anche Lotto parte da Giovanni, ma attinge, nel contempo a tutta quanta la Scrittura, narrando, non solo la possente solidità della vite vera che è Cristo, ma anche le continue minacce a cui sono esposti i tralci.
Si potrebbe delineare infatti una Bibbia della Vigna, o della vita, attraversando così, come il filo attraversa le perle, tutta quanta la Scrittura. Nella Genesi ad esempio troviamo la vite subito dopo l'alleanza di Dio con l'umanità stipulata nel segno dell'arcobaleno. Noè si ubriaca per aver mangiato uva fermentata, uno dei figli lo vede e lo schernisce presso gli altri due fratelli. Questi, compassionevoli, prendono un mantello e camminando a ritroso per riguardo alla nudità del Padre lo coprono.
L'immagine esprime la vite come luogo di giudizio sul cuore dell'uomo. Un giudizio che ritroviamo nei discorsi dell'ultima cena, laddove si parla di mondezza, di purità di cuore: non tutti siete mondi, ma i tralci che restano nella vera vite, sono mondi per aver accolto la parola annunziata.
Più oltre nei profeti troviamo il celebre testo di Isaia, il quale aveva cantato un cantico d'amore per una vigna, le cui viti però si erano rivelate improduttive producendo uva selvatica:
Canterò per il mio diletto il mio cantico d'amore per la sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna sopra un fertile colle. Egli l'aveva vangata e sgombrata dai sassi e vi aveva piantato scelte viti... Egli aspettò che producesse uva, ma essa fece uva selvatica. Or dunque, abitanti di Gerusalemme e uomini di Giuda, siate voi giudici tra me la mia vigna. Che cosa dovrò fare ancora alla mia vigna che non abbia fatto?... La renderò un deserto non sarà né potata né vangata e vi cresceranno rovi e pruni.


Questa vigna era priva di quella vite vera che avrebbe ridato linfa e vigore ai tralci.
Attorno al Cristo del Lotto, infatti, il paesaggio è desertico, ma dove poggiano i suoi piedi l'erba cresce rigogliosa e verdeggiante.
I sandali calzati dal Redentore annunciano che egli il go'el, Colui cioè che esercita il diritto di riscatto sulla vigna e l'acquista con un atto sponsale sigillato nel tempo e nella storia. E come la vite e i tralci sono un tutt'uno, così Cristo e la sua Chiesa, nessuna persecuzione, nessuna dottrina li potrà mai separare.


Noi siamo ad un tempo la vite improduttiva del profeta e tralci riscattati dalla vera vite che è Cristo. Siamo la vite che dà frutti selvatici, laddove il nostro cuore volge i suoi tralci lontano dal Padre-vignaiolo.


Un altro profeta, Ezechiele, aveva cantato il dramma del popolo-vite in una parabola-allegoria detta dell'aquila (Ez 17,1ss): una grande aquila prende un ramo da un alto cedro e lo pianta in un campo da seme. Il germoglio scelto dalla grande aquila diventa una vite estesa, ma la vite rivolge i suoi rami a un'altra grande aquila che l'avrebbe vendemmiata senza pietà e poi divelta dalle radici.


Le due aquile nell'Allegoria sono due grandi potenze che dominano il destino del popolo, ma questi, invece di abbandonarsi fiducioso nelle mani di Dio che possiede i sigilli della storia, si barcamena tra le due potenze andando verso quella che meno le garantirà la possibilità di obbedire a Dio e alla sua legge.


Anche la nostra vita stende i suoi giorni tra due grandi aquile: quella possente del Padre per sempre e quella appariscente del padre della menzogna. Il nostro cuore appartiene al Padre, siamo stati scelti e piantati da lui, noi non cerchiamo né vogliamo il padre della menzogna, ma egli che è Principe di questo mondo usa delle cose belle del vero Padre, della vera Aquila, del vero vignaiolo, per distoglierci dall'amore per la verità. Succede così che animati dalle migliori intenzioni moltiplichiamo tralci improduttivi e inutili che ci succhiano energie senza portare frutti nella nostra vita.


Così il Padre Vignaiolo - dice Gesù - «ogni tralcio che non porta frutto lo toglie e ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto». I cattivi vignaioli invece lasciano vivere i tralci sterili e quelli fecondi li recidono, li danneggiano, oppure sottraggono il frutto della vite prima che venga il tempo giusto della vendemmia.
Tutto questo lo descrive il Lotto con fantasia e perizia dipingendo i tralci buoni che, diramandosi dalle dita del Salvatore si estendono lungo tutte le pareti dell'Oratorio. I tralci, prima di raggiungere il pergolato, disegnano dieci girali che fanno da cornice a quanti, rimasti nella vite, hanno portato molto frutto. Sono santi, martiri e dottori della Chiesa: primi fra tutti la Vergine Maria e Giovanni Battista poi, Pietro e Paolo, santa Caterina da Siena, Maria di Magdala, santa Barbara, sant'Orsola e santa Caterina d'Alessandria, santa Apollonia, santa Margherita e santa Lucia. San Lorenzo, Sant'Alessandro e san Sebastiano, sant'Agostino con san Domenico e san Francesco, san Girolamo e sant'Ambrogio.


Questi sono quelli mondi, purificati dalla Parola. Continua infatti il testo giovanneo: voi siete già mondi, continua Gesù, per la parola che vi ho annunziato.
Questa parola è il Vangelo, questa Parola è Cristo stesso, Verbo del Padre: «le parole che io dico, non le dico da me; ma il Padre che è in me compie la sue opere» (Gv 14,10), aveva detto poco prima Gesù. sempre nel corso dell'ultima cena. L'affermazione sorprende: non "il Padre che è in me parla", bensì "compie le sue opere". In ebraico (come anche in greco = Logos) il termine dabar significa sì parola, ma anche fatto, azione, cosa. Perciò il versetto potremmo rileggerlo così: voi siete mondi per i gesti che ho compiuto. E i gesti compiuti sono quelli della lavanda dei piedi laddove Gesù aveva detto a Pietro: «chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo; e voi siete mondi, ma non tutti» (Gv 13,10).
Il gesto, lo ricordiamo, è quello enigmatico e significativo della lavanda dei piedi. È il gesto dello schiavo non ebreo che scandalizza tutti e provoca lo sdegno di Pietro. In realtà quel gesto è gravido di senso ed è come se Gesù dicesse ai suoi: "chi non accoglierà la mia umiliazione sulla croce non potrà essere mondo". La parola che ci purifica, allora è la parola della croce, che non è solo la parola sul dolore ma per Giovanni è anche la parola ultima sulla verità e sulla vita. Per Giovanni croce risurrezione e pentecoste si realizzano in quell'unico istante in cui Cristo emise lo Spirito.


Proprio la passione di Cristo, infatti è il segno della sua regalità. Una verità che era già narrata con un linguaggio parabolico nella benedizione del patriarca Giacobbe sul figlio Giuda:
Non sarà tolto lo scettro da Giuda né il bastone del comando tra i suoi piedi,
finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l'obbedienza dei popoli.
Egli lega alla vite il suo asinello e a scelta vite il figlio della sua asina,
lava nel vino la veste e nel sangue dell'uva il manto
(Gen 49, 10-11).


Egli è colui a cui è dovuta l'obbedienza dei popoli, un'obbedienza che nel testo giovanneo della vita si esprime con la parola "rimanere": rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla.


Rimanere è più che obbedire, è entrare in relazione, è entrare in un progetto, in un disegno buono che ci coinvolge e ci supera. Il Lotto esprime questo facendo uscire i tralci dalle mani del Salvatore. La vite è opera del Dio creatore, opera delle sue mani. Verso quest'opera però il Creatore non spadroneggia, ma entra in relazione: non vi chiamo più servi, ma amici: Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l'ho fatto conoscere a voi (Gv15,15).
Così, se si rimane nella vite, si permane in una relazione che dà frutto perché in essa i nostri sbagli sono sanati, le nostre debolezze rinforzate, le nostre esuberanze orientate: siamo sotto la cura delle mani di Dio. Allora, dice ancora Gesù: Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato, perché se si rimane in lui non è possibile chiedere qualcosa che sia estraneo al progetto in cui siamo. Non si può intentare nulla che non sia a vantaggio e a gloria della vite. E ciò che è a vantaggio e gloria della vite è esattamente questo: essere discepoli, rimanere nella vite: «In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».


Ogni santo o martire o dottore racchiuso nei girali attesta con la sua vita questa verità. Ciascuno di essi, a suo modo, ha glorificato il Padre e ha portato molto frutto nella vigna di Dio. Non così quanti si sono staccati dalla vite, i quali anzi sono diventati i primi attentatori della vigna e del suo sviluppo: Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano.


Girolamo e Ambrogio, nei due girali estremi, scacciano, l'uno con la croce, l'altro con la Parola, alcuni contadini i quali precipitano da una lunga scala a pioli mediante la quale tentavano di raggiungere tralci e grappoli per reciderli e danneggiarli. Ogni contadino porta scritto il nome di un eretico o di una sette eretica: Elvidio, Vigilante, Gioviniani, Ariani, Sabelliani. Troviamo poi anche un giudeo e un pagano.


Queste eresie (come anche i contrasti con i giudei e i pagani) che minacciarono la prima Chiesa si ripropongono ad ogni generazione con forme nuove, di modo che l'affresco conserva attuale il suo insegnamento. Oltre a tutto il periodo storico in cui si realizzò quest'opera somiglia sorprendentemente al nostro. Negli anni 1523-1524, un improvviso gelo in piena estate, pestilenze, inondazioni e nubifragi, avevano distrutto il Bergamasco e davano credito alle voci -molto diffuse all'epoca - di un nuovo diluvio purificatore. Tali calamità apparivano ai più come il segno di altre tempeste ben peggiori che si abbattevano sulla Chiesa. Fu per questo che il gentiluomo bergamasco Battista Suardi decise di far affrescare da Lorenzo Lotto l'Oratorio della sua casa di campagna, a Trescore (località posta a pochi chilometri da Bergamo). Per il Suardi le sciagure pronosticate dagli astrologi non dovevano essere ascritte tanto al declino del clero e al rilassamento dei costumi, quanto piuttosto al sempre più largo favore che incontravano le eresie luterane già condannate dal Papa.
Queste erano le vere minacce per i tralci che l'affresco aveva il compito di arginare, educando silenziosamente, ma efficacemente il popolo alla fede.


E come la vite è albero prezioso solo per il suo frutto perché il suo legno non può essere utilizzato così il popolo di Dio, è prezioso solo per il frutto che può produrre, perché diversamente viene gettato nel fuoco come legna da ardere. Così già annunciava il profeta Ezechiele: Mi fu rivolta questa parola del Signore: "Figlio dell'uomo, che pregi ha il legno della vite di fronte a tutti gli altri legni della foresta? Si adopera forse quel legno per farne un oggetto? Ci si fa forse un piolo per attaccarci qualcosa? Ecco, lo si getta sul fuoco a bruciare, il fuoco ne divora i due capi e anche il centro è bruciacchiato. Potrà essere utile a qualche lavoro?" (Ez 15, 1-4)


Le minacce divine sono un genere letterario atto ad esprimere le conseguenze inevitabili di un dato comportamento, Dio però non cessa di chiamarci a rimanere nel suo amore per essere potati, sanati e portare frutto. Così infatti implorava il salmista:
Dio degli eserciti, volgiti, guarda dal cielo e vedi
e visita questa vigna, proteggi il ceppo che la tua destra ha piantato,
il germoglio che ti sei coltivato.
Quelli che l'arsero col fuoco e la recisero, periranno alla minaccia del tuo volto.
Sia la tua mano sull'uomo della tua destra, sul figlio dell'uomo che per te hai reso forte.
Da te più non ci allontaneremo, ci farai vivere e invocheremo il tuo nome.
Rialzaci, Signore, Dio degli eserciti, fa' splendere il tuo volto e noi saremo salvi.

Quell'uomo alla destra Dio, la cui mano è forte, quel "figlio dell'uomo" è Cristo stesso nel cui amore possiamo rimanere mediante la fede: Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore.
L'osservanza dei comandamenti ci è possibile, ora, perché è Cristo stesso presente in noi con il suo Santo Spirito che obbedisce al Padre.


Qui c'è tutta la valenza eucaristica del brano giovanneo e dell'opera del Lotto. Rimanere nell'amore di Cristo significa nella vita quotidiana di ogni cristiano: rimanere nei sacramenti. In tutti i sacramenti ma in particolar modo nell'Eucaristia che è Presenza di Cristo per antonomasia.
Se rimaniamo nei sacramenti saremo sotto la cura amorosa del Padre, avremo quotidiane iniezioni di carità, che è l'amore stesso di Dio, che è la vita Trinitaria. Allora non noi, ma Dio in noi opererà grandi cose e ci farà crescere e sviluppare secondo il progetto di bene pensato per noi fin dall'eternità.
Lo attestano, nell'opera del Lotto, gli altri affreschi che adornano la cappella di Trescore: il ciclo del martirio di santa Barbara, proprio sullo sfondo del Cristo vite e, sulle altre pareti, i miracoli di santa Brigida. Martirio ed eventi prodigiosi sono la realizzazione della promessa di Gesù a chi rimane nella vite: farete cose più grandi di me. Ma accanto a questi due cicli, un affresco dice senza fallo quale sia la vita per rimanere nella vite: sulla parete di fondo dell'oratorio, accanto alla decollazione di S. Caterina (quindi un altro martirio), Lotto tinteggiò La Maddalena penitente che dentro a una grotta trova forza e sostegno nell'Eucaristia portatela da mano di Angeli.
L'Eucaristia è il frutto della vite per la quale ciascuno di noi rimane nell'Amore del Signore, opera nel mondo grandi cose e rende feconda la vigna della Chiesa.