Biffi, Giacomo - Risorgimento, Stato laico e identità nazionale
- Fonte:
Casale M., 1999
Pagine: 78
Prezzo: € 7,75
Ricordo di aver letto del desiderio del clero statunitense di vedere anche qualche Vescovo entrare nell'arena della ricerca teologica e storica, non paludato, in questo caso, della armatura episcopale, ma equipaggiato con la propria Scienza, la cultura, lo studio e l'esperienza di un "semplice" uomo. Eccolo qui accontentato quel tal clero, anche se il fatto non avviene oltre Atlantico e non è poi cosa nuova per il Cardinale Arcivescovo di Bologna e pure noi ce ne rallegriamo. (...).
In effetti nell'agile e aureo libretto (anche se i colori di copertina sono il bianco, il rosso e il nero e vi vediamo con fervida fantasia quel che tali colori indicano, per molti, nell'Italia di oggi) G. Biffi entra nell'agone quanto mai difficile con quanto "fissato" da decenni, cioè con le interpretazioni ideologiche usuali, in una parola con il "problema della identità nazionale italiana".
Vi entra - come scrive - "con qualche sparsa osservazione: pensieri personali, e quindi largamente opinabili" (p. 7), ma munito di grande intuizione, acribia, profondità e moderata passione, e poi senza timori. È un po' il suo stile, capace di scompaginare le "schiere" ben sagomate di togati studiosi, di cultura che egli può ancora definire "dominante".
Nella prima parte, "Annotazioni storiche", l'A. si propone di "mettere in risalto qualche particolare aspetto degli eventi e qualche elemento di giudizio, che spesso non trovano spazio adeguato nelle presentazioni scolastiche e divulgative". Il taglio è dato.
L'anno iniziale, fatidico, è il 1796, "l'anno dell'ingresso nelle nostre regioni delle truppe guidate dal generale Bonaparte", "un'invasione di nuovo genere" (p. 10), che ci derubò delle nostre opere d'arte. Negli zaini di quei soldati entrarono in Italia anche gli "immortali principi" ("liberté, égalité, fraternité") e anche il "principio fecondo" che "ogni sovranità risiede essenzialmente nella nazione".
Ma da noi si poteva parlare di una nazione italiana? A togliere ogni perplessità il tema dell'unità d'Italia "cominciò a intrigare le menti, e l'ispirazione a conseguirla conquistò a poco a poco molti cuori" (p. 13), "disposato" a quello dell'indipendenza dell'Italia.
E poté prendere il via il processo "risorgimento" (ib), tra i primi e gli ultimi decenni dell'Ottocento. Esso porterà una nuova condizione nella penisola "che passa dal frazionamento all'unità statuale, dall'egemonia straniera all'indipendenza, da una pluralità di regimi monarchici, assolutisti, a preponderanza aristocratica, a un unico regime costituzionale a prevalente indirizzo liberal-bor-ghese" (p. 13), sotto la guida determinante della dinastia sabauda.
La stessa parola "risorgimento" indica ciò che vi sottostà, cioè una "valutazione globalmente negativa dello stato in cui in antecedenza si trovava l'Italia". Ebbene pur riconoscendo tutto quello che si deve riconoscere, intendiamo di verità nell'affermazione, (anzi il risorgimento è definito "provvidenziale": p. 16, v. anche p. 46s.) l'Autore giustamente s'impegna a chiarire che non si trattò di una "rinascita totalizzante: un passaggio degli italiani dalle tenebre alla luce, se non proprio dalla morte alla vita" (ib.).
Il "risorgimento" fu dunque anche culturale, morale e spirituale: Egli interroga al riguardo dapprima, lontano, Dostoevskj e poi il nostro Bacchelli, per giungere, con bellissima sintesi, ad illustrare la vitalità del Settecento italiano (p. 19ss.). Non faremo noi qui il giro delle Capitali europee, - per averne anche noi conferma - come fa il Cardinale, ma ne varrebbe proprio la pena. Il tocco finale è per la letteratura, con frecciata "all'attuale condizione di colonia culturale statunitense" (p. 23): siamo noi, oggi!
La conclusione: "Se c'è stato un "risorgere" è stato un "risorgere" relativo e parziale" (p. 23). "Anzi, l'unificazione statuale è stranamente coincisa con un certo calo della nostra connaturale creatività" (ib.).
È la premessa per "riesaminare con occhi disincantati ciò che è avvenuto", con cristallizzazione attorno alle seguenti scansioni: "unificazione o conquista (piemontese)?" (p. 24) - con prevalenza del giudizio di annessione -; "incomprensione della realtà cattolica" (p. 25s.)- "l'errore più grave... però è stato quello di aver sottovalutato il radicamento nell'animo italiano della fede cattolica e la sua quasi consostanzialità con l'identità nazionale": "è stato un dramma politico e sociale... ma soprattutto spirituale e morale. In tale modo si sono messe le premesse a una sorta di alienazione degli italiani" p. 25s.) -; "il potere temporale o la "libertas Ecclesiae"?" - il nocciolo del problema non stava nel potere temporale dei Papi -; "la Controriforma" - "un altro luogo comune è che le arretratezze d'Italia derivino dalla Controriforma": p. 27 -; "difetto di realismo"; "disorientamento morale del popolo italiano"; "la reazione spirituale e sociale della comunità cristiana" - con richiamo alle conseguenze positive della "Rerum Novarum" e dello stesso "Non expedit": p. 31 -; "intransigenti e moderati" - "l'"intransigentismo", pur nelle sue durezze, (ha) preservato il movimento cattolico dal pericolo di diventare unicamente il sostegno dell'ordine costituito, magari in funzione antisocialista. Certamente ha tenuto vivo il principio che per la reale indipendenza della Chiesa dallo stato è indispensabile un minimo di autonomia territoriale della Sede Apostolica". "I "concilitoristi", invece, hanno avuto il merito di stemperare... ogni atteggiamento legittimistico e... di ricordare che comunque i cattolici sono cittadini italiani a tutti gli effetti": p. 31s. - e "il nuovo prestigio d'Italia" - "Ormai la rilevanza universale dell'Italia è affidata più che altro alla presenza nella nostra terra della Sede Apostolica"; p. 32 -.
La seconda Parte, "Riflessioni sul tema", guarda all'oggi, tenendo in conto le "annotazioni storiche" precedenti, perché "l'attualità italiana ci interpella con alcune questioni circa la "nazione" e lo "stato" che non è possibile eludere" (p. .34).
Anzitutto, dopo l'"explicatio terminorum", una affermazione: "che esista una "nazione italiana", non credo sia possibile dubitare. Troppi elementi - attivi da quasi un millennio - hanno concorso a far emergere tra noi una inconfondibile identità nazionale" (p. 36). La prova "princeps" - ed è oltremodo significativo - l'A. la trae dalla... letteratura, in tre pagine bellissime, che sfociano in una constatazione: "Pur cresciuti e formati in contesti molto differenti, tutti questi autori hanno limpida e certa consapevolezza di appartenere alla stessa famiglia letteraria e di scrivere per lo stesso popolo" (p. 38).
"Un discorso analogo può essere fatto per ciò che concerne le arti figurative e la musica" (ib.). Si tratta di cultura, dunque!
La conferma, anche in questo caso, viene da lontano, da un altro russo, il grande Solovëv (p. 38-41), con bellissima pagina "italiana".
Dall'ampia visione risulta, per l'A., "quanto sia esiziale... e quanto ingiustificabile il ravvisare la nostra identità nazionale soltanto come frutto di ciò che è avvenuto nel sec. XIX" (p. 43). Il pensiero qui si dilata bene fino all'"inculturazione italiana della fede cattolica", per cui "l'elemento più potente di aggregazione delle varie genti della penisola è stato il comune possesso della fede cristiana... a partire dalla fine del secolo IV" (p. 44).
Così "le istituzioni che più hanno onorato le nostre città (università, ospedali, monti di pegno, opere di solidarietà sociale, ecc.) nascono tra noi dalla parola di Cristo" (p. 45). Così la "Chiesa Cattolica... entra anch'essa a far parte degli elementi imprescindibili che configurano la nostra specificità nazionale" (p. 46).
Successivamente l'A. menziona tre "guadagni provvidenziali" del Risorgimento e cioè l'indipendenza nazionale, l'unità politica, statuale (che "può essere attuata e gestita in vario modo... ma non può essere rinnegata o rimessa in discussione": p. 48) e la scomparsa del "potere temporale" pontificio, pur con la nascita, nella Conciliazione del 1929, - "che è riuscita a superare i contrapposti intransigentismi ottocenteschi" - dello Stato della Città del Vaticano.
Nel cordiale rispetto della identità italiana, quali sono quindi le auspicabili caratteristiche del nostro stato? L'A. risponde guidato dalla parola del compianto Cardinale Giovanni Colombo: stato sanamente laico, democratico, sociale. E la libertà della fede è proprio "il fondamento della laicità", "poiché la coscienza di ogni uomo respira nella libertà" (p. 51). Così lo stato moderno non può essere "confessionale" in nessun senso, non in senso religioso, o materialistico e ateo, e nemmeno in senso laicistico ("d'ispirazione immanentistica e illuministica, che nega i valori trascendentali o li confina nel segreto della coscienza individuale" (p. 52).
Le conseguenze sono evidenti e toccano tutti e la comunità cristiana avrà quindi piena libertà di vita e di azione, tenendo presente che "il cattolicesimo (è) religione storica e patrimonio culturale dell'Italia" (p. 55).
Per le ottime considerazioni su "Immigrazione e identità culturale italiana" basti ricordare che "ai forestieri si fa spazio non demolendo la nostra casa (nella sua tipicità), ma ampliandola e rendendola ospitale sì, ma nel rispetto della sua originaria architettura e della sua primitiva bellezza" (p. 57).
Nella conclusione il Cardinale Biffi invita a fare alcune fondamentali distinzioni, quelle tra "nazione" e "stato" ("chiediamo che lo "stato" lasci vivere e respirare di più la "nazione"... in virtù del principio di sussidiarietà": p. 59) e tra "laicità dello stato" e "cultura laicista".
"In terzo luogo va detto che è una singolare visione della democrazia il far coincidere il rispetto degli individui e delle minoranze con il non rispetto delle maggioranze e l'eliminazione di ciò che è acquisito e tradizionale in una comunità umana" (ib.). E l'A. applica bene, al concreto. È l'oggi in cui viviamo: "lo stato non potrà pertanto assumere un atteggiamento di indifferenza e disinteresse nei confronti della ricchezza spirituale precipua della nazione. Al contrario dovrà contribuire, nei limiti delle sue competenze, alla salvaguardia dell'anima antica e sempre viva del popolo italiano" (p. 60).
Ma non è tutto. Felice è stata infatti l'idea di concludere il volumetto con "L'Europa unita: un'incognita e una speranza", il pensiero cioè di vedere l'Italia nostra nel suo contesto europeo. È il discorso pronunciato dall'A. a Subiaco, in occasione dell'assegnazione del "Premio S. Benedetto 1998", a lui conferito.
"Questo piccolo subcontinente, (l'Europa) gratificato da un'agiatezza senza precedenti nelle epoche passate, spiritualmente svigorito e demograficamente in declino, circondato da un'umanità miserevole e straripante che si accalca ai confini... (ha) un disegno affascinante: fare di quest'antica e varia regione della terra l'esempio e il modello di una convivenza sociale e politica, dove stirpi e culture diverse finalmente pacificate, si integrino in modo da assicurare a tutti un'esistenza prospera e degna" (p. 65s.).
Con sintesi anche qui magistrale l'A. mostra che la "lezione è antica" (risale cioè al Natale dell'ottocento, a Papa Leone III, all'universalismo della Chiesa Cattolica, "nella latitanza di fatto del "basileus" costantinopolitano" di quel tempo).
L'esperienza certo del "Sacro Romano Impero" non può essere ripetuta, "nemmeno in maniera lontanamente analogica", l'Europa ha infatti conosciuto lacerazioni spirituali (si pensi "alla Riforma protestante e allo strappo della Chiesa anglicana"). E la "rivoluzione culturale illuministica... ha scavato un solco praticamente incolmabile tra la visione del mondo dei credenti e quella dei non credenti. (Ma) senza dubbio si può e si deve auspicare che queste divisioni non si esasperino e non impediscano le giuste collaborazioni, purché il risultato... non sia alla fine il prevalere dello scetticismo e della totale scristianizzazione" (p. 67s.).
Si tratta dunque di "ricercare quanto, dell'eredità umanistica e cristiana che è retaggio comune dei nostri popoli, possa essere proposto come un livello minimo di comune filosofia operativa e quasi un'ideale comproprietà morale di tutte le coscienze europee" (p. 68).
A questo fine il Cardinale Biffi propone cinque principi universalmente accettabili, "come temi ispiratori propri e caratterizzanti dell'essere e dell'agire della ""res publica" europea" (p. 68), i principi del primato dell'uomo, della solidarietà e della sussidiarietà, della laicità dello stato e della libertà effettiva delle persone e delle aggregazioni.
L'accettazione leale di tali principi darà all'Europa quell'"anima" che le è indispensabile, pur nell'accoglienza, "non a caso ma secondo un disegno", di "genti di lontana provenienza etnica e culturale, purché col rifiuto delle sopraddette regole fondamentali non costituiscano un corpo estraneo in questo nascente organismo" (p. 73).
Ad esso i cristiani daranno il loro apporto specifico, anzi vi saranno tanto più utili quanto più resteranno se stessi, rispondendo - specifica il Signor Cardinale - al relativismo scettico con la forza intrinseca della verità e all'eclisse della ragione con l'intelligenza illuminata dalla fede.
"Nel campo più specificamente etico e comportamentale, il mondo cattolico è (poi) chiamato a tener deste... le antiche verità esistenziali insegnateci dal Vangelo, circa l'istituto del matrimonio, la realtà fondamentale della famiglia, il principio della sacralità e della intangibilità della vita umana innocente".
La conclusione rinvia ciascuno di noi alle proprie responsabilità: "Appunto impegnandoci lucidamente e coraggiosamente su questi temi potremo offrire il nostro più prezioso contributo di discepoli del Signore risorto per la sopravvivenza spirituale e morale del continente" (p. 74).
Agostino Marchetto
Tratto da L'OSSERVATORE ROMANO
10 giugno 1999