Allora, il terrorismo ha a che fare o no con la religione?

Oramai, ogni giorno, ci arriva dal mondo una notizia drammatica, e sono ormai passati alcuni giorni da quel 22 maggio scorso, quando un terrorista di fede islamica si è fatto esplodere in mezzo alla folla di teenagers alla conclusione del concerto presso l’Arena di Manchester. Quello che più ha colpito l’opinione pubblica occidentale è stato il fatto che i terroristi hanno voluto uccidere, come obiettivo prefissato, i nostri figli, i nostri bambini. A quanto riportano le fonti giornalistiche, probabilmente la polizia non ha colto o ignorato alcuni campanelli di allarme che pure sono suonati. E una delle ragioni di questa défaillance potrebbe essere ricondotta al multiculturalismo. Ciò è ben espresso dall’islamologo Gilles Kepel: «In città come Birmingham o Manchester sono i consigli della sharia che gestiscono la vita dei musulmani. I britannici speravano di comprare così la pace sociale. Ma gli attentati di Westminster e di Manchester hanno suonato la campana a morto su questa illusione».
Infatti, ed a riprova di ciò, sono numerosi i quartieri di alcune città europee dove, di fatto, la vita delle comunità musulmane è regolata sulla base di alcune norme della sharia. Sono quartieri “pericolosi”, dove persino la polizia evita di effettuare perlustrazioni.
Alcuni, però, pensano di risolvere il problema del terrorismo con risposte meramente tecniche: maggiori controlli, più sicurezza. Certamente serve anche questo. Ma il problema è molto più grande, e riguarda le caratteristiche della nostra civiltà, che è cambiata, ed è più debole. Infatti, la civiltà occidentale, che è potuta sorgere grazie alle radici cristiane, oggi rinnega “il cuore” di se stessa. Rifiuta sdegnosamente le sue radici cristiane, non fa più figli, non crede più in Dio perché considera la fede un vecchio arnese per retrogradi medioevali. È vero che, militarmente, l’Occidente è sicuramente più forte dei terroristi, ma la sua civiltà porta in sé una intrinseca debolezza, come avesse un tarlo, che è una conseguenza della sua scristianizzazione che, purtroppo, procede a tappe forzate. È questo che i terroristi hanno messo a fuoco, ed è su questo che dovremmo meditare. La riflessione sulla nostra crisi dovrebbe infatti essere un punto fondamentale nell’analisi della nostra risposta al terrorismo.
E mentre siamo convinti di questo, ci siamo imbattuti in una affermazione che ci ha lasciati piuttosto interdetti. È una affermazione fatta qualche giorno fa dal cardinal Bassetti in una delle prime interviste da neo presidente della Conferenza Episcopale Italiana (CEI): «Non sono le religioni che provocano violenze e terrorismo, sono loro schegge impazzite. Vediamo creature pazze di furore e impazzite di odio, ma anche per noi in passato è stato così visto che i terroristi rossi venivano anche dalle nostre università cattoliche».
A parte il fatto che i terroristi delle Brigate Rosse non uccidevano in nome della religione cattolica ma della “religione marxista-leninista”. Inoltre, l’essenza del terrorismo di matrice islamica appare espressamente menzionata nel Corano. Infatti, l’VIII Sura del Corano, al versetto 12, recita: “Getterò il TERRORE nei cuori dei miscredenti: colpiteli tra capo e collo, colpiteli su tutte le falangi!”, oppure la III Sura, verso 151, recita: “Ben presto getteremo lo sgomento nei cuori dei miscredenti (...). Sarà atroce l’asilo degli empi”. Inoltre, siamo sicuri che non era intenzione del card. Bassetti ma, detta così, la sua affermazione pecca di astrattismo, in quanto non aderente alla realtà che vediamo sotto i nostri occhi, e che da oltre 15 anni (dagli attentati alle Torri Gemelle) stiamo amaramente sperimentando in maniera sempre più eclatante. Infine, essa, per come è espressa, e sicuramente oltre le intenzioni del card. Bassetti, presta il fianco alla critica di esprimere una astratta spiritualità dal sapore teista, molto rischiosa per l’essenza stessa del cristianesimo. Essa infatti abbatte qualsiasi differenza tra religioni, ponendole tutte sullo stesso piano, e negando, di fatto, il proprium di verità salvifica presente nel cristianesimo (che, per altro, non è propriamente una religione).
Comprendiamo certamente come l’affermazione del card. Bassetti sia improntata ad un atteggiamento di prudenza, tesa ad evitare di esprimere un’accusa all’intera comunità musulmana, ed impedire dunque di innescare uno scontro tra religioni, ovvero uno “scontro di civiltà”, ricordando un famoso libro, quello di Samuel P. Huntington, che abbiamo letto una quindicina di anni fa. Cosa giusta, anzi, giustissima. Infatti, l’obiettivo dell’ISIS è certamente quello di arruolare i musulmani che si sentissero “accusati” dal mondo occidentale. Pertanto, un attento uso delle parole è doveroso. D’altra parte, però, questo atteggiamento, diciamo così “politico moderato”, ha il grave difetto di non andare al fondo delle cause che hanno ispirato il kamikaze di Manchester, Salman Abedi, oppure il decapitatore inglese Jihadi John, o i giovani tagliagole dell’anziano sacerdote francese Jaques Hamel, e così via. Questi giovani hanno tutti la caratteristica di essere discendenti di seconda o terza generazione di immigrati, nati nelle nostre città europee, ma appartenenti alla comunità di fede islamica.
I terroristi che hanno ammazzato i giovani del Bataclan o i teenegers di Manchester lo hanno fatto perché quelle persone assistevano ad un concerto che, sulla base del loro credo religioso, era dai terroristi considerato idolatrico; di certo non perché essi fossero matti. Infatti, se prendiamo il Corano, leggiamo: “Assassinate gli idolatri ogni dove li troviate, prendeteli prigionieri e assediateli e attendeteli in ogni imboscata” [Sura 9:5]; I musulmani devono far guerra agli infedeli che vivono intorno a loro [Sura 9:123]. I musulmani devono essere “brutali con gli infedeli” [Sura 48:29].
E allora, visto che le comunità islamiche sono presenti nelle nostre città, possiamo noi permetterci di dire semplicemente che questi giovani sono soltanto dei terroristi e basta? “Schegge impazzite”, dei malati che non hanno nulla a che fare con la religione (islamica)? Oppure si può anche dire che sono semplicemente seguaci di un filone della religione islamica, come ad esempio il wahabismo, un filone ortodosso, fondamentalista, radicale, fanatico e regressivo presente soprattutto nell’Arabia Saudita, la cui ideologia lambisce il salafismo dell’ISIS e al-Qaeda, salafismo che è il sottoprodotto del wahabismo? Potrebbe questo atteggiamento, tipicamente usato da Obama, tutto teso a schivare l’accusa di essere islamofobici, portarci fuori strada e non farci vedere la “radicalizzazione” che sta costantemente crescendo in alcune aree a densa concentrazione di comunità di fede islamica? Non potrebbe questa posizione essere foriera di gravi pericoli per la nostra sicurezza? Sono domande, crediamo legittime, che meriterebbero una attenta riflessione.
L’Arabia Saudita, infatti, grazie ai petrodollari, che permettono di concedere aiuti e finanziamenti a comunità musulmane residenti all’estero, ha imposto il wahabismo in tante nazioni. Questa nazione ha finanziato molte delle moschee sorte in occidente (2.000 solo negli USA). E, per inciso, in Arabia Saudita avvengono mutilazioni, dilapidazioni e decapitazioni pubbliche sulla base di norme dettate dalla sharia.
A tal proposito è alquanto curiosa l’affermazione che il nuovo presidente della Francia, Macron, ha fatto all’indomani della sua elezione: “domani, una nuova struttura renderà possibile il rilancio della religione musulmana in Francia: saranno costruiti e migliorati i luoghi di culto islamici”. Questa affermazione appare quanto meno superficiale e improntata al politicamente corretto, non aderente a quanto sta maturando nella sua nazione. Perché, verrebbe da chiedersi, Macron sa che nel mondo vi sono stati 30.770 attacchi dall’11 settembre 2001 ad oggi, e 21.242 morti solo nel 2016?
Dunque, occorre senz’altro fare un discorso religioso moderato, ma non “cieco”. Perché, se noi non chiamiamo il nostro problema con il suo vero nome, cioè terrorismo a fede islamica (anche se radicale), come potremmo allora combatterlo? Se non vogliamo vederlo, come potremmo allora andare alle sue radici? Se non vogliamo vederne l’esistenza, come potremmo fare per evitare che giovani, radicalizzandosi, diventino terroristi islamici? Come potremmo capire cosa li fa radicalizzare? Come potremmo capire perché sono portati ad odiarci così profondamente? Come potremmo capire perché sono portati ad odiare profondamente la civiltà occidentale, che pure li ha accolti? Sono queste le domande che dovremmo porci e alle quali, possibilmente, dare una risposta, piuttosto che, come ha fatto Vittadini in un suo editoriale, concludere dicendo: “Speriamo che i bambini morti a Manchester, almeno, non abbiano i nostri muri”. Capisco il timore di Vittadini, ma la sua conclusione appare dal sapore alquanto retorico (“abbattere muri, costruire ponti”).
Alcuni pensano che in Europa la risposta al problema terrorismo sia di ordine meramente tecnico: maggiori controlli, più sicurezza, ed il gioco sarebbe fatto. Certamente serve anche questo, come risposta di polizia, sia immediata che strutturale. Ma limitarsi a questo sarebbe fuorviante perché il problema è molto più grande, e riguarda le caratteristiche della nostra civiltà che è cambiata, ed è più debole. E una civiltà debole, non può che offrire una risposta debole ad un eventuale attacco alle sue fondamenta. Infatti, la civiltà occidentale, che è potuta sorgere e svilupparsi grazie alle radici cristiane, oggi le rifiuta sdegnosamente, non fa più figli, non crede più in Dio perché considera la fede un vecchio arnese per retrogradi medioevali. Tutti sintomi molto preoccupanti di una malattia che si chiama “estinzione”.
Ma ritorniamo all’islam, e per capirne di più, leggiamo alcuni passi di interviste rilasciate qualche tempo fa da due insigni gesuiti, esperti mondiali della materia.
Padre Samir Khalil Samir, nato al Cairo nel 1938, gesuita dal 1955, professore presso il Pontificio istituto orientale di Roma e all’Université Saint Joseph di Beirut, dice: “È un errore considerare l’Islam una religione di pace. Nell’islam non c’è libertà di coscienza [e diritto naturale, aggiungiamo noi], perché se un musulmano cerca di cambiare religione viene punito dalla legge, in alcuni paesi anche molto severamente [con la morte, ndr]; e la religione non è un affare spirituale, ma forma un tutt’uno con la politica e col diritto”. A riprova di quanto dice il gesuita, leggiamo infatti il seguente passo: “Chiunque combatta contro Allah o rinunci all’Islam per abbracciare un’altra religione deve essere ‘messo a morte o crocifisso o mani e piedi siano amputati da parti opposte’” [Sura 5:34].
Padre Henri Boulad, che è stato Rettore del Collegio dei Gesuiti al Cairo dove hanno studiato tanti, musulmani e cristiani, un esempio concreto di convivenza, dice: “oggi i tre quarti del Corano sono versetti della Medina e sono un appello alla guerra, alla violenza e alla lotta contro i cristiani (...), ciò rende la religione musulmana una religione della spada”. E a chi fa osservare a padre Boulad che nel mondo si parla di islam moderato, egli risponde: “L’islam moderato è un’eresia, ma dobbiamo distinguere tra la gente e l’ideologia, la maggior parte dei musulmani sono molto aperti, gentili e moderati. Ma l’ideologia presentata nei manuali scolastici è radicale. Ogni venerdì i bambini sentono la predica della moschea che è una continua incitazione”. E, infine, precisa: “i musulmani moderati non hanno voce e il potere è nelle mani di chi pretende di interpretare l’ortodossia e la verità”.
Se abbiamo ben capito, i bambini, ogni venerdì, devono mandare a memoria, ed assorbire nell’animo, versi del Corano come quelli più sopra riportati!
Perciò, alla luce di quanto detto fin qui, come si fa a dire che “il terrorismo (di matrice islamica) non ha nulla a che vedere con la religione” (islamica)? Si tenga presente che nell’ultimo eccidio dei cristiani copti egiziani, buona parte di questi sono stati trucidati perché avevano rifiutato di abiurare la fede cristiana e tener così salva la vita. Se i copti sono martiri della fede cristiana, come si fa a dire che i terroristi non hanno nulla a che fare con la fede islamica, alla quale pure si richiamano per ammazzare in maniera selvaggia ed inumana coloro che identificano come “miscredenti”? Quella frase, che prendiamo ad esempio di una posizione culturale oggi in voga, non sembra peccare di eccessiva semplificazione? Essa non rischia di spingerci verso un allontanamento dalla realtà?
Non vorremmo dar ragione a Ernesto Galli della Loggia, il quale, in un suo editoriale di qualche tempo fa, ha scritto: “una radicale riconciliazione con il principio di realtà: ecco che cosa ci manca nel nostro modo di guardare al mondo”.
Conclusioni.
Cosa dovrebbero fare gli esponenti del mondo islamico?
Poiché nell’islam non esiste un’unica autorità di riferimento, una sorta di “papa islamico”, gli imam dispersi nel mondo non dovrebbero limitarsi a dire che gli attacchi sono una “tragedia”, che sono una espressione di “cieca violenza”. Occorre ben altro! Occorre che dicano, ad esempio, che i terroristi, che compiono azioni inumane, andranno all’inferno e non in paradiso, e chiarirlo teologicamente. Gli imam devono essere chiari teologicamente, non limitarsi ad esprimere reazioni di tipo emozionale. E qui si arriva al punto centrale, essi inevitabilmente si scontrerebbero con quanto è letteralmente scritto nel Corano e, soprattutto, con quanto l’allora papa Benedetto XVI a Ratisbona volle sottolineare, e cioè il rapporto tra fede e ragione. Un nodo mai risolto nell’islam.
E cosa possiamo offrire noi cristiani?
Non certo frasi che forse possono suonare consolatorie, che sono sì “politicamente” rispettose di altre religioni, ma che non sono altrettanto rispettose della realtà. In altri termini, se facessimo questo, non offriremmo un vero aiuto ai nostri fratelli, anche di fede islamica, a sciogliere nodi ingarbugliati ed a superare certi lati oscuri. Quello che noi Cristiani possiamo offrire, ricordandolo, però, prima di tutto a noi stessi, è la convinzione dell’intima e inscindibile relazione tra fede e ragione. È solo questo connubio che ci fa stare nella realtà in maniera adeguata. Ed infine, la cosa più importante, noi cristiani dovremmo testimoniare e annunciare agli altri, con tutto il rispetto, con tutta la pace, con tutto l’amore per il prossimo, quello che ci ha insegnato san Giovanni Paolo II, e cioè che “Cristo è IL redentore dell’uomo, centro del cosmo e della storia”.
Sabino Paciolla