Yaisy Bonilla: «A chi potrebbe dispiacere se muoio»
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così da non commuoversi per il figlio del suo grembo?
Anche se vi fosse una donna che si dimenticasse,
io invece non ti dimenticherò mai».
(Isaia, 49, 15)

Sai quelle notizie dei tiggì-ore-pasti, quelle che ascolti con la coda dell’orecchio mentre mescoli il sugo, finisci di preparare la tavola, rispondi al telefono…? Ecco. Giusto per dire io c’ero, ho sentito, lo so, sono connessa, non vivo in un altro pianeta…
Oggi la storia di Yaisy Bonilla, ventunenne di origine colombiana, accoltellato davanti a una discoteca di Brescia.
Un altro, mi dico. Neanche finito di asciugarci le lacrime della coscienza per Emanuele di Alatri, ucciso «per futili motivi» ed eccone un altro.
Ascolto distratta e impiatto e sbuffo per questa cronaca nera di cui non se ne può più, che inanella cadaveri su cadaveri e ti fa andare di traverso il boccone che mangi di corsa, poi la conduttrice annuncia una breve intervista che “per caso” una collega aveva realizzato proprio con la giovane vittima tre anni fa (...e dagliela con questo giornalismo sciacallo, che sfrucuglia il passato, e non ha pietà neanche dei morti… ieri le telecamere in faccia alla moglie del barista di Budrio, nel Bolognese, e le interviste ai parenti… ma cosa vuoi che ti dicano, i parenti, con che coraggio gli piazzi davanti alla bocca un microfono…)
Volevo cambiare canale, e invece no. Mi sono fermata e ho guardato. Ho osservato quel volto di ventunenne, ho ascoltato la storia di Yaisy, andato via di casa a 14 anni, che per un po’ ha vissuto per strada e ha iniziato a frequentare persone più grandi e voleva «essere all’altezza, essere il numero uno». E così si allenava in palestra, perché voleva «essere grosso», voleva entrare «in un certo ambiente, dove vali se sai picchiare, se no stai a casa tua». Inizia a frequentare brutti giri, ruba, il giovane sudamericano; entra ed esce dalle comunità, scappa e poi ritorna. Fino a quando nelle sue giornate sbandate si fa strada una domanda. «Se muoio, a chi potrebbe dispiacere?».
«Mi sono fatto questa domanda», racconta all’intervistatrice, «e ho cominciato a chiedermi che amici avevo. Ho avuto paura di rimanere da solo».
Guardavo, ascoltavo Yaisy che non c’è più: è stato ammazzato da una coltellata perché non sopportava che in discoteca e poi fuori quel tipo facesse apprezzamenti pesanti sulla sua ragazza, voleva proteggerla. Guardavo, ascoltavo, e nella domanda di Yaisy mi sono passati davanti agli occhi del cuore, ad uno ad uno, tanti dei miei studenti.
A chi potrebbe dispiacere se muoio, è la domanda delle mie alunne anoressiche, che si fanno sempre più piccole e sembra vogliano scomparire. Stanno chiedendo aiuto.
O dei miei alunni (tanti) che hanno i genitori separati, e tra loro arrabbiati, e stanno andando ognuno per la propria strada, e avranno pure il diritto di rifarsi una vita, no?! e così dicono ai figli arrangiati, ormai sei grande, ecco le chiavi di casa, veditela da solo…
O di quelli che marinano (a chi importa se a scuola vado oppure no?), quelli che in classe sono sempre negli ultimi banchi, gli invisibili.
A chi potrebbe dispiacere se muoio, pensano tanti anziani, tanti ammalati, lasciati da soli da figli e parenti sempre di fretta, da una società che li considera un peso, e poi ci chiediamo perché tanta insistenza sulle DAT!
A chi potrebbe dispiacere se muoio, fanno capire gli adolescenti nei social con il loro linguaggio cifrato, con gli emoticon… quelli che vivono al limite, che cercano notorietà postando foto sfrontate, o fanno i bulli, o dei bulli sono le vittime predilette. O gridano questa domanda nel silenzio assordante delle loro camere-bunker. Ma ce ne accorgiamo dopo, quando ormai si sono gettati dalla finestra, o l’hanno già annodato, quel cappio, ed è troppo tardi.
Guardavo, ascoltavo Yaisy, e pensavo che le periferie esistenziali sono (anche) le nostre comode case di città, le nostre classi in cui i maggiorenni arrivano a scuola con l’auto ricevuta per i diciotto anni, e hanno famiglie agiate alle spalle. Periferie i colleghi di lavoro, i vicini di casa, gli amici che credi di conoscere perché ridono e scherzano in pausa caffè e invece no. Hanno nel fondo del cuore una domanda che cova, sempre la stessa: a chi potrebbe dispiacere se muoio?, e quando ti guardano te la senti addosso. Io, chi sono per te?
Lazzaro, nel Vangelo di ieri, è chiamato «amico», è «colui che egli amava»; Lazzaro è in relazione-con. Con le sorelle Marta e Maria, con Gesù. Di fronte alla tomba, Gesù, l’amico, due volte«si commosse profondamente», e «scoppiò in pianto».
Non so trovare per te altre parole, Yaisy, se non queste. Per i miei studenti, per gli anziani e gli ammalati, per chi soffre… per me. No, non siamo soli.