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L’Agnello, l’abbacchio e il serpente

Fonte:
CulturaCattolica.it
Immagini: Marcello Carrà, Agnus Serpens, biro BIC su carta, 2013
Francisco de Zurbarán. Agnus Dei, ca. 1635-1640. Olio su tela, 35.56 x 52.07 cm. San Diego, The San Diego Museum of Art, dono di Anne R. e Amy Putnam.

È un insulto alla cultura europea e anche alla fede ebraica, oltre che a quella cristiana, certo spettacolo blasfemo come quello recentemente offerto al pubblico romano che ha per tema l’agnello.

Ho fatto teatro per sei anni, sotto la guida sapiente e profonda di Mario Tedeschi, allora direttore di una compagnia del Teatro dell’Arte al Castello Sforzesco di Milano. Meno famoso del fratello, il più televisivo Gianrico Tedeschi, Mario era un grande uomo, sia dal punto di vista umano che spirituale. Quando con noi giovani attori, per lo più lontani da Dio e con accenti anticlericali, decise di mettere in scena il Processo di Kafka (testo amato da certa sinistra acculturata) ci obbligò a premettere la lettura del libro di Giobbe. E ci spiegò, con una competenza impressionante, quanto Kafka si fosse ispirato a Giobbe e al tema, mai tramontato, della sofferenza innocente per stendere il suo Processo.

Così faccio veramente fatica a capire quale pretesa culturale ci possa essere dietro a uno spettacolo che banalizza il tema dell’Agnello così fortemente evocativo per i credenti, confinandolo entro l’orizzonte culinario di Matsterchef. L’educazione alla stima per il teatro che ho ricevuto fin da piccola, quale luogo educativo, interpretativo della realtà anche con l’avvallo di linguaggi venati di polemica, quando non di satira, cozza enormemente con la banalizzazione superficiale e grossolana che oggi si vuol far passare per arte.

L’uccisione dell’Agnello (dietro al quale poi come in filigrana si delinea l’ariete sacrificato da Abramo invece del figlio Isacco), il cui sangue purificatore lava i peccati del popolo; il dramma del popolo ebraico che dalla distruzione del tempio, con la perdita della possibilità di fare sacrifici, ha perso la certezza di essere perdonato e di poter offrire un’offerta sacrificale a Dio; l’intreccio linguistico fra greco ebraico e latino, possibile solo nella terra Santa al tempo di Cristo, dove la parola agnello veniva a designare tanto il servo che il figlio; tutto questo cade rovinosamente dentro la banalità sciocca e ignorante dell’abbacchio romano con patate al forno.

Viene alla mente lo splendido Agnello dello Zurbaran, così vero e nel contempo così simbolico con l’accenno appena velato dell’aureola, con la mitezza profonda dello sguardo abbassato, con le zampe legate e pronto al sacrificio. Un’evocazione straordinaria di tutta la scrittura: dall’antico agnello pasquale, al Cristo, Agnello di Dio che toglie il peccato dal mondo. Eppure la nostra attuale cultura è infastidita dal simbolo cristiano. C’è qualcosa che le risulta insopportabile e che deve in qualche misura modificare e conculcare. Lo splendido Agnello di Zurbaran, infatti, sotto la «Bic» pur abile di Marcello Carrà diventa L’Agnus Serpens: scompare l’aureola, s’intorbidisce lo sguardo è cancellato il sacrificio. Le zampe, infatti, non sono più legate, ma al loro posto spunta una coda di serpente che minacciosa conduce il nostro sguardo a vedere come anche dalla bocca (muta) dell’agnello spunta la lingua di un aspide.

Mi duole che venga meno il rispetto per una cultura che affonda le sue radici in un passato ben più che millenario. Mi duole che non si sappia più guardare a quei grandi della storia (e penso a Mozart e al suo Agnus Dei), che pur senza una via particolarmente esemplare hanno saputo trasformare i grandi simboli della fede in opere d’arte indimenticabili. Forse aveva davvero ragione Primo Levi, non manca la fede soltanto, manca l’uomo.

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