Il Crocifisso di #Portogruaro
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Se ne stava lì da circa un secolo, nella zona più alta della controfacciata del duomo di Portogruaro, quel grande Crocifisso di quasi due metri di altezza. Lontano e anche un po’ bruttino, per la verità, a causa dei ripetuti e rudimentali interventi che, negli anni, ne avevano stravolto l’aspetto originario. Dopo più di un anno di restauro, lo “svelamento” del Crocifisso ligneo, risalente alla seconda metà del Trecento, ha avuto luogo in concomitanza della giornata della Esaltazione della Santa Croce, nel corso di una bella cerimonia in presenza dei restauratori Giovanni, Giancarlo, Alberto Magri, di un rappresentante della Sovraintendenza dei Beni Culturali, delle associazioni e gli enti che si sono fatti carico del progetto e delle spese di restauro, del coro “Città di Portogruaro” che ha accompagnato gli interventi dei relatori con dei canti diretti dal M° Giuseppe Russolo. e del parroco, don Pietro Cesco, che tra poco andrà in pensione e ha restituito alla comunità questa pregevole opera che dal Medioevo ancora ci parla, anzi, se ne sta in silenzio e invita al silenzio e alla meditazione pure noi.
Uscendo dal duomo, ora, nella controfacciata, si scorge solo l’impronta di quel Crocifisso posizionato lì per tanti decenni e mentre cammini pensi che è vero, non è più lì: Cristo è risorto, e quel vuoto ci ricorda il Destino a cui siamo chiamati. Nella Gloria sparirà la croce, ogni dolore sarà redento.
Entrando in chiesa, invece, carichi della fatica e del peso delle pene quotidiane, in quell’altare della navata sinistra potremo sostare davanti a questo Dio che si è fatto uomo e compagno di strada, instancabile dono di amore. Si è caricato delle nostre colpe e delle nostre fatiche e ha deciso di condividere la nostra umanità, le nostre domande, il nostro scoramento, i nostri momenti di buio.
Dal costato aperto lo scultore fa uscire un fiotto di sangue che non pare rappreso ma dà l’idea di sgorgare senza fine. Una feritoia dalla quale incessantemente si fa strada il dono di amore di Dio per noi. «Io sarò con voi fino alla fine dei giorni».
E’ questa la compagnia di cui abbiamo bisogno, specie in questa epoca in cui di fronte al dolore proprio e altrui si impreca o si fugge perché non sappiamo (più) cosa dire, cosa fare, come stargli davanti.
E non so dirlo meglio se non invitandovi a venirlo a vedere, questo Cristo in croce di scuola veneto-friulana, per il quale è previsto a breve un convegno internazionale di studio. E non so dirvi meglio quanto la nostra umanità ferita abbia ancora e ancora e ancora bisogno della presenza del Crocifisso (e non solo in chiesa!), della carezza amorevole del Nazareno, se non con le parole di questo bambino malato di cancro, protagonista di un breve romanzo francese, “Oscar et la Dame Rose”. Sta colloquiando con Dio. Prendetevi qualche minuto e ascoltatelo.
«“Se andassimo a trovare Dio?”
“Ah, ecco, ha il suo indirizzo?”
“Penso che sia nella cappella.”
Nonna Rosa mi ha vestito come se si partisse per il Polo Nord, mi ha preso fra le sue braccia e mi ha accompagnato alla cappella che si trova in fondo al parco dell’ospedale, oltre i prati gelati. Insomma, non sto a spiegarti dov’è, visto che è casa tua.
È stato un colpo quando ho visto la tua statua, insomma, quando ho visto in che stato eri, quasi nudo, magro magro sulla tua croce, con delle ferite dappertutto, il cranio sanguinante sotto le spine e la testa che non stava nemmeno più sul collo. Mi ha dato da pensare. Mi sono sentito rivoltare. Se fossi Dio, io, come te, non mi sarei lasciato ridurre in quel modo.
“Nonna Rosa, sia seria: lei che era lottatrice di catch, lei che è stata una grande campionessa, non si fiderà di quell’essere!”
“Perché, Oscar? Daresti più credito a Dio se vedessi un culturista con i muscoli gonfi, la pelle unta d’olio, i capelli corti e il minislip che ne fa risaltare la virilità?”
“Beh...”
“Rifletti, Oscar. A chi ti senti più vicino? A un Dio che non prova niente o a un Dio che soffre?”
“A quello che soffre, ovviamente. Ma se fossi lui, se fossi Dio, se, come lui, avessi i mezzi, avrei evitato di soffrire.”
“Nessuno può evitare di soffrire. Né Dio né tu. Né i tuoi genitori né io.”
“Bene. D’accordo. Ma perché soffrire?”
“Per l’appunto. C’è sofferenza e sofferenza. Guarda meglio il suo viso. Osserva. Sembra che soffra?”
“No. È curioso. Non sembra che abbia male.”
“Ecco. Bisogna distinguere due pene, Oscar, la sofferenza fisica e la sofferenza morale. La sofferenza fisica la si subisce. La sofferenza morale la si sceglie.”
“Non capisco.”
“Se ti piantano dei chiodi nei polsi o nei piedi, non puoi far altro che avere male.
Subisci. Invece, all’idea di morire, non sei obbligato ad avere male. Non sai che cos’è. Dipende dunque da te.”
“Ne conosce, lei, di persone che si rallegrano all’idea di morire?”
“Sì, ne conosco. Mia madre era così. Sul suo letto di morte, sorrideva di avidità, era impaziente, aveva fretta di scoprire che cosa sarebbe successo.”
Non potevo più discutere. Dato che m’interessava conoscere il seguito, ho lasciato passare un po’ di tempo riflettendo su quanto mi diceva.
“Ma la maggior parte delle persone sono senza curiosità. Si aggrappano a ciò che hanno, come il pidocchio nell’orecchio di un calvo. Prendi Plum Pudding, per esempio, la mia rivale irlandese, centocinquanta chili a digiuno e in slip prima della sua Guinness. Mi diceva sempre: «Spiacente, io non morirò, non sono d’accordo, non ho sottoscritto». Si sbagliava. Nessuno le aveva detto che la vita doveva essere eterna, nessuno! Si intestardiva a crederlo, si ribellava, rifiutava l’idea di morire, si infuriava, e caduta in depressione, è dimagrita, si è ritirata dall’attività sportiva, non pesava ormai che trentacinque chili, sembrava una lisca di sogliola, ed è finita in pezzi. Vedi, è morta lo stesso, come tutti, ma l’idea di morire le ha rovinato la vita.”
“Era idiota, Plum Pudding, Nonna Rosa.” “Come tanti.”
Ho assentito con la testa perché ero abbastanza d’accordo.
“Le persone temono di morire perché hanno paura dell’ignoto. Ma per l’appunto, che cos’è l’ignoto? Ti propongo, Oscar, di non aver paura ma fiducia. Guarda il viso di Dio sulla croce: subisce il dolore fisico, ma non prova dolore morale perché ha fiducia. Perciò i chiodi lo fanno soffrire meno. Si ripete: mi fa male ma non può essere un male. Ecco! È questo il beneficio della fede. Volevo mostrartelo.”
“O.K., Nonna Rosa, quando avrò fifa, mi sforzerò di aver fiducia.”
Mi ha baciato. In fondo si stava bene in quella chiesa deserta con te, Dio, che avevi un’aria così tranquilla.»
(Eric-Emmanuel Schmitt, Oscar e la dama in rosa)