Messa domenicale
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«Meglio soffrire che non essere esistito»
(Pavese, Dialoghi con Leucò)
E’ affollata, la messa delle 10.30. Vuota solo qualche sedia ai lati. I bambini davanti, i più piccoli con i genitori; il coro delle famiglie è al completo. Qualcuno come al solito arriva in ritardo e si infila in un banco o sta in piedi, accanto a una colonna.
Si seguono le letture, si prega, si canta insieme. Il Vangelo parla al cuore sempre e in questo periodo di più, mi pare. Oggi che la tentazione più grande, fuori e dentro la Chiesa, è farsi dio, o sostituire Dio con i nostri idoli quotidiani; oggi che tutto congiura contro l’uomo e siamo entrati nella stanza dei bottoni che regolano la vita e la morte, e ci arroghiamo il diritto di dire quali esistenze sono degne e quali no e il tentatore – sì, proprio lui! – occhieggia ammiccante. Chi l’ha detto che il tentatore è brutto e puzzolente? Magari: ce ne accorgeremmo e gli staremmo alla larga. No. Ha imparato a camuffarsi bene. Oggi ha il fascino attraente della trasgressione, del tutto-subito, del piacere senza limiti, dell’autonomia, della libertà sciolta da ogni legame, del fine giustifica i mezzi. E il fine è il mio interesse egoistico. Il fine è la vittoria dei forti sui deboli.
Si camuffa bene, il tentatore, e l’invito è sempre lo stesso: seguimi e sarai (come) Dio.
La senti e la tocchi, questa tentazione, nella cronaca degli ultimi mesi: le DAT anticamera dell’eutanasia, i giudici che decidono di affidare bambini a “due papà” (e chi se ne importa se “due papà” è un insulto alla natura e alla ragione e se scientemente quei bimbi vengono resi orfani di madre); la mamma che presta l’utero al figlio gay perché sogna di diventare nonna; i bambini libellula che decideranno da grandi se vogliono essere maschi o femmine…
Eccola, la tentazione delle tentazioni: adulti che vivono etsi Deus non daretur e fanno un passo in più: diventano essi stessi quel Dio che negano. E così dicono che non c’è problema a eliminare nel grembo le vite che le madri non ritengono degne, o che hanno generato “per sbaglio”. E che va bene eliminare i malati terminali o in stato vegetativo o con handicap o psichiatrici o… stanchi di vivere, se a deciderlo è l’interessato, o un suo congiunto, o un medico. Il tutto condito da belle parole e da buoni sentimenti, per carità: il bon ton prima di tutto. E si frantumano feti o si fanno morire esseri umani di fame e di sete per scopi buoni anzi buonissimi: evitare inutili sofferenze all’interessato e/o a chi gli sta intorno. (E allora perché non eliminarlo alla radice, il male di vivere, non mettendo più al mondo nessuno?!)
Homo faber fortunae suae, è il refrain. Ciascuno è il padrone della propria vita e può farne ciò che crede. E pazienza se la decisione finale (leggi soluzione finale) – aborto o suicidio assistito o eutanasia – è un “pollice verso” alla vita, esito di una società mortifera che ha scordato la compassione e non sa più testimoniare buone ragioni per vivere (o per dare la vita) anche quando la vita fa male.
Canto di Comunione: “Il disegno”.
Mi avvio e poi torno al mio posto e prego, in ginocchio, per chiedere la forza che non ho.
Mancano le ultime due strofe della canzone e si stanno accostando all’Eucaristia gli ultimi della fila. La corsia centrale si svuota.
Sola, appoggiata sui due trepiedi che la sostengono e l’aiutano a mantenere l’equilibrio, con fatica per la grave malattia che l’accompagna dalla nascita, sta tornando al suo banco una giovane donna che conosco da quando era bambina e che vedo muoversi in centro con la carrozzina a motore. Passi lenti e impacciati, i suoi. Eppure sorride e guarda avanti.
La osservo. Leggo il labiale. Sta cantando. «E quando hai disegnato le nubi e le montagne; / e quando hai disegnato / il cammino di ogni uomo / l’avevi fatto anche per me. / Se ieri non sapevo oggi ho incontrato Te / e la mia libertà è il tuo disegno su di me; / non cercherò più niente perché / Tu mi salverai.»
E’ muta la Chiesa, ora. Tace l’organo, tacciono le chitarre. Il suo incedere faticoso, nella navata centrale, è un pizzicotto alla nostra presunzione.
Il canto, la letizia di questa giovane donna zittisce i sani che ci spiegano quando la vita è degna e quando no e in Parlamento votano “per il nostro bene”.