Che cosa voti al #Referendum?
- Autore:
- Curatore:
- Fonte:

Alla fine Renzi è tornato sui suoi passi. Era stato proprio lui a legare l’esito del prossimo referendum sulla riforma costituzionale alla vita e all’azione del suo governo: “se vincono i no mi dimetto”, aveva affermato.
Poi, ha riconosciuto che quella uscita – che ha trasformato il referendum confermativo in un voto sul governo Renzi – è stata un errore e ha detto che, in ogni caso, il governo durerà sino alla scadenza naturale del 2018.
Non so se la toppa sia migliore del buco. Innanzitutto, ormai nella popolazione è già passata l’idea che lo stesso Presidente del Consiglio ha lanciato e non è certo sufficiente una ritrattazione per cambiare il sentimento comune. In secondo luogo, un ripensamento adesso ha tutta l’aria di essere un espediente in extremis per chi è in difficoltà e corre ai ripari in vista di una bufera che si sta abbattendo sulla riforma più importante e rappresentativa del Governo in carica.
Perché di questo si tratta: salvare o gettare il lavoro più significativo del Governo, quello che ne impegna l’azione complessiva e su cui si gioca l’immagine e la sopravvivenza.
Pur contrario alla riforma costituzionale che giudico rischiosa per il Paese, non nascondo di essere stato tra i pochi a cui era piaciuta l’uscita del Presidente del Consiglio. In fondo il governo Renzi (che ha sostituito con un colpo di mano il governo Letta, per ragioni tutte interne al PD) è nato proprio per fare le riforme istituzionali ed economiche. Così ha fatto inizialmente … anche se poi si è perso per strada e, per interessi meramente partitici (sempre tutti interni al PD), ha fatto anche altro, come la legge sulle unioni civili, e si appresta ora ad approvare la legge sulla liberalizzazione della cannabis. Provvedimenti che nulla ci azzeccano con il programma di governo. Comunque avevo apprezzato la serietà del suo agire, che era volto a superare – come da lui stesso affermato – il cosiddetto teatrino della politica, dove tutto è ammesso e tutto viene subordinato all’interesse politico contingente. “Insomma – era il ragionamento – ho promesso ai cittadini una profonda riforma del Paese ed è giusto (e normale verrebbe da dire) che i cittadini valutino quanto operato: se le riforme saranno confermate significa che l’azione governativa è stata promossa, altrimenti, il fallimento non potrà che comportare le dimissioni”. Un parlare chiaro, pane al pane e vino al vino, senza le fumosità o le doppie interpretazioni a seconda delle convenienze del politichese di maniera, unitosi negli ultimi tempi al leaderismo politico in una miscela esplosiva.
L’illusione è durata poco. Contrordine compagni! Il referendum, se negativo, sarà un semplice incidente di percorso e la legislatura proseguirà ugualmente. Il teatrino continua all’ennesima potenza.
***
Ne prendiamo atto. Ma la realtà della situazione politica si impone. Non sarà semplice fare finta di niente dopo che il Presidente del Consiglio ha puntato tutto sulle riforme, se il popolo decide di non confermare quelle riforme.
L’eventuale sconfessione dell’operato di Renzi sarà nei fatti e non nelle decisioni dell’interessato.
L’eventuale sconfessione dell’operato di Renzi sarà nei fatti, cioè oggettivamente evidente, perché Renzi ha deciso di imporre una riforma costituzionale a colpi di maggioranza, invece di ricercare la strada più difficile di una riforma condivisa, come Costituzione stessa vorrebbe (per questo l’art. 138 Cost. prevede l’approvazione della riforma a maggioranza qualificata e, in caso di decisione a mera maggioranza, richiede di ricorrere all’opinione dei cittadini con il referendum confermativo).
La Costituzione non è il testo o la volontà di una parte della popolazione ma il testo fondamentale e fondante del Paese e deve poter essere espressione, la più ampia possibile, di tutta la cittadinanza.
La scelta di approvare un testo “governativo” con maggioranza risicata sottopone il lavoro governativo al sindacato del popolo ed è in questo senso che il referendum rappresenta la valutazione anche dell’operato del Governo.
Un abortito patto del Nazareno ha impedito al Presidente del Consiglio di approfondire fino in fondo eventuali possibili punti di convergenza bipartisan (come ha evidenziato pochi giorni fa anche Panebianco dalle pagine del Corriere). Renzi ha preferito l’unitarietà posticcia e di facciata di un partito “separato di fatto in casa” come il PD, alla fatica di cercare soluzioni condivise extra maggioranza. Ha finito per essere preda della sinistra del suo stesso partito, a cui ha fatto non poche concessioni legislative in tema di presunti diritti. Ora si ritrova con quella stessa parte che – insieme all’opposizione – rema contro al referendum confermativo.
Insomma, se anche il Presidente del Consiglio non si dimettesse in caso di esito negativo del referendum, è evidente che l’azione governativa ne verrebbe irrimediabilmente indebolita e compromessa.
***
Sta di fatto che la riforma costituzionale è una riforma pasticciata e non sufficientemente pensata.
In quanto tale, ritengo possa essere rischiosa e pericolosa per il Paese, perché altera troppo l’equilibrio tra gli elementi, i soggetti e i poteri dello Stato voluto dai padri costituenti, senza prevedere correttivi.
In particolare, altera il principio di rappresentanza democratica previsto dall’art. 1 Cost. (la sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forma e nei limiti della Costituzione), con la nomina dei nuovi 100 senatori tra i consiglieri regionali, che avverrà da parte delle segreterie di partito e specie del partito di maggioranza relativa numericamente più presente nelle singole regioni. Occorre anche tener presente la situazione complessiva di debolezza democratica data dalla scarsissima partecipazione elettorale da parte dei cittadini, con riferimento alle uniche elezioni politiche che rimarranno, ovvero quelle della Camera, che peraltro sono previste ora con un sistema elettorale, l’Italicum, che prevede un consistente premio di maggioranza (il 54% dei seggi andrà alla lista di partito che raggiungerà il 40% dei voti o – in caso di ballottaggio – indipendentemente da qualunque percentuale, basterà vincere il ballottaggio), che allontana ancor più il popolo sovrano dall’esercizio della sovranità.
Il Senato dovrebbe diventare rappresentativo delle Regioni, ma nello stesso tempo la medesima riforma toglie contraddittoriamente autonomia alle Regioni, mediante la riduzione di competenze legislative e la ricentralizzazione di competenze prima decentrate; e sempre più contraddittoriamente lascia intatte invece le super autonomie delle Regioni a statuto speciale. Si crea quindi un cortocircuito del principio pluralistico di cui all’art. 5 Cost. (la repubblica unica e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali) e del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118 Cost.: quale rappresentatività regionale eserciterà il nuovo Senato in una situazione di contestuale perdita di autonomia regionale? Cui prodest? A questo punto perché mantenerlo? La mera funzione di elemento di raccordo tra Stato e enti territoriali, la sta svolgendo già ora la Conferenza Stato-Regioni che non viene toccata dalla riforma.
Il nuovo Senato, pur previsto come organo di secondo livello (sarà composto da Consiglieri Regionali e da qualche Sindaco, presumibilmente dei Comuni capoluogo) e privo della legittimazione popolare diretta mediante elezioni politiche, continuerà però a concorrere alla delicata opera di funzionamento della macchina costituzionale, partecipando da protagonista alla predisposizione di pesi e contrappesi che dovrebbero bilanciare i singoli poteri dello Stato. Solo la funzione di raccordo tra Parlamento e Governo gli viene tolta, non potendo più il Senato partecipare alla votazione sulla fiducia al Governo, che rimarrà di competenza esclusiva della Camera. Per il resto, è previsto che il Senato continui a concorrere alla formazione di alcuni fondamentali organi costituzionali, come il Presidente della Repubblica, la Corte Costituzionale e il Consiglio Superiore della Magistratura, alle cui elezioni partecipa appunto – tra gli altri – il Parlamento in seduta comune.
Si sbilanciano così gli equilibri di elezione di questi organi, caratterizzati, per loro stessa natura e per le funzioni assegnate loro, da una forte carica di imparzialità e indipendenza rispetto alla logica partitico-maggioritaria (mentre il nuovo Senato, lungi dal “rappresentare la Nazione”, definizione rimasta solo per la Camera, non è più eletto, anzi è espressione proprio di quella logica).
In sostanza è una riforma sfilacciata che altera pericolosamente gli equilibri tra i poteri, a vantaggio della onnipresenza partitico-maggioritaria nelle istituzioni e dei giochi di potere reciproci e di posizionamento partitici legati a interessi, opportunismi o convenienze contingenti.
Questa riforma – come detto – fa il paio con il nuovo sistema elettorale cosiddetto Italicum, che amplifica ulteriormente queste patologie costituzionali, anche con riferimento alla elezione della Camera dei Deputati (630 deputati da eleggersi con grosso premio di maggioranza, con il sistema misto delle liste bloccate e delle preferenze imposte dalle segreterie di partito).
***
Sta di fatto che nessuno degli interventi di coloro che sostengono il referendum confermativo, affronta mai queste criticità. Anzi non affronta proprio nel merito le modifiche alla Carta Costituzionale, evitando di esprimersi su di esse.
Quella velata critica che i sostenitori della riforma rivolgono agli oppositori, e cioè il sospetto che la contrarietà alla riforma derivi solo e soltanto dalla contrarietà politica al governo Renzi, e quindi il referendum confermativo diventerebbe un referendum pro o contro Renzi e non affronterebbe nel merito le questioni portate dalla riforma costituzionale, mi pare invece che possa essere una critica proprio “rigirata” ai primi.
Classico esempio di motivazioni espresse a favore della riforma è quello offerto da Marcello Pera, in un suo recente intervento pubblicato su Italia Oggi il 16 agosto, in cui dichiara di votare SI al referendum.
Ebbene, l’ex Presidente del Senato, parte proprio dal fatto di riconoscere le molte criticità della riforma, precisando che “il Senato ha cambiato il testo originale in peggio”.
Ma – egli conclude – “non è sulle singole pecche che si potrà giudicare la riforma costituzionale, ma sul suo senso di innovazione complessiva”.
E dove starebbe dunque questo sentimento innovativo?
Nell’eliminazione del bicameralismo perfetto.
Ora, è verissimo che l’ordinamento costituzionale italiano è l’unico a presentare un bicameralismo pieno e che effettivamente ciò crea diversi problemi, specie con riguardo alle cosiddette “navette” che deve fare una legge per essere approvata da entrambi i rami del Parlamento. Molte delle Commissioni che si sono succedute nel tempo per proporre riforme costituzionali (a partire dalla commissione Bozzi negli anni ’80, poi quella D’Alema, negli anni ’90, sino ad arrivare alla riforma costituzionale approvata nel 2006 dal governo di centrodestra ma non confermata dal successivo referendum costituzionale) prevedevano proprio l’eliminazione del bicameralismo perfetto, eliminando il Senato o lasciandolo come seconda camera federale rappresentativa delle Regioni, senza più funzione legislativa e senza più partecipazione al rapporto fiduciario con il Governo.
Ma questa era appunto una (neppure la più significativa) delle modifiche auspicabili per adeguare la Carta Costituzionale alle esigenze del Paese.
Altra riforma rilevante era, per esempio, la questione del rafforzamento dell’azione del potere esecutivo rispetto ai condizionamenti dei partiti (tanto che ora i Governi sono costretti ad agire abusando in maniera impropria e spesso anticostituzionale della decretazione d’urgenza ex art. 77 Cost., che prescinde dalla maggioranza parlamentare; o della questione di fiducia, utilizzata per “forzare” il ricompattamento della maggioranza parlamentare).
Su questi aspetti la riforma tace completamente, e tace anche rispetto all’introduzione dell’istituto della “sfiducia costruttiva” alla tedesca (ossia la possibilità di sfiduciare un Governo solo in presenza di una soluzione alternativa percorribile, in modo da dare continuità alla legislatura), una cui ipotesi era stata invece introdotta dalla riforma del 2006, che conteneva anche previsioni che aumentavano il potere del Primo Ministro, la cui scelta doveva ricadere sul leader della coalizione vincente.
Non mi pare che la questione del bicameralismo – seppur utile – possa essere considerata il “senso complessivo” delle esigenze riformistiche di cui abbiamo bisogno.
Si sostiene che i benefici portati dalla riforma sarebbero di due tipi: un risparmio di spesa e una semplificazione del procedimento legislativo.
Entrambi i benefici sono limitati e d’importanza secondaria.
E’ stato ricordato che la Ragioneria di Stato ha calcolato in 49 milioni di euro i risparmi reali che deriverebbero da questa nuova riforma (anche se Renzi ha invece parlato di risparmi per 490 milioni). Il sen. Giovanardi, in un recente intervento, ha fatto presente che si tratterebbe di una somma pari a quella dell’ultimo bilancio del Comune di Formigine; oppure ad uno 0,5% del bilancio del Comune di Milano (7 miliardi e 345 milioni). La spesa dello Stato è pari a 855 miliardi e 45 milioni di euro all’anno, per cui il risparmio sarebbe dello 0,0005%.
Non occorre una riforma costituzionale (specie se crea più problemi di quanti ne risolva) per operare una seria revisione della spesa statale, se davvero questo fosse il tema.
Sulla semplificazione dell’iter legislativo va detto che la riforma riduce il lavoro complessivo del Parlamento (evitando il doppio esame per un certo numero di leggi), ma non elimina completamente l’attività legislativa del Senato (che rimane per alcune materie obbligatoriamente) e crea un procedimento farraginoso, ancor più del precedente, per le richieste di esame di disegni di legge da parte del Senato.
Peraltro c’è chi, come Michele Ainis su Repubblica del 24 agosto, ha rilevato che il problema del Paese non pare essere quello di facilitare l’approvazione delle leggi, che sono già troppe, ma eventualmente quello di diradare la “selva oscura degli attuali 100 mila codici”, riprendendo l’insegnamento di Giustiniano che “dentro le leggi trasse il troppo e ‘l vano”.
Inoltre, occorre riguardare il disegno riformistico complessivo, per verificare se la riforma “tiene”, ossia se dall’insieme delle modifiche attuate non si verifichino sproporzioni o sbilanciamenti pericolosi nel funzionamento della macchina costituzionale del Paese. A che pro modificare un aspetto della Costituzione a discapito del suo mal funzionamento complessivo (come si è sopra cercato di dimostrare)?
Allora, rispetto a chi dice: “è preferibile una Camera che fa tutto e un Senato che fa ugualmente tutto” rispetto all’eliminazione del bicameralismo perfetto?; risponderei con un’altra domanda: “vale la pena, per risparmiare qualche soldo (risparmi comunque minimi, che una qualunque altra riforma non costituzionale avrebbe ben potuto realizzare) o per deflazionare (ma non semplificare) l’iter legislativo, causare invece il peggioramento complessivo del funzionamento complessivo della macchina costituzionale che deriverà dall’eventuale attuazione dell’odierna riforma (alterazione del principio di rappresentanza democratica, ricentralizzazione di poteri e decisioni, rafforzamento della logica partitico-maggioritaria, con progressivo allontanamento della sovranità dai cittadini)”?
Mi pare di NO.
***
Vi è poi un altro ragionamento portato a favore della riforma, pur essendo estraneo ad una valutazione nel merito della stessa.
E’ la questione dello “scenario apocalittico”.
E’ una questione che va forte in generale. Ormai ogni nostra decisione pare “vincolata” da un elemento critico “esterno”, di carattere di volta in volta nazionale, internazionale, europeo, economico, finanziario, che impedirebbe una certa scelta e vincolerebbe ad agire solo in un determinato modo, senza alternativa. Una volta è lo “spread”, un’altra volta “l’Europa che ce lo impone”, un’altra “il vento inarrestabile dei nuovi diritti”, oppure “la catastrofe imminente”.
Appunto quest’ultima tesi viene sostenuta dai favorevoli alla riforma.
Per riprendere ancora Marcello Pera: “avremo una crisi di governo irrisolvibile: senza Renzi nell’attuale Parlamento non ci sono alternative. Avremo una crisi politica permanente: non si potrà più votare perché manca la legge elettorale, oppure si dovrà votare con una legge proporzionale imposta dalla Corte Costituzionale”.
Ora, a me sembra che votare la riforma, non per quello che la stessa vale, ma sulla base di una situazione obbligata che non lascia alternative, sia già cominciare a perdere parte della nostra traballante democrazia.
Se i giochi sono già fatti, se le scelte democratiche sono già prese in altri lochi e da altri soggetti peraltro sempre indeterminati e per l’incidenza di altri poteri che non appartengono al popolo, mi pare che sia sempre più in pericolo l’art. 1 della Costituzione e il principio di sovranità popolare.
In ogni caso, c’è sempre un alternativa. Piaccia o non piaccia.
Questo fatto di essere sempre etero guidati dalle circostanze esterne impedisce la crescita. La crisi è anche opportunità.
***
In conclusione, vero è che il Paese ha bisogno di una riforma.
Allora, si apra una vera e propria nuova fase costituente. Si dia un incarico governativo di scopo, circoscritto alla attuazione di una riforma complessiva che tenga conto dei lavori delle commissioni che si sono succedute. O, ancor meglio, si elegga un Parlamento o una Commissione costituente che abbia come scopo primario la riforma costituzionale.
Non si giochi al ribasso.
Molti sostengono che sia giusto fare comunque una riforma, non importa cosa essa contenga, anche non perfetta. Riformare per riformare.
Io ricordo la frase di Chesterton, secondo la quale “l’errore è una verità impazzita”.
E’ vero che noi abbiamo bisogno di una riforma, ma non dobbiamo fare una riforma impazzita, perché andiamo solo a peggiorare ulteriormente la già situazione difficile che sta vivendo il Paese.
Cambiare per cambiare, non è cambiare (è sprecare occasioni).
Siccome abbiamo bisogno di riforma, dobbiamo fare riforme impazzite?
Io dico di NO.