Giorgio Perlasca e Moshe Bejski 10 - La liberazione di Budapest e il ritorno in Italia

La sua non era un’impresa solitaria e individualista, ma si svolgeva all’interno di una rete di rapporti, di azioni concordate per un fine comune, sostenute e approvate in nome della verità e della compassione.
Curatore:
Leonardi, Enrico
Vai a "Volti"

Il Nunzio
Il peso della situazione, i continui interventi per salvare, le falsificazioni, minavano la lucidità e la coscienza di Perlasca.
La situazione, lo vedeva bene, era drammatica. La sua vita ogni giorno era appesa a un filo, troppe altre vite dipendevano ormai interamente da lui. Quella che era iniziata quasi per caso nella sede del consolato, ora si rivelava un’azione vasta, carica di responsabilità, troppo grave da portare.
Aveva bisogno di una parola autorevole che gli dicesse che non era solo, che ciò che faceva era giusto.
Cercò e ottenne un colloquio telefonico con chi poteva capirlo e dargli quelle conferme e riconoscimenti di cui non poteva più fare a meno. Il 23 dicembre, deciso a raccontargli tutta la verità sulla sua situazione, si incontrò con il Nunzio Apostolico Mons. Angelo Rotta (anch’egli successivamente proclamato Giusto tra le nazioni, per il suo costante impegno nel sottrarre gli ebrei alle persecuzioni naziste).
Mons. Rotta dapprima non credeva a quanto ascoltato, poi confortò l’italiano. Era felice che il suo interlocutore avesse agito così, che fosse un lombardo come lui, gli assicurò che il suo agire aveva ogni suo appoggio e meritava il perdono anche per le falsificazioni fatte, perché stava salvando uomini, donne e bambini indifesi, minacciati di morte.
Prima di incontrarsi col gerarca Gera, mons. Rotta fece gli auguri a Perlasca e gli diede “la sua benedizione nonché quella che il Santo Padre aveva disposto per le persone che si adoperavano in favore dell’umanità sofferente” (G. Perlasca, L’Impostore, pag. 115).
Da quelle parole Perlasca si sentì profondamente commosso, come afferma lui stesso, e motivato a continuare.
La sua non era dunque un’impresa solitaria e individualista, ma si svolgeva all’interno di una rete di rapporti, di azioni concordate per un fine comune, sostenute e approvate in nome della verità e della compassione.
Al pranzo di Natale del 1944 cui era stato invitato da Gera, partecipò e ricordava che:
“(erano) una trentina di persone ed io fui accolto come ospite d’onore; se quella gente avesse potuto immaginare lo schifo che mi suscitavano….” (op. cit., pag. 115).
Da quel giorno la situazione precipitò: i russi erano alle porte, i militari agitati, pazzi sanguinari davano la caccia agli ebrei, i rifugiati nei ripostigli erano terrorizzati, le strade ovunque disseminate di corpi di donne e bambini straziati ed uccisi. Gli ebrei raggiunti nel ghetto venivano trucidati in piazza. Gli ultimi giorni furono un inferno. I Crocefrecciati non volevano arrendersi, si prepararono ad incendiare il ghetto. Gera era fuggito.
Perlasca giocò l’ultima carta: se le milizie non avessero fermato l’assalto alle case protette, la Spagna minacciava di internare gli ungheresi residenti nel suo Paese confiscandone i beni.
Ancora una volta venne fermata l’irruzione nelle case e non fu devastato il ghetto.

Gli scontri fra filonazisti e russi furono accaniti e nel gennaio del ‘45 avvenne la liberazione di Budapest. Alcuni ebrei provenienti dal ghetto internazionale informarono che il quartiere era liberato e tutti i protetti erano salvi.
Improvvisa arrivò la notizia che Farkas era morto tragicamente sfracellandosi al suolo durante un tentativo di fuga dall’incursione di una banda di militari nazisti. Il coraggioso amico era scomparso, dopo aver collaborato e combattuto per mesi per il salvataggio di migliaia di ebrei. Un’altra vittima di quei giorni di violenze e terrore. Un altro amico che lo aveva abbandonato.

L’Edificio
Perlasca poteva a questo punto considerare il suo compito esaurito, ma non poteva disinteressarsi dell’edificio della legazione spagnola, dove i russi avevano saccheggiato tutto quello che avevano trovato e due partiti politici avanzavano pretese per impadronirsene.

Contatti con la Svezia
Perlasca cercò allora il segretario della legazione di Svezia dott. Berg, gli chiese di prendersi cura degli interessi spagnoli e di mettere l’edificio a sua disposizione, e destinarlo per uso ospedaliero, bloccando in questo modo ogni altra pretesa di occupazione. Una commissione municipale subito si prese carico della legazione con i mobili e gli oggetti presenti in essa.
A Perlasca toccò il compito di bruciare i timbri, i sigilli e le bandiere che erano state la garanzia di salvezza per tanti uomini strappati dalla morte certa.
A maggio la guerra era finita e Perlasca si preparò a rientrare in Italia.

"Il 29 maggio 1945 un trafiletto su un quotidiano di Budapest annunciava la partenza dalla capitale ungherese dell’amico italiano. Alla stazione Est, in attesa del treno venne a salutarlo una piccola folla, amici e persone cui aveva salvato la vita” (E. Deaglio, op. cit., pag. 96) Gli fu consegnato l’ultimo attestato:
Ci dispiace apprendere che lasciate l'Ungheria, diretto alla vostra terra natale, l'Italia. In questa occasione vogliamo esprimervi l'affetto e la gratitudine delle diverse migliaia di ebrei sopravvissuti grazie alla vostra protezione. Non ci sono parole per lodare la tenerezza con cui ci avete sfamato e vi siete preso cura dei vecchi e degli ammalati. Ci avete incoraggiato nel momento in cui eravamo vicini alla disperazione e il vostro nome non mancherà mai dalle nostre preghiere. Che Dio onnipotente possa ricompensarvi.” (op. cit., pag. 96)
Giorgio Perlasca dovette sostenere un lungo viaggio per tornare a casa. Dopo Budapest, Sofia e Istanbul, una nave lo portò a Napoli e quindi tornò a casa.
Questa è la storia di un nostro eroe, onorato tra i Giusti, che ha rischiato se stesso impegnando anni, giorni, notti, ore della sua vita nella affermazione della verità, della giustizia, della pietà, perché nel volto degli ebrei dei ghetti e di ogni perseguitato vedeva riflesso il suo stesso volto di uomo.
Concludo con quanto già scritto da Vasilij Grossman nel romanzo Vita e Destino:
“La gente comune ha nel cuore l’amore per gli esseri viventi, ama la vita e ne ha cura in modo naturale e spontaneo.
E dunque oltre al bene grande e minaccioso esiste la bontà di tutti i giorni. La bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, la bontà del soldato che fa bere dalla sua borraccia un nemico ferito.
È la bontà dell’uomo per l’altro uomo, una bontà senza testimoni, piccola, senza grandi teorie. La bontà illogica, potremmo chiamarla.
A ben pensarci, però, ci si accorge che la bontà illogica, fortuita e del singolo uomo, è eterna.
In quest’epoca tremenda, un’epoca di follie commesse nel nome della gloria di Stati e nazioni o del bene universale, e in cui gli uomini non sembrano più uomini e sono come la pietra che frana e trascina con sé le altre pietre riempiendo fosse e burroni, in quest’epoca di terrore e di follia insensata, la bontà spicciola, granello radioattivo sbriciolato nella vita, non è scomparsa.”


Ancora oggi questa frase che ben spiega il comportamento dei personaggi di cui abbiamo visto la vicenda, appare in tutta la sua verità in riferimento ai momenti bui della storia.