Anna che accompagna nell'ultimo viaggio

Anche a Roma tanti anziani chiedono di non essere lasciati soli nelle sofferenze fisiche e spirituali.
Un'esperienza maturata tra la famiglia, la parrocchia e la Caritas.
Autore:
Badaracchi, Laura
Fonte:
Avvenire 17.10.2001
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ROMA. "Un volontario non può mai esserlo da solo: è nella comunità che sei chiamato ad esprimere l'amore per gli altri". Anche aspettando con pazienza che i tempi siano maturi. Anche accettando di rimanere in silenzio. Per poi incidere con una testimonianza dove si impara ad essere "l'immagine di una Chiesa, non di se stessi". Con 28 anni di matrimonio e due figli di 27 e 21 anni, Anna Rossi, 48 anni, racconta la sua esperienza nel settore volontariato della Caritas diocesana partendo dal suo vissuto nella parrocchia di Santa Bernardetta, al Tiburtino sud. Nel 1986 - era catechista - di fronte al continuo arrivo di rifugiati; con il marito decise di accogliere una bimba etiope di due anni in casa sua, dove restò fino all'età di quattro: una presenza "che, senza alcun pietismo, non può non aprirti alle altre famiglie, a un mondo di altre persone". A questo affido ne seguiranno altri, insieme al desiderio di crescere personalmente e nella comunità ecclesiale: dall'impegno nella nascente casa-famiglia a Colli Aniene e nella Caritas parrocchiale, a quella di settore e diocesana, dal '92. In quegli anni Roma ha conosciuto diverse "emergenze": dagli immigrati ai senza fissa dimora. Fra le "nuove povertà" segnalate dall'allora direttore della Caritas diocesana, don Luigi Di Liegro, c'erano anche gli anziani. Per i quali - spiega Anna - apparve sempre più urgente "una proposta di formazione, animazione e progetti territoriali, per coinvolgere le istituzioni: lo scorso anno i volontari hanno potuto fare il tirocinio nelle case di riposo". La condizione degli anziani ha mille volti: dalle esigenze di svago e di istruzione permanente ai problemi di malattie e demenza. Ma non basta l'impegno sociale né visitare i malati la domenica portando l'Eucaristia come ministro straordinario: la solidarietà si radica in una relazione coltivata giorno dopo giorno, nel farsi vicini a solitudini spesso disperate. E Anna inizia a sperimentare in parrocchia, sulla sua pelle, cosa significa "accompagnamento alla morte": il marito cardiopatico di un'anziana demente e malata chiede aiuto e cominciano le visite alla famiglia una volta a settimana, diventando un punto di riferimento. "A volte siamo più attenti ai bisogni imminenti che ai bisogni profondi delle persone. Se li cogliamo, la malattia si sopporta meglio e la solitudine si sente di meno". A tre anni dalla morte della donna, per il marito la comunità parrocchiale è diventata "una seconda famiglia non a causa di fatti eclatanti: semplicemente perché la sente vicina". Talvolta i malati vengono abbandonati anche dai familiari; alcuni, nel momento del passaggio, ritrovano la fede. Un anziano "che aveva basato la sua vita sulla forza personale e la bravura, convinto che l'aldilà non esistesse", al momento della morte confidò ad Anna: "Prego e spero di andare in cielo: dall'altra parte il Padre mi starà aspettando?". Per la volontaria i problemi non mancano: tra tutti, il rischio "di essere fraintesa, di andare controcorrente nella famiglia di origine: essere cristiani sì, ti dicono, ma non fino al punto di mettere tutto a disposizione degli altri". Con il marito, da quando 15 anni fa hanno cominciato ad "allargare" la famiglia con gli affidi, ha vissuto "un crescendo nel rapporto coniugale", nella disponibilità agli immigrati e a un ragazzo con problemi psichici (coetaneo del figlio minore della coppia), che frequenta casa loro da dieci anni. "Il servizio non ti appartiene, ma ci metti l'anima - testimonia Anna -. In questi anni ho scoperto la mia vita: è molto faticosa, ma non difficile".