Novo millennio ineunte
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Una Chiesa missionaria che comunica Cristo alle persone valorizzando tutti i carismi.
Verona, Seminario di San Massimo 22 marzo 2001
Incontro promosso dalla Fraternità sacerdotale San Giovanni Calabria
Non credo che si possa esaurire tutta la ricchezza di temi, di suggestioni e di proposte che sono insieme culturali e pastorali, perché la pastorale è l'attuarsi nella vita della impostazione della fede; il Papa lo dice bene ad un certo punto all'inizio della terza parte, dice: questo è il programma sempre nuovo e sempre antico, non si tratta di inventare un nuovo programma, "Il programma c'è già: è quello di sempre, raccolto dal Vangelo e dalla viva Tradizione. Esso si incentra, in ultima analisi, in Cristo stesso, da conoscere, amare, imitare, per vivere in lui la vita trinitaria, e trasformare con lui la storia fino al suo compimento nella Gerusalemme celeste" (n. 29).
Il Papa ha la preoccupazione della educazione del popolo cristiano; l'educazione del popolo cristiano significa che il popolo cristiano esista come coscienza della propria identità e quindi come coscienza del proprio compito. Tutto ciò che è accaduto nel Giubileo, e questa è la chiave di lettura, ha rinnovato la coscienza della identità e perciò è il momento di vivere questo rinnovamento delle coscienza della identità in un nuovo compito o in un nuovo modo di assumere il compito di sempre; quando si assume in modo nuovo il compito di sempre si ha la precisa sensazione che ci sia qualche cosa che cominci come daccapo.
"Memoria grata del passato - dice nel n. 1 all'inizio - vivere con passione il presente, ad aprirci con fiducia al futuro", cercare perciò (questo è il mio contributo al lavoro che inizia fra di voi questa sera), di identificare le preoccupazioni fondamentali, la chiave di lettura fondamentale con cui utilizzare e approfondire, assimilare un testo che è insieme profondo ed elementare.
Credo che sia giusto identificare quattro momenti: una grossa premessa e tre indicazioni di metodo.
La premessa mi sembra che ci sia offerta dalla rilettura realistica dell'avvenimento giubilare. Il Papa ha riletto con estremo realismo ciò che è accaduto. È accaduto qualcosa di assolutamente inaspettato, nella vita della Chiesa è riaccaduto l'evento della presenza di Cristo, ma l'evento della presenza di Cristo riaccade in ogni istante della vita della Chiesa, riaccade tutte le volte che si celebra il sacramento, riaccade tutte le volte che un cristiano forte e cosciente della sua identità investe il mondo della sua presenza missionaria, della sua presenza capace di annuncio, di condivisione, di cultura, di carità… È accaduto l'evento nel suo senso, direi, affettivamente intenso. I grandi avvenimenti giubilari, come dice il Papa, questa profonda corrispondenza del cuore di moltissimi cristiani e anche non, verso la celebrazione del Giubileo, che comunque fa del Giubileo svoltosi durante l'anno scorso fino ad ora il più grande avvenimento numerico della storia (venticinque milioni di pellegrini sono andati a Roma, a questi si devono aggiungere i milioni di pellegrini che hanno celebrato il Giubileo nelle loro chiese particolari). Qualche cosa di assolutamente inedito e in fondo di inaspettato per tanti che, anche nel mondo cattolico, quando il Papa ha espresso la sua intenzione di celebrare il Giubileo sembravano indicare fattori di pessimismo, circa questa corrispondenza.
La Chiesa ha ritrovato Cristo come la grande presenza, il fattore inevitabile, ineliminabile, una presenza che supera qualsiasi concezione che di lui si abbia, soprattutto che mette in crisi questa permanente tentazione di ridurre la sua presenza a formule, la frase del Papa di gran lunga più significativa: "non una formula ci salverà, ma il mistero di una presenza". La Chiesa ha ritrovato la presenza di Cristo e questo a me pare che emerga dal modo con cui il Papa rilegge l'evento giubilare; la Chiesa ha ritrovato la presenza di Cristo come qualche cosa verso cui va tutta la tradizione, che non è ancora stata eliminata, ridotta, parzializzata, attaccata sistematicamente dalla mentalità dominante messa in crisi da tanta difficoltà interna alla vita stessa della Chiesa; ma la tradizione cristiana sente come inevitabile punto di riferimento Gesù Cristo figlio di Dio, il Verbo incarnato dentro la vita del mondo per la vita del mondo, l'unico redentore dell'uomo, ieri, oggi e sempre. Questo è certamente l'intendimento della celebrazione degli anni santi, perché mentre la Chiesa si inoltra nella vita della storia sente e risente tutti i contraccolpi e le tentazioni. La tentazione più tremenda che la Chiesa deve combattere è la tentazione della riduzione ideologia della fede. Che la fede diventi un quadro di riferimento ideologico, di ideologia religiosa; se dobbiamo stare ai grandi padri della Chiesa, ai grandi teologi la tentazione alla fine del primo secolo stesso, la tentazione più tremenda si è profilata la riduzione gnostica, la riduzione di Cristo a nome, a nozione, a categoria di una concezione globale intellettuale filosofica, cosmologica.
La Chiesa comincia da Cristo perché è di fronte a Cristo, è di fronte al Mistero di una presenza reale, obiettiva, perché "il Verbo si è fatto carne". Ora questa orientazione della Chiesa verso Cristo che emerge dalle parole del Papa, giudica anche (bisogna dire che le parole del Papa sono chiarissime) una obiettiva lontananza dell'umanità da Cristo, e non soltanto questo ma anche la tentazione di una lontananza della Chiesa da Cristo. Perché questo è il Giubileo che ha posto fine ad un secolo e ad un millennio, che nell'ultima parte, è stato caratterizzato gravemente dalla tentazione di eliminare la presenza di Cristo, dallo spazio e dalla coscienza della vita degli uomini. Perciò il Giubileo è stato anche un avvenimento di giudizio culturale, a questo ci ha certamente abituato in questi vent'anni il magistero di Giovanni Paolo II: a fare delle categorie portanti della fede categorie di giudizio culturale.
È indubbio che per un lato la Chiesa ha sentito come assolutamente fondamentale questo incontro, con Lui, con il vivente, ma d'altra parte ha misurato tutta la lontananza ed è una lontananza culturale, addirittura psicologica. C'è una estraneità culturale e psicologica all'avvenimento della incarnazione, alla presenza di Dio in Gesù di Nazareth, c'è la tentazione terribile, molto diffusa. Nel cuore del Giubileo è uscita la Dominus Jesus, che è una indicazione preoccupata della suprema autorità della Chiesa ai cristiani, non ai miscredenti, non a quelli che sono fuori della Chiesa, perché non perdano coscienza della assoluta unicità e definitività della realtà di Cristo e non accettino questa riduzione ideologico religiosa, per cui sembra che il cristianesimo sia sostanzialmente una delle molte forme in cui si è attuata la religiosità naturale, la religiosità dell'uomo, il bisogno naturale che l'uomo ha di conoscere Dio. Il postilluminismo oggi ammette che l'uomo non ragioni e basta, non abbia a disposizione soltanto la sua ragione scientifica per conoscere la realtà, l'illuminismo che ci domina ancora concede all'uomo di oggi, oltre che a ragionare, di sentire, e la religione è una forma di sentimento, in questo illuminismo e protestantesimo sono andati sempre di pari passo. La cosa più tremenda è che i cristiani pensino di sé di essere una forma religiosa, storica, contingente, transeunte che il valore non sia nel contenuto che viviamo e che portiamo, ma che il valore sia nel fatto che comunque e sempre l'uomo ha bisogno di Dio. Così il cristianesimo rischia di diventare la religione degli uomini che cercano Dio, una delle religioni degli uomini che cercano Dio; ma nella Tertio millennio adveniente il Papa ci aveva richiamato con decisione con questa frase: "il cristianesimo non è la religione degli uomini che cercano Dio, è la religione di Dio che ha cercato l'uomo".
Dire che questo è il contesto, un contesto realistico accerta il riproporsi di un avvenimento radicale, la Chiesa ha rincontrato Cristo e lo ha reincontrato nella evidente, appassionata, vibrante esperienza che sono stati i grandi momenti giubilari; è inutile che io li richiami, chi leggerà sentirà che il Papa puntualmente riprende i gesti fondamentali del Giubileo, ma lo hanno anche incontrato nella tradizione, nello svolgersi più tradizionale del Giubileo come pellegrinaggio per la indulgenza; una orientazione profonda verso Cristo da ritrovare come la grande presenza ma insieme, mentre lo si ritrova, un giudizio pertinente: il secondo millennio è finito, non solo come fatto anagrafico, è finito perché certamente di fronte a questo Cristo che si ripropone alla Chiesa e al mondo come il grande presente, emerge con assoluta chiarezza che l'idea, il progetto moderno di fare a meno di Dio, fare a meno di Cristo, si è rivelato sostanzialmente inadeguato.
L'uomo che inizia il terzo millennio esce da una illusione ateistica, ma forse sarebbe meglio dire laicistica (che se Dio c'è comunque non c'entra con la vita dell'uomo, non c'entra con la coscienza che ha di sé, non c'entra con i criteri fondamentali con cui deve impostare la sua vita, non c'entra con i grandi criteri di giudizio e di valutazione delle vicende personali e sociali, l'uomo basta se stesso). Mi sembra che il Giubileo, nella sua enorme capacità di parlare agli uomini, parli anche al cuore delle nostre incertezze, delle nostre difficoltà, delle nostre estraneità a Lui, in fondo delle nostre estraneità a noi stessi; come ha detto più volte il Papa: "il rifiuto di Cristo comporta la distruzione dell'uomo". La eliminazione di Cristo dal contesto della vita e della storia, ha provocato e provoca sempre una impossibilità a difendere l'uomo nella sua ultima consistenza, nella sua dignità, nella sua libertà, nella sua capacità di creazione. Dobbiamo tener presente che questa è la preoccupazione, direi di contesto, è accaduto un reincontro a cui non eravamo pronti noi stessi cristiani, non eravamo pronti perché profondamente segnati da questa tentazione di ridurre l'evento a ideologia, l'evento a formula, l'evento a programma. I cristiani rischiano di essere oggi quelli che hanno un programma di vita particolarmente impegnativo, quelli che fanno il bene, quelli che mostrano nella società, a differenza degli altri, virtù, categorie, preoccupazioni diverse dal quelle della maggioranza, non "testimoni", come dirà il Papa nella parte dedicata alla missione, non testimoni della missione di Cristo.
Fatta questa premessa, che è importante per vedere svolgersi l'itinerario; quindi è un evento religioso che ha una grande portata culturale. È stato un evento religioso un evento cristiano, una riscoperta dell'evento di Cristo come determinante la vita e la storia della Chiesa, che ha una enorme capacità critica. La fede ci aiuta a capire chi siamo, il tempo che viviamo, gli antecedenti di questo tempo, le crisi di questo tempo e insieme a risentire tutta l'apertura, tutto il desiderio di Cristo è dentro l'esperienza di questo inizio del terzo millennio, perché certamente solo la Chiesa, dice il Papa con molta chiarezza ad un certo punto, solo la Chiesa può dire al mondo quella parola che il mondo non può dirsi e che pure attende: Gesù Cristo.
Detto questo io credo che i tre riferimenti fondamentali siano: primo ritrovare il mistero di Cristo, ritrovare il suo volto, il Giubileo ha fatto reincontrare il volto di Gesù di Nazareth come il volto del Dio con noi, e qui il Papa riesce a sintetizzare con enorme chiarezza tutto l'avanzamento degli studi esegetici e ad utilizzarli in senso positivo per la fede, e non come purtroppo accade a moltissimi livelli, contro la fede. Il Papa legge secondo l'intuizione profonda dei Padri: il Cristo della fede è in connessione radicale con il Cristo della storia. La fede legge la storia nella sua profondità e verità: non c'è separazione fra il Cristo della storia e il Cristo della fede. Come se tutta l'attenzione, e lo è stata, fosse stata in questi decenni su i contenuti della professione di fede, il modo come la comunità sentiva, il messaggio e così l'avvenimento storico di Cristo restasse sullo sfondo, come non necessario, come facoltativo quello che è in primo piano è come la comunità ha sentito, cioè quello che è in primo piano è la nostra soggettività, la nostra reattività, le nostre opinioni, i nostri sentimenti, così Cristo finisce per essere una opzione di tipo sentimentale, una serie di scelte di tipo spirituale, un programma eticistico. Il Cristo della storia si collega al Cristo della fede. Il Papa ci aiuta a "leggere" i vangeli: che si radicano nella storia di Gesù Cristo, sono la testimonianza della storia di Gesù Cristo, non sono certamente una biografia ma sono gli avvenimenti di Cristo così come sono stati recepiti dai protagonisti che li hanno vissuti con Lui e poi sono passati dai protagonisti alla prima generazione, e sono passati con una preoccupazione di comprensione catechetica, ma allora c'è lo stupore di una cosa grande e definitiva. Leggere il mistero di Cristo vuol dire leggere una realtà che per un certo aspetto sembra totalmente riconducibile alla storia, e per un certo altro lato esplode oltre la storia e indica che lì in un avvenimento che può sembrare assolutamente contingente c'è la presenza dell'Assoluto, dell'Eterno, di Dio.
Il Papa rilegge, a partire dalla resurrezione fino alla nascita la vicenda della vita a Nazareth e poi della vita pubblica, questo mistero: Cristo è della storia ed è oltre la storia. Cristo è un avvenimento della storia che porta il senso ultimo e definitivo della storia e perciò trascende inesorabilmente la storia, pur insediandosi in essa, allora in qualsiasi momento del suo mistero noi possiamo leggere questa profondità, ciò che è immediatamente riconducibile alla concretezza e alla contingenza della storia e ciò che lo trascende inesorabilmente. Bisognerebbe riprendere qui quello straordinario numero del Catechismo della Chiesa Cattolica in cui la Chiesa ripete la grande professione di fede e formula così il mistero fondamentale della fede: "in continuità con la nostra tradizione crediamo e professiamo che Gesù di Nazareth, nato ebreo da una vergine, nel popolo d'Israele, nato sotto l'imperatore Cesare Augusto e sotto il re Erode, morto a Gerusalemme sotto Tiberio Cesare e sotto il procuratore Ponzio Pilato, di mestiere carpentiere…" quindi una realtà storica perfettamente integrabile nella storia, nelle coordinate etniche: ebreo, nelle coordinate geografiche: nato in Palestina; nelle coordinate cronologiche: nato in un certo tempo e morto in un altro tempo; nelle coordinate sociali: di mestiere carpentiere… dice la Chiesa: è il Figlio unigenito di Dio venuto nella carne, perché il Verbo si è fatto carne ed abita in mezzo a noi, e questo Verbo di Dio è nella esperienza di Gesù di Nazareth che entra nella storia e fa scoppiare il senso della storia, conferendo alla storia il suo senso, dal di dentro di essa.
Quindi leggere il mistero; noi abbiamo ritrovato il volto del mistero contro tutte le tentazioni riduttive: storicistiche, sentimentali, emozionali, affettive… pensate che tremenda eredità è quella di accosta la religione come se fosse un problema psicologico, la stragrande maggioranza anche dei cattolici pensa che la religione sia un problema psico-affettivo. È il pedaggio più grave che noi abbiamo dalla nostra tradizione illuministico-protestante, la fede è un sentimento, non è un logos, non è un evento che cambia totalmente, integralmente la vita dell'uomo e quindi la sua coscienza.
Ritrovare il volto di Cristo e qui, seguendo la via della fede di Pietro, dei primi e della Chiesa, il Papa fissa le caratteristiche fondamentali di questo volto in cui si raccoglie il mistero di Cristo, è il volto del Figlio, perché nessuno ha parlato di Dio come Gesù di Nazareth, perciò la filiazione da Dio è qualcosa di assolutamente diverso da qualsiasi altra formulazione circa il rapporto con Dio, Gesù è il Figlio per una generazione eterna che si rende presente nella storia, è il volto del dolente, il volto del Figlio di Dio che porta fino alle estreme conseguenza questa sua comunione obbediente con il Padre che significa l'offerta totale della vita, secondo il progetto di Dio, secondo la misura di Dio; è il volto del Figlio, volto del dolente, volto del glorioso, è la compresenza di queste dimensioni che definiscono l'avvenimento di Cristo come la presenza definitiva di Dio e la chiamata dell'uomo nell'incontro con Lui a sperimentare la redenzione.
Questo è stato il Giubileo: ritrovare il volto, ritrovare il volto del mistero di Dio in Cristo nella contemplazione rinnovata, in connessione profonda con la tradizione, del volto del Figlio, del volto del sofferente, del volto del risorto. A duemila anni di distanza, dice il Papa alla fine del n. 28: "A duemila anni di distanza da questi eventi, la Chiesa li rivive come se fossero accaduti oggi"; anche perché il Cristo è il mistero di Dio fatto uomo, morto e risorto, il tempo non ha dominio su di Lui, Cristo domina il tempo, Cristo risorto investe il tempo che scorre e lo domina dall'interno. Duemila anni dall'avvenimento di Cristo non sono una tomba, ma sono il modo con cui Cristo in questi duemila anni ha continuamente saputo e potuto esplicitare la sua vittoria sulla morte, sul tempo. Non è per modo di dire, è perché effettivamente il mistero di Cristo e riaccade continuamente nella storia, perché la storia in ogni istante del suo scorrere è giudicata dalla sua presenza di risorto.
"Nel volto di Cristo essa, la Sposa, contempla il suo tesoro, la sua gioia. "Dulcis Iesu memoria, dans vera cordis gaudia": quanto è dolce il ricordo di Gesù, fonte di vera gioia del cuore! Confortata da questa esperienza, la Chiesa riprende oggi il suo cammino" (n. 18): contemplazione del volto per ripartire, ecco il secondo momento. Ma ripartire è possibile se questo incontro diventa una esperienza reale dell'oggi. Come diventa una esperienza reale dell'oggi? Come è possibile ripartire? È possibile ripartire perché è possibile una esperienza attuale del mistero di Cristo nel nostro tempo, nel nostro spazio, nella nostra vita quotidiana, nel tempo di oggi. È possibile l'esperienza di Cristo perché è possibile la appartenenza al mistero della Chiesa. Il mistero della Chiesa è l'attuarsi del mistero di Cristo, noi ritroviamo il mistero di Cristo nel mistero della Chiesa, appartenendo oggi al mistero della Chiesa, luogo della sua presenza, luogo dove egli ci viene incontro, dove egli sfida la nostra attualità. È una presenza, è nella Chiesa che è una presenza, il volto emerge nella memoria, il suo volto di Figlio, di dolente e di risorto emerge nella memoria; la Chiesa fa memoria di lui e lo ritrova sul filo di questa appassionata meditazione della scrittura. Ma lo incontriamo nella Chiesa. Cristo non è presente nella parola, la parola è necessaria per conoscerlo, ma Cristo è presente nel sacramento; l'opzione che il Papa fa è radicale, in questo secondo momento, è la Chiesa il luogo della presenza. Non si capisce chi è presente, come diceva san Girolamo opportunamente citato dal Papa, se non si conosce la scrittura non si conosce Cristo, ma la scrittura è per conoscere, la Chiesa è per incontrarlo. La parola è totalmente nell'orbita della Chiesa, non c'è una priorità della parola sulla Chiesa, non c'è né teologicamente né pastoralmente. La parola è strumento fondamentale di conoscenza e di approfondimento, di maturazione della coscienza e la scrittura, che la Chiesa ha trascelto utilizzando il suo potere di discernimento nei primi anni della vita della Chiesa, quando ha fissato il canone dei libri ispirati, questi libri, questa parola scritta è normativa per tutte le generazioni cristiane, non ci sarà mai una coscienza cristiana autentica fra duemila o fra diecimila anni che non si misuri con Pietro, con Paolo, con Andrea, con Giacomo, con l'Antico testamento, con Isaia… non ci sarà. Ma la presenza di Cristo non è nella parola, la presenza di Cristo è nell'unità dei suoi che approfondiscono la coscienza del loro mistero leggendo la scrittura, ma non esauriscono il rapporto con Cristo nella scrittura.
L'appartenenza ecclesiale, e direi che il Papa è molto puntuale nel descrivere i termini di questa appartenenza: è una appartenenza sacramentale, all'eucarestia, in prospettiva al battesimo che apre la strada verso l'eucarestia, è la immanenza alla Chiesa così come si forma e si rigenera continuamente nella pratica eucaristica, quindi nella necessità dell'eucarestia domenicale, per arrivare poi a conseguenze pastorali molto precise. Ma è una esperienza di incontro con lui che l'incontro di una realtà limitata, che fa esperienza del suo limite e quindi è chiamata dalla misericordia di Dio a fare esperienza del continuo perdono del limite, l'importanza enorme che il sacramento della riconciliazione, e il rimprovero non tanto larvato ai pastori di chiese, vescovi, parroci, ad essere un po' più creativi, il Papa dice che forse bisognerebbe recuperare quella creatività nel riproporre il sacramento della riconciliazione, di cui hanno preteso di potersi valere milioni di pellegrini a Roma. È la cosa che ha sconvolto la città di Roma, laica, massonica o cattolica che fosse, sono state oltre e forse più che i grandi eventi di incontro con il Papa, la fila ininterrotta di migliaia e migliaia di persone che hanno preteso di confessarsi notte e giorno. Forse non vanno più a confessarsi perché non trovano più da confessarsi, il Papa lo dice, io non posso che riecheggiarlo che comunque non esiste esperienza di appartenenza reale a Cristo se non nell'eucarestia e nella penitenza, e la tradizione cristiana li ha considerati sempre i sacramenti della "via".
Una appartenenza reale, concreta al mistero di Cristo nel mistero della Chiesa, che afferma allora, questo è un tema straordinariamente efficace che si ricollega al più autentico insegnamento del Concilio ecumenico Vaticano II, il cristianesimo è la proposta della santità, cioè del cambiamento totale della vita, della realizzazione piena dell'umanità. La santità come dono di partenza, si potrebbe dire come ontologia nuova, se il termine non fosse un po' troppo difficile, come un essere nuovo donato che deve essere riconosciuto ed attuato. Allora il compito della comunità ecclesiale, che ci fa incontrare Cristo, è quello di farci percepire tutta la imponenza della santità, siamo chiamati all'incontro con lui nella santità, e tale santità si realizza come comunione con lui: ecco il valore della memoria che si specifica come preghiera personale e come liturgia. La comunione con lui, e a partire dalla comunione con lui, questa comunione che diventa la forma dell'aggregarsi della Chiesa; la Chiesa è famiglia, casa e scuola di comunione e perciò la Chiesa ci fa incontrare Cristo e ci fa attuare questo progetto di santità nella misura in cui rivela a noi il volto di una comunione, ci fa sperimentare la comunione a tutti i livelli, a tutti i livelli della vita cristiana, in ogni ambito di comunione (Cfr. n. 43) è necessario che viva una spiritualità di comunione, cioè che la comunione diventi la forma della personalità, la forma dell'intelligenza, dei rapporti, lasciatemi fare soltanto una citazione perché troppo bella: "Spiritualità della comunione significa innanzitutto sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi" (n. 43), la santità è la chiamata a partecipare alla vita della Trinità, perché lo Spirito che ci è effuso su di noi dal battesimo ci fa consorti della natura divina, dice san Pietro nella sua lettera. Sguardo del cuore portato sul mistero della Trinità che abita in noi e la cui luce va colta sul volto dei fratelli che ci stanno accanto; comunione è riconoscere l'altro nella luce della Trinità, come segno della trinità, come parte del mistero della Trinità, quindi come tale come qualcosa che non è a disposizione della mia intelligenza, della mia sensibilità, del mio cuore, del mio progetto, ma qualche cosa deve essere accolto e amato; è bellissimo il modo con cui il Papa ne parla: spiritualità di comunione significa capacità di sentire il fratello di fede nell'unità profonda del corpo mistico, dunque come uno che mi appartiene.
Una appartenenza ontologica perché siamo nella stessa casa, o meglio partecipiamo dello stesso corpo: "siete membra l'uno dell'altro". Allora per questo si può cominciare a condividere le sue gioie, le sue sofferenza per intuire i suoi desideri e prendersi cura dei suoi bisogni per offrirgli una vera e profonda amicizia. Dalla comunione con lui nella quale siamo già tutti, questa è la santità, sprigionare questo movimento che rende possibile condividere, la comunione con i fratelli è l'espansione nella storia della comunione con Cristo. È perché si fa in comune Cristo che si può tendere a mettere in comune la vita, secondo quel che uno sente, secondo quel che uno può, secondo il ritmo della libertà e certo mai secondo il ritmo della imposizione. La Chiesa Cattolica che difende contemporaneamente il diritto alla proprietà, come diritto fondamentale di natura, e mette sugli altari come esempio l'umiltà, la castità e la povertà, senza contraddizioni, perché ciò che fa dire all'uno "arrivo fin qui" e fa dire all'altro "arrivo fino in fondo", è la libertà di fronte al mistero di Cristo.
Una appartenenza reale, sacramentale al corpo del Signore che è presente a partire dall'organismo dalla struttura sacramentale, e quindi a partire dall'esercizio dell'autorità, perché non ci sono sacramenti senza autorità, e non c'è l'attualità del mistero di Cristo se non c'è l'ordine sacro che lega il presente della comunità alla grande e unica tradizione della Chiesa, appartenere perché riconoscendo che noi apparteniamo al mistero di Cristo, noi ci percepiamo chiamati alla santità, e questa santità matura in noi nella misura in cui viviamo la comunione con i fratelli, che da questa comunione con lui nasce e viene continuamente rigenerata. Da questa appartenenza, da ultimo, dice il Papa nel bellissimo n. 15 "Un nuovo dinamismo", dice proprio così ad un certo punto: "non si può star fermi", se uno ha incontrato Cristo, se uno ha contemplato il mistero della sue presenza nel volto del Signore che il Giubileo ha fatto rivedere e risentire alla Chiesa, se uno fa l'esperienza di Cristo nella appartenenza ecclesiale non può più star fermo, non può più tener per sé questo. Nasce da questa esperienza di appartenenza quell'invito che fa da esergo a tutta la lettera: "Duc in altum", "vai verso il mare aperto". La Chiesa deve andare verso il mare aperto, come andò verso il mare aperto la barca di Pietro sulla fiducia della parola di Cristo e sul fatto del suo volto contemplato improvvisamente, dopo una notte di fallimento e di lavoro inutile, nel volto di Cristo che gli diceva "getta le reti e va' in mare aperto", Pietro ha detto: "ho lavorato tutta notte e non ho trovato niente ma sulla tua parola getterò le reti".
La Chiesa riparte a vivere la missione come servire l'incontro fra Cristo e il cuore di ogni uomo, e questo dinamismo missionario non è una serie di iniziative, ha bisogno di iniziative, ha bisogno di strutture, ha bisogno di organizzazioni, ha bisogno di nuovi spazi nella vita della comunità e nel rapporto fra la comunità e il mondo, ha bisogno la Chiesa di ritrovarsi nella missione molto più polimorfica al suo interno: varie vocazioni, carismi, movimenti, associazioni, gruppi… L'esperienza dell'appartenenza non è univoca, è pluralistica, è lo Spirito che crea e ricrea forme nuove di appartenenza all'unica Chiesa, ma tutto questo si verifica in un modo solo: che si rinnovi l'impeto della missione, che si rinnovi la capacità della Chiesa di annunziare Cristo all'uomo di questo tempo come di tutti i tempi, di annunziare Cristo come l'unica possibilità di salvezza, come l'unico che spiega l'uomo e il suo mistero, Cristo rivela all'uomo tutta la verità su di lui, e Cristo chiama l'uomo a partecipare della sua vita e la partecipazione alla vita di Cristo diventa l'esperienza di un stupefacente cambiamento, come aveva già accennato in modo indimenticabile nel n. 10 della Redemptor hominis: se l'uomo segue Cristo, se in lui si attua questo profondo processo di assimilazione di Cristo, allora l'uomo produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma di profonda meraviglia di se stesso, il cristianesimo è la meraviglia di una vita che è rinnovata.
La missione serve a sperimentare questa novità e a proporla a tutti, e nel proporla questa novità diventa sempre più nuova per chi ne fa esperienza. Il Papa sintetizza la parola missione, o il compito missionario, nella formula "testimoni dell'amore di Cristo" ed indica i fattori fondamentali di questa testimonianza dell'amore di Cristo agli uomini, in cui consiste la missione, primo nella capacità di giudizio; la Chiesa porta Cristo all'uomo perché dà all'uomo un criterio fondamentale di giudizio su di sé e sulla realtà. La prima diaconia verso l'uomo, che la Chiesa ha verso l'uomo, ci aveva ricordato proprio nella lettera apostolica Tertio millennio adveniente, la prima diaconia della Chiesa verso l'uomo è la diaconia verso la verità, amare l'uomo vuol dire proporgli la verità, senza verità l'uomo non è se stesso. Una Chiesa che non concepisca la sua missione innanzitutto come annunzio, ripeto quel che ho già detto riecheggiando il Papa, se la Chiesa pensa ad una missione che non sia innanzitutto il dire al mondo quella parola che il mondo non può dirsi, ma che aspetta, cioè Gesù Cristo, non è missione. Questa missione si connota come capacità di amore, di carità, non c'è proclamazione della verità che non sia carità, non c'è carità che non abbia alle sue spalle la verità; la verità senza carità è una ideologia religiosa, che può correre il rischio, e qualche volta nella storia l'ha corso, di essere dura e impietosa come le ideologie umane; possono esserci stati nella storia della Chiesa momenti in cui l'ideologia religiosa senza carità ha fatto assumere a certe comunità o a certi luoghi il volto duro di una verità senza amore; ma un amore senza verità è un moralismo, un amore senza verità è uno sforzo sulla cui efficacia ci si può soltanto illudere, perché "voi non siete buoni" ha detto il Signore, "voi siete tutti cattivi"; perciò l'idea che l'uomo possa fare qualcosa di utile veramente a se stessi, solo sulla base della sua capacità, è una delle più terribili illusioni che nella storia e nella cultura dell'umanità.
Missione come testimonianza dell'amore di Cristo significa cultura e carità, si potrebbe dire sinteticamente, cultura come capacità di giudizio sull'uomo e sul mondo, e carità come capacità di condividere la condizione dell'uomo, nella certezza di portare all'uomo quello che è il vero bisogno sotto ogni bisogno, quello che è il bisogno reale al di là di tutti i bisogni che pure possiamo condividere, o cercare di condividere. Questa è la strada, e concludo, per dare il contributo della Chiesa al dialogo ecumenico. Non si dialoga con le altre formulazioni religiose che si rifanno a Cristo, non si dialoga con le altre forme religiose (dialogo interreligioso), non si dialoga riducendo la portata della missione. L'ecumenismo non è l'alternativa alla missione, il dialogo religioso non è l'alternativa alla missione; non è vero quello che viene detto troppe volte, anche in campo cattolico, che: o missione o ecumenismo, o missione o dialogo, la missione sarebbe una permanenza indebita della tentazione passata di presentarsi come portatori della verità assoluta, nella misura in cui si abbandona questa pretesa e si accetta di essere una voce fra le altre voci, allora si dialoga con gli altri fratelli separati, allora si dà il proprio contributo al dialogo interreligioso; questa non è la posizione di Giovanni Paolo II. La posizione del Papa è che la capacità di intervento e di contributo ecumenico e di contributo al dialogo religioso è nella misura della coscienza della nostra identità; la coscienza della nostra identità si matura nella misura in cui questa identità diventa missione, diventa esperienza di missione. Perché come aveva detto nella grande e inascoltata enciclica Redemptoris missio, la fede si irrobustisce donandola, questo è il programma. Ma, la lasciatemi concludere così, il programma che tutta la Chiesa deve vivere dopo il Giubileo, ripartire da Cristo per riportarlo al mondo coincide con il programma della santità personale.
La Chiesa sarà tanto più capace di questo, non per le grandi strutture organizzative di cui si doterà, e forse è necessario che si doti di strutture molto più agili che nel passato, a fronte di una crisi numerica per esempio del clero che ha raggiunto proporzioni spaventose almeno nella Chiesa europea. Questo programma non si realizza necessariamente attraverso la ristrutturazione organizzativa, tanto meno considerando la Chiesa alla stregua di qualsiasi struttura sociologica e quindi ripartendo in essa in modo nuovo il potere, come qualche volta sembra di leggere in tanti interventi o in tanti avvenimenti della chiese, come se si trattasse di ridistribuire il potere fra il clero e il laicato, come se la promozione del laicato consistesse nel farlo accedere ad alcune funzioni da sempre gestite dal clero (può essere che questa sia una necessità in certi momenti), ma la promozione del laicato implica la formazione di un popolo missionario. Il laicato vive il suo sacerdozio profetico, regale, e sacerdotale se vive la missione e perché vive la missione e perciò il sacerdozio ministeriale, che è in funzione del sacerdozio regale del popolo di Dio, non dipende dal sacerdozio del popolo di Dio come talun'altro dice, il sacerdozio ministeriale dipende dall'ordinazione sacra (è Dio che sceglie i sui preti); certamente il sacerdozio ministeriale serve una cosa più grande nella Chiesa, che è tutto il popolo cristiano che deve andare in missione. Perché questo possa accadere occorre che ciascuno di noi si renda conto che c'è nella sua vita una novità oggettiva legata al battesimo, legata alla pratica dell'eucarestia, legata alla pratica della riconciliazione, legata alla immanenza viva alla vita della Chiesa così come la vita della Chiesa si presenta nella necessaria particolarità, perché la Chiesa è sempre una Chiesa particolare, anche quella che si radunava nella casa di Aquila, come dice san Paolo salutando quei pochi fratelli che si radunavano nella casa di Aquila e a cui lui attribuiva lo stesso nome di Chiesa che attribuiva all'unica Chiesa cattolica, perché la Chiesa è una, universale e si esprime in una infinita particolarità che finisce alla singola personale, come diceva il padre Chenu, uno dei padri del Concilio Vaticano II: "la Chiesa finisce nel cuore delle anime".
Il programma di rinnovamento della Chiesa coincide con il programma di rinnovamento della verità con cui noi siamo cristiani, con cui ciascuno di noi accoglie il dono del battesimo, il dono dell'eucarestia e vi corrisponde con tutta la capacità di capire nel cuore, e con tutta la capacità di amare, ed è allora qui che è così importante l'amicizia cristiana, nell'unica grande comunità della Chiesa esistono varietà di amicizie cristiane, ma funzionali a che ciascuno di noi poi possa vivere realmente la sua esperienza di fede, possa ritrovare autenticamente la sua vocazione, possa essere aiutato ad attuarla per il bene proprio e della Chiesa. Il programma del rinnovarsi della missione della Chiesa, che è il programma della Chiesa del terzo millennio, coincide con il rinnovarsi della vita di santità di ogni singolo cristiano nella Chiesa, e l'amicizia è lo strumento che provvidenzialmente il Signore attraverso il suo Spirito rinnova nella vita della Chiesa, e ha rinnovato in questi decenni che sono i decenni in cui la fantasia dello Spirito ha additato modi diversi nella Chiesa per fare la stessa esperienza di Chiesa, per comunicare la stessa esperienza, per viverla con profondità e per saperla ogni giorno testimoniare davanti al cuore dei nostri fratelli uomini con la certezza di poter portare quella parola che il mondo non può dirsi, ma che, al di là della sua stessa comprensione e al di là del suo stesso sentimento, è la cosa di gran lunga più attesa e più sperata. Che possa accadere oggi, di nuovo, l'incontro fra Cristo e il cuore di ogni uomo dipende dalla verità con cui ciascuno di noi vive la propria santità, cioè partecipa al mistero di Cristo nel mistero della Chiesa e cerca di vivere questa verità, per sé, in sé e di fronte a tutti gli uomini.
Domanda: "Come porsi di fronte all'obiezione che spesso viene fatta: "Cristo sì, Chiesa no"?".
Don Negri: Io credo che questa tentazione: "Cristo sì, Chiesa no", che ha dietro alle spalle una eredità secolare, è una eredità di laicismo di almeno tre secoli, e che secondo me non è innanzitutto lo scandalo dei limiti morali, io non credo assolutamente che i limiti della Chiesa e soprattutto della ecclesiasticità siano all'origine di questa posizione teorica. Lutero almeno aveva chiaro che la Chiesa non è che non dovesse esserci perché era malvagia, non doveva esserci di diritto, perché l'esperienza religiosa è un'esperienza individualistica immediata e la Chiesa invece pretende di mediare fra il Verbo di Dio e l'umanità. Noi abbiamo questa eredità, dobbiamo riconoscerlo onestamente, mai come adesso non possiamo però trovare nel magistero del Papa nessuna apertura a questa posizione, perché il mistero di Cristo continua nel mistero della Chiesa, come aveva già detto nel n. 7 della Redemptor hominis, quando fa velocissimo in mezzo numero un saggio di cristologia fra i più profondi che io ricordi, e l'ultimo è la Chiesa nel suo mistero. Noi dobbiamo renderci conto che c'è una connessione profonda, indisgiungibile, anche se distinta ma esattamente Cristo non si trova, Cristo che è più della Chiesa, non si trova se non nella Chiesa e attraverso la Chiesa. Quel che dice lei ha una ulteriore conferma, allora bisogna che sia una esperienza autentica di Chiesa la nostra, occorre che sia una testimonianza autentica, che non sia una riduzione, che non sia una associazione, uno psicologismo, un sentimentalismo. Certo, è necessario che l'appartenenza sia una appartenenza reale e impegnativa, e vorrei dire che qui tutto quello che è scritto sulla spiritualità della comunione è per rendere la Chiesa una esperienza oggettiva.
Può anche essere vero che nel modo con cui i mass media riferiscono o reagiscono al ministero petrino, sembra appunto il residuo di un centralismo ideologico, ma io credo che questo sia un condizionamento pesante della mentalità laicista; oggettivamente è perché esiste il ministero petrino che esiste l'assoluta oggettività dell'esperienza della fede. Non sarà mai possibile una riduzione ideologica, religiosa, moralistica, psicologica, sentimentale, opinionale della fede perché c'è un ultimo riferimento oggettivo che impedisce qualsiasi riduzione o alterazione. Pietro esiste per difendere l'ortodossia, per promuovere la carità e per guidare unitariamente, dopo la modalità con cui vive questa sua funzione di supremo custode dell'ortodossia, di suprema guida della carità e di preoccupazione dell'unità della Chiesa può variare come modalità; mi sembra che nel primo millennio il ministero petrino sia stato esercitato in modo diverso dal modo con cui è stato esercitato nel secondo millennio, come il Papa tante volte ha detto, è possibile che nel terzo millennio il ministero petrino possa essere esercitato in modo diverso, il ministero petrino, non la sua riduzione a un "primus inter pares" come vogliono i protestanti tedeschi a portavoce della pluralità delle chiese cristiane. Una funzione che ha una ultima indistruttibile identità di guida magisteriale e pastorale, noi dobbiamo forse essere rieducati se riscopriamo il mistero della Chiesa e riscopriamo nel mistero della Chiesa il mistero dell'autorità, e l'autorità è il successore di Pietro in comunione con i successori degli apostoli. Quindi l'unità della Chiesa è significata dall'unità fra Pietro e gli apostoli, e quindi fra il successore di Pietro e i successori degli apostoli. Se noi riscopriamo il senso del mistero, allora riscopriamo la necessità dell'autorità che di questo mistero è il segno più significativo, diceva Ignazio di Antiochia, siamo prima del 200, probabilmente rispondeva ad obiezioni che circolavano già allora: "obbedite al vescovo come Cristo", perché il vescovo è nella comunità ecclesiale segno di Cristo.
Noi viviamo il mistero secondo quello che ci detta la mentalità dominante, e siccome la mentalità dominante ha dissacrato l'esperienza religiosa, perché il mondo non può giudicare se non quello che è suo, allora la cosa più grave è che i cristiani pensino la fede, la Chiesa, l'autorità, i comandamenti e quant'altro, non secondo lo Spirito con cui la Chiesa li vive e li propone, ma secondo la mentalità mondana.
Perché la morale cristiana è giudicata dalla scienza, che poi non è neanche scienza, perché dopo venticinque, trent'anni in cui si è detto che la scienza aveva demolito l'Humanae vitae gli scienziati più avveduti vengono a dirci che in fondo l'Humanae vitae era più scientifica degli scienziati o degli pseudoscienziati che criticavano l'enciclica; ma nella mentalità comune anche cristiana, quello che è assodato scientificamente vale più del contenuto della fede e perciò il contenuto della fede deve essere giudica dalla scienza, se porta a delle conclusioni che non sono riconducibili alla scienza, o almeno a quello che la mentalità comune chiama scienza, vengono dichiarate sbagliate o improponibili.
A me sembra sia necessaria in una autentica appartenenza ecclesiale fare l'esperienza di quella che il Signore chiamava conversione dell'intelligenza, e che ha messo come condizione della fede. La prima richiesta a coloro che hanno ascoltato è stato di cambiare mentalità, e io credo che abituarsi a misurarsi con la parola dell'autorità, in particolare quella del Papa, perché si attui in noi una conversione dell'intelligenza, è uno degli aiuti più grandi che una comunità ecclesiale può offrire ai suoi figli.
Domanda: "Qual è il contributo dei carismi alla vita della Chiesa?"
Don Negri: Mi pare che il grande realismo di una esperienza ecclesiale, quale che sia la forma che prende, il grande realismo stia nel fare incontrare al cuore dell'uomo una proposta positiva, la proposta positiva che è Gesù il Cristo. Se si attua questo e si fa fare esperienza di questo, perciò il carisma è educativa se fa fare esperienza di questo, se non si limita alla proclamazione, o se non si limita alla difesa del patrimonio dogmatico, o delle indicazioni morali. La Chiesa cinquant'anni fa in Italia, e non solo in Italia, era rigorosissima nel difendere il dogma, ed era ultrarigorosa nel difendere la morale che nasceva dalla fede, non solo a difenderla all'interno della vita ecclesiale, ma a difenderla nell'impatto sulla società. La Chiesa ha difeso fino a venti, trent'anni fa, ha difeso rigorosamente la società cristiana nel senso di una società influita positivamente dalle convinzioni dogmatiche, ma soprattutto dalle convinzioni morali dei cristiani. Il limite quale poteva essere? Che di questi contenuti dogmatici e di queste indicazioni morali non si riusciva a fare esperienza reale nella vita, cioè mancava quella esperienza di santità, per dirla con Giovanni Paolo II, che poi diventa coscienza (dogma) e diventa morale, legge. Allora il dogma e la morale difesi senza esperienza ad un certo punto finiscono per essere indifendibili, infatti abbiamo cominciato a dire del dogma, è ingiusto dire così perché l'autorità suprema della Chiesa non ha mai accettato questo, ma nella vita concreta della Chiesa dobbiamo pur dirlo, diciamo le cose che gli altri si aspettano che diciamo. Abbiamo difeso il cento per cento del dogma, adesso se ci va bene difendiamo il dieci per cento, ed è quello che formuliamo il più possibile nei termini della mentalità corrente; i foglietti della messa, non so da voi io appartengo ad un rito particolare, ho la sensazione che sia stampato dalla stessa casa editrice, la festa della carità nell'anno liturgico passato era presentata come "festa della solidarietà e delle attività sociali". La festa della carità cristiana nella formulazione diventava la festa della solidarietà e delle attività solidaristiche; pensate allo spazio che nel dialogo "ecclesialese" comune il discorso sui valori comuni, il discorso sulla legalità e quant'altro. Abbiamo progressivamente ridotto la difesa del dogma e soprattutto siamo tentati di formulare il dogma in termini accessibili all'ideologia dominante.
È questo il punto: una difesa intellettualistica del dogma e moralistica della morale fa perdere dogma e morale, se non c'è una esperienza, e qui è secondo me la funzione della realtà della vita della Chiesa nella sua esperienzialità; carisma vuol dire possibilità di fare una esperienza concreta di fede sotto la guida dell'autorità e secondo il discernimento dell'autorità.