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“Che cosa direbbe il #Gius?”

Autore:
Bertocchi, Lorenzo
Fonte:
CulturaCattolica.it
Ho letto su «La Croce» di oggi questo chiaro e pacato invito alla lettura di «Per l'umano & l'eterno» che abbiamo pubblicato da poco. Credo sia una utile occasione di confronto. Grazie a Lorenzo Bertocchi

Gli eventi che viviamo in questi giorni, e della cui grandezza decisiva non siamo forse pienamente avvertiti, interpellano il mondo cattolico realtà per realtà. Su Comunione e Liberazione si è sviluppato un dolente e complesso nodo, dovuto a molte circostanze. Gianfranco Amato e Gabriele Mangiarotti provano a porre le domande che i loro giudizi suscitano alla memoria che di don Luigi Giussani entrambi, in forme varie, hanno. Un libro da leggere

Pur avendo moltissimi amici nel “movimento” l’ho sempre guardato dal di fuori; il più delle volte con simpatia. Al netto - mi si passi la battuta - dei titoli del Meeting che, francamente, appartengono a quello slang tutto ciellino tra l’enigmatico e il concettoso.
Quando sabato 30, al Circo Massimo, è comparso lo striscione con su scritto “Comunione e Liberazione” mi sono detto: “Ci sono anche loro, e non poteva essere altrimenti.” Inutile adesso ricordare ai lettori le polemiche, anche aspre, che hanno attraversato Cl in occasione del Family day del 30 gennaio, come quelle maturate in occasione del rally di Piazza San Giovanni lo scorso 20 giugno. In entrambi i casi, infatti, don Julian Carrón, attuale Presidente della Fraternità, ha redatto lettere e commenti abbastanza controversi, sia in merito ai contenuti delle battaglie portate avanti nei due Family day, sia per quanto riguarda la partecipazione del movimento alla piazza.
Per quello che posso comprendere dall’esterno mi sembra ovvio che Cl stia attraversando un momento difficile. Qualcuno dice lacerante. Non so, tengo a mente le parole che mi disse il compianto Cardinale Biffi a proposito del suo amico don Gius, e credo che il movimento abbia fonti limpide a cui attingere e per non smarrirsi.
Ebbene, in questa fase travagliata di Cl compare un libro (Per l’umano & per l’eterno, Ares) che a prima vista sembra un po’ audace. «Che cosa avrebbe detto don Giussani? Come avrebbe risposto lui, come si sarebbe comportato in questa mia stessa situazione?» Questo si chiedono don Gabriele Mangiarotti, sacerdote che ha conosciuto Giussani nel 1962 in I liceo, e l’avvocato Gianfranco Amato, presidente dei Giuristi per la Vita, che negli anni ’70 venne a contatto con Gioventù studentesca rimanendone conquistato.
Già, cosa avrebbe detto e fatto il Gius, oggi? Una domanda, appunto, audace. Gli autori ci dicono che non è loro “intenzione manipolare i suoi insegnamenti”, ed il libro “non ha la pretesa di insegnare niente a nessuno. È espressione e dà testimonianza di un percorso assolutamente personale e per noi irrinunciabile.” Vabbè, ma dopo aver letto il libro ci si accorge che alcune risposte di don Giussani bruciano come soda caustica.
Contro le accuse alla Chiesa di ingerenza nella laicità dello Stato, il Gius risponde dicendo che “è ora di finirla con questa fola del dispotismo della Chiesa. La Chiesa è stata talmente dispotica che tutto il suo popolo se lo è lasciato diseducare dalla mentalità laicista.” Una diseducazione lunga due secoli, “due secoli”, aggiunge per inciso, “di ignoranza bestiale”.
Il punto di approdo di questa bestiale ignoranza è senz’altro il “love is love”, il trionfo del sentimentalismo, quello che don Gius definisce come “ricerca di un bene che non è oggetto di intelligenza e della ragione e quindi del cuore, ma coincide con la propria reattività”. Nel senso di reazioni di pancia, di gusti epidermici, momentanei, fuggevoli e sognanti. “È l’infantilismo, è il trionfo dell’infantilismo”, chiosa Giussani.
Tra le molte analisi dei tempi post-umani che stiamo vivendo mi pare che questa sia quella che meglio di altre va al cuore del problema. Il “love is love” vince perché tutti siamo culturalmente cresciuti in questo brodo che ha esaltato la reattività, a scapito della ragione e del cuore. “Il potere”, scrive Giussani, “fa addormentare tutti, il più possibile. [Cerca] di atrofizzare il cuore dell’uomo, le esigenze dell’uomo, i desideri, [e impone] un’immagine di desiderio e di esigenza diversa da quell’impeto senza confine che ha il cuore.”
“Qual è l’arma del contrattacco?”, chiedono allora don Mangiarotti ed Amato al loro interlocutore. “Rendere ragione della speranza che è in noi”, si fanno rispondere dal Gius. Dappertutto, sempre; ad intra, come ad extra rispetto alla Chiesa, perché “il cristiano deve essere un santo. E la caratteristica che mi pare la più rivelatrice della santità è quella di essere gente che ha del fegato. Non perché eroi. È un fegato senza grandeur: si chiama “testimonianza”. Questi uomini, cioè, hanno il fegato di dare giudizi e di proclamare valori profondamente differenti dalla mentalità comune.”
Sentiamo già, in lontananza, il bisbigliare altezzoso di fronte a questo libro. “Troppo muscolare”, “troppo divisivo”, certamente non alla moda rispetto alla nouvelle vague dialogante. Possibile, ma resta una lettura corroborante, un tonico che riattiva il sistema immunitario e ci permette di essere quell’anti-tossina che Giussani richiama per ricordarci che la portiamo dentro di noi.
«Appena c’è il veleno bisogna che si reagisca, altrimenti vuol dire che non c’è vita, che è solo un discorso farisaico che abbiamo legato in testa».

Da «La Croce» del 4 gennaio 2016
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