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Il mio giudizio in questi tempi di #Coronavirus

Fonte:
CulturaCattolica.it
In questi giorni, nella mia Diocesi, siamo stati invitati a riflettere su queste domande, in occasione di un incontro sacerdotale di giudizio sulla situazione determinata dalla «pandemia»: Gli interventi saranno liberi, tuttavia, ci può aiutare questa traccia:
- commentare un’immagine di questi mesi che portiamo nella mente e nel cuore;
- raccontarci come abbiamo potuto stare vicini al nostro popolo;
- confidarci prospettive, idee per il futuro e tutto quello che ci suggerisce la nostra fraternità.

Questa la mia riflessione:

1. Il segno più bello in questo tempo è stato questo intervento di un mio confratello: «Lo sappiate o no, sono vivo per miracolo, sono qui perché il Signore vuole che continui a vivere. Ho provato cosa significa non farcela più, sono entrato in quella che Scola chiama l’ombra della morte, con la tentazione fortissima di lasciarmi morire, di dire basta non ce la faccio più. Sono qui perché è venuta su dal profondo del mio essere a un certo punto la memoria di quello che ho vissuto, di quello che stavo vivendo, della vita bella che il Signore mi ha fatto incontrare. E questo è diventato un grido, un grido a Lui perché non mi lasciasse nella tentazione di finire. È stato drammatico in quei giorni questo grido che è stato sostenuto da un sacco di persone che mi facevano giungere la loro amicizia: tutta la mia gente pregava per me, più di cento famiglie si trovavano la sera per dire il rosario, i bambini del catechismo, le giovani coppie, mi mandavano messaggi che io mi facevo leggere dal mio compagno di stanza perché non riuscivo neanche a leggere.
Ma questo ha colto in me il desiderio “Gesù fammi continuare, fammi continuare a vivere la vita che mi hai fatto incontrare”. Se non avessi incontrato questa vita le teorie che la vita è dono di Dio, che non si può buttar via, eccetera, non mi sarebbero bastate, perché in quei momenti lì o uno incontra o fa memoria di una positività oppure il sapere delle cose non gli basta. Fammi continuare a vivere questa vita che ho sentito come “la” Vita, con la V maiuscola
Insieme a questo desiderio, proprio a renderlo più forte, c’è stato proprio il desiderio di tornare a vivere un rapporto con Gesù. Io voglio ritornare a vivere perché non voglio più vivere come prima, voglio vivere meglio con Te, voglio essere più fedele, e allora è come dirgli dammi un’altra possibilità, dammi un’altra possibilità perché la mia vita non finisca in questo modo.»

2. L’amore alla Chiesa, alla Libertas Ecclesiae, mi pare l’aspetto che mi ha maggiormente colpito in questi tempi. E la lettura (facilitata da questo tempo aumentato per la clausura forzata) di uno straordinario testo di Hugo Rahner, Cristianesimo e politica nella Chiesa primitiva, è stata l’occasione per riflettere su quanto stava accadendo. In particolare mi ha colpito il Comunicato della CEI (1) che prendeva le distanze da quanto l’On. Conte aveva affermato nella sua Conferenza stampa. Il portavoce della CEI parlava di un vulnus alla libertà della Chiesa. Il giorno dopo Avvenire dava voce a moltissimi Vescovi (2) che esprimevano il loro dissenso rispetto all’operato del Governo. Ma dopo la nota del Card. Bassetti (3), che ringraziava persino il Comitato Tecnico Scientifico per il lavoro svolto, e che sottoscriveva un Accordo che regolamentava addirittura il modo di amministrare l’Unzione degli Infermi, il silenzio che ne è seguito da parte degli stessi presuli mi ha fatto venire in mente una immagine tetra che lessi tempo fa su un bel libro di Eugenio Corti (4). Coerenza e coraggio mi sembrano i fattori più necessari, in questo periodo di confusione, e una paternità che sappia riconoscere la fatica di tanti credenti, che magari sono su posizioni differenti, e che è ora di smettere di accusare di fariseismo, durezza, schematismo.

3. L’altra immagine che mi ha colpito è stato il Papa che saliva da solo verso San Pietro, e sia per il rimando alla profezia di Fatima (L’uomo vestito di bianco…) sia per il dolore di vedere la solitudine della Chiesa, non un popolo, ma un singolo mi hanno interrogato e preoccupato. Una Chiesa di popolo, e non la solitudine di un pastore, spettacolarizzata certo, ma inadeguata a motivare la speranza di un cambiamento.

4. La terza immagine, che in modo ancora grave, mi ha ferito, è stato l’Atto di Affidamento a Maria, propagandato come in diretta e invece trasmesso in differita. Non siamo poveracci che si possono ingannare senza problemi. La verità – e non l’apparenza – ci farà liberi.

5. In positivo mi è rimasta nel cuore l’immagine di don Lino Viola, un sacerdote ottantenne, che ha voluto celebrare la Messa accettando in chiesa sei [6] fedeli che pregavano per i loro cari defunti morti per il Virus, e che, di fronte ai carabinieri che gli intimavano, saliti sull’altare, di terminare la s. Messa, ha proseguito nella celebrazione, senza cedere a una evidente intromissione indebita del potere nella vita della Chiesa e in seguito ha compiuto un atto di riparazione (5). E non mi pare sufficiente affermare che tale divieto gli era stato intimato in precedenza.

6. L’altra immagine, che poi è stata purtroppo ridimensionata, se non smentita, è stata di quel sacerdote che ha rinunciato al presidio medico che lo avrebbe tenuto per un po’ di tempo in vita a favore di un ammalato più giovane. La smentita mi è giunta nello stesso giorno, da chi era stato testimone diretto. Questo però ha messo in evidenza, oltre al pericolo delle fake news, il desiderio di bene presente in un popolo così ferito dalla gravità della situazione.

7. Le s. Messe e gli articoli, il dialogo con le autorità, un certo modo di incontrare alcune persone, nel complesso impaurite dalla situazione. Abbiamo fatto nelle nostre parrocchie il pellegrinaggio con il Crocifisso miracoloso, e mi ha commosso la partecipazione «a distanza» del popolo.

8. La riflessione sul «cambiamento d’epoca» chiede una particolare attenzione: se ritengo che fino all’epidemia quanto accaduto non era altro che la realizzazione compiuta del cosiddetto «processo dell’Illuminismo», e che i più saggi e acuti lettori del secolo scorso, come pure i pontefici straordinari che il Signore ci ha concesso, avevano saputo leggere con acutezza e preveggenza, quanto accaduto con questa pandemia mi pare una autentica novità. La paura della morte, dell’altro, così espressa dal «distanziamento sociale», l’impossibilità a partecipare ai sacramenti, fino all’abolizione dell’obbligo di partecipare alla s. Messa per soddisfare il precetto festivo, il suggerimento della sufficienza di ogni luogo per pregare (persino il bagno) accettato acriticamente anche da autorevoli personaggi, l’intolleranza nei confronti di chi manifesta un disagio per le forme modificate della liturgia, intolleranza che arriva alla offesa e ad accuse a dir poco malevole, come se si trattasse di presunzione, fariseismo (il cardinale emerito di Palermo è arrivato a paragonare chi chiedeva l’apertura delle chiese per la s. Messa a coloro che volevano lapidare la donna adultera)… Sembra che la presunzione di innocenza sia solo nei confronti di chi è pronto a cambiare tutto, mentre se qualcuno chiede il rispetto – seguendo la propria coscienza – di norme consolidate, viene prontamente accusato, perché si afferma che la sua intenzione è negativa e intollerante. Ma qui mi pare che l’intolleranza sia da un’altra parte. Tutto questo chiede alla Chiesa una maternità e una intelligenza non comuni, affidandoci un compito che solo chi ha la fede certa nel Signore potrà svolgere. Si apre qui il cammino di una testimonianza capace di guidare il popolo alla comprensione della fede come novità autentica di vita, in un contesto di comunicazione di una potenza e avversità straordinarie. La formula a me tanto cara della fede che diventa cultura indica un cammino che ci deve trovare attrezzati. E soprattutto uniti, e qui il problema si fa, a mio avviso, grave ed urgente, perché sembra che il principio della unità sia evaporato nelle nostre coscienze. La polarizzazione tra cosiddetti tradizionalisti e progressisti impedisce un cammino autentico di comunione e di costruzione. La incidenza nel leggere la situazione di un criterio «politico», di schieramento, non favorisce quel compito della Chiesa che s. Giovanni Paolo II diceva di essere forza trainante della società. Dobbiamo sapere leggere, nella drammaticità dell’ora presente, quel kairos e quella responsabilità che il Signore ci ha affidato e di cui dovremo rendere conto.
Questo atteggiamento mi pare bene espresso da Papa Benedetto in queste parole: «Sono giunto alla ragione positiva che mi ha motivato ad aggiornare mediante questo Motu Proprio quello del 1988. Si tratta di giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa. Guardando al passato, alle divisioni che nel corso dei secoli hanno lacerato il Corpo di Cristo, si ha continuamente l'impressione che, in momenti critici in cui la divisione stava nascendo, non è stato fatto il sufficiente da parte dei responsabili della Chiesa per conservare o conquistare la riconciliazione e l'unità; si ha l'impressione che le omissioni nella Chiesa abbiano avuto una loro parte di colpa nel fatto che queste divisioni si siano potute consolidare. Questo sguardo al passato oggi ci impone un obbligo: fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell'unità, sia reso possibile di restare in quest'unità o di ritrovarla nuovamente.»
(Lettera di Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo per presentare il motu proprio sull'uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970)



NOTE

1) «Già nei prossimi giorni si studierà un protocollo che consenta quanto prima la partecipazione dei fedeli alle celebrazioni liturgiche in condizioni di massima sicurezza».

Il giorno dopo nessuna ulteriore dichiarazione è stata fatta da parte dei vertici della Conferenza episcopale italiana. Di sicuro l’errore scaturito dal confronto tra autorità di governo e “tecnici” non è stato giudicato di poco conto. E lo si evince sia dai tempi della reazione della Cei (Avvenire pubblica integralmente il testo della nota), sia dai toni usati, ad esempio laddove si dice esplicitamente che «il decreto della Presidenza del Consiglio dei ministri varato questa sera (domenica sera, ndr) esclude arbitrariamente la possibilità di celebrare la Messa con il popolo» e si sottolinea la «pienezza di autonomia della Chiesa» nell’«organizzare la vita della comunità cristiana», pur «nel rispetto delle misure disposte».

Un’impostazione, questa, che trova riscontro anche nelle dichiarazioni rilasciate a un’agenzia di stampa dal presidente emerito della Corte costituzionale, Cesare Mirabelli, secondo il quale «lo Stato è andato oltre». E in che senso ciò sia avvenuto il costituzionalista lo spiega così: «C’è da chiedersi - aggiunge infatti - se è davvero incompatibile l’attività di esercizio del culto con la salute. O piuttosto non debbano essere individuate le modalità a garanzia della salute.» (Avvenire, 28 aprile 2020)

2) Delusione, amarezza, disappunto. Il “no” alle Messe a porte aperte che il premier Giuseppe Conte ha annunciato domenica sera è stato accolto come uno smacco nelle diocesi, nelle parrocchie, nelle associazioni o movimenti. E le voci che si levano dal basso sono di energica critica al Governo e di pieno sostegno alla linea della Cei. Occorre «poter riprendere l’azione pastorale e l’attività di culto nel rispetto delle misure necessarie per il controllo del contagio, ma nella pienezza della propria autonomia», sottolineano in una nota i vescovi della Toscana. E, assieme ai pastori della regione, il cardinale arcivescovo di Firenze, Giuseppe Betori, denuncia in un videomessaggio: «Le ragioni economiche, culturali e sociali, in base alle quali vengono o verranno presto riaperti fabbriche, negozi e musei, parchi, ville e giardini pubblici, non possono avere una prevalenza rispetto all’esercizio della libertà religiosa, che è tra i principi fondamentali della Costituzione e definita dal Concordato tra Stato e Chiesa». Aggiunge l’arcivescovo di Siena-Colle di Val d’Elsa-Montalcino, Augusto Paolo Lojudice: «Mi auguro si possa trovare una soluzione. Del resto la questione è nata male con il primo Decreto dove si è parlato genericamente di “cerimonie”. Come se la vita della Chiesa fosse una cerimonia».

Anche i vescovi della Sicilia esprimono il loro rammarico. E, scrivono in una nota, «interpreti del sentimento del clero e dei fedeli che desiderano la ripresa graduale della vita liturgica», auspicano che «in tempi brevi il governo riavvii la trattativa» con la Cei perché «sembra non comprendersi che l’attività solidale delle organizzazioni cattoliche nasce da una fede che deve attingere a una sorgente così fondamentale come la vita sacramentale». Il vescovo di Mazara del Vallo, Domenico Mogavero, definisce la decisione dell’Esecutivo una «una pagina buia» e la considera «inaccettabile» dal momento che all’origine «c’è la considerazione molto grave che l’aspetto religioso sia completamente accessorio da potere essere messo in coda a tutto».

L’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, punzecchia con la sua consueta ironia: «Certo, si può seguire la Messa in televisione ma nessuno si può scaldare con la foto di un caminetto. Mi adeguo alle regole ma non riesco a capire perché siano ancora vietate le celebrazioni». Il patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, osserva che «è in gioco la visione dell’uomo nella sua integralità, quindi anche nella sua dimensione spirituale» e le liturgie “pubbliche” non sono un «privilegio». L’arcivescovo di Taranto, Filippo Santoro, si dice fiducioso di «una revisione», mentre il vescovo di Terni-Narni-Amelia, Giuseppe Piemontese, ammette che il provvedimento gli ha procurato «grandissima amarezza per una limitazione che leggo come un abuso».

Il vescovo di Piacenza-Bobbio, Gianni Ambrosio, propone che «almeno ripartano le Messe feriali», mentre l’arcivescovo di Modena-Nonantola, Erio Castellucci, ricorda in una lettera indirizzata ai sindaci che «la Chiesa non è una ong» e che c’è «la necessita di immaginare ed elaborare liberamente l’attività pastorale» che comporta «poter gradualmente tornare a celebrare con il popolo». In un videomessaggio il vescovo di Ascoli Piceno, Giovanni D’Ercole, parla di «doccia fredda», sostiene che «la Chiesa non è il luogo dei contagi» e poi usa parole molte dure che hanno suscitato reazioni di segno opposto. L’ordinario militare Santo Marcianò fa sapere che «senza l’Eucaristia non possiamo vivere» e «non si può “viralizzare”, ossia vivere online» il sacramento. L’arcivescovo Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la vita, offre alcuni suggerimenti come quello di «togliere tutti i banchi in chiesa e mettere le sedie», il «numero chiuso di fedeli», la distribuzione della Comunione con «il sacerdote che passa», l’uso di «ostie grandi per evitare il contatto fra prete e fedele». (Avvenire, 28 aprile 2020)
«Se i cittadini possono tornare a correre nei parchi, sarebbe giusto e legittimo che avessero la piena possibilità di confrontarsi con i valori dello Spirito nelle sedi in cui ciò avviene». Il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, chiede di «riportare le persone davanti agli altari» che «vuol dire garantire il rispetto di una fede che deve potersi nutrire delle proprie sorgenti», spiega a La Nazione. (Avvenire, 29 aprile 2020)
3) «“Esprimo la soddisfazione mia, dei vescovi e, più in generale, della comunità ecclesiale per essere arrivati a condividere le linee di un accordo, che consentirà – nelle prossime settimane, sulla base dell’evoluzione della curva epidemiologica – di riprendere la celebrazione delle Messe con il popolo”.

Così il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Cardinale Gualtiero Bassetti, commenta la definizione di un Protocollo di massima, relativo alla graduale ripresa delle celebrazioni liturgiche.

“Il mio ringraziamento va al Presidente del Consiglio dei Ministri – aggiunge – con cui in queste settimane c’è stata un’interlocuzione continua e proficua. Questo clima ha portato un paio di giorni fa a definire le modalità delle celebrazioni delle Esequie, grazie soprattutto alla disponibilità e alla collaborazione del Ministro dell’Interno e del Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione”.

Nel contempo, “un pensiero di sincera gratitudine mi sento in dovere di esprimerlo al Ministro della Salute e all’intero Comitato tecnico-scientifico – prosegue il Cardinale Bassetti -: questa tempesta, inedita e drammatica, ha posto sulle loro spalle un carico enorme in termini di responsabilità”.» (CEINews, 2 maggio 2020)

4) II fatto [si tratta della morte di Stalin e dei momenti che l’hanno preceduta] si svolse con tratti cupi e inquietanti degni dei regicidi di Shakespeare e della filmografia proto-zarista di Eisenstein. La morte fisica di Stalin fu affrettata da uno scontro politico e dalla furia che di lui si impadronì alle ore 21.50 di giovedl 5 marzo 1953. “II complotto dei medici terroristi come Vovsi, Vinogradov, Egorov, Feldman, Ettinger, Grinstein, Majorov e Kogan, prontamente già arrestati, rende necessaria l’immediata deportazione in massa di elementi ebraici in Asia centrale e nella regione del Birobidzan”, aveva esordito Stalin in una riunione del Politburo negli uffici del Cremlino. Il maresciallo Kliment Voroscilov che notoriamente amava, riamato, l’ebrea Ekaterina, cavò d’impeto di tasca la tessera del partito bolscevico e la gettò platealmente sul tavolo. “L’espulsione degli ebrei viola l’onore del partito di Lenin. Io non intendo, neppure per un momento ancora, appartenere a un’organizzazione che si macchi di un orrore così grande”, urlò Voroscilov. «A Stalin, in tal modo contraddetto, montò letteralmente il sangue alla testa: fece uno sforzo per controllarsi. “Compagno Kliment, sono io a decidere quando non potrai più tenere quella tessera”, sibilò. E crollò di schianto sul pavimento. Medici importanti come gli arrestati non ve n’erano a disposizione e vennero perduti (o consapevolmente attesi), vari minuti preziosi prima di gettare l’allarme. Accadde l’incredibile. Lavrentij Berija, responsabile del Kgb, la polizia politica, iniziò un balletto attorno al corpo esanime, gridando: “Siamo liberi. Finalmente, finalmente. Compagni il tiranno è morto, possiamo respirare”. Gli altri presenti, impietriti dal terrore, rimasero inerti al loro posto. Nessuno osò toccare il corpo di Stalin che rimase a terra. Improvvisamente, inopinatamente, gli si aprì un occhio e poi l’altro. Si alzò per poco un braccio. Berija, allora, si buttò sul corpo del caduto. Gli abbracciò le ginocchia. Istericamente, disse: “Perdono, padre, perdono”.»

5) GALLIGNANO (26 aprile 2020) - Don Lino Viola, questa mattina durante la messa delle 10 nella parrocchia di Gallignano, ha indetto una «supplica di riparazione» in seguito all'interruzione della messa da parte dei carabinieri che gli avevano contestato una violazione del DPCM in materia di emergenza sanitaria. Il don per «riparare al gesto sacrilego commesso domenica 19 aprile contro la casa di Dio» ha chiesto ai suoi parrocchiani di digiunare nella giornata di giovedì 30 aprile. I viveri raccolti nella parrocchiale verranno donati alla Caritas zonale. [https://www.laprovinciacr.it/news/cronaca/248197/don-lino-gesto-sacrilego-contro-la-casa-di-dio-digiunate-con-me.html]

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