Essere italiani, essere cittadini. L’errore dello “ius soli”
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Quando diventi nonno ti rendi conto di essere in cima a una collina: da una parte vedi le generazioni di figli e nipoti; dall’altra parte vedi il ricordo ampio e intenso dei tuoi genitori, e molte cose anche sui tuoi nonni. I tuoi nipoti possono conoscere i tuoi nonni solo attraverso di te.
Quanto tempo occorre per formare un italiano? Più o meno lo spazio che si vede dalla collina: 4 generazioni. Sintetizzando in una formula “occorre che i formatori del bambino abbiano la propria memoria tutta in Italia”. Vi sembra troppo? Partiamo con un esempio.
Anni fa venne a San Martino in Rio un prete del Madagascar. Aveva studiato in Italia, era un prete occidentalizzato. Se però doveva celebrare un funerale aveva paura: paura di non so che spiriti che vagherebbero nelle vicinanze del morto. Questa impostazione atavica non poteva essere scossa dall’occidentalizzazione, e nemmeno dall’aver studiato da prete cattolico.
Una persona arriva in Italia col suo bagaglio culturale, radici intense e profonde formate nei secoli. Se gli nasce un figlio in Italia, gli trasmetterà certamente la sua impostazione culturale fin dai primi istanti di vita. Se la sua cultura prevedeva timore per gli spiriti, la trasmetterà certamente al piccolo. Il bambino crescerà e noterà che i compagni non si interessano degli spiriti. Se anche gli spiriti lo intimorissero, smetterebbe di parlarne, e trasmetterà qualcosa di più blando alla generazione seguente. Sempre che non ci siano periodici ritorni nella terra dei padri a rivitalizzare il passato.
Quattro generazioni di permanenza in Italia è un termine equo per poter dire che hai cambiato cultura o che almeno ci hai provato. Naturalmente le differenze nella italianizzazione sono fortissime se sei un filippino cattolico, un cristiano ortodosso dell’est, un ateo-confuciano cinese, un uomo delle aree tribali africane, un indù, un islamico.
L’ideale sarebbe che la cittadinanza coincidesse con l’italianizzazione. Ma uno Stato normalmente ha delle esigenze pratiche che gli fanno attivare procedure di cittadinanza più sbrigative. E soprattutto non è in grado di effettuare l’equa discriminazione tra un cristiano ortodosso e un islamico (equa discriminazione dovuta al fatto che gli elementi di compatibilità di un cristiano ortodosso con l’Italia sono statisticamente più numerosi di quelli di un islamico). Lo Stato si basa su parametri misurabili: anni di permanenza, redditi di sostentamento, assenza di condanne penali, assenza di impedimenti per la sicurezza dello Stato.
Essendo quindi il concetto di cittadinanza un “qualcosa” che viene concesso per ragioni pratiche (e non certo perché si è svolto un controllato processo di italianizzazione), le regole possono variare. E in altri tempi una legge per lo “ius soli temperato” o per lo “ius culturae” poteva anche essere ragionevole. Ma oggi, in tempi di immigrazionismo pilotato dai potentati finanziari, quella legge è una sciocchezza: diventare cittadini “deve” essere difficile, posto che siamo in tempi di migrazioni forzate, non di emigrazione per scelta.
Stando al direttore del mio quotidiano (sono lettore di Avvenire da 40 anni, abbonato da 30 anni) sto prendendo un grosso granchio coi miei ragionamenti. Lo “ius soli temperato” e lo “ius culturae” sono scelte di civiltà. Analizzerò quindi l’editoriale di Marco Tarquinio del 17 settembre 2017 per capire chi si sbaglia: lui o io?
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L’editoriale è scritto su una “copertina” aggiuntiva al giornale. Contiene l’articolo di Tarquinio assieme alle foto di 100 ragazzi sorridenti che vivono in Italia. Titolo in grande “Tutti italiani, non ancora concittadini”.
La prima cosa grave è aver posto la questione sul piano emotivo: 100 visi sorridenti fanno partecipare col cuore, e fanno spegnere il ragionamento. Mettendola sul piano emotivo, un altro giornale poteva mostrare 100 foto con immagini di ordinario degrado immigrazionista e costruire un editoriale opposto. Accantoniamo quindi le inutili immagini, e torniamo all’articolo.
“Tutti italiani”. No. Sono indù, islamici, ragazzi dell’est, che vivono in Italia, ma non sono italiani. Lo saranno i loro nipoti, forse, se per generazioni continueranno a vivere qui. Potranno diventare cittadini in tempi ragionevoli, ma italiani lo si diventa in tempi lunghi.
Nell’articolo compare 14 volte la parola “nostro”. In particolare: nostra civiltà, nostra cultura, nostro spirito, nostre regole, nostri costumi, nostro paese, nostro grande passato.
E qui viene da trasecolare. Chi sono i “nostri”? Per essere più espliciti: aborti, discoteche, divorzi, droghe, fecondazione artificiale, gender, omosessualismo, pornotivù di Stato, sessualizzazione, unioni civili, utero in affitto, fanno parte della nostra civiltà, del nostro spirito, dei nostri costumi, oppure no? Essendo Tarquinio il direttore di Avvenire, propendo per il no.
E quindi la nuova legge che allenta i vincoli per la cittadinanza consegna i 100 ragazzi sorridenti non alla “nostra” civiltà, ma alla “loro” civiltà. Alla civiltà di “lor signori”, che gestiscono sia la società occidentalista, sia l’immigrazionismo forzato.
Diventare italiani è molto difficile, se l’italiano è colui che si è formato dalle radici greco-giudaico-cristiane, se è l’italiano del diritto naturale e della legge naturale universale. Se invece parliamo dell’italiano costruito in 40 anni da Pannella, Bonino, e sponsor vari, allora è una cosa molto semplice: l’autodeterminazione è infatti semplice da attuare; è devastante nel medio e lungo termine, ma semplice.
Se l’italiano è «Rispetta le regole, metti la scheda nell’urna, vivi come ti pare, goditi la discoteca, scopa col preservativo, fai la raccolta differenziata» la faccenda è estremamente semplice.
Se diventare italiano è invece accedere a una cultura religiosa, artistica, giuridica, educativa, morale, formatasi nei secoli, la cosa è estremamente complessa.
In una vecchia puntata di Taglio Laser ricordavo un episodio. Venezia, Scuola Grande di San Rocco. Una brava guida illustra agli studenti la “Fuga in Egitto” del Tintoretto. Nel gruppo c’è una studentessa cinese. La professoressa accompagnatrice le parla sottovoce: «Capisci quello che sta dicendo?» «No».
Certo che no. La ragazza capiva l’italiano, ma non comprendeva. Fuga in Egitto? Fuga da dove? Fuga da chi? Fuga perché? E poi quel paesaggio non è l’Egitto. I personaggi chi sono? Un signore dalla barba bianca, una mamma col bambino. Perché sono così importanti da essere raffigurati? Quando avviene questa fuga? Al tempo del quadro? Cento anni prima? Mille anni prima?
I nipoti della ragazza potranno arrivare ad assimilare quel quadro. Per lei invece l’assimilazione sarà dura, molto dura. A meno che del quadro non le interessi nulla e lei identifichi l’essere italiana con l’autodeterminazione.
«Chi e perché vuol farci vivere nella chiusura e nella grettezza, in modo da non generare più figli, né dai nostri lombi né grazie alla nostra cultura e al nostro spirito?»
Chi, direttore Tarquinio? Il “chi” ha una risposta facile: sono quegli stessi che vogliono approvare lo ius soli. Chi ha creato divorzio e aborto, chi ha negato le radici cristiane dell’Europa, chi ha creato l’immigrazionismo (Soros o la variante “Ero straniero” di Emma Bonino), sono i medesimi che vogliono lo “ius soli”.
Perché lo fanno, direttore Tarquinio? Il “perché” non balza subito all’occhio: lo fanno perché odiano il diritto naturale e la legge naturale universale.
Inizialmente, per avere l’appoggio cattolico, faranno uno “ius soli temperato”. Poi, approvata la legge, qualche sentenza di giudice lo trasformerà in “ius soli automatico”. E infine si provvederà a creare le sacche islamiche stile Molenbeek in Belgio.
Giovanni Lazzaretti