Andrea, il bad boy
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Il mio nome è Andrea Torti. Sono un ex eroinomane, ex ladro, ex carcerato. Sono sieropositivo, ho l'epatite A e B. Dio mi ha dato un dono: so stare con la gente. Prima usavo questo mio talento per spacciare eroina, ed ero bravo nel mio "mestiere" (oh, se ero bravo). Oggi uso questo dono per tirare fuori i ragazzi dalla tossicodipendenza. Guido una comunità di recupero a Lanciano, in provincia di Chieti e vi so dire solo una cosa: sono felice. È la felicità, oggi, la mia unica, potentissima, droga. A 18 anni mi dicevo: "a 20 posso anche morire". Oggi spero di campare oltre gli 80.
Il fascino della trasgressione
Sono nato a Treviglio, in provincia di Bergamo, nel 1963, stesso anno di Roberto Donadoni con cui giocavo nelle giovanili dell'Atalanta. Prima mediano, poi mezzala. Coi piedi ci ho sempre saputo fare tant'è vero che mentre io ero titolare, Roberto stava in panchina. "È gracilino come fisico", dicevano. S'è visto. Mio padre morì quando avevo 6 anni di cirrosi epatica (gli piaceva bere) e mia madre si trovò da sola con sei figli. Ci lasciò anche lei quando avevo 14 anni e fu un duro colpo; ma voglio subito dire che non è stata per questa serie di fatti che ho cominciato a bucarmi. Certo, non era facile, ma non cerco scuse. Quando inizi lo fai perché lo decidi tu, non puoi dare la colpa a nessun altro. Come molti adolescenti di quell'età ero attratto da tutto ciò che poteva essere trasgressivo. Iniziai così ad andare nei boschi di notte per fumare marijuana, uscire la sera e rincasare sempre più tardi. Insomma, qualsiasi cosa che non fosse nella norma, che non "si potesse fare" esercitava su di me un fascino estremo. Forse inconsapevolmente ero alla ricerca di un qualcosa che mi potesse soddisfare pienamente. Ho un fratello più grande, Carlo, che allora era già in "attività": spacciava eroina. Ed era pure molto bravo. Anzi il più bravo (finché non sono arrivato io). A 17 anni era già stato in carcere per rapina a mano armata. Una volta lo aiutai pure a bucarsi, gli tenevo il braccio. Se non sbaglio avevo 14 anni.
Poi tutti i giorni
Novembre '78. Eravamo io, Leonardo, Pino, Efrem. Ci abbiamo messo una settimana a decidere. Continuavamo a rimandare; "oggi?", "no, no, oggi no", "domani?", "sì domani". Così per sette giorni. Poi abbiamo comprato l'eroina e ci siamo bucati. È andata così; banalmente, così. Prima una volta alla settimana, poi due, poi tutti i giorni, poi sempre. Tanto per rendere l'idea: si cominciava con dosi da 5mila lire. Io sono arrivato a farmi tre, quattro grammi di eroina al giorno. Una spesa da mezzo milione circa.
Al lume di candela in via Torta
Vivevo con una mia sorella maggiore e suo marito, ma la mia nuova famiglia durò poco. Il marito, stufo del mio comportamento, mi disse che o mi davo una raddizzata o "quella era la porta". Scelsi la porta. Cominciai a girare con un sacco a pelo sulle spalle di casa in casa; un giorno qui, un altro là. Incominciai anche a sniffare ma non smisi di lavorare; non ho mai smesso di lavorare anzi ci ho sempre tenuto molto. Ero falegname, imparai a levigare, tagliare, intarsiare, restaurare i mobili. So fare tutto col legno; e questo è importante perché oggi posso insegnarlo ai ragazzi della comunità. Di giorno andavo in bottega, di notte uscivo per procurarmi la "roba". Assieme a mio fratello spacciavo; per le nostre mani girava di tutto: eroina, soldi, coltelli, pistole. Sì, perché svaligiavamo appartamenti. Anche in quello ero un asso: non mi hanno mai preso. Mi ero comprato un monolocale (ironia della sorte, era in via "Torta") che era diventato il ritrovo dove i miei amici venivano a "farsi". Niente luce, niente gas. Ci si bucava al lume di candela.
Gli affari
Mi ero veramente incattivito. Una volta a uno che non mi pagava 100mila lire di roba ho spaccato una scure in testa. E non lo dico in senso metaforico. Chiedetelo a lui. Con mio fratello facevo affari d'oro. Compravo a 40, 50mila lire al grammo e rivendevo a 100mila al grammo. Eravamo i boss dello spaccio del Bergamasco. Se qualcuno voleva la roba doveva passare da noi. Se uno mi prendeva 10 grammi gli facevo lo sconto: tutto a 80mila. Ma oltre alle braccia anche le mani erano bucate, spendevo tutto. I soldi, in tasca, non li avevo mai. E poi sono sempre stato un generoso, mi piace stare in compagnia, soffro la solitudine. Di tanto in tanto si andava allo stadio (ottimo "mercato") per fare "a botte" con i tifosi avversari.
Come ho conosciuto mio fratello
La prima volta mi hanno arrestato a 18 anni. Era l'8 ottobre dell''81, 8 di sera. Uno dei ragazzi che si riforniva da noi fece la soffiata ai carabinieri. Perquisirono la casa e trovarono, fortunatamente, solo una bustina ma, se cercavano meglio, potevano veramente scovare di tutto. Finimmo sui giornali: "Sgominata la banda di via Torta" scrissero. Ma quale banda, eravamo in due. Al processo io mi accollai tutta la colpa. Dissi che mio fratello non c'entrava nulla, che quello che spacciava ero io, che lui era all'oscuro di tutto. Cercate di capire, aveva già diversi "carichi pendenti", si fece qualche giorno di carcere e uscì. A me diedero un anno e sei mesi. Carlo, tuttavia, rimase in libertà per poco tempo. Lo ribeccarono e questa volta non ci fu nulla da fare. Lo misero in cella con me. È stato lì che ho conosciuto veramente mio fratello.
Che bello la gattabuia
Il carcere è un mercato straordinario. Mi facevo portare l'eroina da fuori, nelle cuciture dei pantaloni, nel domopack e dentro spacciavo. Dentro non mi ha mai toccato nessuno, erano in troppi che mi dovevano dei favori. Avevo la cella più bella e rifornita, se chiedevo una cosa tutti facevano a gara a procurarmela. Ogni tanto le guardie mi perquisivano, venivano a rovistare sotto i materassi ma non hanno mai trovato niente. Ve l'ho detto, ero bravo a fare il mio mestiere.
Quell'Antonio Di Pietro
Quando sono uscito, ho ricominciato subito a spacciare e a bucarmi. Il secondo arresto arrivò nell''83, il 1° di gennaio. In casa mia trovarono pistole, oro, refurtiva varia. Non era roba che avevo fregato io. È solo che alcuni amici l'avevano lasciata lì da me, ma io non c'entravo (anche se sapevo benissimo che non l'avevano acquistata al megastore). Il pubblico ministero di Bergamo in quegli anni era Antonio Di Pietro, uno che distribuiva gli anni di carcere come fossero noccioline. Aveva la fama di essere uno cattivo e certo io non avevo capi d'imputazione molto leggeri: furto, associazione a delinquere, ricettazione, porto abusivo di armi, favoreggiamento. Di Pietro chiese sei anni. Il proprietario delle pistole fu "massaggiato" da un paio di amici miei e confessò che le armi e la refurtiva erano sue. Mi diedero solo favoreggiamento. Di Pietro chiese allora tre anni, me ne diedero uno e mezzo.
La siringa nella biro
Erano gli anni del terrorismo e al carcere di Bergamo ci mettevano i brigatisti. Così cominciarono a trasferirci da un posto all'altro. Prima a Pordenone (bel posto, in un vecchio Castello. Mi trovavo bene; a Natale una guardia mi regalò un bel pezzo di fumo), poi a Venezia (situazione pessima; una sola ora d'aria al giorno), Brescia, Milano e quindi di nuovo a Bergamo. Questo continuo girovagare mi permise di conoscere tantissimi altri spacciatori con cui facevo affari d'oro. Dentro ci si bucava tutti (eravamo circa un centinaio) con una sola siringa che smontavamo e nascondevamo in una penna da scrivere. È lì che ho preso la sifilide e tutta un'altra serie di infezioni.
Don Mauro, Matilde, Alberto
Uscito di nuovo ricominciai la mia solita vita ma… Ecco il "ma" che mi ha cambiato tutto, per cui adesso sono qui a raccontarvi quel che mi è accaduto. Perché questa storia non varrebbe la pena di essere narrata se non ci fosse questo "ma". Era il 21 marzo del 1985, era il mio compleanno e avevo mal di denti. Mi feci una pera per farmelo passare (non vi stupite, per me era così; niente aspirine o moment, era l'eroina il mio unico medicinale). Il giorno dopo iniziai a stare male, molto male. Oddio, era un periodo difficile, pesavo 69 chili e non ne potevo più. Alzarsi la mattina con il pensiero fisso "oggi dove recupero la droga?", non è proprio il massimo della vita. Uscii alla ricerca di un tipo che mi doveva dei soldi, lo vidi di lontano e cominciai a rincorrerlo. Mentre correvo incrociai Paolo, uno del giro che era riuscito a uscire da solo. Mi dice "dove vai? Vieni a casa mia". Sono stato da lui 15 giorni, mi sono fatto in casa sua le mie belle crisi di astinenza. Non che fossi deciso a smettere, ma, insomma, era pur sempre una situazione normale, un letto e un tetto e senza quel continuo via vai di tossicodipendenti. Paolo mi fece conoscere don Mauro Inzoli. Io a don Mauro gli devo la vita. Dopo non so quanti anni mi confessai. Siccome ne avevo veramente combinate tante la confessione durò due giorni. Concordai con don Mauro di procedere "a rate": mattina, pomeriggio, mattina, pomeriggio. Don Mauro aveva una segretaria, Matilde, una ragazza di 26 anni, già sposata, con due gemelli piccoli e in attesa del terzo. Don Mauro chiese a Matilde se lei e suo marito Alberto erano disposti a tenermi una ventina di giorni, fintanto che non mi fossi deciso a entrare in una comunità di recupero. Matilde disse "bè, se è solo per una ventina di giorni si può fare". Sono rimasto con loro cinque anni. Non sono mai andato in comunità, non ho mai fatto una cura, mi son fatto tutte le crisi di astinenza sotto il loro tetto. Avevo 22 anni, loro 26.
Cambiare tutto
Non è stato facile. Anche perché in casa loro non ci volevo stare. Mi chiedevo: "perché devo cambiare?". La sera spesso piangevo. Non mi sentivo bene, avevo l'epatite cronica e mi si alzava spesso la febbre. Feci degli esami e i dottori mi dissero: "hai il virus dell'Hiv", "H che?". Erano i primi anni in cui si iniziava a parlare di Aids, di Hiv, di sieropositività. Non si conosceva bene il fenomeno, nemmeno i medici sapevano bene che cosa significasse essere sieropositivi. Si sapeva solo una cosa: che di Aids si moriva. Mi ricoverarono all'ospedale Sacco di Milano. Vidi morire tre miei compagni di stanza. Quando sono tornato da Matilde ci ho messo un po' a capire che dovevo accettare la malattia, che non poteva esser tutto come prima. E io che ne sapevo? Mi lavavo persino i denti con lo spazzolino dei gemelli. Per sei mesi mi hanno tenuto in casa senza farmi uscire. Di tanto in tanto scappavo, soprattutto per andare a giocare a pallone. Don Mauro mi disse "o come dico io o te ne vai". Io ringrazio quel vulcano di un prete di avermi posto quella alternativa. Non ci sono santi, nella vita bisogna scegliere. A un tossico non gli puoi dire "cambia un po'". Gli devi dire: "Cambia tutto. Io sono con te". E io, oggi, con i miei ragazzi, faccio così.
In ritardo all'allenamento
Stavolta rimasi. Per un anno non ci sono stato con la testa, sapevo solo una cosa: se tornavo in strada sarei morto. Don Mauro mi trovò un lavoro in una fabbrica di arachidi. Poi cambiai perché i continui sbalzi di temperatura (dentro e fuori dalle celle frigorifere) mi facevano alzare le febbri e così ricominciai a fare il falegname. Il lavoro che so fare meglio. La casa di Matilde e Alberto divenne casa mia. I loro figli divennero i miei figli, i loro amici i miei amici. Dopo qualche mese che stavo con loro andai con Alberto a trovare mio fratello Carlo in carcere. Carlo tentava di spiegarmi come mi dovevo muovere mentre lui era dentro, chi dovevo vedere, chi contattare, chi sistemare. Alberto lo fermò: "vai a 'fanculo te e tutti i tuoi amici" gli disse. Nessuno aveva mai osato trattare mio fratello così. Carlo si alzò e se ne andò in silenzio, rabbioso. Credo che se avesse potuto, avrebbe ucciso Alberto. Una settimana dopo mi telefonò; "Posso venire a trovarti qualche giorno?". Matilde e Alberto l'han tenuto due anni, poi si è deciso ad andare in comunità. Cominciai a diventare protagonista della mia vita. Intorno alla squadra di calcio del paese gravitavano tutta una serie di ragazzi un po' sballati che non venivano fatti giocare in prima squadra perché non si allenavano. Io li presi con me, mi feci dare dal Comune un pezzo di terra vicino allo stadio, assieme a loro lo pulii, montai le porte, trovai gli sponsor. Poi iniziammo ad allenarci e guai se uno arrivava in ritardo. Andavamo in giro a fare tornei e vincevamo. Io giocavo metà tempo ma alla fine del torneo ero sempre capocannoniere (ve l'ho detto che ero forte). Poi abbiamo sfidato la squadra ufficiale del paese. Vinto.
Un caso clinico
Io sono un caso clinico unico al mondo. Il virus dell'Hiv in me non progredisce. Una volta al mese vado all'ospedale per fare tutta una serie di esami per vedere se cambia qualcosa. Niente; è lì ma non si muove. E così mi studiano perché è inspiegabile cheio sia ancora vivo. In ospedale mi chiamano "Highlander". Dal '79 all''84 tutti i miei amici sono morti. Quando vado a trovarli al cimitero ci impiego due ore per girare tutte le tombe. Siamo rimasti solo io e mio fratello Carlo. L'ultimo che ho visto morire è un mio carissimo amico, Pino, anche lui sieropositivo. L'ho accudito, imboccato e lavato gli ultimi 15 giorni della sua vita. Pesava 30 chili ed era diventato sordo. Ma che voglia di vivere che gli è venuta in quelle due settimane! Quando l'ho salutato gli ho detto: "Pino, io devo tornare al mio lavoro. Ci vediamo a metà settembre". "No - mi ha risposto - non ci vediamo più. Ma tu non ti preoccupare". È morto dopo una settimana. Da un anno mi sono separato da mia moglie. Per dieci anni siamo stati sposati. Volevo avere dei figli ma non me la sentivo di averli in modo naturale. Al San Paolo di Milano fanno la pulitura dello sperma, provavamo così, con l'inseminazione artificiale. Niente. Dio con me è sempre stato molto chiaro: prima mi ha dato tutto, mi ha fatto fare quel che volevo io, mi ha dato il massimo della libertà. Adesso vuole da me tutto, anche questo sacrificio. Comunque posso dire di vivere la paternità in un altro senso. I ragazzi della mia comunità sono i miei figli.
Felicità
Oggi io sono responsabile della comunità "Progetto vita" a Lanciano, in provincia di Chieti. Son capitato qui per caso, un amico, Tommaso, mi aveva invitato a fare un giro, una breve vacanza. Poi mi ha parlato di un suo progetto, del fatto che a Lanciano non c'era nessuno che si occupasse di tossicodipendenti ma che c'era bisogno… Torno a casa e ci penso: "Forse è la mia strada". Son dieci anni che esiste la comunità "Progetto vita"; da qui sono passati in 150, è quella che in Abruzzo ha la percentuale più alta di ragazzi che ce la fanno a uscire. Attualmente sono in 12 con storie di ecstasy, cocaina, eroina, acidi. Io a volte scherzo con Tommaso e gli dico: "non ci sono più i tossici di una volta", perché oggi i ragazzi sono vuoti, si fa fatica a entrare in contatto con loro. Io ricordo serate di litigi con Matilde e Alberto, a discutere, a incazzarsi, a botta e risposta fino a notte inoltrata. Adesso non è più così: non ci si droga per trasgredire, adesso buttano giù pasticche colorate per stare con gli altri. Non si cerca, sbagliando, la felicità. Non si cerca niente. E proporre un'alternativa a chi non cerca nulla è difficile. Tutte le sere li porto nella chiesa del paese dove nel Medioevo avvenne il famoso miracolo: ad un prete dubbioso durante la consacrazione si tramutò la particola in carne e il vino divenne sangue. Quel sangue e quella carne sono ancora oggi visibili. Se sono cambiati loro, se sono cambiato io, perché non possono cambiare anche i miei ragazzi?