«Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista…»
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E’ accaduto all’Ateneo universitario di Catania. L’onnipresente ministra Boschi tiene una “lezione” sulla riforma (in)costituzionale che sta tanto a cuore al suo Capo. Segue dibattito, e dopo alcune domande rivolte dai partecipanti alla ministra, prende la parola lo studente Alessio Grancagnolo. Il ragazzo esordisce premettendo che «l’Ateneo è luogo plurale di dibattito e critica fondato sulla libertà di espressione e sulla libera dialettica che primariamente deve animare i luoghi della cultura e della formazione». Passa, poi, ad analizzare il merito del progetto costituzionale, denunciando come esso determini, in realtà, un «mutamento surrettizio della nostra forma di governo e persino della nostra forma di stato», perché, come spiega, «il nostro ordinamento passerà da una democrazia parlamentare, spesso svuotata di contenuto dalla prassi governista degli ultimi decenni, ad una democrazia d’investitura, un premierato assoluto, secondo la definizione datane da alcuni giuristi». Lo stesso studente si permette, inoltre, di ricordare che la nostra vigente Costituzione «è stata scritta da personaggi di indubbia caratura culturale e morale, che probabilmente manca ad alcuni esponenti di questa maggioranza». Aggiunge, impavido, che «addossare alla Costituzione tutti i problemi di questo Paese è pura demagogia costituzionale». Il Rettore dell’Università presente all’incontro comincia a sudare manifestando chiari segni di imbarazzo. Evidentissimo il suo intento di non voler dispiacere l’illustre esponente dell’Esecutivo. Quando Alessio Grancagnolo osa, poi, parlare dei «tour propagandistici della Boschi negli atenei», il rettore sbianca e rischia lo svenimento. Troppo per non intervenire. E, difatti, provvede prontamente a togliere la parola allo studente, redarguendolo in questo modo: «Negli Atenei non si fanno tour propagandistici! Questo è un incontro del ministro con i nostri studenti». Alessio resta basito: «Prendo atto che il rettore mi toglie la parola». Secca e arrogante la replica: «Prenda pure atto!». La parola è tolta.
Questa è l’aria che tira nel mondo accademico nell’Anno del Signore 2016, II dell’Era Renziana. Beh, che le università italiane versassero in uno stato comatoso lo si era già capito quando al grande Benedetto XVI fu impedito di parlare alla Sapienza. Ormai quelle aule, una volta considerate “tempio del sapere e del confronto”, sono diventate fucine della visione asfittica del “pensiero unico”, imposta dall’attuale dominante dittatura.
Nulla di nuovo sotto il solo, del resto. Asservirsi al Potere, quando il Potere è davvero forte, sembra una triste consuetudine dei baroni universitari. Non mancano precedenti. Ne è un esempio il Regio Decreto Legge del 28 agosto 1931, n.1227, recante «Disposizioni sull’istruzione superiore» (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del Regno d’Italia dell’8 ottobre 1931, n.233), che all’art.18 disponeva espressamente: «I professori di ruolo e i professori incaricati nei Regi istituti d’istruzione superiore sono tenuti a prestare giuramento secondo la formula seguente: Giuro di essere fedele al Re, ai suoi Reali successori e al Regime Fascista, di osservare lealmente lo Statuto e le altre leggi dello Stato, di esercitare l’ufficio di insegnante e adempire tutti i doveri accademici col proposito di formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria e al Regime Fascista. Giuro che non appartengo né apparterrò ad associazioni o partiti, la cui attività non si concilii coi doveri del mio ufficio». Com’è noto su 1225 docenti universitari solo 12 si rifiutarono di giurare. “Sublimato all’un per mille”, titolò un giornale di regime nel dare la notizia dell’avvenuto giuramento di massa del corpo docenti. Il coraggio non è mai stato un tratto distintivo della categoria, sempre prona e genuflessa nei confronti dei potenti di turno. Il più spietato nel censurare i codardi firmatari del ‘31 fu l’esiliato Gaetano Salvemini: «Nessun professore di storia contemporanea, nessun professore di italiano, nessuno di coloro che in passato s’erano vantati di essere socialisti aveva sacrificato lo stipendio alle convinzioni così baldanzosamente esibite in tempi di bonaccia». E sì, la crisi è la crisi, lo stipendio è lo stipendio, e tutti, in fondo, “teniamo famiglia”.
Un caro amico di Verona mi direbbe, però, che il fascismo, con le sue ombre e luci, resta comunque una cosa troppo seria per essere tirata in ballo con il duo Renzi-Boschi.
In effetti, se proprio si volesse trovare un termine di paragone, sarebbe più appropriato accostarli, forse, ad un’altra coppia tristemente celebre: Elena e Nicolae Ceaușescu. La bella Elena, infatti, aveva il vezzo di girare le università della Romania per “tenere lezioni” in cui decantava le “magnifiche sorti e progressive” del governo stabilissimo del Conducator. Sì, in effetti il «governul foarte stabil» di Bucarest ante 1989, sembra essere il modello cui si ispira la nuova riforma costituzionale sulla quale il nostro Matteo è disposto a giocarsi il tutto per tutto. Comunque sia, tornando ai tour di Elena Ceaușescu, allora come ora, fiori, tappetti rossi, riverenze e inchini non mancavano mai da parte dei vari Rettori, sempre deferenti, ossequiosi e cerimoniosi. Sempre attentissimi a preservare il Principe o la Principessa dalle fastidiose punture di spillo di critici, provocatori e oppositori. E come piacevano ad Elena quegli applausi che le venivano tributati da docenti e studenti, così solenni e ritmati, in pieno stile “socialismo reale”.
E’ sempre triste lo spettacolo di un’intelligenza servile. Anche se, a onor del vero, un’attenuante i professorini, i baroni e i rettori italiani di oggi ce l’hanno: sono davvero tempi di crisi e bonaccia. Proprio come all’inizio degli anni Trenta.