Lasciate ogni speranza terapeutica, o voi ch’intrate!
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Appena il giorno dopo la mia riflessione (QUI) sul messaggio del Papa alla “World Medical Association”, arriva l’articolo di Francesco D’Agostino (QUI) a confermare i miei timori ed avallare le mie conclusioni.
In sostanza, parafrasando la teologia morale, possiamo definire la posizione di D’Agostino come bio-etica della situazione. Alcune frasi di D’Agostino sono sintomatiche:
se la dottrina della Chiesa in tema di accanimento terapeutico non è mutata negli ultimi decenni, anzi è stata costantemente riaffermata, è mutata però la lettura che ne è stata data.
Il solito sofistico e modernistico giro di parole per ingannare i gonzi. La frase di D’Agostino, vero tripudio del principio di contraddizione, va letta così: la dottrina è la stessa, ma oggi ci insegna una cosa diversa! Questo perché il mondo è cambiato e con esso la lettura del Magistero. Siamo in pieno storicismo modernista:
Non c’è alcuna ragione per pensare che la dottrina della Chiesa sui temi del fine vita debba cambiare (o che sia già cambiata): è il contesto in cui essa opera che cambia incessantemente e vorticosamente e richiede che ci si interroghi con onestà intellettuale «su cosa maggiormente promuova il bene comune nelle situazioni concrete» di oggi.
Vediamo come cambia la lettura per il presidente dei Giuristi cattolici (sic):
Il “no” all’accanimento terapeutico, nonostante le parole chiare che anche su queste colonne sono state spese soprattutto in questo già lungo avvio di secolo, è stato oggetto da parte di sin troppi avversari e purtroppo di non pochi sostenitori di interpretazioni sempre più restrittive e a volte talmente riduttive, da trasformarlo in un’esortazione, non priva di ragioni ma tutto sommato banale, ad aiutare i morenti a morire in pace, supportati da doverose cure compassionevoli.
Insomma, per D’Agostino, è ragionevole aiutare i morenti a morire in pace, supportati da doverose cure compassionevoli, ma banale e riduttivo. Come slanciarsi, allora, nel futuro? Come non essere riduttivi? Naturalmente, la risposta non può essere che l’ampliamento del concetto di accanimento terapeutico:
Questo “no” si sostanzia in una ferma denuncia dell’illiceità bioetica di interventi medici (ancorché motivati da generose intenzioni) che si rivelassero nel caso concreto sproporzionati, futili, indebitamente invasivi, irragionevoli, irrispettosi dell’esplicita volontà del malato correttamente informato, e tali, in sintesi, «da produrre potenti effetti sul corpo», non giovevoli però «al bene integrale della persona».
Che gli interventi medici futili, indebitamente invasivi, irragionevoli, irrispettosi dell’esplicita volontà del malato correttamente informato siano accanimento terapeutico non fa una piega, ma non spiega affatto la sintesi dagostiniana del produrre effetti potenti sul corpo ma non sulla persona. Infatti, come potrebbe un intervento futile produrre un effetto potente sul corpo? Potente, ma dannoso per il bene integrale della persona? Come è possibile? Avanzo un’ipotesi, gentilmente offertami da un caro amico, valente teologo:
Potenti effetti sul corpo, non giovevoli però «al bene integrale della persona presupporrebbero un’antropologia dualista, di origine platonico-indiano-gnostica, secondo la quale il corpo non appartiene sostanzialmente alla persona per costituire ontologicamente e sostanzialmente la persona, come unico soggetto, ossia corpo vivente, animato da un’anima spirituale, ovvero un unico ente sussistente composto di anima e corpo, ma il corpo è un soggetto vivente a sè stante, distinto dalla persona intesa come soggetto spirituale autocosciente (Cartesio).
In questa concezione l’uomo è la “persona” in quel senso, e il corpo è una proprietà estrinseca dell’uomo, già completo senza il corpo, è un oggetto esterno, accidentale e passeggero, appartenente alla persona come un “vestito” (è il paragone indiano).
Quindi la persona, non essendo ontologicamente, seppur parzialmente, ma essenzialmente connessa al suo corpo, in quanto essa è spirito libero, signore del suo corpo materiale, non è legata o vincolata a leggi morali che siano fondate sulla vita fisica, caduca ed accidentale, ma ha piena libertà di plasmare la materia corporea, di farla vivere o morire, come le aggrada, perché l’uomo è la persona e non il corpo. Questa è l’etica di Rahner. Questa è l’etica dell’idealismo e del soggettivismo, del “primato della coscienza”, del quale parla Sosa, il papa nero dei Gesuiti.
Qui la legge morale non è ricavata dall’esperienza della realtà esterna, ma, come insegna Kant, giace a priori nella coscienza, per cui l’ambito della morale sta solo nell’orizzonte e nell’autonomia della libera interiorità della coscienza, che non si regola su di una realtà oggettiva esterna e quindi, in ultima analisi, su Dio, ma solo su se stessa: l’autocoscienza nella sua libertà. Qui il soggetto, come autocoscienza, plasma liberamente il mondo materiale della corporeità come libera creazione dell’io innalzato a Dio.
Tutto ciò può dar l’apparenza di un grande spiritualismo, anche perché in esso Dio è aprioricamente immanente alla coscienza. Ma ecco il colpo di scena: l’etica idealista-panteista si capovolge in etica materialista-atea. E’ l’operazione che ha fatto Marx. Come è potuta accadere? Per il fatto che l’etica idealista, se ci facciamo attenzione, è già criptomaterialista.
Infatti, mentre la prima suggerisce immediatamente, come dice il Papa, un’”egolatria” e quindi un’autostima, un’arroganza ed un liberalismo sfrenati, sotto le apparenze della libertà della coscienza e della dignità della persona, come orizzonte del divino, la seconda, ossia il populismo e il misericordismo sociali marxisti, chiusi nei bisogni puramente materiali e refrattari alla Trascendenza, sono il rovescio della medaglia del soggettivismo idealista. Così nel marxismo non è, come nell’idealismo, lo spirito che pone la materia, ma è la materia divina che si innalza a spirito e detta legge alla materia.
Ma il risultato etico è lo stesso. In entrambi i casi l’uomo - o come singolo nell’idealismo o come collettività nel marxismo - si ritiene padrone della vita e della morte. In entrambi i casi abbiamo il rifiuto della legge morale naturale, che regola la vita fisica dell’uomo: nel primo, perché lo spirito umano, essendo divino, domina la materia; nel secondo, perché l’uomo è materia divina, che si innalza e si pone al posto di Dio. Da qui la liceità dell’eutanasia in entrambi i casi.
Niente di nuovo sotto il sole, ma solo vecchi errori spacciati per novità allo scopo di modificare l’insegnamento del Magistero con la scusa della nuova lettura. Come se il problema nelle corsie degli ospedali, soprattutto belgi ed olandesi, fosse una strage di persone per accanimento terapeutico e non per l’eutanasia!
Qual è l’obiettivo di tutta questa tirata avveniristica? Leggiamo D’Agostino:
Esortando tutti ad affrontare «con pacatezza e in modo serio e riflessivo» tematiche bioetiche come quelle del fine vita e insistendo sul dovere dello Stato a tutelare tutti i soggetti coinvolti e in particolare i più deboli, quelli «che non possono far valere da soli i propri interessi», il Papa insiste nel sottolineare quanto sia importante, anche in una prospettiva de iure condendo, creare «un clima di reciproco ascolto e accoglienza », tenendo conto della «diversità delle visioni del mondo, delle convinzioni etiche e delle appartenenze religiose».
Il che equivale ad un appello perché si abbandoni quella che chiamerei un’indebita ‘bioetica difensiva’, che si rivela troppo pigra nella ricerca di quelle risposte nuove, che sono imposte dal nuovo che avanza.
Abbandonare “un’indebita ‘bioetica difensiva’, che si rivela troppo pigra nella ricerca di quelle risposte nuove, che sono imposte dal nuovo che avanza” per abbandonare la difesa dei principi non negoziabili, divenuti ormai un guscio vuoto ed essere liberi di approntare la nuova legge sul testamento biologico, sul fine-vita, in discussione al Parlamento.
Per concludere la chicca finale di D’Agostino:
[…] quanto numerosi e complessi sono i fattori da valutare per stabilire se una determinata pratica realizzi o no una forma di accanimento. Queste difficoltà non si possono risolvere però dando un indebito spazio a quella categoria, pur nobile, ma ingenua, che definirei la “speranza terapeutica”;
Quando la legge sarà varata, collocheranno la seguente scritta sull’ingresso degli ospedali:
LASCIATE OGNI SPERANZA TERAPEUTICA, O VOI CH’INTRATE!
Buona eutanasia a tutti e per tutti!
Andrea Mondinelli