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“Quella ingenua baldanza che viene dalla fede”

Fonte:
CulturaCattolica.it
Raccogliamo questa testimonianza di Sabino Paciolla sulla esperienza di incontro con Mons. Luigi Negri. Segno di amicizia per chi l'ha conosciuto e sorgente di insegnamento per tutti noi

E’ ufficiale che la diocesi di Ferrara-Comacchio vedrà l’avvicendamento del suo vescovo Mons. Luigi Negri che, per raggiunti limiti di età, sarà sostituito da mons. Giancarlo Perego, al quale faccio i miei più sinceri auguri. Questa notizia mi dà l’occasione di soffermarmi brevemente sulla figura di mons. Luigi Negri che per me è stato, anche se a chilometri di distanza, padre e maestro.

Ricordo di averlo visto per la prima volta più di trent’anni fa in un’aula dell’Università di Bari. Fui invitato a quell’incontro da una giovane universitaria, che sarebbe poi diventata mia moglie. Quella sera, Mons. Luigi Negri parlava della fede come di qualcosa riguardante ogni aspetto della vita, con una profondità di pensiero ed una convinzione per me sconosciute. Mi colpiva molto quello “strano” modo di parlare, anche perché gli unici ricordi di “discorsi sulla fede” mi riportavano perlopiù ai tavoli da ping pong degli ambienti parrocchiali, sui quali, da adolescente, gareggiavo con i miei amici. Mons. Negri invece citava Leopardi, Eliot, Testori, Par Lagerkvist, ecc., autori che fino a quel momento erano stati per me o distanti dalla fede o dei perfetti sconosciuti, ma che, in quella circostanza, improvvisamente mi diventarono come familiari.

Mons. Negri è stata sempre una persona molto schietta e netta nei giudizi, frutto senz’altro del suo carattere, ma anche della sua profonda fede. Educato da don Giussani, il punto dirimente per lui è sempre stato, per citare una sintesi perfetta fatta da Papa Giovanni Paolo II nella Redemptor Hominis: “Cristo redentore dell’uomo, centro del cosmo e della storia”. Lui ha continuato a trasmetterci la convinzione che l’incontro con Cristo ci cambia la vita, ci rende più uomini, esalta la nostra umanità, spingendoci verso forme di vita sociali più rispettose della dignità della persona. Questa novità di vita è quello che il mondo attende, ma che non sa o non può darsi da sé. È però un cambiamento concreto, non astratto, che mette in moto la mia responsabilità, nella contingenza della mia vita, la quale non sarà mai perfetta ma risulterà come “rivoluzionata”, rilucente di quei principi di nuova umanità, prima mancante. Non cambia solo la persona ma, trasformando le relazioni umane, cambia anche le strutture sociali. Tutta la storia dell’uomo testimonia che dove è arrivato il cristianesimo, vi è stato poi un pullulare di opere caritative, assistenziali e culturali, come gli ospedali, le scuole, le università. Dove è arrivato il cristianesimo è fioccata sempre una nuova civiltà.

Come si diceva, l’esperienza di Cristo nella vita non è una cosa astratta ma concretissima. Per questo, l’uomo, quando entra in relazione con gli altri, in dialogo con gli altri, non può trattenere tutta la potenza espressiva di questa esperienza, che sarà pure caratterizzata dagli inevitabili limiti e peccati umani, ma sarà pure altrettanto vera, di quella verità che non potrà escludere, a priori, una certa resistenza dell’ambiente.

Come riportato nella biografia curata da Savorana, diceva don Giussani: “È quella famosa frase che abbiamo citato tante volte: ‘Pour se poser il s’oppose’, per porsi uno si oppone. Se non c’è il senso della responsabilità rischiosa, perciò se non ci sono il giudizio e la volontà e l’affettività per andare contro, per cambiare - perché ‘andar contro’ vuol dire ‘cambiare’ - ciò che c’è, ciò che mi si oppone (...), se non ho questa responsabilità, cioè se io non sono presente all’ambiente, la libertà diventa ‘un sogno di una notte di mezza estate’ che il vento soffia via. E dopo viene l’anoressia dell’umano”.

Oggi, invece, si è diffusa una concezione del dialogo caratterizzato da una sorta di preventiva preoccupazione di non urtare nessuno, di smussare ogni cosa, di evitare accuratamente qualsiasi tema che sia anche lontanamente percepito come “divisivo”. La costante sottolineatura di non scadere in un rapporto “dialettico”, il timore che il dialogo si riduca ad un mero “scambio di opinioni”, l’illusoria pretesa di costruire ad ogni costo ponti ed abbattere muri, la volontà di andare incontro all’altro come fossimo “anfore vuote”, porta al rifiuto di qualsiasi azione pubblica, vista come foriera di inevitabile scontro, per rifugiarsi nella tranquillizzante “testimonianza” personale, nel mentre il potere ci stravolge la vita secondo la logica del mondo.

Mons. Negri, sulla scia di don Giussani e dei grandi Papi, ci dice invece che un fruttuoso dialogo non può prescindere da una identità, non può prescindere dall’andare a fondo a questa identità che, per quanto ci riguarda, altro non è che quella novità di vita generata dall’adesione a Cristo. Ci capita invece di vedere che chi si sottolinea questo punto, viene poi facilmente etichettato come “nostalgico” o tradizionalista.

Non è un caso dunque che Mons. Luigi Negri sia stato uno dei pochi pastori della Chiesa italiana a invitare in maniera accorata e convinta le famiglie, le comunità parrocchiali, i gruppi, i movimenti, le associazioni a partecipare ai Family Day, salutando, addirittura di persona, coloro che partivano per Roma al mattino presto, quando era ancora buio. Lo ha fatto nella convinzione che la fede non è qualcosa di astratto ma di concreto, che ha a che fare con la vita quotidiana, la mia vita, con la mia famiglia, con il bene della società. Perché, come ci ha insegnato don Giussani, riprendendo una frase di Terenzio: “Nulla di ciò che è umano mi è estraneo”. E dunque ci siamo mossi perché non potevamo rimanere estranei allo scempio giuridico che in quei mesi andava maturando, e che avrebbe investito poi, concretamente, l’istituto della famiglia. Però, è bene precisare, non ci siamo mossi per la difesa di un mero valore, sia pur importante, come quello della famiglia, ma per un impeto derivante dall’adesione al Vero.

La sua personale onestà intellettuale e la sua premura di pastore, lo hanno portato, a volte, ad andare anche controcorrente, come nel caso dell’affronto della questione dei grandi flussi migratori. Nel suo approccio si rintraccia la vena di concretezza presente nella posizione espressa a suo tempo, sullo stesso tema, da un grande cardinale come Giacomo Biffi. Mons. Negri ritiene che debba essere scontata l’accoglienza per chi è veramente perseguitato o fugge dalle guerre, ma che si debba avere un approccio realistico in tutti gli altri casi. Una migrazione di massa, infatti, per sua natura, metterebbe a repentaglio il bene comune del Paese accogliente, bene comune che comprende, non lo si dimentichi, anche quella identità cristiana che si trova a fare i conti con quella islamica.

Una delle cose che sicuramente stanno a cuore a mons. Luigi Negri è il rapporto tra fede e cultura. Tutta la sua vita lo testimonia, a cominciare dal fatto che è stato professore universitario di Introduzione alla teologia e di Storia della filosofia. Ma se volessi usare una frase che icasticamente definisca tale rapporto, io userei quella di Papa Giovanni Paolo II: “Una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta”.

Tutta la sua storia è caratterizzata dalla amorosa e solida fedeltà alla Chiesa, al Papa, alla Tradizione ed al magistero. Ciò nonostante, mons. Negri non ha avuto timore, proprio per quell’amore alla Verità, a dire che: “Oggi per me c’è un po’ di confusione. Questa disistima per la dottrina, questo tentativo di pastorale che finisce con l’essere azione accettata e giustificata dal mondo rischia di trasformare la Chiesa in una onlus”. E poi: “La premessa delle premesse non è che ci sono i poveri e che bisogna aiutarli, che pure va bene, ma che il Verbo di Dio si è incarnato, ha salvato il mondo e abita presso di noi”.

Infine, oltre che dai libri e sulla stampa, mons. Negri l’ho potuto conoscere personalmente solo una sera, a conclusione della presentazione di un suo libro. Quella mezzora di colloquio mi è bastata per capire di essere stato davanti ad un grande testimone della fede. Per questo, fossi stato un ferrarese, avrei desiderato e sperato che allo scadere dei 75 anni il Papa prolungasse la sua permanenza in diocesi, come di solito avviene in questi casi. Ed invece, neanche qualche mese dopo lo scoccare dei fatidici 75 anni, è arrivata una subitanea sostituzione. Pazienza. Sono sicuro però che mons. Negri, più libero da gravami diocesani, saprà dare a noi ancora tantissimo.
Grazie di cuore, mons. Luigi Negri.

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