La ragione contro il potere

Autore:
Giussani, Don Luigi
Fonte:
La Repubblica
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Nel ventennale del suo pontificato Giovanni Paolo II ha scelto di riassumere in due parole la possibilità di giudicare la genesi e il riprodursi continuo dell'incomprensione tra il cristiano e il non cristiano: ragione e fede.

Quando nel '54 sono entrato al Berchet di Milano, la prima ora di scuola - per rispondere alle domande dei giovani - mi pose immediatamente nella necessità di far capire che cosa fosse la ragione, perché senza ragione non c'è neanche la fede, non c'è umanità che edifichi civiltà; c'è barbarie. Quei ragazzi, pur vivi e impegnati personalmente, usavano in modo ridotto la ragione. Ora, l'uomo parte sempre dall'esperienza per conoscere se stesso e camminare nella realtà. E quando con la sua ragione scandaglia tutto il reale, giunge all'esistenza di qualcosa che non si vede e che è la spiegazione totale dell'uomo e del cosmo, ma che non è conoscibile dall'uomo: è Mistero. Questo "punto di fuga" è in quell'originale e insopprimibile slancio in cui la natura urge la conoscenza di tutti i fattori dell'esperienza in cui l'uomo si desta. Questo soprattutto manca a tante definizioni della ragione, proprio perché non cercano la ragione nell'esperienza che l'uomo inevitabilmente fa. Di fronte alla totalità del reale la ragione è impotente a esaurirla; si apre così alla categoria che ne rappresenta il vertice espressivo: la possibilità. Nell'orizzonte della ragione emerge la mendicanza dell'io creato che il Mistero stesso si riveli. E' in questo che il cristiano partecipa alle lodi della ragione e all'uso di essa meglio di altri.

Senza questa apertura originale l'uomo diviene preda della posizione prevalente, cioè del potere, e da questo è trascinato a perdere il senso di se stesso. Così l'uomo contemporaneo si ribella al fatto che la misura di quello che fa sia qualcosa d'altro, crede schiavitù ciò che dall'esperienza sarebbe evidente: la realtà come segno di qualcos'altro. E anche l'indebolimento della capacità di influsso della Chiesa è dovuto al fatto che tanti cristiani non riconoscono più come virtù l'obbedienza alla dinamica del muoversi di Dio nella storia.

In questo Wojtyla è grande esempio: egli riafferma che il rimedio a questa dissoluzione dell'umano sta nel muoversi della nostra libertà come adesione a un fatto. Wojtyla ci ricorda che la fede è razionale e noi comprendiamo che è vero, perché sperimentiamo che essa fiorisce all'estremo limite della dinamica razionale come un fiore di grazia, cui l' uomo aderisce con la sua libertà. E la libertà dell'uomo è quella di raggiungere il senso di quello che fa o rifiuta.

Giovanni Paolo II è ben consapevole che una causa del distacco tra fede e ragione è il fatto che tanti cristiani non hanno più presentato agli uomini il valore esistenziale, vitale del cristianesimo, cioè la persona dell'ebreo Gesù di Nazareth, nato da una donna, che risorto rimane come presenza ogni giorno. Il Papa insiste nel dire che Dio "ci raggiunge in ciò che per noi è familiare e facile da verificare, perché costituisce il nostro contesto quotidiano".

Questo significa che la fede non è un fenomeno culturale, non è un sentimento, né una adesione a una certa corrente storica ("la fede non è come tale una filosofia"), ma è un incontro con una realtà umana, che dà alle esigenze originali dell'uomo una risoluzione molto più realistica e completa di umanità che neanche tutte le proposte alternative. E questa capacità di rispondere non è solo teoria, come un poema fatto sul testo della realtà, perché c'è un pezzo di umanità che l'ha vissuta: è tutta la storia del popolo ebraico. Un cristiano di adesso, se ha una fede viva e aperta, non può non riscoprire il disegno di Dio che col popolo d'Israele voleva entrare nel mondo universo, in quanto comunicativo di sé alla Sua creatura. Il cristianesimo si genera da questa cultura ebraica e storicamente cambia il contenuto profetico dell'anima, determinata da tutto il bisogno di salvezza dell'uomo: "Il Redentore dell'uomo, Gesù Cristo, è il centro del cosmo e della storia" (Redemptor hominis). Quanto mi ha colpito questa espressione del Papa all'inizio del suo pontificato! Sentirlo ridire queste cose per vent'anni, diventa, per un uomo che ha un cuore reale, entusiasmante.

Wojtyla è il papa che ha detto la verità sull'uomo con un ardore e una coerenza irriducibili. Questa è la sua forza: l'identità tra la sua esperienza di uomo e il fatto storico di Cristo. I suoi vent'anni di pontificato sono trascorsi come luci che si incrociano nella tenebra oscura, sotto un cielo di battaglia.